ALEKOS PANAGULIS
INTERVISTA DI ORIANA FALLACI Non hai un aria felice, Alekos. Ma come? Sei finalmente fuori da quellinferno e non sei felice? ALESSANDRO PANAGULIS. No, non lo sono. So che non mi crederai, so che questo ti sembrerà impossibile, assurdo, ma io mi sento più irritato che felice, più triste che felice. Mi sento come domenica scorsa quando udii quegli evviva levarsi dalle celle degli altri detenuti, e ignoravo il perché degli evviva, e pensai: "Deve trattarsi di qualche amnistia. Papadopulos sta facendo il suo proclama, così prepara lo spettacolo con una amnistia capace di impressionare gli ingenui. Può permettersi il lusso di aver meno paura, ormai. Anzi, di fingere daver meno paura. Tanto, che gli costa mettere fuori alcuni di noi". Pensai: "Alcuni di noi" perché non credevo che liberasse anche me. E quando lo seppi, lunedì mattina, non provai nessuna gioia. Nessuna. Mi dissi: se ha deciso che gli conviene liberare anche me, significa che il suo disegno è più ambizioso; significa che conta davvero di legalizzare la Giunta nellambito della Costituzione e cercare il riconoscimento degli antichi avversari. Entrando nella cella, il comandante del carcere maveva annunciato la grazia: «Panagulis, hai ottenuto la grazia». Gli risposi: «Che grazia? Io non ho chiesto la grazia a nessuno». Poi aggiunsi: «Vi accorgerete presto che mettermi dentro è facile ma tirarmi fuori è difficile. Prima che giunga a Erithrea, mi avrete messo dentro di nuovo». Erithrea è un sobborgo di Atene. Gli hai detto questo?! Sicuro. Che altro potevo dirgli? Dovevo forse dirgli grazie, molto gentile, porta i miei omaggi al signor Papadopulos? Del resto, martedì è stato peggio. Sai, esiste una procedura particolare per leggere al condannato il decreto di amnistia: una specie di cerimonia col plotone che presenta le armi, gli altri sugli attenti eccetera. Così, verso mezzogiorno, arriva il procuratore Nicolodimus per la cerimonia e mi fanno uscire di cella per condurmi dinanzi ai quartieri del comandante dove sono tutti in piedi eccetera. Io vedo una sedia e, immediatamente, mi accomodo. Smarrimento, sorpresa, e: «Panagulis! In piedi!» ordina Nicolodimus. «E perché?» gli rispondo «perché devi leggere un foglio che chiami decreto presidenziale ma per me è soltanto il foglio di un colonnello?... No, non mi alzo. No!» E rimango seduto. Gli altri in piedi, sugli attenti eccetera, e io seduto. Non avrei lasciato quella sedia nemmeno se mi avessero fatto a pezzi. Hanno dovuto celebrare la cerimonia mentre me ne stavo così, con le gambe accavallate. Non ho mai smesso di provocarli. Quando il tenente colonnello è venuto a prendermi, verso le due del pomeriggio, ho provocato anche lui. «Panagulis, sei libero. Prendi le tue cose.» «Io non prendo nulla. Prendile te. Non lho chiesto io di uscire.» E lui? Oh, lui ha ripetuto la frase degli altri: «Appena fuori non lo dirai più. Scoprirai la dolce vita e cambierai idea». Poi hanno preso le mie borse e le hanno portate fino al cancello, come facchini. È stato divertente perché dentro una delle borse che mi portavano come facchini avevo nascosto le ultime poesie che ho scritto e le seghette che usavo per segare le sbarre. Sono seghette minuscole, guarda. Però funzionano. Per diciassette volte mi hanno trovato queste seghette eppure son sempre riuscito a procurarmene ancora e, mentre uscivo da Boiati, ne avevo una decina. Le tenevo qui, vedi? E la prossima volta... Io aspetto sempre che tornino a prendermi per riportarmi laggiù. E tu vuoi che sia felice! Eppure, quando sei stato fuori, quando hai visto il sole e tua madre, devessere stato bello. Non è stato nemmeno bello. È stato come accecare. Erano tanti anni che non uscivo da quella tomba di cemento, erano tanti anni che non vedevo lo spazio e il sole. Mero dimenticato comè fatto il sole, e fuori cera un sole fortissimo. Quando me lo son trovato addosso, ho dovuto chiudere gli occhi. Poi li ho riaperti un poco, ma un poco soltanto, e con gli occhi semichiusi sono andato avanti. E andando avanti ho scoperto lo spazio. Non mi ricordavo più comè fatto lo spazio. La mia cella era lunga un metro e mezzo per tre, camminando potevo fare solo due passi e mezzo. Al massimo tre. Riscoprire lo spazio mi ha dato le vertigini. Me lo sono sentito ruotare intorno come una giostra, e ho barcollato, e sono stato per cadere. Anche ora, del resto, se cammino per più di cento metri, divento stanco e disorientato. No, non è stato bello. E se non ci credi non me ne importa. O me ne importa e pazienza. Facevo uno sforzo terribile per andare avanti in tutto quel sole tutto, quello spazio. Poi dun tratto, in tutto quel sole, tutto quello spazio, ho visto una macchia. E la macchia era un gruppo di gente. E da quel gruppo di gente sè staccata una figura nera. E mè venuta incontro, e un po per volta è diventata mia madre. E dietro mia madre sè staccata unaltra figura. E anche questa mè venuta incontro. E un po per volta è diventata la signora Mandilaras, la vedova di Nikoforos Mandilaras assassinato dai colonnelli. E io ho abbracciato mia madre, ho abbracciato la signora Mandilaras, e dopo... Dopo hai pianto. No! Non ho pianto! Nemmeno mia madre ha pianto! Noi siamo gente che non piange. Se per caso si piange, non si piange mai dinanzi agli altri. In questi anni io ho pianto solo due volte: quando hanno assassinato Georghatzis e quando mi hanno detto che mio padre era morto. Ma nessuno mi ha visto piangere: ero dentro la mia cella. E poi... poi nulla. Sono andato a casa con mia madre e la signora Mandilaras e lavvocato. E a casa ho trovato un mucchio di amici. Sono stato con gli amici fino alle sei del mattino, quindi sono andato a letto nel mio letto e non chiedermi se mi sono commosso a dormire nel mio letto. Perché non mi sono commosso. Oh, non sono insensibile, sai! Non lo sono! Ma sono indurito. Molto indurito, e cosaltro ti aspetti da un uomo che per cinque anni è stato sepolto vivo dentro una tomba di cemento, senza alcun contatto col mondo fuorché coloro che lo picchiavano, lo insultavano, lo seviziavano e addirittura tentavano di assassinarlo? Non mi hanno giustiziato dopo aver pronunciato quella condanna a morte, è vero. Però mi hanno seppellito lo stesso: vivo anziché morto. E per questo li disprezzo. Era loro diritto giustiziarmi: perché lattentato lo avevo fatto eccome. Ma non era loro diritto seppellirmi vivo anziché morto. Ecco perché non avverto che rabbia verso quei pagliacci che ora mi consentono di dormire nel mio letto. Alekos, non dire queste cose. Vuoi tornare in prigione? Se dovessimo guardare le cose con logica, dovrei esserci tornato davvero prima di arrivare a Erithrea. Io sono pronto a tornare in prigione in qualsiasi momento. Fin da questo momento. Fin da ieri, fin da ieri laltro, fin dallattimo in cui mha accecato quel sole. Ti dirò di più: se serve che io torni in prigione, sarò lieto di tornare in prigione. Perché in seguito a cosa dovrebbero riportarmi in prigione? In seguito a ciò che dico con gli altri e con te? Ma dire ciò che penso non è forse un mio diritto, in regime di democrazia, e Papadopulos non sostiene forse che in Grecia cè la democrazia? Papadopulos ha tutto linteresse di tenermi fuori e dimostrare al mondo che non gli importa nulla di ciò che dico. E, se vuole farmi del male con intelligenza, deve farmi cadere in qualche tranello. Ma questo lha già tentato. Il giorno dopo la mia scarcerazione è venuto qui un ragazzotto che diceva dessere studente sebbene, anche dal taglio dei capelli, si capisse subito che apparteneva alla polizia militare. Mi ha raccontato davere ucciso un americano preso in ostaggio per liberar Panagulis, qualche tempo fa, e poi mi ha chiesto alcuni mitra. Lho cacciato gridando e ho subito telefonato alla polizia militare. Ho cercato il capo, uno di quelli che mi torturavano. Non cera e così ho detto al telefonista: «Spiegagli che, se mi manda un altro dei suoi agenti provocatori, lo massacro di botte». Perbacco! Non son riusciti a piegarmi in carcere: figurati se riescono a piegarmi ora. Alekos, non hai paura dessere ammazzato? Mah! Visto che vogliono apparire liberali, democratici, neanche ammazzarmi gli converrebbe: in questo momento. Però potrebbero pensarci. Nel marzo del 1970, subito dopo lassassinio di Policarpos Georghatzis, leroe della guerra di liberazione a Cipro e ministro dellarcivescovo Makarios, ci provarono. Erano circa le sette di sera e io ero al quinto giorno di un nuovo sciopero della fame. Dun tratto udii un fischio e il pagliericcio prese fuoco. Mi gettai per terra, gridai assassini, bastardi, bestie, apritemi la porta. Ma ci volle più di unora perché mi portassero fuori, anzi perché mi aprissero la porta. Unora durante la quale il pagliericcio continuò a bruciare, a bruciare... Non ci vedevo più, non respiravo più. Quando giunse il medico della prigione, un giovane sottotenente, ero in coma. Come avrei saputo dopo, egli chiese di portarmi subito allospedale ma non glielo permisero e per due giorni rimasi tra la vita e la morte nella mia cella. Il medico faceva sforzi disperati per salvarmi e riuscire a trasferirmi in un ospedale. Gli uomini della Giunta si mostravano del tutto indifferenti. Molto spesso svenivo e non potevo parlare perché il torace mi faceva male e perfin respirare mi dava dolori. Dopo quarantotto ore quel giovane sottotenente ottenne che ufficiali medici più anziani mi visitassero e, quando essi videro in quali condizioni ero, furon colti dallira. Il capo degli ufficiali medici disse che era un crimine tenermi nella cella, e telefonò ai suoi superiori per protestare. Se è vero ciò che seppi più tardi, chiamò anche il comandante in capo delle forze armate che ora è vicepresidente della pseudo-democrazia, Odisseo Angelis. Gli disse che il loro rifiuto di farmi trasferire in un ospedale era un atto delittuoso e che li avrebbe denunciati. E fu grazie a lui che finalmente mi ricoverarono. Allospedale mi trovaron nel sangue il 92 per cento di anidride carbonica e dissero che non sarei campato più di due ore: anche se avessi superato le due ore, comunque, non sarei sopravvissuto. E... Ma tu lo sai perché liberarono Teodorakis? Teodorakis? No. Perché io stavo per morire. Cera quel francese, ad Atene. Quel Servan Schreiber. E sembra che fosse venuto per portare via me. Non mi avrebbero consegnato a Servan Schreiber nemmeno se fossi stato bene, naturalmente. E, in più cera il fatto che mi trovavo in stato di coma per il loro tentativo di assassinarmi. Così, e in previsione dello scandalo che sarebbe esploso con la mia morte, gli regalarono Teodorakis. Divertente, no? Non voglio dire, con questo, che non sia stato felice per la liberazione di Teodorakis. Egli aveva talmente sofferto in prigione. Però... la storia resta divertente. Interessante. Ma come fai ad avere le prove che tentarono di assassinarti? Qualche giorno prima del fatto presero il pagliericcio e lo portarono via per "spolverarlo". Succedeva molto raramente, ogni tre o quattro mesi. E, quando lo riportarono dentro la cella, la sentinella venne da me. La sentinella era un amico. Mi chiese: «Alekos, avevi nascosto nulla dentro il pagliericcio?». «No, nulla. Perché?» risposi. «Perché ho visto che il caporale Karakaxas ci manovrava intorno come se cercasse qualcosa.» Io non detti importanza alla faccenda, lì per lì, tuttavia la prima cosa cui pensai quando il pagliericcio prese a bruciare è che ci avessero messo del fosforo, del plastico, non so. E il primo nome che mi venne in mente fu quello di Karakaxas. Naturalmente mi accusarono dessermi autoincendiato. Ma, quando gli ricordai che da sei giorni mi avevano tolto perfino le sigarette e i fiammiferi, capirono desser nei guai. Venne da me il maggiore Kutras, della polizia militare, e mi disse: «Se non racconti a nessuno quello che è successo, hai la mia parola donore che ti lasceremo libero di andare allestero». Poiché rifiutai perfino di discutere una simile offerta, dopo dieci giorni mi ributtarono dentro la cella e, da quel momento, perfino le visite di mia madre vennero proibite. Quanto al mio avvocato, in cinque anni non lho mai visto. Non ho mai ricevuto le sue lettere, lui non ha mai ricevuto le mie. E anche ciò caratterizza il loro comportamento illegale e criminale nei miei riguardi. Avevano evidentemente paura che io rivelassi il tentato assassinio e così tutta la mia posta finiva sul tavolo del direttore del carcere. Perfino le lettere che indirizzavo a Papadopulos. Scrivevo a Papadopulos come al capo morale della Giunta, per esprimergli tutto il mio disgusto e il mio disprezzo. Dovrebbero avere il coraggio di pubblicarle, quelle lettere, o almeno di renderle pubbliche. Gliene ho mandate tante, a tutti gli indirizzi. E poi scrivevo al presidente dellArios Pagos, la Corte costituzionale. Gli inviavo telegrammi per denunciare ciò che mi facevano e per dirgli che stavo male. Ma neanche lui ricevette mai i miei telegrammi e... E ora come stai, Alekos? Meno bene di quanto sembri. La mia salute non va. Mi sento sempre debole, esausto. A volte ho collassi. Ne ho avuto uno ieri, un altro appena uscito di prigione. Non riesco a camminare: tre passi e mi metto a sedere. E a parte questo, un mucchio di cose non vanno: al fegato, ai polmoni, ai reni. Mi hanno portato in clinica e i primi esami non sono stati rasserenanti: lunedì devo ricoverarmi per farne altri. Tutti quegli scioperi della fame, ad esempio, mi hanno debilitato. Mi dirai: ma perché infliggerti anche quegli scioperi della fame? Perché negli interrogatori lo sciopero della fame è un mezzo per tenergli testa. Gli dimostri cioè che non possono prenderti tutto perché hai il coraggio di rifiutare tutto. Mi spiego meglio. Se rifiuti di mangiare e li aggredisci, loro si innervosiscono e il fatto desser nervosi non gli permette di applicare una forma sistematica di interrogatorio. Durante le torture, ad esempio, se il torturato tiene un atteggiamento provocatorio e aggressivo, linterrogatorio sistematico si trasforma in una lotta personale del torturato stesso. Capito? Voglio dire che, con lo sciopero della fame, il corpo si indebolisce e ciò non permette la continuazione dellinterrogatorio perché è inutile interrogare o torturare qualcuno che perde conoscenza. Queste condizioni si realizzano dopo tre o quattro giorni senza cibo né acqua, soprattutte se perdi sangue per le ferite inflitte dalle torture. Così sono costretti a trasferirti allospedale e... Oh, anche i miei ricordi dellospedale sono dolorosi. Tentavano di nutrirmi con un tubo di plastica che mi infilavan nel naso. Soffrivo molto, anche se avevo la sensazione di guadagnar tempo. E poi... E poi? Poi, dallospedale, mi riportavano nella stanza della tortura e riprendevano a torturarmi. Allora io facevo di nuovo lo sciopero della fame, e di nuovo li provocavo, di nuovo mi mostravo sprezzante, aggressivo. Così il loro sistema falliva, di nuovo. E di nuovo eran costretti a portarmi allospedale dove, di nuovo, tentavano di nutrirmi con la sonda nel naso. Oh, anche il comportamento di alcuni medici era disgustoso. Allospedale i miei torturatori continuavano linterrogatorio ma in modo meno consistente perché lì non potevano usare i loro mezzi. Guadagnavo tempo, ripeto, e ciò era importante per me. Insomma, mi sarebbe stato impossibile rinunciare allo sciopero della fame. Era unarma troppo indispensabile. Durante gli interrogatori, lo capisco... Ma dopo, Alekos, in prigione? Anche in prigione non avevo un modo più efficace per esprimere il mio disgusto, il mio disprezzo, e per dimostrargli che non potevano piegarmi. Neanche se ero ormai un detenuto. Ribellandomi attraverso lo sciopero della fame avevo la sensazione di non essere solo e pensavo di offrire qualcosa alla causa della Grecia. Pensavo che se tenevo un atteggiamento fermo, coraggioso, i soldati e le guardie e gli stessi ufficiali avrebbero compreso che ero lì a rappresentare un popolo deciso a vincere. Del resto molti degli scioperi della fame che facevo in carcere eran provocati dal modo in cui si comportavano con me. Mi negavano anche un giornale, un libro, una matita, una sigaretta. E per avere un giornale, un libro, una matita, per fumare una sigaretta, rifiutavo il cibo. Per giorni e giorni. Ho fatto uno sciopero che è durato quarantasette giorni, uno che è durato quarantaquattro, uno quaranta, uno trentasette, due trentadue, uno trenta, cinque tra i venticinque e i trenta... Ne ho fatti tanti. E, malgrado ciò, loro non hanno smesso mai di picchiarmi. Mai. Ho preso tante botte in quella cella. Le costole che mi hanno rotto, quando mi battevano con le spranghe di ferro, sono appena rimarginate. Quando thanno picchiato per lultima volta? Se parli di botte serie, il 25 ottobre 1972: al trentacinquesimo giorno di uno sciopero della fame. Venne Nicholas Zakarakis, il direttore del carcere di Boiati, e io ero disteso sul pagliericcio. Non avevo più forze, non potevo quasi più respirare. Lui cominciò lo stesso a insultarmi e dun tratto disse che ero stato pagato per il mio attentato a Papadopulos, e che avevo messo i soldi in Svizzera. Allora non ce la feci a star zitto. Raccolsi quel po di voce che mi restava in gola e gli gridai: «Malakas. Sudicio malakas!». Malakas è una brutta parola, in greco. Zakarakis reagì con una tal pioggia di botte che mi dà ancora fastidio pensarci. Di regola, mi difendevo. Quel giorno invece non potevo muovere un dito e... Anche il 18 marzo mavevan picchiato. Mavevano legato alla branda e mavevan picchiato per unora e mezzo. Quando il dottor Zografos alzò il lenzuolo e vide il mio corpo, chiuse gli occhi per lorrore. Era un corpo nero come linchiostro, un livido dalla testa ai piedi. Mavevan picchiato soprattutto sui polmoni e sui reni, così per due settimane sputai sangue e orinai sangue. Ma come vuoi che faccia a sentirmi bene, ora?! Del resto, la faccenda dellorinar sangue deriva anche da unaltra cosa che mi fecero durante linterrogatorio. Non te la chiederò, Alekos. Perché? Tanto è una cosa che raccontai anche al processo e di cui informai la Croce Rossa Internazionale. Me la faceva Babalis, uno dei miei torturatori. Mentre giacevo nudo legato a quel letto di ferro, mi infilava nelluretra un filo di ferro. Una specie di ago. Poi, mentre gli altri gridavano oscenità, con laccendino arroventava il pezzo di ferro che restava fuori. Una cosa tremenda. Dice: «Ma lelettrochoc non te lhanno fatto». No, a me non lo hanno fatto. Però mi hanno fatto quella cosa e, quando si parla di torture, come si fa a stabilire qual è la peggiore? Restar dieci mesi ammanettato, dieci mesi dico, giorno e notte, non è forse una tortura? Dieci mesi, giorno e notte. Soltanto a partire dal nono mese mi liberarono i polsi, per qualche ora. Due o tre ore al mattino, dopo le insistenze del medico della prigione. Le mie mani eran gonfie, i polsi mi sanguinavano e in più punti mostravan ferite purulente... Riuscii a informare mia madre che presentò al Procuratore Generale unaccusa ufficiale, scritta. E quellaccusa è una prova perché, se mia madre avesse scritto il falso, essi lavrebbero incriminata: sì o no? Non incriminarono forse la signora Manga is quando rivelò che suo marito, il professor Giorgio Manga is, era stato torturato? La misero anche in prigione, questa grande signora, sebbene avesse detto la verità. Poteron permetterselo perché nel suo caso era stato difficile provare le accuse. Ma nel mio caso, no. Non poterono imprigionare mia madre: le prove esistevano. Ed evidenti. Erano le ferite e le cicatrici che mi portavo su tutto il corpo. Se dovessi fare la lista delle torture... Guarda queste tre cicatrici dalla parte del cuore. Me le fecero il giorno in cui mi ruppero il piede sinistro con la falanga. Naturalmente mi facevano sempre la falanga che consiste nel bastonarti le piante dei piedi finché il dolore ti arriva al cervello e svieni. Io la sopportavo anche abbastanza bene. Ma quel giorno Babalis ce la mise tutta e mi ruppe il piede sinistro. Cinque minuti dopo giunse Costantino Papadopulos. Sai, il fratello di Papadopulos. Mi appoggiò la rivoltella alla tempia e gridò: «Ora ti ammazzo, ti ammazzo!» e mi picchiava. Mentre mi picchiava, Theofiloyannakos mi colpiva sul cuore, con un tagliacarte di ferro dalla punta scheggiata. «Te lo infilo nel cuore, te lo infilo nel cuore!» Di qui queste tre cicatrici. E queste cicatrici sui polsi? Oh, queste me le fecero quando fingevano di svenarmi. Nulla di grave. Mi tagliuzzavano solo superficialmente. Del resto, sai: di cicatrici ne ho per tutto il corpo. Ogni tanto me ne scopro una e mi dico: e questa quando me lhanno fatta? Alla terza settimana di torture, non ci facevo più caso. Sentivo il sangue che colava da una parte, la carne che si apriva dallaltra, e pensavo soltanto: "Rieccoci". Incominciavano le usuali torture frustandomi con una corda di metallo. Era Theofiloyannakos a frustarmi. Oppure mi appendevano al soffitto pei polsi e mi lasciavano lì per ore. È dura perché la parte superiore del corpo, dopo un po resta come paralizzata. Voglio dire: le braccia e le spalle non le senti più. Non puoi respirare, non puoi gridare, non puoi ribellarti in nessun modo e... Loro sapevano tutto questo, naturalmente, e quando arrivavo a quel punto mi bastonavano sulle reni. Lo sai a cosa non mi sono mai abituato? Alla soffocazione. Me la faceva Theofiloyannakos, anche quella, tappandomi con entrambe le mani il naso e la bocca, oh, quella era peggio di tutto. Di tutto! Mi tappava il naso e la bocca per un minuto, guardando lorologio, e mi lasciava riprendere fiato solo quando diventavo paonazzo. Smise di farlo con le mani quando riuscii a mordergliele. Un morso che gli staccai quasi un dito. Ma allora passò alla coperta e... Unaltra cosa che sopportavo male erano gli insulti. Non mi seviziavano mai in silenzio. Mai. Gridavano, gridavano... Con voci che non erano più voci ma boati... E poi le sigarette spente fra i testicoli. Senti, ma perché vuoi sapere queste cose da me e basta? Non è neanche giusto. Non le hanno fatte mica a me e basta. Vai allospedale militare 401, se ti riesce, e chiedi di vedere il maggiore Mustaklis. A lui, durante linterrogatorio, fecero laloni. Sai cosè laloni? È quando i torturatori si mettono in cerchio, poi ti buttano al centro del cerchio, e ti colpiscono tutti insieme. Lui lo picchiavano sulla colonna vertebrale e sulla cervice. È rimasto completamente paralizzato. Giace in un letto come un vegetale e i medici lo definiscono «clinicamente morto». Vorrei chiederti una cosa, Alekos. Prima che ciò succedesse, sopportavi bene il dolore fisico? Oh, no! No. Il più innocuo mal di denti mi infastidiva oltre misura e non sopportavo la vista del sangue. Soffrivo solo a veder soffrire la gente, ammiravo con incredulità le persone capaci di tollerare il dolore fisico. Luomo è proprio una creatura straordinaria, un oceano di sorprese. È incredibile come un uomo possa cambiare, ed è meraviglioso come un uomo possa rivelarsi capace di sopportare linsopportabile. Quel retorico proverbio «lacciaio si tempra col fuoco» è proprio vero, sai. Io, più mi straziavano, più diventavo duro. Più mi seviziavano, più resistevo. Alcuni dicono che nelle torture si invoca la morte come una liberazione. Non è vero. Almeno per me. Mentirei se dicessi che non ho avuto mai paura, ma mentirei anche se dicessi che ho desiderato di morire. Era lultima idea che mi attraversava la testa, morire. Pensavo solo a non cedere, a non parlare, e a ribellarmi. Sapessi quante volte li ho picchiati, anchio! Se non ero legato al tavolo di ferro, li prendevo a calci, a morsi, a pedate. Era utilissimo perché così si arrabbiavano di più e mi picchiavano ancora più forte e svenivo. Desideravo sempre svenire, perché svenire è come riposarsi. Poi loro ricominciavano, ma... Scusa, Alekos. Ho una curiosità. Ma tu lo sapevi che il mondo intero si stava occupando di te e protestava per te? No. Lho capito solo il giorno in cui loro sono entrati nella mia cella sventolando i giornali e gridando: «I carri armati russi sono entrati in Cecoslovacchia! Ora nessuno avrà più tempo e voglia di occuparsi di te!». E poi lho capito quando mi hanno mostrato ai giornalisti, dopo il primo tentativo di fuga. Erano tanti, di tanti paesi e mi son detto: "Ma allora sanno!". E ho sentito come una carezza sul cuore. E mè parso dessere meno solo. Perché la cosa più atroce sai, non è soffrire. È soffrire da soli. Riprendi il tuo racconto, Alekos. Dicevo che, quando loro mi insultavano, «criminale, bastardo, traditore, frocio», altre volgarità irripetibili, io insultavo loro. Gli urlavo cose spaventose. Ad esempio: «Ti scoperò tua figlia!». Ma a freddo, senza perder la testa, mi spiego? Io, che son così passionale, con la rabbia divento freddo. Un giorno mi mandarono un ufficiale addetto allinterrogatorio psicologico. Sai, uno di quelli che dicono: «Caro, è-meglio-che-tu-parli». Visto che era così gentile, gli chiesi un bicchiere dacqua. Me lo fece portare, premuroso. Ma appena ebbi il bicchiere in mano, anziché bere lacqua lo ruppi. Poi, col bicchiere rotto, mi lanciai contro quei mascalzoni. Ne ferii due o tre prima che mi saltassero addosso e mi gettassero per terra, sui frammenti di vetro, dove un frammento mi tagliò quasi a metà il mignolo destro. Mi tagliò anche il tendine, vedi. Non lo muovo più questo dito. È un dito morto. Poi sai cosa fece quella bestia di Babalis? Chiamò il dottore e, senza liberarmi i polsi legati dietro la schiena, mi fece ricucire il mignolo. Così, senza anestesia. Un male! Quel giorno gridai. Gridai come un pazzo. Senti, Alekos: ma non ti è mai venuta la tentazione di parlare? Mai! Mai! Mai! Io non dissi mai nulla. Mai. Non implicai mai nessuno. Mai. Poiché mero assunto tutte le responsabilità dellattentato, loro volevano sapere chi avrebbe assunto la responsabilità del governo se lattentato fosse riuscito. Ma dalla mia bocca non uscì mai mezza parola. Un giorno che ero disteso sul letto di ferro e non ne potevo davvero più, mi portarono un greco che si chiama Brindisi. Aveva parlato e piangeva. Piangendo disse: «Basta, Alekos. Non serve più. Parla, Alekos». Ma io risposi: «Chi è questo Brindisi? Io, di Brindisi, non conosco che un porto italiano». Lo stesso giorno mi portarono Avramis. Avramis era un membro di Resistenza Greca, ed era un ex-ufficiale di polizia, un uomo coraggioso, onesto. Negai di conoscerlo e negai che appartenesse a Resistenza Greca. Theofiloyannakos gridava: «Come vedi, lui ti conosce. E lha già ammesso. Ammetti la stessa cosa e finiremo questa faccenda per sempre». Io risposi: «Ascolta, Theofiloyannakos. Se ti avessi soltanto per unora nelle mie mani, ti farei confessare qualsiasi cosa. Anche che hai violentato tua madre. Non conosco questuomo. Lo avete torturato e ora dice quel che volete». E Theofiloyannakos: «Tanto, che tu parli o no, noi diremo che hai parlato». Ascolta: anche sotto le torture più atroci non ho mai tradito nessuno. Nessuno. E questa è una cosa che perfino quelle bestie rispettano. La direzione delle mie torture era affidata al capo della polizia: lallora tenente colonnello e oggi brigadier generale Joannidis. Una notte, vedendomi sputare sangue, scosse la testa e disse: «Niente da fare. Inutile insistere. Capita una volta su centomila che uno non parli. Ma questo è il caso. È troppo duro, questo Panagulis. Non parlerà». Joannidis ha sempre detto: «Lunico gruppo che non siamo certi di aver decimato è il gruppo di Panagulis. Quella tigre spaccava le manette». Bè, forse non è carino che te lo racconti. Magari ti metti in testa che sono un vanesio e scrivi che cè autocompiacimento in me o robe simili. Ma io te lo devo dire lo stesso perché è una bella soddisfazione. Non è giusto? Sì. Lo è. E ora vorrei sapere unaltra cosa, Alekos. Questa. Dopotanto soffrire, sei ancora capace di amare gli uomini? Amarli ancora?!? Amarli di più, vuoi dire! Accidenti, ma come fai a porre una domanda simile? Non crederai mica che io identifichi lumanità con le bestie della polizia militare greca? Ma si tratta di un pugno di uomini! Non ti dice nulla che in tutti questi anni siano rimasti sempre gli stessi?!? Sempre gli stessi. Senti: i cattivi sono una minoranza. E per ogni cattivo vi sono mille, diecimila buoni: cioè le sue vittime. Quelli per cui bisogna battersi. Non puoi, non devi veder così nero! Io ho incontrato tanta gente buona in questi cinque anni! Perfino tra i poliziotti. Sì, sì! Ma pensa solo ai soldatini che rischiavano la pelle per portar fuori della prigione le mie lettere, le mie poesie! Pensa a tutti quelli che mi hanno aiutato, nei tentativi di fuga! Pensa ai medici che mi hanno fatto portare in ospedale e quandero in ospedale ordinavano alle guardie di non tenermi legato al letto per le caviglie. «Non posso» rispondevan le guardie. E i medici: «Questa non è una prigioneee! Questo è un ospedaleee!». E quel tale Panayotidis che partecipava alle torture e mi sputava sempre addosso? Un giorno si avvicina a me tutto imbarazzato e mi dice: «Alekos mi dispiace. Ho fatto quello che mi hanno ordinato di fare. Lo avrei fatto anche se mi avessero detto di farlo su mio padre. Non ho il coraggio di oppormi. Perdonami, Alekos». Oh, lUomo... Vuoi dire che lUomo è fondamentalmente buono, che lUomo nasce buono? No. Voglio dire che lUomo nasce per essere buono, e che è più spesso buono che cattivo. E senti: a me, per accettare gli uomini, basta ciò che mi accadde quando ero allospedale dopo il tentativo di ammazzarmi col pagliericcio in fiamme. Cera una vecchia inserviente in quella corsia. Sai una di quelle vecchie che lavano per terra e puliscono i gabinetti. Un giorno viene da me e mi fa una carezza sulla fronte e mi dice: «Povero Alekos! Sei sempre solo! Non parli mai con nessuno! Stasera vengo qui, mi siedo accanto a te, e tu mi racconti le cose: eh?». Poi andò verso la porta e qui fu ghermita dalle guardie che la portarono via. Non venne quella sera. Io la aspettai ma lei non venne. Non la vidi più. Non ho mai saputo cosa le hanno fatto e... Piangi, Alekos? Tu?!? Non piango. Io non piango. Io mi commuovo. La gentilezza mi commuove. La bontà mi commuove. E allora sono commosso. Capito? Capito. Sei religioso, Alekos? Io? Io no. Voglio dire: non credo in Dio. Se mi parli di Dio, ti rispondo con la risposta di Einstein: credo nel Dio di Spinoza. Chiamalo panteismo, chiamalo come ti pare. E se mi parli di Gesù Cristo rispondo che mi sta bene perché non lo considero figlio di Dio ma figlio degli uomini. Il solo fatto che la sua vita sia stata ispirata dalla volontà di alleviare il dolore umano, il solo fatto che abbia sofferto e sia morto per gli uomini e non per la gloria di Dio, mi basta a considerarlo grande. Il più grande di tutti gli dei inventati dallUomo. Vedi, luomo non può prescindere dallidea dellamore perché non può vivere senza amore. Io ho ricevuto tanto odio nella vita ma ho ricevuto anche tanto amore. Da bambino, ad esempio. Sono stato un bambino felice perché sono cresciuto in una famiglia in cui ci si è tanto amati. Ma non era una questione di famiglia e basta. Era una questione... come dire? di scoperte. Per esempio, durante loccupazione italiana ci eravamo rifugiati nellisola di Leucade dove cerano tanti soldati italiani. Mi chiamavano sempre: «Piccolo, piccolo, piccolo!», e poi mi davano regali. Una cioccolata, una galletta. Mio padre, ufficiale dellesercito, non voleva che li accettassi e pretendeva che li buttassi via, quei regali. Mia madre invece no: «Raccatta e ringrazia». Mia madre sapeva che non lo facevano per insultarmi ma per esser gentili. Sapeva che non erano soldati cattivi ma uomini buoni. Io sono stato meno felice dopo, a crescere. È difficile sentirsi completamente felice quando ci si accorge che agli altri non importano sempre le cose che importano a te. E quando vedevo nei miei coetanei lindifferenza pei problemi della vita, io... ecco non ero più capace di esser felice. Come oggi. È curioso Alekos: parli come un uomo che non può concepire neanche lidea di fare un attentato, di uccidere. Io, prima del 21 aprile, cioè prima dellavvento dei colonnelli, non concepivo neanche lidea di uccidere. Non avrei potuto fare del male al mio peggior nemico. Del resto ancora oggi, lidea di uccidere mi ripugna. Non sono un fanatico. Vorrei che tutto cambiasse, qui in Grecia, senza una singola goccia di sangue. Non credo alla giustizia applicata in modo personale. Ancora meno credo alla parola vendetta. Io perfino per coloro che mi hanno seviziato non concepisco la parola vendetta. Uso la parola punizione e sogno soltanto un processo. Mi basterebbe soltanto che li condannassero a un giorno di prigione nella cella dove sono rimasto cinque anni. Tengo troppo alla legge, al diritto, al dovere. Infatti non ho mai contestato a Papadopulos il diritto di processarmi e di condannarmi. Io ho sempre protestato per il modo in cui esercitavano la loro condanna, per le botte che mi davano, per le crudeltà che mi infliggevano, per la tomba di cemento in cui mi tenevano proibendomi perfino di leggere e scrivere. Ma, quando uno fa quello che ho fatto io, lattentato voglio dire, non va contro la legge. Perché agisce in un paese senza legge. E alla non-legge si risponde con la non-legge. Mi spiego? Senti: se tu cammini per strada, e non dai noia a nessuno, e io ti prendo a schiaffi, e tu non puoi nemmeno denunciarmi perché la legge non ti protegge, che pensi? Che fai? Bada, ho parlato di schiaffi: niente di più. Uno schiaffo non fa nemmeno male, è solo un insulto. Però deve pur esistere una legge che mi proibisce di prenderti a schiaffi! Una legge che mi proibisce perfino di darti un bacio, se tu non lo vuoi! E se questa legge non esiste, tu cosa fai? Non hai forse il diritto di reagire e magari di uccidermi perché non ti disturbi più? Farti giustizia da te diventa una necessità! Anzi un dovere! Sì o no? Sì. Io non ho paura a dirtelo: io conosco anche lodio. Amo tanto lamore e sono pieno di odio per chi uccide la libertà, per chi lha uccisa in Grecia ad esempio. Accidenti, è difficile dire queste cose senza apparire retorici ma... Cè una frase che ricorre spesso nella letteratura greca: «Felice di essere libero e libero di essere felice». Sicché quando un tiranno muore di morte naturale nel suo letto, io... Che vuoi farci? Mi sento travolto dalla rabbia. Travolto dallodio. Secondo me è un onore per gli italiani che Mussolini abbia fatto la fine che ha fatto ed è una vergogna per i portoghesi che Salazar sia morto nel suo letto. Così come sarà una vergogna, per gli spagnoli, che Franco muoia di vecchiaia. Accidenti! Non si può accettare che unintera nazione si trasformi in un gregge. E ascolta: io non sogno lutopia. Lo so bene che la giustizia in assoluto non esiste, non esisterà mai. Però so che esistono paesi dove si applica un processo di giustizia. Quindi ciò che sogno è un paese dove chi è aggredito, insultato, privato dei suoi diritti, può chiedere giustizia a un tribunale. È troppo pretendere? Boh! A me sembra il minimo che possa chiedere un uomo. Ecco perché me la piglio tanto coi vigliacchi che non si ribellano quando i loro diritti fondamentali vengono violati. Sui muri della mia cella avevo scritto: «Odio i tiranni e sono nauseato dai vigliacchi». Alekos... è una domanda difficile. Cosa provasti quando ti condannarono a morte? Sul momento, nulla. Me laspettavo, ci ero preparato, e quindi non provai nulla fuorché la consapevolezza di contribuire morendo a una lotta che sarebbe continuata attraverso gli altri. Ed eri certo che ti avrebbero fucilato? Sì. Assolutamente certo. Alekos... questa è una domanda ancora più difficile. E non so se vorrai rispondere. Cosa pensa un uomo che sta per essere fucilato? Me lo son chiesto anchio. Molte volte. E ho cercato di dirlo in una poesia che mentalmente scrissi la mattina in cui vennero a chiedermi se domandavo la grazia ma risposi no... È una poesia che rende bene lidea di ciò che pensai in quel momento. Eccola. «Come / i rami degli alberi ascoltano / i primi colpi dellascia / così / quella mattina / i comandi / giungevano ai miei orecchi / Nello stesso momento / vecchie memorie / che credevo morte / inondavano il pensiero / simili a singhiozzi / singhiozzi laceranti del passato / per un domani che non sarebbe giunto / La volontà / quella mattina / era soltanto augurio / La speranza? / anchessa si perdeva / ma neanche un momento ero pentito / che il plotone aspettasse.» E guarda: chio sappia, vi sono tre scrittori che lhanno spiegato in modo simile a ciò che ho provato io. Uno è Dostoevskij ne LIdiota. Laltro è Camus ne Lo Straniero. Il terzo è Kazantzakis nel libro che racconta la morte di Cristo. Ciò che dice Dostoevskij lo sapevo: avevo letto LIdiota. Ma Lo Straniero non lo avevo letto e quando ciò avvenne, molto tempo dopo, a Boiati, mi turbò scoprire che avevo pensato le stesse cose mentre aspettavo lora dellesecuzione. Voglio dire, tutte le cose che uno vorrebbe fare se non stessero per tagliargli la testa. Scrivere una poesia, ad esempio, o una lettera. Leggere un libro, crearsi una piccola vita in quella piccola cella. Una vita ugualmente meravigliosa perché vita... Ma soprattutto mi turbò leggere la versione che Kazantzakis dà sulla morte di Cristo. In quel libro vè un momento in cui Cristo chiude gli occhi, sulla croce, e dorme. E sogna un sogno che è un sogno di vita. Sogna che... Ma non voglio parlare di questo. Non è bello parlare di questo. Non importa, tanto ho capito lo stesso che sognasti di fare lamore con una donna. Nel libro di Kazantzakis, Cristo sogna che sta facendo lamore con Marta e Maria, le sorelle di Lazzaro. Già... dieci minuti di sonno per sognare la vita... È giusto così, è bello così. Ma il resto di quella notte come lo passasti? La cella era una cella nuda, senza nemmeno una branda. Mi avevano messo una coperta per terra e basta. Io ero ammanettato. Sempre ammanettato. Così, per un poco, giacqui ammanettato per terra poi mi alzai e mi misi a parlare coi guardiani. I miei guardiani eran tre sottufficiali. Giovani, sui ventun anni. Avevan laria di bravi ragazzi e non erano ostili, anzi sembravano tristi per me: molto abbattuti al pensiero che tra poco mi avrebbero fucilato. Per fargli coraggio mi misi a discutere di politica. Mi rivolgevo a loro come mi sarei rivolto agli studenti durante una manifestazione. Gli spiegavo che non dovevano restare inerti, dovevano combattere per la libertà. E loro mi ascoltavano con rispetto. Gli declamai anche una poesia che avevo scritto: I primi morti. Sai quella su cui Teodorakis ha scritto una canzone. Mentre la declamavo, loro scrivevano i versi sui pacchetti delle sigarette. Poi i tre dettero il cambio ad altri tre, anche questi tre di leva, e tra questi ce nera uno che cantava nel coro di una chiesa. Mi lasciai andare a un gioco crudele. Gli chiesi di cantarmi ciò che cantano per la Messa funebre. Me lo cantò. E io, sempre scherzando, gli dissi: «Non mi piacciono certe parole. E quando canterai per me, alla Messa funebre, non dovrai dire certe parole. Per esempio non dovrai chiamarmi servo-del-Signore. Nessun uomo è servo di nessuno. Nessun uomo devessere servo di nessuno. Nemmeno del Signore». E lui promise che per me non avrebbe cantato quelle parole, non mi avrebbe chiamato servo del Signore. Così smettemmo quel gioco crudele e passammo a cantare altre canzoni di Teodorakis. Alekos... cosa prova un uomo quando gli dicono che non lo fucileranno più? Non mi hanno mai detto che la pena di morte era sospesa. Per tre anni non me lhanno mai detto. E la pena di morte, in Grecia, resta valida per tre anni. In qualsiasi momento, durante quei tre lunghi anni, avrebbero potuto aprire la porta della mia cella e dire: «Andiamo, Panagulis. Il plotone di esecuzione ti aspetta». La prima mattina io mi aspettavo di essere fucilato alle cinque, cinque e mezzo. Anche la fossa era pronta. Quando vidi che le cinque e mezzo eran passate, e le sei, le sei e mezzo, le sette, cominciai a sospettare che ci fosse qualcosa di nuovo. Ma non pensai che la fucilazione fosse sospesa: pensai che fosse ritardata di qualche ora. Forse lelicottero aveva avuto un ritardo, forse il procuratore aveva avuto un intoppo burocratico... Poi, verso le otto, sulla porta della mia cella venne un plotone. E mi dissi "ci siamo" ma qualcuno impartì un ordine e il plotone si allontanò. Subito dopo mi dissero che quella mattina non mi avrebbero fucilato perché era la festa della Presentazione della Madonna, quindi non avvenivano esecuzioni. Mi avrebbero fucilato il giorno dopo, 22 novembre. Ricominciò lattesa dellalba, e la seconda notte fu come la prima, e allalba ero di nuovo pronto. Venne un ufficiale e disse: «Firma la domanda di grazia e non sarai fucilato». Rifiutai e, nello stesso momento in cui rifiutavo, udii un altro ufficiale che dava un ordine secco ai soldati: fuori. E pensai: "Ecco, ci siamo. Ora ci siamo davvero". Invece non accadde nulla e nel pomeriggio mi portarono via dalla prigione di Egina. Mi condussero al porto militare e lì, con la vedetta P21, mi condussero allufficio della polizia militare. Quello degli interrogatori. Qui cera un ufficiale e mi disse: «Panagulis, i giornali hanno già annunciato la tua fucilazione. Ora potremo interrogarti come piace a noi. Ti faremo dire tutto ciò che vogliamo e morirai sotto le torture. E nessuno lo saprà perché tutti credono che tu sia già fucilato». Era solo una minaccia malvagia, però: non mi torturarono quel giorno. Allalba del 23 novembre mi fecero salire su unautomobile e mi dissero: «Panagulis, gli scherzi sono finiti. Ti portiamo allesecuzione». Invece mi portarono a Boiati. Alekos, io mi chiedo come tu abbia fatto a mantenere un cervello lucido dopo esser rimasto cinque anni solo e sepolto dentro una scatola di cemento poco più larga di un letto. Come hai fatto? Semplicemente rifiutando lidea dessere stato sconfitto. Del resto non mi sono mai sentito sconfitto. Per questo non ho mai smesso di battermi. Ogni giorno era una battaglia nuova. Perché volevo che ogni giorno fosse una battaglia nuova. Non ho mai permesso a me stesso di cadere nellinerzia. Pensavo al mio popolo oppresso e la mia rabbia si trasformava in energia. Proprio questa energia mi aiutava a immaginare sempre nuovi modi per scappare. Non volevo scappare per il semplice fatto di scappare, insomma di non stare più in prigione. Volevo scappare per continuar la mia lotta, per stare di nuovo coi miei compagni. Ero entrato nella lotta deciso a dare tutto di me e la mia disperazione nasceva dalla certezza di aver dato troppo poco, di aver fatto troppo poco. Quando la Grecia era stata travolta dalla dittatura, avevo detto ai miei amici: «La mia sola ambizione è quella di dare la mia vita per porre fine a questa dittatura, il mio solo desiderio è quello dessere lultimo morto di questa battaglia. Non per vivere più degli altri ma per dare più degli altri». Ed oggi, in tutta sincerità, posso dire la stessa cosa ai miei amici e non mi importa che i nostri nemici lo sappiano. Anzi. Non mi illudo affatto dessere vivo il giorno in cui si festeggerà la vittoria ma credo con tutto il cuore che quel giorno sarà festeggiato. Perché ciò accada, però, bisogna che io continui a battermi. E tale idea, insieme allidea di scappare, mi aiutò in quei cinque anni a non diventar pazzo. Ma come volevi scappare da quella tomba? Nei modi più incredibili. Anzitutto pensavo al modo di inviare messaggi ai miei compagni... Anche sapendo di avere pochissime probabilità di riuscire nella fuga, lidea non mi abbandonava mai. Mai. Il mio principio era quello di oggi: fallire è meglio che cullarsi nellinerzia. Ora ti racconto due tentativi che fallirono ma che a me sembrano divertenti. Una sera le guardie aprono la porta della mia cella, allora di sempre, e non mi trovano dentro. Come avevo previsto, quei mentecatti si lasciano prendere dal panico e incominciano a gridare, ansimare, accusarsi vicendevolmente, cercarmi sulle pareti, al soffitto, e non pensano di guardare nellunico luogo dove avrei potuto nascondermi: cioè sotto la branda. Ero sotto la branda e mi divertivo tanto ad ascoltarli: «Sei tu che sei entrato nella cella stamani!». E laltro: «Sei tu che avevi le chiavi!». «Basta, non litighiamo! Cerchiamo di trovarlo, piuttosto!» E via, fuori della cella, a dare lallarme: lasciando la porta aperta. Così mi lanciai fuori della porta e corsi, nel buio, per una cinquantina di metri. Mi fermai contro un albero. Da questalbero raggiunsi un altro albero, poi lombra della cucina, e poi il muro di cinta. Il campo era un unico urlo: «Allarmi, allarmi!». Gridavo anchio ma dicendo: «Allarme cancellato! Cancellato!». Speravo che qualcuno udisse, ci credesse. Ormai mi mancava solo da saltare il muro. Stavo per saltarlo quando un soldato mi vide e mi agguantò. Come ti sentisti quando ti agguantarono? Certo non ne fui felice. Ma non mi arrabbiai e pensai: non importa. La prossima volta andrà meglio. La prossima volta fu con una rivoltella di sapone. Me lero fatta da me, usando mollica di pane e sapone, e poi lavevo dipinta in nero con la punta dei fiammiferi bruciati. Sai, un fiammifero per volta: come se fosse un pennello. La canna lavevo fatta con la carta stagnola delle sigarette e sembrava proprio una canna di metallo. Una sera entrarono come al solito dentro la cella per portarmi il cibo e... gli puntai addosso la mia rivoltella. Erano tre. Si spaventarono talmente che quello col vassoio lasciò cadere il vassoio. Gli altri due invece sembravano paralizzati. E lintera faccenda era così comica che non ce la feci a continuare: limpulso di ridere era troppo forte. Non ci crederai ma, se non avessi ceduto alla voglia di ridere, forse sarei riuscito a scappare. Però mi rimase la consolazione dessermi divertito per un po. E non è poco. Ma quante volte hai tentato di scappare, Alekos? Molte volte. Una volta, per esempio, scavando il muro della mia cella con un cucchiaio. Era lottobre del 1969 e a quel tempo ero riuscito a farmi mettere un water closet dentro la cella. E poi, con uno sciopero della fame, ero riuscito a farmi mettere anche una tendina dinanzi al water-closet. Scelsi quel punto per fare il buco: la tendina serviva come un paravento. Ci lavorai almeno quindici giorni e il 18 ottobre il buco era pronto. Così mi ci infilai ma non riuscii a passar subito dallaltra parte perché avevo troppi indumenti addosso. Dovetti toglierli, gettarli fuori del buco e poi infilarmi di nuovo nel buco. Questo mi perse. Infatti passò una guardia, vide i vestiti e dette lallarme. Immediatamente piombarono sopra di me. Linterrogatorio incominciò subito. Non volevano credere che avessi scavato il muro con un cucchiaio e basta. Mi torturarono per sapere come avessi fatto. Oh, non puoi immaginare quanto mi torturarono! Dopo le torture mi riportarono nella cella e mi tolsero perfino la branda. Tornai a dormire per terra, su una coperta e basta, e ammanettato. Due giorni dopo riapparve Theofiloyannakos: «Come hai fatto?». «Con un cucchiaio, lo sai.» «Non è possibile, non è vero!». «E a me cosa importa se ci credi o no, Theofiloyannakos?» E fu linizio di altri pugni, di altre pedate. Poi, quindici giorni dopo, venne anche un generale: Fedon Ghizikis. Tutto gentile, educato. «Non puoi lamentarti, Alekos, se ti tengono ammanettato. Dopotutto hai fatto un buco nel muro con un cucchiaio!» Ed io: «Non crederai mica a quegli imbecilli? Non prenderai mica sul serio la storia del cucchiaio? E che? Un muro è forse un crème-caramel?». Ci rimase male. E, per quel dispetto, dovetti ricorrere a un altro sciopero della fame. Non volevano restituirmi la branda, né togliermi le manette. Me le tolsero, infine, e mi restituiron la branda dopo quarantasette giorni trascorsi a nutrirmi esclusivamente con qualche goccia di caffè. Ci scrissi anche una poesia. Quale? Quella che si intitola Voglio. «Voglio pregare / con la stessa forza con cui voglio bestemmiare / Voglio punire / con la stessa forza con cui voglio perdonare / Voglio dare / con la stessa forza con cui lo volevo allinizio / Voglio vincere / dato che non posso essere vinto.» Ma ora ti racconto un altro tentativo. Quello che feci alla fine del febbraio 1970. In gennaio mi avevano trasferito al Centro addestramento della polizia militare a Gudì e tra le guardie cera un amico. Pianificai subito una nuova fuga. La mia cella era chiusa da due lucchetti. Chiesi al mio amico di comprare al mercato quanti lucchetti potesse, simili a quei due. Insieme ai lucchetti, le chiavi. Me ne portò un centinaio. Una ad una le provammo, ed una era quella che cercavamo. Ma apriva solo un lucchetto, evidente. Bisognava dunque trovare anche la seconda. Gli dissi di tornare al mercato e comprare altri lucchetti. Lo fece e, due giorni dopo, il 16 febbraio, era lui la mia guardia: dalle otto alle undici la mattina, dalle dieci a mezzanotte la sera. Il mattino lo impiegammo a provare i nuovi lucchetti e così trovammo la chiave che apriva il secondo lucchetto. Divenni pazzo di gioia: sarei scappato, quella notte. Anzi, saremmo scappati. Lui non poteva certo restarsene lì dopo la mia fuga. Tutto era pronto. Un fallimento sembrava impossibile. E invece... Invece due ore dopo, verso le undici del mattino, mi vennero a prendere e mi riportarono nuovamente a Boiati. Dove mi avevano costruito una cella speciale. In cemento armato. Il trasferimento a Gudì, ora lo capivo, era avvenuto solo per costruirmi una nuova cella. Una cella sicura, in cemento armato. La cella in cui eri fino allaltro giorno? Sì. E mi ci chiusero dentro. Da questa nuova cella tentai di fuggire, la prima volta, il 2 giugno del 1971. Allora mi trasferirono di nuovo al Centro della polizia militare, ma anche qui tentai la fuga: il 30 agosto. Fu la fuga che ebbe più pubblicità perché vera coinvolta Lady Fleming e ne seguì quel processo. Vedi, il segreto è non rassegnarsi, non sentirsi mai una vittima, non comportarsi mai come una vittima. Io non ho mai fatto la vittima: neanche quando mi consumavo con gli scioperi della fame. Ho sempre escogitato nuove soluzioni per scappare, e mi son sempre mostrato di buon umore o aggressivo. Anche se crepavo di tristezza. La tristezza... La solitudine... Quella lho raccontata anche nel libro di poesie che ha vinto il Premio Viareggio. Guarda: la solitudine la si vince con la fantasia. Quante vite ho partorito nella mia mente cercando di vincere la solitudine. E quanto intensamente ho vissuto ogni vita attraverso la fantasia. Alekos, una volta sei riuscito a scappare, però. Sì, con Giorgio Morakis che per colpa mia è stato condannato a sedici anni di prigione e non beneficia nemmeno di questa amnistia perché lo considerano un disertore. Era un giovane sottufficiale, Giorgio Morakis, e offrì spontaneamente il suo aiuto. Oh, fu così divertente la mia fuga con Morakis. Io ero vestito da caporale e avevo in mano il mazzo delle chiavi di tutte le celle. Quando raggiungemmo lultima porta, gettai le chiavi al soldatino di guardia e: «Apri la porta, marmittone». Il soldatino non mi riconobbe. Scattò sullattenti, ci aprì la porta, e io ingiunsi perfino di non far chiasso coi chi-va-là se fossimo tornati indietro. Capisci, cera sempre la possibilità di non farcela e di dover rientrare alla chetichella in galera se non fossimo riusciti a saltare il muro di cinta. Lultima porta immetteva al campo militare vero e proprio: per uscire di lì non cera che saltare il muro di cinta. Anche se il muro era molto alto e sormontato da filo spinato. Mi piegai, Morakis salì sulle mie spalle e saltò il muro. Poi io mi agguantai alle braccia tese di Morakis e via. A spasso per Atene. Peccato che ci abbiano preso, quattro giorni dopo. Mi arrestarono in casa di un traditore, Takis Patitsas. Aveva rapporti con Resistenza Greca, questo Patitsas, fin dal 1967. Lavorava in unagenzia viaggi e ci aveva fornito un certo numero di passaporti rubati. Anche per sapere di lui mi avevano torturato durante linterrogatorio e naturalmente non avevo parlato. Infatti Patitsas non era mai stato arrestato. Dopo la fuga andai a casa sua pieno di fiducia. Contavo di restarvi solo qualche giorno. Il tempo di avere informazioni e contatti coi compagni del mio gruppo Resistenza Greca. Mi ricevette con baci ed abbracci ma il giorno dopo lasciò la casa in cui mi ospitava e riapparve solo dopo quarantotto ore. Parlammo, mangiammo insieme, e il mattino seguente uscì dicendo che andava a lavorare. Invece non andò a lavorare. Andò alla gendarmeria e consegnò le chiavi. Ci presero così: aprendo la porta con le chiavi di Patitsas. Come compenso si prese la taglia di cinquecentomila dracme. Circa dieci milioni di lire. Parliamo daltro per cortesia. Sì, parliamo daltro. Parliamo di Papadopulos. Senti, io non posso prendere sul serio questo Papadopulos. È un tipo che puoi capire soltanto se analizzi la sua storia. Una storia che dimostra subito quanto sia disonesto, mentalmente malato, bugiardo. Per sei anni ha detto solo bugie e quante volte, per vomitare il mio disgusto, io glielho scritto! Sai, quelle lettere che davo al direttore della prigione. In ciascuna lo definivo comico, pagliaccio, ridicolo, buffone, criminale e mentalmente malato. Non credere che stia esagerando o che mi faccia prendere dallira. Tutte queste cose risultano abbondantemente dalla sua biografia. È lui il capitano che partecipò al colpo di Stato, peraltro fallito, del 1951: coi brigantini Cristeas e Tabularis. È lui che, come tenente colonnello, fu segretario della commissione che preparò il famoso Piano Pericle con cui tentarono di falsificare i risultati delle elezioni del 1961. Quando il governo democratico ordinò uninterrogazione sul Piano Pericle, quel cretino rispose di non conoscere la sintassi greca e quindi non poter essere il responsabile. Troverai questa notizia sui documenti ufficiali, peraltro pubblicati su tutti i giornali greci di quel tempo. È lui che allinizio del 1965 compì un sabotaggio nel suo reparto e poi torturò personalmente alcuni dei suoi soldati affinché confessassero che si trattava di un sabotaggio comunista. Era a capo dellUfficio propaganda e guerra psicologica e chiunque sa che ordinò lui lassassinio di Policarpos Gheorgatzis. Chiunque sa che fu lui a voler lepisodio con cui tentarono di assassinarmi in prigione. Che sia un uomo ridicolo, del resto, lo si può giudicare anche dal fatto che abbia esteso lamnistia ai torturatori. Questo non è forse ammettere che la tortura esisteva? E non equivale forse ad incoraggiare altre torture? Sì, ma non gli impedisce di stare al potere e restarci. Senti, se mi rispondi che tutto ciò non esclude la sua capacità di restare al potere, io replico con unosservazione. Quando ero a Roma vidi un film con Mussolini che parlava alla folla da Palazzo Venezia. E, sbalordito, mi chiesi come avessero fatto gli italiani a dar credito per tanti anni a un uomo così ridicolo che parlava in modo così ridicolo. Eppure Mussolini era un dittatore potente e a suo modo capace. Rubare il potere e tenerlo impedisce forse desser ridicoli? La differenza tra Papadopulos e Mussolini è che, bene o male, una base popolare Mussolini laveva. Papadopulos invece non ha neanche quella. Il suo potere si basa sulla Giunta e basta, cioè su dieci ufficiali che controllano lintero esercito. È il piccolo leader di una piccola cricca. Inoltre è in malafede. Non si presenta come Franco il quale dice: «Il padrone sono io. Punto e basta». Si presenta parlando di rivoluzione e poi addirittura di democrazia. Democrazia! Ma che cavolo di democrazia è una democrazia dove uno affronta le elezioni da solo, senza avere neanche il pudore di inventarsi un avversario e unopposizione? Dite: ma tu sei fuori per lamnistia di Papadopulos. Ma non lo capite che si tratta di un imbroglio, di una beffa? Non lo capite che dietro questo suo provvedimento si nasconde uno stratagemma per allungare la tirannide? Di Costantino cosa pensi, Alekos? Sono sempre stato un repubblicano, naturalmente, e non sarò certo io a sentirmi addolorato per Costantino. Oltretutto, Costantino creò le condizioni per esser cacciato dal paese quando forzò Papandreu a dimettersi, nel luglio del 1965. Non mi interessa sottolineare se Costantino mi piace o no. Mi interessa sapere se Costantino è utile nella lotta contro la Giunta. Forse sì. Perché Costantino, forse, ha ancora influenza in alcune sezioni dellesercito: tra gli ufficiali soprattutto. Forse, oggi come oggi, non lo possiamo ignorare. E non possiamo porre il suo problema, attualmente. È ormai un nemico della Giunta. E non ha ormai altra scelta che quella di restare un nemico della Giunta. Alekos, ma tu credi che Papadopulos vi abbia messo fuori per rovesciarlo? No davvero. Ma lui crede che non si sia in grado di rovesciarlo. E questo è il suo errore perché la resistenza in Grecia è una realtà. La gente vi partecipa, sia pure in modo passivo per ora. Vi partecipa, ad esempio, rifiutando la dittatura allunanimità. Limpegno assunto dallintero mondo politico greco è quello di seguire la volontà popolare. E tale impegno si manifesta non aiutando Papadopulos a legalizzare il suo regime. Io sono certo che nessun uomo politico rispettabile, in Grecia, parteciperà alla mascherata delle elezioni. Devi capire che possiamo rovesciarlo. Papadopulos non è uscito da una guerra civile come Franco: è uscito da un colpo di Stato. Quando Franco andò al potere, i suoi oppositori erano decimati. Sconfitti. Gli ultimi democratici lasciarono la Spagna come El Campesino. Qui è diverso. Qui nessuno è stato sconfitto. Nessuno è stato decimato. E, perché la dittatura finisca, basta che il popolo greco non si addormenti come si addormentò il popolo italiano. Il popolo tende sempre a dormire, rassegnarsi, accettare. Però basta poco a svegliarlo. Mah! Forse manco di realismo, di informazioni, e anche di logica. Ma se si parla di logica, rispondo: quando mai la logica ha fatto la storia? Se la logica facesse la storia, gli italiani non si sarebbero lasciati affascinare da Mussolini e Hitler non sarebbe esistito e Papadopulos non sarebbe andato al potere. Controllava solo alcune unità in tutta lAttica, e alcune unità in Macedonia. E quando si parla di politica... Ma la tua ideologia politica, Alekos, qual è ? Non sono comunista, se è questo che vuoi sapere. Non potrei mai esserlo, visto che rifiuto i dogmi. Ovunque cè dogma non cè libertà, dunque i dogmi a me non stanno mai bene. Sia i dogmi religiosi che quelli politico-sociali. Chiarito questo, mi è difficile mettere un distintivo e dire che appartengo a quella o a quellaltra ideologia. Posso dirti soltanto che sono un socialista: nella nostra epoca è normale, direi inevitabile, essere socialisti. Però quando parlo di socialismo, parlo di un socialismo applicato in regime di totale libertà. La giustizia sociale non può esistere se non esiste la libertà. I due concetti per me sono legati. Ed è questa la politica che mi piacerebbe fare se in Grecia avessimo la democrazia. È questa la politica che mha sempre sedotto. Oh, se appartenessi a un paese democratico, credo proprio che mi darei alla politica. Perché quella che fo ora o che ho fatto finora non è politica: è solo un flirt con la politica. E a me piace flirtare, sì, però lamore mi piace molto di più. In democrazia far della politica diventa bello come far lamore con amore. Ed è questo il mio guaio. Vedi, vi sono uomini capaci di far della politica solo in tempo di guerra, cioè in circostanze drammatiche, e vi sono uomini capaci di far della politica solo in tempo di pace, cioè in circostanze normali. Paradossalmente, io appartengo ai secondi. Tutto sommato, tra Garibaldi e Cavor preferisco Cavour. Però devi capire che dal momento in cui la Giunta ha preso il potere né io né i miei compagni abbiamo fatto della politica. Né la faremo fino al momento in cui la Giunta sarà rovesciata. Non dobbiamo fare politica, non possiamo fare politica ammenoché non si abbia una forza operante. E questa forza operante è la resistenza, cioè la lotta. Alekos, tu dici che paradossalmente appartieni ai cavouriani. Davvero paradossalmente, visto che come personaggio politico sei diventato famoso attraverso un attentato alquanto garibaldino. Alekos, ti capita mai di maledire il giorno in cui facesti quellattentato? Mai. E per le stesse ragioni per cui non mi capita mai di sentirmi pentito. Guarda, mi sarebbe bastato dire al processo che ero pentito e quelli non mi avrebbero condannato a morte. Non lo dissi invece, come non lo dico ora, perché non ho mai cambiato idea. E penso che non la cambierò neanche in futuro. Papadopulos è colpevole di alto tradimento e di molti altri crimini che nel mio paese vengono puniti con la pena di morte. Non ho agito da fanatico pazzo e non sono un fanatico pazzo. Sia io che i miei compagni abbiamo agito come strumenti della giustizia. Quando a un popolo viene imposta la tirannia, il dovere di ogni cittadino è uccidere il tiranno. Non bisogna pentirsi e la nostra lotta continuerà fino a quando la giustizia e la libertà saranno ristabilite in Grecia. Ho, anzi, abbiamo imboccato una strada da cui non si torna indietro. Lo so. Parlami dellattentato, Alekos. Era un attentato preparato bene, fino ai minimi particolari. Avevo previsto tutto. Dovevo aprire il contatto elettrico delle due mine da una distanza di duecento metri circa. Le due mine erano piazzate bene. Le avevo fabbricate io. Erano due buone mine. Ciascuna conteneva cinque chili di TNT e un chilo e mezzo di altro materiale esplosivo, il C3. Le avevo messe a una profondità di un metro ai due lati del piccolo ponte che lautomobile di Papadopulos avrebbe attraversato percorrendo la strada che costeggia il mare da Sunio ad Atene. Lesplosione doveva espandersi per una larghezza di quarantacinque gradi e aprire una voragine circolare di circa due metri di diametro. Una sola esplosione sarebbe bastata, lesplosione di una sola mina per colpire il bersaglio, purché lautomobile fosse passata nel momento giusto. Ma, per errore del compagno che laveva messa nel portabagagli dellautomobile, la miccia risultò annodata e arruffata a tal punto che ne potei recuperare soltanto una quarantina di metri. Il fatto è che non era possibile aprire il contatto a quella distanza: perché non avrei avuto alcun posto dove nascondermi. Lunico posto dove potevo nascondermi era tra otto e dieci metri dal ponte. Dovevo tentare ugualmente. Compresi immediatamente i difetti e i pericoli di una tale posizione. Il più grave era che non potevo vedere bene la strada. Avevo fatto molte prove, prima dellattentato, e avevo scelto la posizione a duecento metri perché avevo notato che, quando lautomobile era tra me e il ponte, io la vedevo seminascosta da un cartello stradale. In quel momento avrei aperto il contatto. Invece dalla nuova posizione non avevo una buona panoramica della strada, quindi non potevo scorgere lautomobile nel momento in cui avrei dovuto accendere la miccia. Laltro difetto di questa posizione era che scappare di lì sarebbe stato quasi impossibile. Lungo la strada, ogni cinquanta o cento metri cera un gendarme. E, più distante, molte macchine della polizia. Una, poi, a non più di dieci metri. Quindi avresti dovuto saltare in mare di lì? Esatto. E il motoscafo veloce mi aspettava, nascosto, a ben trecento metri. Capii subito che scappare era non quasi-impossibile ma impossibile. Decisi di agire ugualmente. Aprii il contatto e subito saltai in acqua. Nuotai sottacqua per venti o trenta metri. Poi uscii fuori per respirare. Realizzai subito che non mi avevano visto gettarmi in mare. I poliziotti stavano correndo da tutte le parti verso il punto dellesplosione. Nuotai ancora un po e poi uscii dallacqua per raggiungere il motoscafo attraverso le rocce e quindi più velocemente. Correvo curvo, a testa bassa. E dun tratto vidi il motoscafo allontanarsi. Il piano prevedeva che esso mi aspettasse cinque minuti, non più. Non mi disperai, tuttavia. Il piano aveva unalternativa: se il motoscafo non avesse potuto venire oppure se avesse dovuto partire prima di raccogliermi, io mi sarei nascosto in una roccia fino a notte inoltrata. Verano molte automobili che mi avrebbero aspettato in luoghi diversi, e, uscito dal mio rifugio, nel buio, avrei raggiunto una delle automobili. Certo sarebbe stato scomodo perché addosso avrei avuto solo le mutandine da bagno ma questo non costituiva un problema eccessivo. Così mi nascosi dentro una piccola caverna e ci rimasi due ore. Due ore durante le quali la polizia costiera e quella militare mi cercarono senza sosta. E fu durante quelle due ore che diventai ottimista: non mi avevano trovato fino a quel momento, dunque non mi avrebbero trovato più. Poi accadde quello che dovrei definire fatalità. Proprio sopra la caverna dovero nascosto, stava un ufficiale della gendarmeria. Udii che diceva: «Non è qui, diamo unocchiata dietro quella macchia e poi cerchiamolo dallaltra parte». Ma, mentre stava dirigendosi dallaltra parte, cadde allindietro e... mi cadde proprio davanti. Mi vide subito. In una frazione di secondo furono tutti sopra di me. A colpirmi, a chiedermi: «Chi sei? Dove sono gli altri? Chi è scappato col motoscafo? Parla, parla!». E giù botte... giù botte... Finsi dessere muto e non risposi a nessuna delle domande. Allora mi portarono su e mi spinsero dentro unautomobile e... Non continuare, se non vuoi. Basta così. Perché? Nellautomobile, stavo per dire, cera il ministro della Sicurezza pubblica, generale Zevelekos, e il colonnello Ladas. Un poliziotto che mi conosceva da tempo esclamò: «È Panagulis!». Così gli ufficiali credettero che fossi mio fratello Giorgio. Il capitano Giorgio Panagulis che cercavano dallagosto del 1967. Si misero a gridare: «Ti abbiamo preso, capitano! Ora ti leveremo la pelle!». Avrebbero avuto bisogno di altre trenta ore per comprender lequivoco. Durante quelle trenta ore applicarono su di me tutti i metodi dellinterrogatorio più brutale, più infame. Mi dicevano: «Abbiamo arrestato Alessandro, a Salonicco! E Alessandro soffre ancora più di te in questo momento!». Mi chiedevano anche di ufficiali che, naturalmente, non conoscevo. Mi chiedevano ad esempio del generale Anghelis che era a quel tempo comandante in capo delle Forze armate. Volevano sapere se egli fosse coinvolto nellattentato e mi torturavano per saperlo. Eran travolti dal panico e mi facevano cose tremende ma mi interrogavano tuttaltro che sistematicamente: con isteria. Quando finalmente compresero che non ero Giorgio ma Alessandro, si inferocirono a un punto tale che raddoppiarono le sevizie. Non pensarci più, Alekos. Forse è atroce dirlo, è andata come doveva andare. Perché oggi sei un simbolo cui perfino i nemici guardano con ammirazione e rispetto. Mi sembri quelli che dicono: «Alekos, sei un eroe!». Non sono un eroe e non mi sento un eroe. Non sono un simbolo e non mi sento un simbolo. Non sono un leader e non voglio essere un leader. E questa popolarità mi imbarazza. Mi disturba. Te lho già detto: non sono lunico greco che ha sofferto in prigione. Io, ti giuro, questa popolarità riesco a tollerarla solo quando penso che serve quanto sarebbe servita la mia condanna a morte. E allora la giudico con lo stesso distacco con cui accettai la mia condanna a morte. Però, anche messa così, è una popolarità molto scomoda. E antipatica. Io, quando mi chiedete «cosa-farai- Alekos», io mi sento svenire. Cosa devo fare per non deludervi? Ho tanta paura di deludere voi che vedete tante cose in me! Oh, se riusciste a non vedermi come un eroe! Se riusciste a vedere solo un uomo in me! Alekos, cosa significa essere un uomo? Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nellumanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare unàncora. Significa lottare. E vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata Se. E per te cosè un uomo? Direi che un uomo è ciò che sei tu, Alekos. BIOGRAFIA Studia al Politecnico nazionale di Atene (Metsovio) dove si laurea in ingegneria elettronica, quindi diventa ufficiale dell'esercito greco. Spirito libero e democratico, ispirato dalla tradizione umanista della Grecia antica, Panagulis ancora adolescente entra nel settore giovanile dell'Organizzazione giovanile dell'Unione di Centro (O.N.E.K.), partito guidato da Georgios Papandreou senior che in seguito cambierà nome in Gioventù Democratica Greca (E.DI.N). Alexandros Panagulis, ritratto su un francobollo greco del 1997 Resistenza alla dittatura[modifica | modifica sorgente] Dopo il colpo di stato del 21 aprile 1967 entra nella resistenza contro il regime militare guidato da Georgios Papadopoulos: per questo diserta durante il servizio militare a causa delle sue convinzioni democratiche e fonda l'organizzazione Resistenza Greca. Si auto-esilia a Cipro per approntare un piano d'azione e, una volta rientrato in madrepatria pianifica, con i suoi stretti collaboratori, il tentativo di omicidio del dittatore Papadopoulos il 13 agosto 1968 vicino a Varkiza. L'attentato fallisce e Panagulis, autore materiale del piazzamento degli ordigni che non si innescarono al passaggio della limousine del dittatore, viene arrestato. Panagulis rifiuta subito l'offerta di collaborazione che la Giunta gli proponeva, e per questo fu sottoposto ad atroci torture fisiche e mentali. Giudicato dai tribunali militari il 3 novembre 1968, venne condannato a morte il 17 novembre 1968 e conseguentemente trasportato all'isola di Egina per l'esecuzione. Ma grazie alle pressioni della comunità internazionale e delle sue amicizie oltre al timore da parte del regime di farne un martire, la sentenza non viene eseguita, e così il 25 novembre 1968 Panagulis viene tradotto nelle prigioni militari di Boiati. La sua difesa al tribunale, in cui dichiarò di accettare il processo ma non i metodi, e soprattutto le dichiarazioni false fatte passare per sue, fece il giro del mondo, insieme alla rivendicazione della liceità del tirannicidio: « Chiaro che accetto l'accusa. Non l'ho mai respinta, io. Né durante l'interrogatorio né dinanzi a voi. E ora ripeto con orgoglio: sì, ho sistemato io gli esplosivi, ho fatto saltare io le due mine. Ciò allo scopo di uccidere colui che chiamate presidente. E mi dolgo soltanto di non esser riuscito ad ucciderlo. Da tre mesi quella è la mia pena più grande, da tre mesi mi chiedo con dolore dove ho sbagliato e darei l'anima per tornare indietro, riuscirvi. Quindi non è l'accusa in sé che provoca la mia indignazione: è il fatto che attraverso quei fogli si tenti di infangarmi dichiarando che sarei stato io a coinvolgere gli altri imputati, a fare i nomi che sono stati pronunciati in quest'aula » (Discorso riportato da Oriana Fallaci, Un uomo) Il 5 giugno 1969 evade per la prima volta di prigione; dopo essere stato arrestato tenta nuovamente di scappare scavando un buco nel muro della cella ma viene immediatamente scoperto. Per punire questa sua "scarsa disciplina" viene quindi condotto provvisoriamente alla caserma di Goudi prima di essere riportato, un mese dopo, alla prigione di Boiati, dove fu chiuso in isolamento totale in una cella costruita appositamente per lui. La cella era una stanza seminterrata di due metri per tre con una piccola anticamera. Nel 1970 subisce un attentato in prigione, mentre è in sciopero della fame: rischia di morire nell'incendio della sua cella.[2] Nello stesso periodo, come racconta nell'intervista alla Fallaci, l'intellettuale e politico francese Jean-Jacques Servan-Schreiber tenta di farlo liberare, ma ottiene invece la consegna di un altro prigioniero, il compositore Mikis Theodorakis, che aveva musicato alcune sue poesie. Gli anni nella "tomba" e la scarcerazione[modifica | modifica sorgente] Oriana Fallaci Nei tre anni e mezzo passati nella "tomba", questo il soprannome dato alla cella, tentò più volte di evadere nuovamente senza successo. Riuscì inoltre a non cadere nel baratro della pazzia prendendosi continuamente gioco delle guardie e del direttore del carcere e resistendo stoicamente ad ogni umiliazione e pestaggio. Rifiuta un permesso per raggiungere il capezzale del padre morente e, in seguito (1973), di beneficiare dell'amnistia generale concessa dal regime dei colonnelli ai detenuti politici a seguito delle pressioni internazionali. Questo per evitare di dare al regime della Giunta una distorta immagine di democrazia agli occhi della stampa occidentale. Durante l'estate successiva, il 21 agosto, viene finalmente liberato, grazie all'amnistia. Il giorno successivo conosce la scrittrice e giornalista fiorentina Oriana Fallaci che diventerà la sua compagna di vita. Si esilia di nuovo, questa volta a Firenze, in Italia, nella casa di campagna della Fallaci, per dare una nuova forza alla resistenza. La Fallaci rimase incinta di un figlio, ma lo perse dopo un litigio con lo stesso Panagulis. Il ritorno alla democrazia[modifica | modifica sorgente] Panagulis premiato a Palazzo Medici a Firenze Nel 1974 la Giunta abdica e vengono indette elezioni democratiche. Panagulis, piuttosto restio a partecipare alla politica dei partiti, comprende che per continuare la sua azione deve entrare in parlamento, e per questo si presenta alle elezioni del novembre 1974 con l'Unione del Centro - Nuove forze (E.K. - N.D.), un partito di ispirazione liberale progressista, derivato dal movimento di cui aveva già fatto parte. Diventa presidente dell'E.DI.N (3 settembre) e due mesi dopo viene eletto deputato di Atene. Soffre di problemi respiratori a causa delle ossa rotte a bastonate durante i pestaggi subiti in prigione. Prosegue quindi, come deputato, la caccia ai politici che avevano collaborato con il regime dittatoriale lanciando contro di loro numerose accuse. Poco dopo la sua elezione rompe con la leadership del suo partito dopo aver chiesto invano l'epurazione di un suo componente, del quale aveva accertato la complicità con il vecchio regime. Era riuscito infatti ad ottenere in modo rocambolesco dei documenti dell'ESA (i servizi segreti ellenici) che provavano i rapporti di collaborazione tra alcuni politici e la Giunta, primo tra tutti Evangelos Averoff, il quale, essendo Ministro della Difesa e quindi capo di un esercito ripulito solo in parte dai generali corrotti, aveva un potere maggiore del Presidente della Repubblica. Deluso, ma deciso, dà le dimissioni dal partito ma conserva la sua poltrona nel Parlamento greco come indipendente. Mantenne le sue accuse entrando quindi in conflitto aperto con il Ministro della difesa, ed altri. Col passare del tempo, soltanto la Fallaci resta al suo fianco in questa battaglia. Per mesi è oggetto di pressioni e di minacce di morte, le quali aumentano dopo l'inizio delle pubblicazioni del dossier relativo agli agenti di sicurezza del regime dei colonnelli in un giornale ellenico, su iniziativa dello stesso Panagulis. Morte[modifica | modifica sorgente] Monumento in viale Vouliagmenis nel punto dove fu ucciso Alekos Panagoulis. La notte tra il trenta di aprile ed il 1º maggio 1976, mentre rientrava a Glyfada, sua città natale nei dintorni della capitale, Panagulis rimane vittima di un misterioso incidente automobilistico in viale Vouliagmenis, ad Atene. L'inchiesta ufficiale affermerà che si era trattato soltanto di un errore dello stesso Panagulis, la cui vettura era finita nello scivolo di un'autorimessa. Erano giunte a conclusioni ben diverse le perizie degli esperti italiani, i quali avevano parlato di un incidente provocato ad arte tramite speronamento da due automobili di grossa cilindrata. Secondo la Fallaci ed altri, uno degli esecutori materiali dell'omicidio andava riconosciuto in Michele Steffas, militante di sinistra con un passato di pilota professionista in Canada. Questo si era presentato spontaneamente alla polizia il 3 maggio come testimone dei fatti, sostenendo la tesi dell'errore umano. Verrà in seguito condannato a pagare una multa per omissione di soccorso, ma le sue responsabilità non verranno mai provate. I funerali[modifica | modifica sorgente] Il suo funerale, svoltosi nella cattedrale di Atene il 5 maggio, divenne la più grande manifestazione di popolo della storia greca. Quel giorno infatti giunse ad Atene circa un milione e mezzo di persone, il che rese particolarmente difficoltoso lo svolgimento delle esequie e la sepoltura. Durante la cerimonia la gente in piazza urlava "Zi zi zi" ("Vive vive vive"). Eroe della democrazia che contribuì all'isolamento internazionale del regime dei colonnelli, Alessandro Panagulis fu definitivamente eliminato dalla lotta politica solo con l'incidente mortale che privò il paese delle verità di cui lui era a conoscenza e che avrebbero probabilmente portato la Grecia a fare altre scelte ed altri percorsi. Un monumento lo ricorda nel luogo della morte, mentre la tomba si trova nei pressi di Atene. A Firenze, nel Cimitero degli Allori, accanto a dove venne poi sepolta Oriana Fallaci, si trova un altro cippo commemorativo. Lavoro poetico[modifica | modifica sorgente] « Se per vivere, o Libertà / chiedi come cibo la nostra carne / e per bere / vuoi il nostro sangue e le nostre lacrime, / te li daremo / Devi vivere » (Alekos Panagulis, Devi vivere, 1971) Panagulis fu quotidianamente oggetto di torture atroci durante tutta la sua detenzione. Il suo auto-controllo, la sua disciplina, la sua determinazione per difendere le sue convinzioni e il suo senso dell'umorismo gli servirono di scudo contro le violenze fisiche e mentali. Nella prigione di Boiati ha scritto i suoi poemi migliori sulle pareti della sua cella o su pezzi microscopici di coperta, spesso con il suo stesso sangue (in alcuni momenti della prigionia gli fu impedito di tenere con sé carta e penna). Molti dei suoi poemi sono a tutt'oggi ancora sconosciuti a causa della dittatura; tuttavia riuscì a far uscire alcuni scritti dalla sua prigione in vari modi, altri li ha riscritti a memoria. Mentre era ancora in prigione fu pubblicata a Palermo nel 1972 la sua prima collezione sotto il titolo Altri seguiranno: poesie e documenti dal carcere di Boyati con una nota introduttiva del politico italiano Ferruccio Parri e di Pier Paolo Pasolini. Per questa collezione Panagulis ha ricevuto il Premio Viareggio Internazionale. Dopo la sua liberazione fu pubblicata a Milano la sua seconda collezione sotto il titolo Vi scrivo da un carcere in Grecia, con un'introduzione sempre di Pasolini. La pubblicazione in italiano fu successiva ad altre sue pubblicazioni in greco quale la raccolta chiamata La vernice (H Bogia). |