BOMBARDA

Premessa: i perché di questa campagna

"Taglia le ali alle armi" è una campagna di mobilitazione e pressione da parte dell’opinione pubblica che si pone l’obiettivo di non far acquistare al nostro Paese i previsti 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter F-35 con capacità di trasporto di ordigni nucleari e un costo (di solo acquisto) che si aggira sui 15 miliardi di euro. Anche se il Governo tiene bloccata da tempo (almeno dalla fine 2009) la decisione definitiva, l’Italia a breve potrebbe perfezionare l’acquisto: il recente annuncio del Ministro Di Paola di riduzione a 90 esemplari non significa nulla poiché nessun contratto è ancora stato firmato e possiamo quindi fermare completamente questo acquisto (anche perchè la proposta ristrutturazione della Difesa deve passare per una discussione parlamentare).

Quello del caccia F-35 è un programma che ad oggi ci è costato già 2,7 miliardi di euro ne costerà - in caso di acquisto di 131 aerei - almeno altri 15 solo per l’acquisto dei velivoli, che potrebbero scendere a 10 miliardi con una riduzione a 90 (il prezzo unitario si alzerà, secondo l’azienda produttrice Lockheed Martin). Complessivamente arriveremo arrivando ad un impatto tra i 15 e i 20 miliardi nei prossimi anni. Senza contare il mantenimento successivo di tali velivoli.

L’Italia è quindi in gioco, come partner privilegiato, nel più grande progetto aeronautico militare della storia, costellato di problemi, sprechi e budget sempre in crescita, mentre diversi altri paesi partecipanti - tra cui Gran Bretagna, Norvegia, Olanda, Danimarca e gli stessi Stati Uniti capofila! - hanno sollevato dubbi e rivisto la propria partecipazione. In questo periodo di crisi e di mancanza di risorse per tutti i settori della nostra società, diviene perciò importante effettuare pressione sul Governo italiano affinché decida di rivedere la propria intenzione verso l’acquisto degli F-35, scegliendo altre strade più necessarie ed efficaci sia nell’utilizzo dei fondi (verso investimenti sociali) sia nella costruzione di un nuovo modello di difesa. L’esempio del programma Joint Strike Fighter deve quindi servire come emblema degli alti sprechi legati alle spese militari e della necessità di un forte taglio delle stesse verso nuovi investimenti più giusti, sensati, produttivi.

Per questo noi diciamo:

NO allo spreco di risorse per aerei da guerra sovradimensionati e contrari allo spirito della nostra Costituzione

SI all’utilizzo di questi ingenti risorse per le necessità vere del paese: rilancio dell’economia, ricostruzione dei luoghi colpiti da disastri naturali, sostegno all’occupazione

NO alla partecipazione ad un programma fallimentare anche nell’efficienza: il costo per velivolo è già passato (prima della produzione definitiva) da 80 milioni di dollari a 130 milioni di dollari (dati medi sulle tre tipologie)

SI all’investimento delle stesse risorse per nuove scuole, nuovi asili, un sostegno vero all’occupazione, l’investimento per la ricerca e l’Università, il miglioramento delle condizioni di cura sanitaria nel nostro Paese

NO al programmi militari pluriennali e mastodontici, pensati per contesti diversi (in questo caso la guerra fredda) ed incapaci garantire Pace e sicurezza

SI all’utilizzo delle risorse umane del nostro Governo e delle nostre Forze Armate non per il vantaggio commerciale dell’industria bellica, ma per la costruzione di vera sicurezza per l’ItaliaCampagna "Taglia le ali alle armi"

NO al soggiacere delle scelte politiche agli interessi economici particolari dell’industria a produzione militare e dei vantaggi che essa crea per pochi strati di privilegiati

SI al ripensamento della nostra difesa nazionale come strumento a servizio di tutta la società e non come sacca di privilegi e potere

La campagna però si pone anche l’obiettivo del disarmo con una forte riduzione delle spese militari al fine di arrivare ad una difesa rispondente al nostro dettato Costituzionale che prevede il ripudio della guerra per la soluzione delle controversie internazionali. Per rispondere alla seconda parte dell’articolo 11 della Costituzione, cioè promuovere le organizzazioni internazionali che assicurino la pace e la giustizia tra le nazioni secondo noi occorre creare corpi di polizia affiancati da corpi civili di pace in ambito sia di Nazioni Unite che di Unione Europea.

L’alternativa, come in tutte le cose c’è, non è vero che se non vogliamo l’F35 non vogliamo difenderci o vogliamo declassare il prestigio del nostro Paese. Dove sta scritto che il prestigio internazionale derivi dallo sfoggiare portaerei e cacciabombardieri, dove sta scritto che l’eccellenza ci deve essere solo in campo militare (perché non in quello sanitario). Ci dicono che dobbiamo rispettare gli impegni internazionali, ma non ce lo dicono quando non lo facciamo per la cooperazione allo sviluppo, dove siamo il fanalino di coda dei paesi donatori.

Ma l’F35 lo abbiamo preso di mira anche perché è l’esempio palese di come in nome della "difesa della nazione" si sperperano soldi pubblici che arrivano dalle tasche di noi contribuenti. Quindi un discorso che va oltre le questioni della difesa o dell’etica della pace, ma riguardano l’amministrazione del bene pubblico.

In questo opuscolo vogliamo fornirvi tutti gli elementi per permettervi di "indignarvi" di fronte a questa scelta poco strategica per la nostra difesa, inutile e costosa, e magari attivarvi con le varie modalità previste dalla campagna per chiedere al nostro Governo un ripensamento sull’acquisto dell’F35.

I motivi e le prospettive della campagna nell’ottica delle tre organizzazioni promotrici.

Sbilanciamoci!

Da anni Sbilanciamoci! mette al centro della sua iniziativa la riduzione delle spese militari e la riconversione civile dell’economia come due proposte centrali di un uso diverso della spesa pubblica e di un modello di sviluppo nuovo, ecologicamente sostenibile e socialmente equo. Soprattutto in un momento come questo -di grave crisi economica e finanziaria, di cui pagano le conseguenze le fasce più deboli della popolazione è necessario ripensare il nostro modello di difesa, il ruolo internazionale dell’Italia e la dimensione delle Forze Armate. In questi mesi sono state colpite le spese sociali, i trasferimenti agli enti locali, gli stanziamenti per l’ambiente, ma le spese militari sono state solamente sfiorate. Si tratta di porre questo problema non solo in ambito italiano, ma in un contesto europeo. E’ necessario -secondo Sbilanciamoci- avviare una politica di disarmo su scala europea ed ottimizzare risorse e mezzi di paesi che comunque agiscono come alleati nelle missioni internazionali di pace. Nello stesso tempo -per Sbilanciamoci- è tempo che il nostro paese si dia una politica di pace e non solo di disarmo: per questo chiediamo maggiori finanziamenti alle politiche pubbliche di cooperazione allo sviluppo fino allo 0,7% del PIL -come richiesto anche dalle Nazioni Unite in numerose occasioni- e poi un ruolo delle Forze Armate all’estero rigorosamente rispettoso dell’art. 11 della Costituzione (L’Italia ripudia la guerra) e della Carta delle Nazioni Unite: autentiche missioni di pace e non interventi Campagna "Taglia le ali alle armi"

militari camuffati da missioni umanitarie.

Si tratta poi di spezzare il persistente connubio di interessi tra industria militare, commesse pubbliche e Forze Armate, che tante vicende oscure ha causato, come dimostra anche la recente storia di Finmeccanica. Accentuare i controlli sul commercio e traffico delle armi e sostenere con maggior forza i processi di riconversione dell’industria militare sono per noi due importanti priorità. Infine, per la campagna Sbilanciamoci, è importante tenere collegato l’impegno per la riduzione delle spese militari con la necessità di interventi più incisivi contro la crisi economica, cercando di fronteggiarne gli effetti sociali più drammatici. Mai come oggi è necessario "svuotare gli arsenali e riempire i granai", mettendo al centro i diritti e i bisogni delle persone e promuovendo politiche di educazione e di cultura della pace, sostenendo il servizio civile dei giovan i, falcidiato in questi mesi dalla riduzione dei finanziamenti. Ecco perchè, per Sbilanciamoci, bloccare la produzione e l’acquisizione dei cacciabombardieri F35 diventa una questione cruciale: si tratta di un grandissimo spreco per dei sistemi d’arma funzionali a fare la guerra e che niente hanno a che fare con la difesa del paese e con la nostra presenza in autentiche missioni internazionali di pace. In questo momento di crisi economica gli F35 sono veramente uno schiaffo alle persone che perdono il posto di lavoro, non arrivano con il loro stipendio alla fine del mese, non hanno accesso ai servizi e ai diritti fondamentali.

Queste le proposte della campagna Sbilanciamoci nello specifico (dal Rapporto 2012)

Riduzione delle spese militari. Chiediamo la riduzione di 3miliardi di euro della spesa militare. Questo potrebbe avvenire grazie alla la riduzione degli organici delle forze armate a 120 mila unità e ad una integrazione – con economie di scala – dentro la cornice europea e delle Nazioni Unite, naturalmente prevedendo un ruolo delle Forze Armate legato ad autentici compiti di prevenzione dei conflitti e mantenimento della pace e rifiutando ogni interventismo militare.

Riduzione dei programmi di armamenti. Chiediamo al governo italiano di non firmare il contratto per la produzione dei 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter, questo porterebbe ad un risparmio di 14 miliardi di euro in 15 anni. La cancellazione di questa produzione, e l’eliminazione dei finanziamenti previsti per il 2012 per la costruzione dei 4 sommergibili FREMM e delle due fregate "Orizzonte". Risparmio previsto: 783 milioni di euro.

No ai militari nelle città. Chiediamo di concludere l’esperienza della presenza e del pattugliamento delle nostre città ad opera di personale delle forze armate e chiediamo che gli stessi fondi (72 milioni di euro) vengano impiegati per pagare gli straordinari al personale delle forze di pubblica sicurezza. Concludere l’esperienza dei militari nelle città ed investire i soldi risparmiati per pagare gli straordinari alle forze di polizia: risparmio di 72,8 milioni di euro.

Cancellare il programma "Vivi le Forze Armate. Militare per tre settimane". Chiediamo che questa nuova iniziativa del Ministero della Difesa venga cancellata e le risorse risparmiate (20 milioni di euro) vadano ad incrementare il fondo per il servizio civile nazionale. Cancellando il programma si prevede un risparmio di 20 milioni di euro in 3 anni da utilizzare per l’arruolamento dei volontari.

Riduzione Forze Armate. Ridurre le Forze Armate di almeno 60.000 unità portandole a 120.000 (uomini e donne): per gli esuberi occorre prevedere un prepensionamento per il personale in età avanzata e per il restante, dopo una specifica formazione, il passaggio alla Protezione Civile ed alle forze di Pubblica Sicurezza, risparmio 3 miliardi di euro.

Caserme dismesse ad uso sociale. Proponiamo un vincolo della destinazione d’uso delle caserme e di altri siti militari dismessi ad uso civile (attualmente la manovra finanziaria prevede la vendita ai privati con destinazione delle risorse al Ministero della Difesa) e comunque attraverso una co-decisione delle comunità locali. Gli immobili non utilizzati dalla Difesa, spesso anche strutture di notevole pregio, in quanto demanio pubblico, non devono servire per produrre introiti alle Forze Armate, ma essere rese disponibili alla collettività tramite gli enti locali, anch’essi vincolati a non utilizzarli solo per fare "cassa".

Riconversione industria militare. Chiediamo una legge nazionale per la riconversione dell’industria militare e la costituzione di un fondo annuale di 200 milioni di euro per sostenere le imprese impegnate nella riconversione da produzioni di armamenti a produzioni civili.

Ritiro dall’Afghanistan. Chiediamo il ritiro delle truppe italiane dalla missione in Afghanistan (il ruolo e la presenza dell’Isaf sono strettamente intrecciati ad Enduring Freedom in una funzione bellica e di lotta militare al terrorismo) e da tutte quelle missioni internazionali che non abbiano la copertura e il sostegno delle Nazioni Unite. Questa misura farebbe risparmiare 616 milioni di euro alle casse pubbliche. Ritirando le nostre truppe militari dall’Afghanistan e intensificando, con i fondi risparmiati, la presenza della cooperazione per la ricostruzione del Paese, porterebbe un risparmio di 800 milioni di euro.

Servizio civile. Chiediamo di riportare ad almeno 300 i milioni destinati al servizio civile nazionale. La riduzione operata dal governo a 68 milioni garantisce solo ad una modesta parte dei giovani òa possibilità di svolgere questo servizio, mentre proprio grazie all’impegno dei giovani nel servizio civile si possono offrire servizi socialmente utili a centinaia di migliaia di persone nel nostro paese.

Corpi di pace. Lavorare per una riforma democratica delle Nazioni Unite e per una difesa europea che includano anche i corpi civili di pace negli interventi di promozione e mantenimento della pace: collocare buona parte dei nostri militari e dei sistemi d’arma alle dipendenze di queste istituzioni sopranazionali e ridurre il contingente nazionale.

Tavola della Pace

Basta un po’ di buon senso.

Gli F-35 sono diventati un simbolo. Il simbolo dell’arroganza dei militari che pretendono di decidere quali armi dobbiamo comprare senza alcun vero dibattito democratico. Il simbolo dell’ottusità di tanti politici che li sostengono "a prescindere". Il simbolo dell’indifferenza di tutti quelli che preferiscono "non mettersi contro questa lobby militare, industriale e politica". Il simbolo delle peggiori guerre in cui questi signori ci vogliono continuare a trascinare seminando morte e distruzione. Il simbolo delle spese militari che non hanno mai smesso di crescere. Il simbolo degli sprechi più eclatanti che questo paese continua a tollerare nonostante la crisi e i sacrifici imposti a tanta parte degli italiani.

Contro questo simbolo noi non abbiamo bisogno di scomodare i principi e i valori che sono iscritti nella nostra Costituzione e nella Carta dell’Onu o nel diritto internazionale dei diritti umani in cui crediamo. Ci basta invitare tutti ad usare il buon senso: a che ci serve comperare queste spaventose macchine da guerra? Dove e quando pensiamo di impiegarle? Quanto ci costa comprarle? Quanto ci costa mantenerle? Cosa potremmo fare con gli stessi soldi? Il giorno in cui un parlamentare o un giornalista inchioderà i fan degli F-35 a queste domande capiremo tutti che avevamo ragione ad opporci.

Acquistare questi bombardieri è illegale, sbagliato e dannoso. Illegale perché queste sono indiscutibilmente "armi da guerra" e la guerra è proscritta sia dalla nostra Costituzione che dal diritto internazionale. Sbagliato perché non solo non contribuiranno in alcun modo alla nostra sicurezza ma finiranno col ridurla. Dannoso perché quei soldi, diversamente impiegati, avrebbero contributo a creare lavoro e a rilanciare lo sviluppo del paese.

La sicurezza è un bene pubblico che deve essere garantito dalle risorse del bilancio dello stato alla pari della salute, dell’istruzione, della giustizia, ecc. Ma così come non c’è un solo modo di garantire la salute, l’istruzione e la giustizia così non c’è un solo modo di garantire la sicurezza dell’Italia e degli italiani. I fan degli F-35 sono prigionieri di una concezione della sicurezza che oggi si dimostra del tutto inadeguata. Niente è più inutile di un cacciabombardiere, una portaerei o un sommergibile per proteggere i cittadini dalla disoccupazione, dalle alluvioni, dalle mafie, dal terrorismo e dalla malavita, dall’illegalità e dalla corruzione, dall’inquinamento o dalla sofisticazione alimentare. Eppure continuiamo a comprare armi costosissime e lasciamo i poliziotti senza benzina e la protezione civile senza risorse.

Le nostre spese per la sicurezza sono fortemente squilibrate a favore di un modello militare anacronistico, insostenibile e inutilmente offensivo mentre i problemi della sicurezza oggi esigono una pluralità di strumenti in gran parte preventivi e non militari. Il minimo che bisogna fare è riequilibrare in modo intelligente la spesa per la sicurezza ricordandoci che investire sulla cooperazione, sulla diplomazia (non solo quella dei governi ma anche quella delle città e dei popoli) e sull’intelligence è molto più efficace e redditizio che continuare a comprare costosissime macchine da guerra e mantenere in vita un mastodontico esercito di 180.000 uomini.

sicurezza degli italiani, dell’Europa e del resto del mondo.

Per anni abbiamo chiesto che le spese militari fossero messe sul tavolo della discussione alla pari di tutte le altre spese dello stato senza che nessuno ci desse ascolto. Finalmente, il 15 febbraio 2012, le spese militari sono arrivate sul tavolo del Parlamento. In tutti gli altri paesi democratici è la normalità. Da noi è un evento. La macchina militare italiana è una vera e propria macchina mangiasoldi che costa molto e serve a poco. Non ci sono solo gli F-35 da rivedere, ci sono anche tanti altri aerei, le portaerei, i carri armati e tanti, tanti sprechi. 24 miliardi di euro sono una somma enorme e ogni tentativo di censurare o limitare la discussione su questi soldi non è solo un attentato alla democrazia ma un grande ostacolo posto sulla via di uscita dalla crisi.

Ora si deve dire con chiarezza quanti soldi spendiamo, come e dove li spendiamo. Quanti ne abbiamo spesi in passato e per fare cosa. Quanti ne spendiamo oggi e quanti prevediamo di spendere in futuro. Perché li dobbiamo spendere e con quali obiettivi. Basta con i giochetti delle cifre e delle verità nascoste. Il Parlamento deve esigere trasparenza, la deve ottenere e la deve restituire agli italiani in modo che essi per primi possano scegliere responsabilmente. Allo stesso modo deve agire il mondo dell’informazione, e in particolare la Rai, il nostro servizio pubblico, che non ha mai dedicato una sola trasmissione all’apertura di questo dibattito pubblico.

Da rivedere immediatamente sono anche le missioni militari nel mondo, a partire da quella in corso in Afghanistan, e più in generale, la politica estera dell’Italia. Basta con l’ipocrisia e gli imbrogli. Ci sono tanti modi per costruire la pace e le missioni militari non sono tutte uguali. Un conto è il Libano e un conto è l’Afghanistan. Nessuno ci impone di fare quello che stiamo facendo, né l’Onu né l’Unione Europea e neanche la Nato visto che anche in quel contesto paesi più piccoli del nostro si comportano diversamente. Non ci si venga più a dire questo è "uno dei fiori all’occhiello della politica estera italiana". Il nostro "status" internazionale non dipende da quanto spendiamo per fare la guerra ma da quanto ci impegniamo a risolvere i problemi comuni che stanno rendendo il mondo sempre più fragile e insicuro. Nel 2010, nel mezzo di una gravissima crisi economica mondiale mentre si tagliano tutti i fondi per rispondere a tutte le emergenze e le crisi strutturali globali, carestie, fame, miseria, cambio climatico, pandemie, la spesa militare mondiale ha raggiunto la cifra record di 1.630 miliardi di dollari. Nel frattempo il numero di persone che soffre le pene della fame è salito oltre il miliardo. Una persona su sette che vive sulla terra è in questa condizione disperata e altre tre sopravvivono nella miseria. E pensare che con solo 44 miliardi di dollari (cifre certe e ufficiali) si potrebbe cancellare la fame nel mondo...

Perché analizzare il programma Joint Strike Fighter F-35? Perchè mettersi d’impegno ad organizzare una campagna lunga, difficile, su un tema che prima del 2012 non veniva considerato degno di nota praticamente da nessuno? Perchè l’evoluzione (sia come programma internazionale, che per le sue articolazioni prettamente italiane) di questo progetto è l’emblema ed esempio perfetto delle spese militari e della modalità di acquisizione ("procurement") dei sistemi d’armamento. Con tutte le contraddizioni possibili, gli sprechi e le inutilità; oltre che - ovviamente - con tutto l’impatto negativo nei confronti delle spese sociali e degli investimenti che realmente sarebbero importanti e necessari per il nostro paese.

Ormai il nome è famoso (o famigerato) quasi per tutti: il cacciabombardiere d’attacco Joint Strike Figher F-35 e (soprattutto) i suoi costi sono arrivati all’attenzione dell’opinione pubblica. Colpendo l’immaginario di chi, magari non essendoselo mai chiesto, ha scoperto come le spese per un programma di armamento possano essere enormi (e sempre in crescita). Particolarmente se paragonate con i tagli di bilancio per aree come sanità, istruzione e welfare in un periodo di grande crisi economico-finanziaria.

Questo cacciabombardiere sembra quindi incarnare i problemi e le storture di qualsiasi programma militare di produzione e vendita di "sistema d’arma": non lo abbiamo messo sotto la lente di ingrandimento perché particolarmente antipatico rispetto ad altri o perché statunitense (come invece qualcuno ha insinuato). Ma il suo essere il maggior programma d’armamento della storia e la concentrazione in un unico progetto di problemi di diversa natura (tecnica, industriale, di costo) spinti tutti all’estremo grado ne fa il perfetto simbolo, soprattutto per le campagne e le associazioni dell’area del disarmo, degli sprechi e dei meccanismi connaturati al mondo degli armamenti e delle spese militari.

Le quali sono un tipo di impiego di denaro pubblico già di per sé inefficiente e che in Italia, oltre ad essere abbastanza opache, necessita di stampelle varie (in particolare il "decreto missioni") per poter mantenere vivo un comparto, quello della Difesa, caratterizzato da disequilibri forti tra spese per il personale ed investimento/esercizio. E che subisce soprattutto l’impatto dell’acquisti dei diversi sistemi d’arma, che per loro natura sono plueriennali e quindi bloccano i bilanci per molto tempo con acquisizioni spesso sovradimensionate e che fanno esplodere i costi ben oltre le previsioni iniziali (anche per il meccanismo di scelta attuale, che vedremo).

Per sottolineare la problematicità di questi costi non fruttiferi, che anzi distolgono fondi da impieghi che sarebbero maggiormente utili, il "caso F-35" è perfetto e quindi la mobilitazione per impedirne l’acquisto da parte del nostro paese non deve essere vista come un’azione circoscritta ma anche come una strada di sensibilizzazione a tutto tondo. Non comprare i 131 cacciabombardieri d’attacco previsti potrebbe perciò essere il primo passo per un’inversione di tendenza forte e verso una strada nuova di costruzione di una difesa reale per i cittadini italiani (fatta di protezione del lavoro e rafforzamento del welfare) con una vera sicurezza basata sulla pace e non sulle armi.

Per capire meglio alcune cose riguardo il progetto dell’F35 facciamo un piccolo passo indietro cercando di far memoria della storia.

Il Programma EFA, rientrante tra i programmi pluriennali di armamento del Ministero della Difesa realizzati nell’ambito della cooperazione internazionale, è finalizzato alla realizzazione dell’Eurofighter 2000, un velivolo intercettore destinato a sostituire il modello F-104 in dotazione alla nostra Aeronautica. Lanciato nel 1986 con la partecipazione, oltre all’Italia, di Gran Bretagna, Repubblica Federale Tedesca e Spagna, ha visto l’effettivo inizio della prima delle sue cinque fasi nel 1988; secondo le originarie previsioni, la fase di industrializzazione avrebbe dovuto iniziare nel 1993, e le prime consegne dei velivoli prodotti essere effettuate nel 1996. A causa di problemi di ordine tecnico oltre che politico-finanziario, è stato tuttavia necessario un "ri-orientamento" del Programma nel 1994, la fase di industrializzazione è in realtà iniziata nel 1998, e le prime consegne sono avvenute nel 2003.

Questo ha fatto si che l’Amministrazione della Difesa fosse costretta all’acquisizione temporanea di aerei intercettori TORNADO (Gran Bretagna 1994), e successivamente F-16 (Stati Uniti 2001). Per questo la Corte dei Conti è intervenuta più volte per censurare tale progetto che ha visto allungare i tempi di produzione, incrementare i costi sui quali la Corte ha fatto ricadere anche quelli dei Tornado e degli F-16. costati 2000 miliardi di lire pagati attraverso stanziamenti ordinari del bilancio del Ministero della Difesa la cui attività di spesa corrente è stata in tal modo pesantemente ed a lungo vincolata. Oggi, anche per una incompatibilità economica con l’F35 si taglia la tranche 3B dell’Eurofighter, 25 velivoli rispetto all’impegno di acquisto di 121 velivoli al costo di oltre 18 miliardi di euro. E’ stata anche fatta un’offerta alla Romania per l’acquisto di 24 caccia della prima tranche al costo di un miliardo di euro, per tentare di salvare in parte la tranche 3B. Possiamo quindi tranquillamente dire, come avevamo denunciato sin dal suo avvio, che questo progetto non è stato un buon affare per i contribuenti italiani. Non contenti dell’esperienza dell’EF2000 adesso ci gettiamo a capofitto su un progetto dalle premesse peggiori: il Joint Strike Fighter.

Obiettivo di questo report prodotto dalla campagna "Taglia le ali alle armi" è quello di smascherare tutte le bugie e imprecisioni che il Ministero della Difesa ha riportato ad opinione pubblica e Parlamento al fine di difendere la propria scelta di acquisto dei caccia F-35. Perchè noi riteniamo che qualsiasi decisione (indipendentemente dalla prospettiva di partenza di ciascuno) si debba prendere solo sulla base di dati certi e documentazione attendibile.

 

Che cos’è il Joint Strike Fighter (F-35)

Il Joint Strike Fighter (F35) è un caccia multiruolo di quinta generazione. Il progetto è faraonico, forse troppo, l’F35 è un aereo da combattimento monomotore, monoposto, in grado di operare alla velocità del suono, ma con una velocità di crociera subsonica. E’ ottimizzato per il ruolo aria terra (quindi per l’attacco) ed ha due stive interne per le bombe che possono essere anche di tipo nucleare, con possibilità di proiezione in profondità. E’ un velivolo di tipo stealth, cioè a bassa rilevabilità, da parte dei sistemi radar e di altri sensori e avrà la capacità di operare come parte integrante di un "System of system, cioè un sistema dei sistemi ovvero di una combinazione data da combattimento, raccolta di intelligence, sorveglianza dei teatri e delle aree circostanti, ecc. che interagiscono con i sensori terrestri ed aeroportuali.

L’F35 sarà sviluppato in tre versioni: Conventional Take Off and Landing a decollo e atterraggio convenzionali; Carrier Variant, per appontaggio su portaerei tradizionali dotate di catapulta; Short Take Off and Vertical Landing, a decollo corto e atterraggio verticale per portaerei.

Il progetto è realizzato in cooperazione da Stati Uniti ed altri 8 partner: Regno Unito (primo livello con partecipazione finanziaria pari al 10%); Italia ed Olanda (secondo livello, con partecipazione finanziaria pari al 5%) e Canada, Turchia, Australia, Norvegia e Danimarca (terzo livello con una partecipazione finanziaria pari al 1-2%). Si prevede la costruzione di 3.173 aerei, dei quali 2.433 sono per gli USA, l’Italia ha deciso di acquistarne 131.

Stato capo-progetto
U.S.A

2.443

Primo livello di partecipazione 10% di partecipazione finanziaria
Gran Bretagna

138

Secondo livello di partecipazione 5% di partecipazione finanziaria
Italia

131

Paesi Bassi

85

Terzo livello di partecipazione 1% o 2% di partecipazione finanziaria
Australia

100

Canada

80

Turchia

100

Norvegia

48

Danimarca

48

TOTALE

3.173

Il programma Joint Strike Fighter e i suoi problemi

Quello dell’F35 per gli Stati Uniti è il progetto più costoso della storia. Infatti i 2443 velivoli voluti avranno un costo di 323 miliardi di dollari.

Il segretario alla Difesa USA, Leon Panetta ha recentemente annunciato i tagli a cui andrà incontro il Pentagono nei prossimi anni e la revisione di alcuni sistemi d’arma. Nei prossimi 10 anni ci sarà un taglio di 487 miliardi di dollari.

Per quel che riguarda gli F35 gli Stati Uniti hanno deciso di non privarsene, ma non potendo ignorare la crisi economica ne rallenteranno il programma di costruzione ed approvvigionamento. Il Ministro della Difesa Panetta ha spiegato che i numeri restano invariati ma saranno spalmati su un numero maggiore di anni. Da indiscrezioni sembra che questa operazione serva anche a far acquistare i primi velivoli ai paesi partner che così si accollerebbero eventuali problemi di natura tecnica ed avionica dell’aereo.

Le bacchettate del Pentagono e del GAO

Il Governmente Accountability Office (GAO) è un’agenzia indipendente che supporta il Congresso USA nel monitoraggio dell’azione del Governo Federale e delle sue spese; il corrispettivo simile alla nostra Corte dei Conti. Il GAO ha sempre monitorato il progetto del JSF denunciando l’aumento dei costi, i ritardi nella produzione, lo scarso numero di collaudi e veri e propri flop di pezzi collaudati. Nell’ultimo rapporto del 2010 il Gao denuncia che i costi del programma per l’Amministrazione USA sono cresciuti dai 231 miliardi di dollari del 2001 fino ai 276,5 del 2007, raggiungendo nel budget 2011 un costo complessivo di 322,6 miliardi di dollari. Al lievitare dei costi, corrisponde anche una crescita dei tempi di realizzazione. Infatti ad oggi tutte la fasi previste hanno presentato forti ritardi. Anche il costo medio per un velivolo risulta significativamente aumentato da 81 milioni di dollari a 131 milioni di dollari, tanto da prefigurare la necessità, alla luce del Nunn-Mc Curdy Amendment, di effettuare un’apposita comunicazione al Congresso. Ed il rischio di essere annullato.

Dopo la diffusione del rapporto del GAO è iniziato un braccio di ferro fra il Dipartimento della Difesa e la Lochkeed Martin il primo chiede di modificare il contratto e trasformarlo a prezzo fisso, per non far ricadere i futuri incrementi dei costi sull’amministrazione pubblica e il secondo propone il taglio del 20% del prezzo. Ulteriore dimostrazione che i costi continueranno a lievitare.

Il recente rapporto elaborato da alti ufficiali del Dipartimento della Difesa USA nominato "F-35 Joint Strike Fighetr Concurrency Quick Look Review" denuncia impietosamente la mole di guai del programma. Tra i più preoccupanti, quello del meccanismo di aggancio di coda che ha fallito tutti e 8 i test di atterraggio e a questo punto richiederebbe significativi cambi di progettazione che potrebbero portare addirittura a ripensare la struttura del velivolo stesso. Stiamo parlando della versione F35B, quindi quello chiesto per la nostra portaerei Cavour. Solo nel mese di ottobre del 2011 ci sono state 725 diverse richieste di modifica in attesa di essere evase. Queste cifre sono indicative del grande volume di cambiamento ancora in corso su questo programma e il povero stato di avanzamento generale.Campagna "Taglia le ali alle armi"

Un programma con il segreto "di Pulcinella"

Lo sviluppo caotico e costoso di questo programma, osannato dai paladini della tecnologia avanzata e computerizza, ha subito una quantità di attacchi informatici tali da diventare un caso di Cyber Theft. I furti informatici hanno colpito il software dell’F-35 scritto per garantire un dominio elettronico dello spazio di battaglia.

La complessità tecnologica di questo sistema di guerra dovrebbe attuare il concetto di Network Centrik Warfare, il Sistema dei Sistemi che affida alle forze aeree un ruolo determinante, attraverso un cervello centrale (Integrated Core Processor) che integra tutti i sistemi elettronici da mostrare al pilota.

La tecnologia internet ha mostrato l’altra faccia della medaglia, poichè si possono subire furti informatici riguardanti non solo la proprietà del capitale intellettuale, ma l’operabilità stessa di un sistema che si affida a sofisticate tecnologie. La stessa tecnologia stealth, che non è solo trattamenti superficiali di copertura e forma del velivolo, ma segnali mandati dall’aereo ai radar nemici, può essere fortemente compromessa.

Gli altri partner tagliano

Dopo la crisi economica della Grecia alcuni Governi europei hanno deciso di tagliare anche le spese militari, come la Gran Bretagna che ha annunciato un taglio dell’8% pari a 5 miliardi e 300 milioni di euro in 4 anni. La Francia taglia invece del 15% le sue spese risparmiando 5 miliardi in tre anni, mentre la Germania ha deciso di risparmiare 4,3 miliardi di euro, pari al 13,9% delle sue spese militari.

In particolare la Gran Bretagna con lo Strategic Defence and Security Revue, che è il suo piano decennale per la difesa, ha deciso di eliminare la tranche 3B dell’Eurofighter e di rinunciare alla versione F35B STOVL a decollo corto e di acquistare solo la versione C. A questo punto restano in campo per l’acquisto della versione B gli USA con 348 velivoli e l’Italia con 62. Oltretutto l’F35B è quella che sta incontrando maggiori difficoltà nello sviluppo tanto che il Segretario di Stato alla Difesa USA Gates nel gennaio 2011 ha concesso due anni per la soluzione dei problemi di prestazione, costi e tempi di realizzazione, passati i quali si procederà alla sua cancellazione.

L’Australia andrà a decidere nel 2012 se continuare l’acquisto di 100 F35 (controvalore 16,8 miliardi di dollari) o cercare un’alternativa realistica proprio per i ritardi nelle consegne e per il continuo lievitare dei costi. Le ultime notizie segnalano un pre-acquisto di 2 o 3 prototipi ed un blocco di ulteriori 12 velivoli invece previsti dagli accordi del 2007.

Il Canada ha chiesto al suo Parliamentary Budget Officer di condurre uno strudio sulla partecipazione al JSF. Il PBO ha stimato un costo complessivo per il Paese di 29,3 miliardi USA, compreso il mantenimento operativo. Diviso per i 65 velivoli da comprare si traduce in un costo di circa 450 milioni di dollari (costanti 2009) per tutta la vita dell’aereo. Questo dimostra che il costo di mantenimento di un aereo del genere implica una spesa maggiore del raddoppio dei costi del velivolo. La Danimarca ha deciso di congelato per due anni la sua partecipazione al programma F-35. In attesa di sviluppi e di chiarimenti sui costi e sull’avanzamento avionico e tecnologico del programma. In Norvegia la polemica sull’acquisto ha raggiunto livelli molto alti, soprattutto perché diversi parlamentari hanno lamentato una copertura, da parte dei vertici Campagna "Taglia le ali alle armi"

militari, dei reali costi di acquisto e di gestione.

Un riassunto della situazione di partecipazione al programma dei vari partner è il seguente, e dimostra come le problematiche connesse allo sviluppo del Joint Strike Fighter siano evidentemente gravi e perciò suggeriscano una pausa di riflessione e non certo la decisione di acquisto finale (che sia di 131 o 90 aerei poco conta in tale contesto).

La Gran Bretagna – che è l’unico partner di Livello 1 – ha confermato il rinvio al 2015 della propria decisione sul numero complessivo di F-35 da acquistare rispetto ai 138 previsti in precedenza.

Sempre la Gran Bretagna ha deciso (come si evince dal bilancio 2011 del Ministry of Defence) di rinunciare alla versione a decollo corto e atterraggio verticale, per le sue portaerei e punta solo al modello C convertendo le Queen Elizabeth con cavi d’arresto e catapulte.

Nei Paesi Bassi (come l’Italia è partner di secondo Livello) Il ministro della Difesa, Hans Hillen, dopo la visita alla fabbrica degli F35 a Fort Worth in Texas ha affermato: "Lockheed Martin sa che dovrà lavorare duro per tenerci a bordo" e ha ribadito che "i Paesi Bassi sono ancora divisi riguardo all’acquisto di F-35". Il Partito per la Libertà di Geert Wilders, da cui il governo di minoranza del primo ministro Rutte dipende per il sostegno parlamentare, si oppone agli investimenti multi-miliardi di euro per l’F-35. Secondo i termini dell’accordo di coalizione, la decisione finale su un ordine definitivo è rimandata al prossimo Governo

Canada (partner di terzo Livello): lo scorso ottobre uno studio del centro studi parlamentare canadese ha valutato che ogni velivolo sarebbe costato 148 milioni di dollari, cioè quasi il doppio di quanto inizialmente affermato dal Department of National Defence (75 milioni US$). Il 14 febbraio scorso sia il Ministro della Difesa, Peter MacKay, sia il Sottosegretario (e responsabile della questione), Julian Fantino, non hanno confermato il numero definitivo di caccia F35 che saranno acquistati. Le opposizioni hanno invece espresso ripetutamente il loro secco "no" a una spesa giudicata «eccessiva e controproducente».

L’Australia (partner di terzo Livello) sta ritardando l’acquisto e nel frattempo ha optato per i più economici FA-18s Hornets. Il 30 gennaio, il ministro della Difesa australiano Stephen Smith ha detto che Canberra è contrattualmente obbligata solo a prendere in consegna due caccia F-35.

La Norvegia (anch’essa partner di terzo livello) ha annunciato l’acquisto, ma la decisione definitiva del parlamento norvegese di impegnarsi ad acquistare almeno il 48 caccia F-35 è attesa nel 2012. La Royal Norwegian Air Force intenderebbe acquistarne fino a 56, ma come ha specificato il Ministro della Difesa "ciò dipende da costi finali".

In Danimarca (partner di terzo livello) la Royal Danish Air Force sta considerando l’acquisto di 48 caccia F-35 in sostituzione dei caccia F-16: il Parlamento dovrà votare entro il 2012, ma si stanno prendendo in considerazione soluzioni alternative come il JAS 39 Gripen, F/A-18E/F Super Hornet, e l’Eurofighter Typhoon.

Interessante è il caso della Turchia (partner di terzo livello) che era intenzionata ad acquistare 116 caccia F-35; nel gennaio 2011 ci sono però state indicazioni che la Turchia stesse per Campagna "Taglia le ali alle armi"

riconsiderare la propria partecipazione al programma F-35 e la partecipazione alle forniture del velivolo sia per via dell’attrito con Israele, che ha portato gli Stati Uniti a ritardare (e non effettuare) le spedizioni di componenti per l’F-35 (che dovrebbe esser prodotto in loco da una sussidiaria della Northrop Grumman), sia per l’aumento dei costi complessivi del programma. Il 24 marzo 2011 la Turchia ha annunciato di aver sospeso il suo ordine per 100 aerei per il rifiuto degli Stati Uniti di condividere il codice sorgente del software per l’F35. Il ministro della Difesa Vecdi Gönül ha detto che i negoziati di accesso ai codici sorgente, compresi i codici che possono essere utilizzati per controllare a distanza il caccia, non hanno dato "risultati soddisfacenti". Nonostante la controversia, la Turchia ha mantenuto nel gennaio 2012 un accordo di principio per due F-35A.

Ma soprattutto gli Stati Uniti stanno rivedendo il programma e il numero di velivoli che intendono acquistare: e questo farà naturalmente lievitare i prezzi unitari degli aerei.

Tutte queste considerazioni dimostrano come sarebbe più proficuo chiedersi se il modello di sviluppo americano, che si fonda sul ruolo chiave assunto dalla tecnologia militare (in senso duale), sia il migliore per risolvere la crisi industriale che investe il paese Italia.

Negli gli USA il contributo pubblico dato all’industria della difesa ha di fatto impoverito le capacità produttive, aumentato il deficit del bilancio federale e centralizzato il potere decisionale nelle mani di manager privati e statali. e non è un caso che ai corpi militari statunitensi si permetta di ridurre il numero dei velivoli ordinati mentre si esercita pressione sui partner per mantenere nei tempi l’acquisto. In questo modo i primi aerei - meno maturi e ancora imperfetti sia tecnologicamente che dal punto di vista avionico - finiranno nelle mani degli alleati e solo quelli completi e non più da ri-aggiornare entreranno nei quadri di Marina, Aviazione ed Esercito USA.

L’Italia e il programma per gli F-35

In Italia si è iniziato a parlare del progetto nel 1996 con il Ministro della Difesa Beniamino Andreatta (primo Governo Prodi), il 23.12.1998 (Governo D’Alema) è stato firmato il Memorandum of Agreement per la fase concettuale-dimostrativa con un investimento di 10 milioni di dollari, il 24.06.2002 (secondo Governo Berlusconi), dopo l’approvazione delle Commissioni Difesa di Camera e Senato è stata confermata la partecipazione alla fase di sviluppo con un impegno di spesa di 1.028 milioni di dollari.

Sull’andamento del progetto è stato informato il Parlamento il 28.07.2004 ed il 16.01.2007 (secondo Governo Prodi), è stato poi autorizzato uno stanziamento di 904 milioni di dollari. L’8 aprile 2009, con una velocità inusuale e sconvolgente il Senato prima e la Camera dei Deputati poi, hanno dato il via libera al Governo per l’acquisto di 131 cacciabombardieri Joint Strike Fighter al costo di 12,9 miliardi di euro, spalmati fino al 2026 e la realizzazione a Cameri (Novara) di un centro europeo di manutenzione al costo di 605,5 milioni di euro, da consegnare entro il 2012. Le due Commissioni però, nel dare parere favorevole, hanno posto diverse condizioni per la prosecuzione del programma, tra queste: la conclusione di accordi industriali e governativi che consentano un ritorno industriale per il nostro Paese proporzionale alla sua partecipazione finanziaria, anche al fine di tutelare i livelli occupazionali; la possibilità di fruire dei risultati delle attività di ricerca relative al programma.

Anche per la difficoltà di rispondere a queste condizioni, come vedremo più avanti, ad oggi ancora non è stato firmato il contratto. Un’inchiesta del mensile "Altreconomia" ha evidenziato come allo stato attuale del Programma per l’Italia non sono previste penali qual’ora ne uscisse. E’ possibile ritirarsi dall’accordo con un preavviso scritto di 90 giorni da notificarsi agli altri compartecipanti. L’unica condizione è quella di portare a termine il contributo per le fasi sottoscritte. Quindi allo stato attuale l’Italia avrebbe solo perso circa 2,5 miliardi.

Secondo la Difesa l’aereo assolve un ampio ventaglio delle funzioni operative dell’Aereonautica Militare e della Marina Militare ed andrà a sostituire gli AV-B della componente imbarcata della Marina e gli AM-X ed i Tornado della componente aeronautica. Quindi il programma prevede l’acquisizione di 69 velivoli nella variante CTOL a decollo ed atterraggio convenzionali e 62 in quella STOVL a decollo corto ed atterraggio verticale. La ditta capocommessa è l’americana Lokheed Martin Aero. La ditta italiana maggiormente coinvolta è l’Alenia Aeronautica che partecipa allo sviluppo ed alla produzione "second source" dell’ala, mentre sono poi coinvolte in modo minore una ventina di aziende.

Dalla decisione definitiva in Commissioni parlamentari del 2009 il Ministero della Difesa stanzia nella sua Nota previsionale 13 miliardi di euro complessivi per l’acquisto degli aerei previsti (al tempo 131 arrivando quindi ad un costo unitario di circa 100 milioni), ma sulla base di documentazione ufficiale USA e indicazioni di Lockheed Martin la campagna "Taglia le ali alle armi" ha stimato a metà 2011 un costo unitario a velivolo di circa 115 milioni di euro (vedi tabelle). Una cifra mai smentita e che infatti va a comporre la valutazione di 15 miliardi di euro per l’acquisto complessivo degli (ipotizzati inizialmente) 131 aerei usata ormai come base di discussione sia a livello parlamentare che di opinione pubblica.

Risultano quindi abbastanza soprendenti le dichiarazioni recentemente rilasciate alla Commissione Difesa della Camera dai rappresentanti del Segreteriato Generale della Difesa che fissano il costo dei primi F-35 italiani in 80 milioni di euro che scenderanno a 55 milioni di euro per la produzione a regime. Un costo bassisimo (quasi ai livelli delle previsioni iniziali di Lockheed nelle fasi preliminari) e ben al di sotto di quanto pagato dalla Gran Bretagna per i primi esemplari o dagli stessi Stati Uniti (cosa impossibile per la loro legislazione).

In un contesto recente che vede poi la stessa Lockheed Martin ammettere aumenti di costo (per bocca del suo vice-presidente Burbage che però si è ben guardato dal dire lo stesso durante la sua visita a Roma) e il Giappone ha avvertito che non comprera gli F-35 previsti in caso di crescita dei costi.Campagna "Taglia le ali alle armi"

Progressione dei costi unitari per velivolo

stima in euro

Costo iniziale previsto da Lockheed Martin

82 milioni US$

61 mln €

Stima Centro Ricerche Congresso 2006

94,8 milioni US$

71,5 mln €

Costi prima produzione Lockheed (2010)

170 milioni US$

128 mln €

Costi medi Pentagono inizio 2011

133 milioni US$

100 mln €

Program Acquisition cost by Weapon
System del Febbraio 2012

195,4 milioni US$

147 mln €

Costo per ora di volo progressione nelle previsioni
2002

9.145 dollari

2005

9.737 dollari

2010

16.425 dollari

2011 (stima GAO 12-340)

23.557 dollari

Il miraggio occupazionale

L’Italia ha in corso un braccio di ferro con la Lochkeed Martin ed il Dipartimento della Difesa USA per i ritorni industriali. La scarsa disponibilità di Washington a cedere il know-how del velivolo e la partecipazione al progetto che si basa sul principio competitivo "best value", cioè senza prevedere ritorni industriali garantiti, non sono due buone premesse.

Secondo la Difesa nella struttura industriale di Cameri si creeranno circa 600 posti di lavoro (nella fase di picco), più una spinta occupazionale nelle aziende locali e nazionali quantificata in circa 10.000 posti di lavoro. Una cifra sicuramente esagerata, se si pensa che in Italia l’industria a produzione militare nel 2008 ha dato occupazione a 26.395 persone. È più realistica l’ipotesi delle parti sociali che parlano di 200 occupati più altri 800 nell’indotto. In realtà, molti saranno di fatto solo ricollocazioni di chi perderà il posto di lavoro per i tagli all’Eurofighter. In questo settore, bisogna tener presente che alti sono i profitti dell’industria militare, anche perché garantiti dai governi, ma basse sono le ricadute occupazionali in base ai soldi investiti. In Europa nel settore industriale militare tra il 1993 e il 2003 sono stati cancellati 750.000 posti passando da 1.552.000 occupati a 772.000.

Secondo le ultime dichiarazioni governative (il Sottosegretario Crosetto a Cameri) il ritorno industriale del progetto arriverà al 75% del denaro impiegato dallo Stato. Non è ben chiaro se tale ritorno si avrà su tutti i caccia F35 costruiti in Europa oppure solo su quelli direttamente acquistati dall’Italia. Sicuramente si tratta però, per stessa ammissione del Governo, di una spesa maggiore del ritorno per avere poi a disposizione un caccia inutile sia alle necessità vere di sicurezza sia alle stesse richieste del mondo militare (in particolare se verrà eliminata la versione B a decollo verticale).

Da ultime, le dichiarazioni del Generale De Bertolis in Commissione Difesa della Camera

dimostrano quanto la campagna ha sempre dichiarato: i "nuovi" posti di lavoro da sempre millantati da un lato non sono sicuri (affermazione ripresa anche dal Ministro Di Paola che che sottolinea come "li otterremo se saremo competitivi") e dall’altro serviranno solamente a riassorbire i lavoratori delle linee Eurofighter che andranno a chiudersi per la conclusione del programma. De Bertolis parla infatti degli ormai mitici 10.000 posti di lavoro (con l’indotto) a fronte di una perdita di 11.000 per la chiusura dell’EFA.

L’inesistente trasferimento di tecnologia

Il trasferimento di tecnologia e di informazioni viene tenuto sotto stretto controllo di un ufficio particolare, quelle sensibili sono precluse per via del National Disclosure Policy, quelle classificate e non, sono rese accessibili secondo lo status ottenuto nel programma. A fronte degli oltre 2 miliardi e mezzo di euro già spesi dall’Italia, è dal 2004 (cfr. resoconti stenografici della Commissione Difesa) che generali della Difesa rispondono alle domande di politici ripetendo le stesse informazioni e gli stessi dati, tranne poi ridimensionare fortemente quello occupazionale e aumentare quello del costo del programma.

Sostanzialmente cosa affermano?

a) che la cooperazione transatlantica nella difesa è una opportunità per l’Italia.

b) che si dovrebbe registrare un trasferimento di tecnologie innovative verso l’industria della difesa e conseguentemente ottenere ricadute positive sulla competitività del tessuto industriale nazionale.

Vediamo invece come l’accesso ad un sistema specialistico sia sempre più connotato da una distribuzione disomogenea a danno dei partner del programma.

Nel 2004 il generale Giuseppe Bernardis dichiarava: "Quello che stiamo valutando, anche al fine di supportare l’industria nazionale, è la possibilità che l’Italia si occupi anche della parte Stealth - la quale, certamente, non potrà essere affidata ad una industria qualsiasi -; i trattamenti, in tal caso, potrebbero essere effettuati all’interno di un apprestamento governativo, nella fattispecie un centro di manutenzione nazionale, dove l’industria italiana in concorso con il Ministero della difesa si facciano carico del controllo relativo all’applicazione di questa tecnologia. La discussione in proposito è tuttora in atto, sebbene esista già un via libera dell’industria americana sul punto. Non è stato invece ancora acquisito il nulla osta del governo americano, correlato alla conclusione degli appositi accordi con la parte industriale".

Nel 2007 il Sottosegretario alla Difesa Forcieri asseriva "gli Stati Uniti, in cambio della partecipazione degli altri paesi, forniscono un’apertura tecnologica senza precedenti".

Tuttavia il Department of Defense e il GAO (Government Accountability Office), in più rapporti hanno scritto che gli accordi di cooperazione permettono un "accesso tecnico alle migliori tecnologie dei partner esteri". Tutte le aziende italiane coinvolte nel progetto dalla Alenia Aermacchi alla Avio e Piaggio, dalla Galileo alla Selex, Aerea, Vitrociset e poche altre, sono aziende con un know-how riconosciuto internazionalmente.

Il programma F-35 si fonda infatti su un approccio bilaterale in ciascuna fase del programma: Campagna "Taglia le ali alle armi"

lo status di partner viene definito tramite trattative intergovernative tra gli Stati Uniti e i singoli paesi aderenti. Non esiste quindi una partnership paritetica ma, attraverso il principio "value for money", è Lockheed Martin che decide la divisione del lavoro tra i partecipanti al programma. Questa procedura di competizione implica che i produttori debbano partecipare in condizione di parità, e la scelta dell’offerta più vantaggiosa avviene tramite criteri di basso costo, competenza tecnica e capacità di gestione del programma.

In questa relazione asimmetrica gli Stati Uniti si garantiscono un accesso alle migliori tecnologie e know-how europei, limitando di contro il trasferimento delle tecnologie chiave sviluppate negli stabilimenti americani. La partecipazione di aziende quali la Bae Systems o Alenia piuttosto che la Fokker Aerostructures, consente agli USA di disporre di competenze specialistiche di nicchia senza doverle sviluppare autonomamente (convenienza economica). In più si aggiunge una convenienza finanziaria per la sostenibilità dei costi e una garanzia nel mercato dei velivoli da combattimento.

Nel febbraio 2012, il segretario generale della Difesa, Claudio De Bertolis ha affermato che "un contributo al trasferimento di conoscenza e stimolo all’innovazione di processo è la distribuzione del personale italiano dell’industria presente negli Stati Uniti in diverse aree del programma F-35, cosa che permette la maturazione di una conoscenza diffusa del programma".

Per quanto riguarda invece le innovazioni di prodotto, continua, "occorre fare una premessa. La gestione dei componenti dell’F-35 è sottoposta allo stesso grado di segretezza di altri programmi come l’F-22. Inoltre, essendo le tecnologie destinate anche al mercato estero, sono costruite in modo da non poter essere copiate: o perché anche analizzate non rivelano tutti i loro segreti,come la vernice per la bassa osservabilità, o perché non è possibile aprirli senza distruggerli, come alcuni codici software o componenti hardware".

Sottolinea ancora "anche se è vero che gli Stati Uniti non vogliono condividere con i partner del programma F-35 gli algoritmi alla base del proprio sistema di guerra elettronica, in realtà i maggiori paesi utilizzano dei propri algoritmi costruiti negli anni alla luce dell’esperienza maturata e del contesto strategico nazionale".

De Bertolis, come aveva fatto precedentemente il generale Bernardis, trascura il fatto che il nocciolo della tecnologia stealth sta nei segnali emessi dal velivolo e che è l’integrazione dei sensori e l’elaborazione delle informazioni coerenti che rendono questo velivolo un caccia di quinta generazione. Ma allora l’Italia quale versione del velivolo sta comprando? Esiste una versione nazionale, tecnologicamente meno rilevante?

L’ inaccessibilità ai codici è una affermazione smentita dai funzionari della stessa Lockheed, che hanno ammesso di aver subito intrusioni a attacchi con virus nella catena informatica, quella che permette di collegare il grande numero di subappaltatori. Conseguentemente i tecnici hanno dovuto correggere il software allungando i tempi e aumentando enormemente i costi della fase di sviluppo e produzione.

La FACO di Cameri

Ciò che effettivamente si è riusciti ad ottenere, grazie all’accordo con l’Olanda che ripartisce tra Campagna "Taglia le ali alle armi"

i due paesi gli aspetti della manutenzione dei velivoli F-35, è l’istallazione nell’aeroporto militare di Cameri di un centro europeo capace di compiere l’assemblaggio finale, la manutenzione e la riparazione. Una prospettiva che però in parte si è incrinata viste le notizie recentissime di un tentativo di accordo (proposto proprio dai Paesi Bassi agli altri paesi partner JSF di aera nord-europea, esclusa la Gran Bretagna) affinchè per la gestione e manutenzione ci sia una gestione più locale e partecipata tra Olanda, Danimarca e Norvegia.

"Da circa vent’anni l’Aeronautica militare ha iniziato un percorso virtuoso, per cui il reparto manutenzione è in grado di eseguire lavorazioni industriali a livello dell’Alenia. Su questo stabilimento bisognerà discutere con l’industria un costo industriale gestito dall’amministrazione. In merito a ciò interviene il nostro nuovo ruolo imposto dal Segretario generale: noi partecipiamo con l’industria, siamo nelle trattative industriali proprio per questo scopo. Questa è la concretizzazione di tale principio. La fabbrica che stiamo costruendo dovrebbe essere pronta per il 2014 e partire con questa lavorazione per agganciarsi alla produzione prevista dal 2016 in poi. Una qualsiasi base militare di media grandezza costa circa 100 milioni di euro all’anno per la sua gestione. In questa installazione stanno confluendo le capacità tecnologiche manutentive dell’Aeronautica per i prossimi quarant’anni".

Questa dichiarazione effettuata da uno dei generali intervenuti in questi mesi nelle Commissioni Parlamentari fa intuire come vi sia stata una discussione fra sfera militare e industriale. Se l’Italia più che un subappaltatore è stata trattata come un dipendente di sottordine, quale autonomia operativa ha l’industria italiana Italia, e quale rapporto si è instaurato fra militari e industria?

"È vero che i documenti ufficiali indicano che l’Alenia è la second source - e, quindi, la Lockheed Martin effettua le lavorazioni e poi dà all’Alenia l’eccesso delle lavorazioni stesse o quanto è previsto per contratto - tuttavia l’Alenia deve essere competitiva, non può lavorare a costi superiori alla Lockheed Martin".

Vale la spesa di 800 milioni di euro un nuovo stabilimento per un velivolo militare di cui non si conosce il volume produttivo e serve solo per sganciare bombe?

Conclusioni... per l’Italia

Il programma F-35 è stato pubblicizzato come creatore di forti quantità di posti di lavoro e grandi entrate economiche. La realtà è molto diversa.

Nel 2008 (ma già si raccontavano le stesse cose nel 2004)si informava il Parlamento che il programma coinvolgeva 12 regioni, circa 40 siti industriali e la creazione di 10.000 posti lavoro. Per quanto riguarda il ritorno industriale si favoleggiava un ritorno del 100% rispetto alla cifra spesa di 1.028 milioni di dollari. In realtà erano stati ottenuti contratti per 191 milioni di dollari e solo impegni per altri 827 milioni di dollari.

Oggi, all’inizio del 2012, "sono già stati appaltati in Italia lavori per 539 milioni di dollari, di cui 222 milioni di dollari solo nel 2011".

La conclusione di tutti gli uomini appartenenti alla sfera militare (ma anche di agguerriti politici)è che "mantenendo il nostro impegno nel programma, queste aree di lavoro, a fondo corsa, porteranno una stima di circa 14 miliardi di dollari di lavoro in Italia, a fronte dell’impegno che ci siamo presi".

L’F-35 è così diventato il programma dalle promesse milionarie con miliardi di entrate e migliaia di posti di lavoro. Per ora ha contribuito ad aumentare il debito pubblico insieme alle altre spese militari e non ha contribuito ad occupare un posto di lavoro in più, al netto della messa in mobilità di centinaia e centinaia di lavoratori di queste aziende.

L’alternativa conviene

Eppure, come è stato dimostrato da recenti lavori di ricerca di natura economica, se invece che sulle armi si investisse per esempio su sanità ed energie rinnovabili raddoppierebbero i posti di lavoro e aumenterebbe di una volta e mezza lo sviluppo economico in generale. Investire sulle fonti rinnovabili vuol dire uscire dalla dipendenza del petrolio, insieme all’acqua una delle cause principali dei conflitti in corso, e aumenterebbe la qualità della vita e creerebbe da molti posti di lavoro. In generale una recente ricerca dell’Università Bocconi commissionata da Science for Peace ha dimostrato come la riduzione di pochi punti percentuali delle spese militari, senza andare ad incidere in maniera significativa sul PIL (anche solo non considerando le alternative di utilizzo di questi soldi), libererebbe diversi miliardi di euro di risorse pubbliche a disposizione per un reimpiego su altri settori.

Una recente ricerca dell’Università del Massachusetts ha calcolato che: se investiamo un miliardo di dollari nella difesa abbiamo 11.000 nuovi posti di lavoro; 17.000 se lo impegniamo nelle energie rinnovabili e 29.000 se andasse nel settore dell’educazione.

CON IL COSTO COMPLESSIVO DI 15 MILIARDI PER 131 CACCIABOMBARDIERI SI POTREBBE INTERVENIRE SU

ASILI, SCUOLA, UNIVERSITA’

creare 4.500 asili nido comunali nuovi (raddoppiando il numero attuale), con benefici per quasi • 135mila famiglie italiane e la possibilità di creare 40mila nuovi posti di lavoro (costo circa 1miliardo e 500milioni)

mettere in sicurezza 10mila scuole italiane che non rispettano le normative antisismiche, • antincendio e di idoneità statica e migliorarne l’ecoefficienza, beneficiando oltre 5milioni di famiglie e la possibilità di creare nuovi 10mila posti di lavoro oltre che salvaguardare quelli a rischio nelle imprese nel campo dell’edilizia e delle ristrutturazioni (costo 5miliardi di euro)

dare 250mila borse di studio per studenti universitari e servizi di edilizia residenziale per 10mila • studenti universitari (costo 1miliardo di euro)

LAVORO, REDDITI, WELFARE

dare indennità di disoccupazione di 750 euro per 10 mesi ai lavoratori atipici (collaboratori a • progetto, coordinati e continuativi con monocomittenza, ecc, con contratti dai almeno un annuo e un reddito non superiore ai 25mila euro) che perdono il posto di lavoro: beneficiari 200mila (costi 1miliardo e 500 milioni)

avviare 45mila giovani al servizio civile che porterebbero beneficio -con le loro attività alla • vomunità- benefici per oltre 1 milione di famiglie e un valore stimato in servizi di circa 650milioni di euro (costi 300 milioni di euro)

dare servizi e aiuto a oltre 80mila famiglie che devono assistere disabili o anziani non autosufficienti; • in questo modo si creerebbero 5mila posti di lavoro nuovi nel campo delle cooperative e dei servizi sociali (costo 700 milioni di euro per il fondo non autosufficienza)

AMBIENTE, MOBILITA’

avviare 500 piccole opere di riassetto idrogeologico del territorio e di prevenzione di calamità, • frane, allagamenti, ecc. in caso di maltempo. Oltre che salvaguardare i posti di lavoro a rischio nelle imprese operanti nel campo, si potrebbero creare 20mila posti di lavoro nuovi (costo 2miliardi di euro)

costruire 350 nuovi treni per i pendolari che portano 210mila posti a sedere, con la possibilità di • salvaguardare i posti di lavoro delle imprese che operano nel settore (costo 2miliardi di euro)

sostenere le imprese che operano nel campo delle energie rinnovabili (installazione pannelli • fotovoltaici, ecoefficienza energetica) e della mobilità sostenibile attraverso un fondo ad hoc di 1miliardo di euro per l’innovazione e la ricerca e ulteriori agevolazioni fiscali per i consumatori: possibile creazione di 10mila nuovi posti di lavoro e l’installazione di 100mila nuovi pannelli fotovoltaici

CON IL COSTO DI 1 CACCIABOMBARDIERE (129 milioni di euro) POTREMMO

387 asili nido con 11.610 famiglie beneficiarie e circa 3.500 nuovi posti di lavoro

oppure

21 treni per i pendolari con 12.600 posti a sedere

oppure

32.250 borse di studio per gli studenti universitari

oppure

258 scuole italiane messe in sicurezza (rispetto norme antincendio, antisismiche, idoneità statica)

oppure

18.428 ragazzi e ragazze in servizio civile

oppure

17.200 lavoratori precari coperti da indennità di disoccupazione

oppure

14.742 famiglie con disabili e anziani non autosufficienti aiutate con servizi di

La nostra campagna

Con la mobilitazione promossa dalla Rete Italiana Disarmo, dalla Campagna Sbilanciamoci e dalla Tavola della Pace per chiedere al Governo di non procedere all’acquisto di 131 cacciabombardieri F35 al costo di circa 15 miliardi e di investire i fondi risparmiati per progetti più utili alla collettività denominata "Taglia le ali alle armi" si è creata una maggiore consapevolezza sulla portata di tale progetto che si voleva invece non far conoscere troppo all’opinione pubblica.

Più di 35.000 firme raccolte nella prima fase, anche con l’aiuto di Grillo News, l’appoggio di quasi 400 associazioni, il supporto di Unimondo e di Science of Peace. Dopo il velocissimo passaggio Parlamentare dell’aprile 2009 che ha dato il via libera al progetto, oggi sono depositate in Parlamento due mozioni che chiedono la sospensione del progetto firmate da 17 Deputati e 27 Senatori.

E un primo risultato: a margine dell’incontro del 24 novembre organizzato dalla nostra campagna il sottosegretario Crosetto ha per la prima volta ufficialmente ammesso che la Difesa (complici soprattutto i costi) sta ripensando al quadro complessivo degli acquisti del caccia. "Stiamo ripensando la parte del programma Joint Strike Fighter che riguarda i 62 velivoli F-35 B a decollo rapido e atterraggio verticale’’ ha confermato poi alle agenzie di stampa

Nelle ultime settimane la campagna è riuscita a squarciare il muro di gomma elevato per coprire il progetto dell’F35. Ora nessuno può dire di non sapere quello che stava per fare il nostro Governo, e questo ha messo in difficoltà la Difesa e portato allo scoperto il Ministro-Ammiraglio Giampaolo Di Paola che dopo aver iniziato il suo mandato con un’indisponibilità totale a tagliare alla Difesa, ora annuncia la ridefinizione del Modello di Difesa e tagli al personale ed ad alcuni sistemi d’arma. Per il momento sull’F35 ha fatto intendere che ci sarà solo una lieve sforbiciata, ma la Campagna non demorde e prosegue la sua strada per far annullare tutto il progetto.

19 maggio 2009: inizia la campagna "Caccia al caccia! Diciamo NO agli F35"

luglio 2009: vi confluisce la "Campagna di indignazione nazionale" promossa da GrilloNEWS

21 dicembre 2009: la mobilitazione cerca di consegnare (inutilmente) le prime 20.000 firme raccolte (e 120 adesioni di organizzazioni) al Governo

nel 2010 la campagna ottiene il sostegno fattivo di Unimondo e di Science for Peace

luglio 2010: alla Camera (primi firmatari on. Pezzotta e Sarubbi) e al Senato (primo firmatario sen. Veronesi) vengono presentate due mozioni contro il JSF, mai discusse

24 novembre 2010: durante il convegno "Volano gli aerei o i costi?" per la prima volta il Ministero della Difesa ammette ufficialmente che sono sorti dei dubbi sull’acquisto di tutti i caccia previsti

12 aprile 2011: la campagna scrive ai capigruppo della Camera chiedendo una discussione in merito al progetto F-35

21 settembre 2011: parte la seconda fase della campagna, denominata ora "Taglia le ali alle armi!". Nella prima fase sono state raccolte 19.900 adesioni online, 16.000 firme cartacee e 388 adesioni di organizzazioniCampagna "Taglia le ali alle armi"

Conclusioni

L’articolo 11 della nostra Costituzione prevede il ripudio della guerra per la soluzione delle controversie internazionali, infatti il nostro Paese dovrebbe essere impegnato prevalentemente in missioni internazionali di peacekeping, quindi rimane difficile capire il perché dotarsi di un cacciabombardiere come l’F35. Chi dobbiamo bombardare?

Con lo squilibrio delle spese militari del nostro Paese rischiamo di acquistare gli F35 e poi non avere i soldi per la loro vita e manutenzione. Li teniamo negli hangar? E’ vero che così fanno meno danni, ma i danni fatti ai contribuenti con il loro acquisto è incalcolabile.

Abbiamo visto che tutti i Paesi partner stanno rivalutando la loro posizione rispetto alla partecipazione al programma, possibile che solo l’Italia va avanti imperterrita?

In un momento di forte crisi economica in cui il Governo Monti ha tagliato pensioni, sanità ed istruzione è equo spendere poi 15 miliardi per un cacciabombardiere? Soprattutto quando sappiamo che quegli stessi soldi potrebbero produrre "strumenti" più utili e creare molti, ma molti più posti di lavoro.

In un Paese "normale" non ci sarebbero stati dubbi nell’accantonare questo folle progetto, ma stiamo in Italia, dove il Ministro della Difesa è un Ammiraglio, che oltretutto ha firmato nel 2002. in qualità di segretario Generale della Difesa l’accordo per lo sviluppo del progetto. Secondo noi si configura un conflitto d’interesse.

Di fronte a questo muro elevato dai militari occorre una mobilitazione della società civile compatta che chieda a gran voce di sospendere definitivamente la partecipazione italiana a questo progetto.

Informazioni per la mobilitazione

Puoi sottoscrivere l’appello e trovare ulteriori informazioni sulla campagna "Taglia le ali alle armi" sul sito www.disarmo.org/nof35 oppure sui siti delle organizzazioni promotrici

WWW.NAMIR.IT

www.perlapace.it - www.sbilanciamoci.org

www.disarmo.org

Per approfondire il tema delle spese militari del nostro Paese e le possibili alternative ti consigliamo di leggere: Massimo Paolicelli e Francesco Vignarca, "Il caro armato" (Altreconomia) - Campagna Sbilanciamoci, "Rapporto 2012"