DICO ADDIO ALLA CASTA DEI GIUDICI

24 gennaio 2008

DICO ADDIO ALLA CASTA DEI GIUDICI

http://www.annozero.rai.it

di Luigi De Magistris

Già da alcuni mesi avevo deciso – seppur con grande rammarico – di

dimettermi dall’Associazione Nazionale Magistrati. I successivi eventi che mi

hanno riguardato, le priorità dettate dai tempi di un processo disciplinare tanto

rapido quanto sommario, ingiusto ed iniquo, mi hanno imposto di

soprassedere. Adesso è il tempo che "tutti i nodi vengano al pettine". Vado via

da un’associazione che non solo non è più in grado di rappresentare

adeguatamente i magistrati che quotidianamente esercitano le funzioni, spesso

in condizioni proibitive, ma sta – con le condotte ed i comportamenti di questi

anni – portando, addirittura, all’affievolimento ed all’indebolimento di quei

valori costituzionali che dovrebbero essere il punto di riferimento principale

della sua azione. L’A.N.M. – che storicamente aveva avuto il ruolo di

contribuire a concretizzare i valori di indipendenza interna ed esterna della

magistratura – negli ultimi anni, con prassi e condotte censurabili ormai sotto

gli occhi di tutti, ha contribuito al consolidamento di una magistratura

"normalizzata" non sapendo e non volendo "stare vicino" ai tanti colleghi

(sicuramente i più "bisognosi") che dovevano essere sostenuti nelle loro difficili

azioni quotidiane spesso in contesti di forte isolamento; ha fatto proprie

tendenze e pratiche di lottizzazione attraverso il sistema delle cosiddette

correnti; ha contribuito – di fatto – a rendere sempre più arduo l’esercizio di

una giurisdizione indipendente che abbia come principale baluardo il principio

costituzionale che impone che tutti i cittadini siano uguali di fronte alla legge.

L’A.N.M. è divenuta, con il tempo, un luogo di esercizio del potere, con scambi

di ruoli tra magistrati che oggi ricoprono incarichi associativi, domani siedono

al C.S.M., dopodomani ai vertici del ministero e poi, magari, finito il "giro", si

trovano a ricoprire posti apicali ai vertici degli uffici giudiziari. È uno spettacolo

che per quanto mi riguarda è divenuto riprovevole. Anche io, per un periodo,

ho pensato, lottando non poco come tutti i miei colleghi sanno, di poter

contribuire a cambiare, dall’interno, l’associazionismo giudiziario, ma non è

possibile non essendoci più alcun margine. Lascio, pertanto, l’A.N.M., donando

il contributo ad associazioni che, nell’impegno quotidiano antimafia, cercano di

garantire l’indipendenza concreta della magistratura molto meglio

dell’associazionismo giudiziario. Non vi è dubbio che anche il Consiglio

Superiore della Magistratura, composto da membri laici, espressione dei partiti,

e membri togati, espressione delle correnti, non può, quindi, non risentire dello

stato attuale della politica e della magistratura associata. I magistrati debbono

avere nel cuore e nella mente e praticare nelle loro azioni i principi

costituzionali ed essere soggetti solo alla legge. So bene che all’interno di tutte

le correnti dell’A.N.M. vi sono colleghi di prim’ordine, ma questo sistema di

funzionamento dell’autogoverno della magistratura lo considero non più

tollerabile. Il C.S.M. deve essere il luogo in cui tutti i magistrati si sentano,

effettivamente, garantiti e tutelati dalle costanti minacce alla loro

indipendenza. Non è possibile assistere ad indegne omissioni o interventi

inaccettabili dell’A.N.M., come ad esempio negli ultimi mesi, su vicende

gravissime che hanno coinvolto magistrati che, in prima linea, cercano di

adempiere solo alle loro funzioni: da ultimo, quello che è accaduto ai colleghi di

Santa Maria Capua Vetere. Non parlo delle azioni ed omissioni riprovevoli – da

parte anche di magistrati, non solo operanti in Calabria – sulla mia vicenda

perché di quello ho riferito alla magistratura ordinaria competente e sono

fiducioso che, prima o poi, tutto sarà più chiaro. Certo, lo spettacolo che mi ha

visto in questi giorni protagonista, in un processo disciplinare che mi ha

lasciato senza parole, ha contribuito a radicare in me la convinzione che questo

sistema ormai è divenuto inaccettabile per tutti quei magistrati che ancora

sentono e amano profondamente questo mestiere e che siamo ormai al

capolinea. Io sono orgoglioso – sembrerà paradossale – che questo C.S.M. mi

abbia inflitto la censura con trasferimento d’ufficio. Era proprio quello che mi

aspettavo. Ed anche scritto, in tempi non sospetti. Ho già detto, ad un mio

amico antiquario, di farmi una bella cornice: dovrò mettere il dispositivo della

sentenza dietro la scrivania del mio ufficio ed indicare a tutti quelli che me lo

chiederanno le vere ragioni del mio trasferimento. La mia condanna

disciplinare è grave e infondata, nei confronti della stessa farò ricorso alle

sezioni unite civili della Suprema Corte di Cassazione confidando in giudici

sereni, onesti, imparziali, in poche parole giusti. La condanna è, poi, talmente

priva di fondamento, da ogni punto di vista, che la considero anche

inaccettabile. Mi viene inflitta la censura, devo lasciare Catanzaro ed

abbandonare le funzioni di pubblico ministero in sostanza perché non ho

informato i miei superiori in alcune circostanze e perché ho secretato un atto

solo ed esclusivamente per salvaguardare le indagini ed evitare che vi fossero

propalazioni esterne che danneggiassero le inchieste; senza, peraltro, tenere

conto delle gravissime ragioni che hanno necessariamente ispirato alcune mie

condotte. Troppo zelo, troppi scrupoli, troppo amore per questo mestiere. Del

resto il procuratore generale che rappresentava l’accusa in giudizio, nel

rimproverarmi, definendomi anche birichino, ha detto che concepisco le mie

funzioni come una missione. Ebbene, questa decisione, a mio umile avviso,

contribuisce ad affievolire l’indipendenza della magistratura, conduce ad

indebolire i valori ed i principi costituzionali, ci trascina verso una magistratura

burocratizzata ed impaurita sotto il maglio e la clava del processo disciplinare.

Il rappresentante della Procura generale della Cassazione in udienza, il dr Vito

D’Ambrosio, ex politico, il quale per circa dieci anni è stato anche presidente

della Giunta della Regione Marche, ha sostenuto, durante il processo,

sostanzialmente, che non rappresento, in modo adeguato, il modello di

magistrato. Ed invero, il modello di magistrato al quale mi sono ispirato è

quello rappresentato da mio nonno magistrato (che ha subito anche due

attentati durante l’espletamento delle funzioni), da mio padre (che ha condotto

processi penali di estrema importanza in materia di terrorismo, criminalità

organizzata e corruzione), dai miei magistrati affidatari durante il tirocinio, dai

tanti colleghi bravi e onesti conosciuti in questi anni, da quello che ho potuto

apprendere ed imparare, sulla mia pelle in contesti ambientali anche molto

difficili, dall’esperienza professionale nell’esercizio di un mestiere al quale ho

dedicato, praticamente, gran parte della mia vita.

Il mio modello è la Costituzione repubblicana, nata dalla resistenza. Il modello

"castale" e del magistrato "burocrate" non mi interessa e non mi apparterrà

mai, nessuna "quarantena" in altri uffici, nessun "trattamento di recupero"

nelle pur nobili funzioni giudicanti, potrà mutare i miei valori, né potrà far

flettere, nemmeno di un centimetro, la mia schiena. Sarò sempre lo stesso,

forse, debbo a questo appunto ammetterlo, un magistrato che per il "sistema"

è "deviato ed eversivo". Pertanto, questa sentenza è, per me, la conferma di

quello che ho visto in questi anni ed un importante riscontro professionale alla

bontà del mio lavoro. Certo è una sentenza che nella sua profonda ingiustizia è

anche intrinsecamente mortificante. Imporre ad un pubblico ministero, che si

sa che ha sempre professato e praticato l’amore immenso per quel mestiere, di

non poterlo più fare – sol perché ha "osato", in pratica, indagare un sistema

devastante di corruzione e cercato di evitare che una "rete collusiva"

ostacolasse il proprio lavoro e, quindi, condannandolo per avere, in definitiva,

rispettato la legge – è un po’ come dire ad un chirurgo che non può più

operare, ad un giornalista di inchiesta che deve occuparsi di fiere in campagna,

ad un investigatore di polizia giudiziaria che deve pensare ai servizi

amministrativi. Farò di tutto, con passione ed entusiasmo intatti, nei prossimi

mesi, per dimostrare quanto ingiusta e grave sia stata questa sentenza e che

danno immane abbia prodotto per l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati,

ed anche e soprattutto per la Calabria, una terra (che continuerò sempre ad

amare comunque finisca questa "storia") che aveva bisogno di ben altri

"segnali" istituzionali. Lavorerò ancor più alacremente nei prossimi mesi –

prima del mio probabile allontanamento "coatto" dalla Calabria – presso la

Procura della Repubblica di Catanzaro per condurre a termine le indagini più

delicate pendenti. Non mi sottrarrò ad eventuali dibattiti pubblici anche tra i

lavoratori, tra gli operai, tra gli studenti, nei luoghi in cui vi è sofferenza di

diritti, per contribuire – da cittadino e da magistrato, con la mia forza interiore

– al consolidamento di una coscienza civile e per la realizzazione di un tessuto

connettivo sinceramente democratico. Il Paese deve, comunque, sapere che vi

sono ancora magistrati che con onore e dignità offrono una garanzia per la

tutela dei diritti di tutti (dei forti e dei deboli allo stesso modo) e che non si

faranno né intimidire, né condizionare, da alcun tipo di potere, da nessuna

casta, esercitando le funzioni con piena indipendenza ed autonomia, in una

tensione ideale e morale costituzionalmente orientata, in ossequio, in primo

luogo, all’art. 3 della Costituzione repubblicana.

La lotta per i diritti è dura e forse lo sarà sempre di più nei prossimi mesi: nelle

istituzioni e nel Paese vi sono ancora, però, energie e valori, anche importanti.

Si deve costruire una rete di rapporti – fondata sui valori di libertà,

uguaglianza e fratellanza – che impedisca all’Italia di crollare definitivamente

proprio sul terreno fondamentale dei diritti e della giustizia. È il momento che

ognuno faccia qualcosa – in questa devastante deriva etica e pericoloso

decadimento dei valori – divenendo protagonista per contribuire al bene della

collettività e del prossimo, non lasciando l’Italia nelle mani di manigoldi,

affaristi e faccendieri.