Carissimi,
vi riporto qui un testo che venne distribuito da P. Virno
alla Libur, nel
corso di una lezione di una serie che tenne lì un paio
di anni fa su lavoro
e linguaggio. La lezione, che aveva come argomento il
pensiero di Vygotskij
e in particolare la famosa polemica con Piaget, non la
trovai, confesso,
entusiasmante.
Invece questo testo, passato negli anni dal tavolo a un
cassetto e poi a
uno scaffale e poi a un altro tavolo, ho continuato a
leggerlo
distrattamente, con la 'coda dell'occhio', ricavandone
sempre utili
suggestioni. Ve lo riporto cosi' come Paolo ce l'ha dato,
perche'
costituisce un contributo sicuramente utile alla
discussione sulla
cooperazione sociale. Non saprei se adesso faccia parte
di un volume o se
sia uscito in forma di articolo da qualche parte. Io ce
l'ho qui solo come
l'ho ricevuto, con tutta una serie di correzioni "a
penna" e, sempre a
penna, le iniziali P.V. in testa. Spero che, visto che
Virno l'ha
distribuita alla Libur, non trovi nulla in contrario se
ricompare in una
mailing list a distanza di un paio di anni.
Lì dove Paolo ha usato il corsivo io usero' le
virgolette singole mentre
dove ha usato le virgolette usero' le doppie virgolette.
Vi riporto per
oggi i primi due punti sviluppati in Lavoro e Linguaggio:
"La fabbrica
loquace" e "Lavoro politico". Ovviamente
non condivido tutto cio' che vi e'
scritto. Trovo pero' che si tratta di un contributo
importante, di un
riflessione impegnativa, densa, ma per me particolarmente
piacevole da
digitare.
un saluto
Rattus
LAVORO E LINGUAGGIO
1) ' La fabbrica loquace '.
All'epoca della manifattura, e poi durante il
lungo apogeo della fabbrica
fordista, l'attivita' e' muta. Chi lavora tace. La
produzione e' una catena
silenziosa, in cui e' ammesso solo un rapporto meccanico
ed esteriore tra
antecedente e conseguente, mentre e' espunta ogni
correlazione interattiva
tra simultanei.
Il lavoro vivo, in quanto appendice del sistema di
macchine, asseconda la
casualita' naturale al fine di utilizzarne la potenza: e'
cio' che Hegel ha
chiamato "astuzia" del lavorare. E l'
"astuzia", si sa, e' "taciturna".
Nella metropoli postfordista, invece, il processo
lavorativo materiale e'
descrivibile empiricamente come complesso di atti
linguistici, sequenza di
asserzioni, interazione simbolica. In parte, perche'
l'attivita' del lavoro
vivo si esplica, ora, 'a 'fianco' del sistema di
macchine, con compiti di
regolazione, sorveglianza e coordinamento. Ma soprattutto
perche' il
processo produttivo ha per "materia prima" il
sapere, l'informazione, la
cultura, le relazioni sociali.
Chi lavora e' ('deve' essere) loquace. La celebre
opposizione stabilita da
Jurgen Habermas tra "agire strumentale" e
"agire comunicativo" (o lavoro e
interazione) e' radicalmente confutato dal metodo di
produzione
postfordista. L' "agire comunicativo" non
ha piu' il suo terreno
privilegiato, o addirittura esclusivo, nelle relazioni
etico-culturali,
nella politica, nella lotta per il "reciproco
riconoscimento", esulando
invece dall'ambito della riproduzione materiale della
vita. Al contrario,
la parola dialogica si insedia nel cuore stesso della
produzione
capitalistica. Il lavoro e' interazione. Di conseguenza,
per comprendere
davvero la prassi lavorativa postfordista, occorre
rivolgersi in misura
crescente a Saussure, a Wittgenstein, a Carnap. Anche se
questi autori si
sono alquanto disinteressati dei rapporti sociali di
produzione, tuttavia,
avendo essi elaborato teorie e immagini del linguaggio,
ha da insegnare
piu' cose riguarda alla "fabbrica loquace" di
quanto non possano i
sociologi di professione.
2. ' Lavoro politico '
Quando il lavoro assolve compiti di sorveglianza e
coordinamento, le sue
mansioni non consistono piu' nel conseguimento di un
singolo scopo
particolare, ma nel modulare (nonche' variare e
intensificare) la
'cooperazione' sociale, cioe' quell'insieme di relazioni
e connessioni
sistemiche che costituisce ormai l'autentico "pilone
di sostegno della
produzione e della ricchezza" (Marx). Siffatta
modulazione avviene mediante
prestazioni linguistiche che, lungi da dar luogo a un
prodotto
indipendente, si esauriscono nell'interazione
comunicativa che la loro
stessa esecuzione determina. In breve a) il lavoro basato
sulla
comunicazione non ha struttura rigidamente finalistica,
ossia non e'
guidato da un obiettivo univoco predefinito; b) In molti
casi tale lavoro
non da' luogo ad un oggetto estrinseco e duraturo,
trattandosi piuttosto di
una "attivita' senza opera". Vediamo piu' da
vicino questi due aspetti.
Il concetto tradizionale di produzione fa tutt'uno con
quello di finalismo:
produce chi persegue uno scopo determinato. Ma la
saldezza del rapporto
lavoro-finalismo dipende dal carattere 'ristretto' del
lavoro: piu'
esattamente, dalla rigorosa esclusione della
comunicazione dal processo
produttivo.
Il finalismo appare tanto piu' marcato e inequivocabile,
quanto piu' si ha
a che fare con un agire meramente strumentale, alla cui
definizione sia
inessenziale il tessuto delle relazioni dialogiche
intersoggettive.
Viceversa, allorche' ne diventa un elemento costitutivo,
la comunicazione
incrina la connotazione rigidamente finalistica del
lavoro.
Si consideri in primo luogo il sistema di macchine che
contraddistingue il
postfordismo. La macchina elettronica, a differenza
dell'automa meccanico
fordista, e' incompleta e parzialmente indeterminata: non
e' l'imitazione
tecnologica di forze naturali date, da piegare in vista
di uno scopo
specifico, ma e' piuttosto il presupposto di un novero
indefinito di
possibilita' operative. Questo novero di possibilta'
richiede di essere
articolato da un insieme di prestazioni linguistiche da
parte del lavoro vivo.
Le azioni comunicative, che elaborano le chanches insite
nella macchina
elettronica, non sono orientate da un fine esterno alla
comunicazione
stessa, non introducono cioe' un antecedente in vista di
un conseguente, ma
hanno in se' il proprio esito. L'enunciazione e',
insieme, mezzo e scopo,
strumento e prodotto ultimo. In un contesto linguistico,
le regole per
progettare e quelle per eseguire sono le stesse. Tale
identita' abroga la
distinzione tra i due momenti: intenzione e realizzazione
combaciano.
E veniamo al secondo aspetto. Oltre a contraddire il
modello di azione
finalistica, spesso il lavoro comunicativo non da'
neanche luogo ad
un'opera autonoma, che sopravviva alla prestazione
lavorativa. Ebbene, le
attivita' in cui "il prodotto e' inseparabile
dall'atto del produrre"
(Marx) - quelle attivita', cioe', che non si oggettivano
in un prodotto
duraturo - hanno uno statuto mercuriale e ambiguo,
difficile da afferrare.
Il motivo della difficolta' e' palese. Ben prima di venir
inglobata nella
produzione capitalistica, "l'attivita' senza
opera" (ovvero l'attivita'
comunicativa) e' stata l'architrave della 'politica'.
Scrive Hanna Arendt:
"le arti che non realizzano alcune 'opera' hanno
grande affinita' con la
politica. Gli artisti che le praticano - danzatori,
attori, musicisti e
simili - hanno bisogno di un pubblico a cui mostrare il
loro virtuosismo,
come gli uomini che agiscono politicamente hanno bisogno
di altri alla cui
presenza comparire". Quando non si costruiscono
nuovi oggetti, ma
situazioni comunicative, allora comincia il regno della
politica. Il lavoro
postfordista, in quanto lavoro linguistico, e' un lavoro
che esige doti e
attitudini per l'innanzi riservate alla prassi politica:
relazione con la
presenza altrui, gestione di un certo margine di
imprevedibilita',
capacita' di cominciare qualcosa di nuovo, abilita' nel
destreggiarsi tra
possibili alternative.
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