Else Lasker-Schüler

Solitamente.

Le parole giungono da chi è lontano. Altrimenti davvero non occorrono.

In tutti i sensi delle mille e una notte.

Occorre partire lontano, per mandare lettere, estranei al mondo, giungere oltre le terre note.

E superare la linea, volgersi al nemico. Prigionieri della libera estraneità, del dolore, sapersi liberi, irriconoscibili. Già un po’ meno noi stessi, tutto un po’ meno.

Dalla terra sottomare, dalla terra dei morti, dove ogni posto non ha odore e l’aria più sottile secca tutti i sapori, da allora, giungono messaggi. "Messaggio d’un imperatore", sia, messaggi tracce, diramati.

Lungo tutta la catena della muraglia-identica all’ignoto, scivolano le parole-pesci, per ricordare.

Da dove venga la parola… da dove… dove…

Per le parole occorre vendere la propria anima. Lo dico del tutto dal lato estetico della tenzone, come Wilde scriveva nel suo "diario" (…ve ne sono di molto meno autobiografici che eppure aspirano al titolo), nel Ritratto di Dorian Gray, che l’immortalità chiede l’anima in cambio. Ed una parola, col suo farsi carta stampata, col suo aprirsi uno spazio tutto suo, digitale o pennuta a seconda delle tecniche o tecnologie, si sottrae indicibilmente alla realtà del trasferirsi della materia in destino, forza ed energia, in cacca, e dalla cacca il seme, e così via, per offrire il vuoto - e da che mondo e mondo, è proprio il vuoto l’eterno…

Dove sta una parola ne può stare pure un’altra - e questo è il miracolo -, dove stan queste mie stupidate, quant’altre ce ne possono stare (e ce ne staranno…)! …dove sta un segno, per farsi un pochino più seri, può ben stare un altro segno.

Diversamente, dove non vi è riconoscimento (confinamento, identificazione, apollinea forma), ben difficilmente qualcos’altro impunemente ne prenderà il posto… ne manca proprio il posto, lo spazio,

sì, sì… la solita solfa: la terra è tonda, per tutta parte presa nel deserto, per altra attanagliata dai ghiacci, ce ne rimane proprio poca abitabile, disponibile… Proprio oggi che la graziosa disponibilità della vita (il tenor di vita) mostra le sue smaglianti curve… che peccato…

È questione di spazio, è sempre questione di spazio…

La parola è così il luogo signico, il firmamento, la quarta dimensione della realtà, la quinta, la sesta, la prima e la seconda e la terza tutte insieme, insomma, la possibilità della realtà:

Lo spazio dove prendere un oggetto e somigliarlo ad un altro, esattamente il vuoto, l’astrazione, la sottrazione a tutto il mondo conosciuto, per il quale, è questo e non altro, ma sarà forse altro, vien da questo e torna quello…

Insomma, per far sì - e certo lo dobbiamo - che tutto il mondo conosciuto non sia cacca, e nient’altro che cacca (non potremmo più parlare manco della scoperta delle Americhe!), occorre ipotizzare che il destino della realtà sia consegnato (e ben riposto) in signo eterno, "nome" "nume", e in tutta la gran barcata delle possibilità così apertesi.

Da dove vengono le parole?

Da terra estranea.

Dove.

Alcune parole, più di altre, (puttane e guerrieri) ancora vengono da lontano, memori della propria origine, perdon…

memori del proprio nomadismo…

affacciate sull’inerzia sul silenzio, e non ne voglion sapere di prender posto, e restano posto e sola apertura. Spazio, poco meno che cosa

Ma è un gioco col silenzio.

Per vedere dove finisca (o inizi) la vita.

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Else Lasker-Schüler ha percorso i sentieri che portano al silenzio e dal silenzio tornano. Da là ha mandato parole dal grande volume, stondate sui bordi, che chiedono vaste superfici per l’appoggio. Sono pezzi d’aria a blocchi come marmo, che tanta anima hanno chiesto per esser portate giù di lì. Capanne celtiche arroccate in buii cunicoli di silenzio, che ospitano distese immani di neve. Noi, mani aperte. Raccogliamo. Da tanto lontano, tanto tempo deve esser venuto giù, tanto amore, assopito. Curioso pensare, siano parole rivolte ad un morto, al "puro amico d’amore Hans Ehrenbaum-Degele".

Qui di seguito la poesia edita da Giuntina in Else Lasker-Schüler, Meinem reinen Liebesfreund Hans Ehrenbaum-Degele, in Mein Herz, ein Liebesroman mit Bildern und wircklich lebenden Menschen, München und Berlin 1912, trad. it. di Maura Del Serra, Al mio puro amico d’amore Hans Ehrenbaum-Degele, in Ballate ebraiche e altre poesie, La Giuntina, Firenze 1985.

Subito dopo la mia risposta, come ho immaginato risponda tale Hans…

Nel caso vogliate pure voi fingervi Hans, e rispondere ad Else Lasker-Schüler, non avete che da inviare la vostra lettera a: lettereparole@tiscali.it

«Tristano combatté in terra nemica;

molti canti ha inviato in patria

finché il nemico gl’infranse il corpo»

Else Lasker-Schüler

A Hans Ehrenbaum-Degele, 1912.

«AL CAVALIERE D’ORO

Sei tutto ciò che è d’oro

nel grande mondo.

Io cerco le tue stelle

e non voglio dormire.

Vogliamo coricarci tra le siepi,

e mai più rialzarci -

baciare dolci sogni

che ci nascono in mano.

Rose coglie il mio cuore

dalla tua bocca.

Ti amano i miei occhi, e tu ne insegui

lo svolìo di farfalle.

Che cosa fare, se

tu non ci sei.

Neve nera mi goccia dalle palpebre;

morta io, gioca tu con la mia anima.»

(Else Lasker-Schüler)

risposta a :

Ad Else, 30 luglio 2002.

«Else, Else, Else. Quel che dico taccio. Else. Mi senti Else, se lo dico più forte, se smetto di dirlo, lo senti Else, non lo dico uguale. Quanto amore vuoi, se mi casca di mano lo vedo sciupato, ma c’è abbondanza, per far correre anche i pesci sull’erba. Ma se è troppo dimmi lo volo, dimmi faccio l’aquilone e con loro volo. Se mi vedi sparire, ti sospiro le spalle, sono il leggero velo che ti corre le palme, dei piedi, se pensi, se credi, se cammini e se ancora pensi. Non mi stanco di morire. La vita avanza, a me e a tutto, cade il frutto, come in questa stagione, mi si apre la bocca se fosse un fiore. Fai il solletico a tutto il mio corpo, e nomina le stelle mentre si infrangono. Se scricchiolo quando tocchi il mio punto dove la prima vena perde ogni cartilagine, ogni scheletro e tutte le sue ombre cavernose, per andare a morire lentamente dove anche la mia ombra finisce, perfino il mio sogno cade dalla punta dei piedi e il ladro di ciliegie casca dal ramo, è il mio amore che non smette, il mio amore geme. Sono i pezzetti di cuore, fai piano, sono tratti che si staccano, cauta, e vanno allargandosi, vanno trovandosi, dal lato dove tutto, non ha fine, per sempre. Se tremo, non spaventarti, nessun marinaio ha mai temuto le onde, e tu nel mio timore hai la più salda vela, hai lo sperone che rinnova. Se ho il volto ruvido, non spaventarti e stendi il lenzuolo, coprimi. Sono solo quel che rimane, dopo che ogni figlio mi ha detto mai più, ed ogni scherzo non fa più ridere manco il sole, che si sa vuol bene agli storpi, m’ha lasciato la moglie - dov’è chi è perché è - per un uomo più ricco di idee, sto attaccato a quest’ultima, che si sfalda. Perché non mi va, oggi proprio, di morire. Else. Perché non so dire il tuo nome? Perché non so più sperare? Perché mi rigiro nel lenzuolo, ruvido - mi fa ruvido - mi addolora, mi scarno - toccandomi ferocemente col sole che del mio sudore pare sempre insaziabile, e della mia noia, affamato cielo non hai pace. Perché Else non ti so nominare? Dove sei amore? La mia mano ha un problema, stenditi e te lo svelo. Forse ti ama, forse si odia. Fosse vero che in un tempo lontanissimo mi hai amato, quanto ora ti amo, potrei stendermi, e buttarmi per sempre di sotto in una vita breve, che tutto potrebbe che tornare alla tua prima volta che mi hai preso la mano e me l’hai morsa fino al dolore più assurdo. Butterei tutti i dadi di fuori, la mia pazzia, e tu prendi tutto quello che trovi, trufola, questo guardaroba vecchio di cui nessuna stagione ha fatto il corso, amerebbe le primavere in una sola notte, per tornare ad amarti, a te. Ma non mi hai amato mai, ed il mio Ancòra è una spiaggia balcana, di cadaveri e mareviola. I tori affamati, si riversano tutto l’anno in queste ultime lande, e la moviola rivela che soffiano dal naso quando le corna tamponano il cielo. Ti aspetto da qui dove non ha più senso aspettare. Dove aspettare è una parola antica che scatena le braccia per brevi momenti di urla nella notte, e poi si ricompone, lettera su lettera in una piega di libro. È una parola degli aborigeni, ma le onde mi hanno raccattato ed io non sono manco di qua. Reiterare le labbra in gesti scomposti, accigliare e fare nere le vene ed i nervi, reiterare un comportamento molesto. L’attesa. La biblica perseveranza della frode. Tu mi hai amato. Non so più a chi dirlo. Parlo coi sassi. Mi vergogno. Non è dato. Quel che penso non è dato pensare. Ti dico, brevemente, sarò breve quanto lo è la mia rabbia, perché non devo aspettare. Perché quel che è stato, lo si può pure attendere in eterno, ma quel che non è stato mai, fa blu la vita. Di morto. E tu, in nessuna di queste vite che mi sfibrano le dita della mano, e che conto e riconto da notti sulla mia spiaggia dolente, in nessuna di queste vite, mi hai amato mai. Se siamo vivi non possiamo nulla fra te e me, se non tradirci a vicenda con questo maleodore di sogni. E stringere un sasso, e mostrarlo a tutti gli occhi increduli come pittura di pelle, pittura di indiano, cotta colorata, tempra, fa tanto di pazzo. I miei giocattoli sono rotti. Tutti se ne sono accorti, tutti tranne me. Ma davvero fossi pazzo, passo altissimo da tingere i miei capelli con i colori che sono del cielo, alto come una montagna, pesante come il cuore, potrei toccare colla mia mano la bottiglia presa dal corso d’acqua. Aprire la mano e leggere ad una ad una - saprei leggere allora - le parole. Le tue parole, le mie parole. E ad una ad una toccherei ogni parola. Saprei credere, sarei un uomo di fede. Forse allora saprei morire anch’io, mi abbatterebbe una fucilata e mollerei il tuo brandello di carne. Così da morto non potrei più tradire, perché ogni misura è salda ed esatta quando si inchioda il ferro in una parete infinita, ed il quadro ed io il mio corpo sta perfetto nel mezzo. Ed io non potrei temere perché sarebbe ora per sempre che ti amo e mai più.

IL CAVALIERE D’ORO»

(elisa santucci)

alla poesia di Else Lasker-Schüler Risponde con altra poesia.

Ogni domanda apre uno spazio, e qui tutto cessa, come se, ogni districato inguaribile groviglio del pensare, giungesse come un fiume al mare, a perdersi.

Così spesso accade, che di tutto quel che siamo, alla fine resti la domanda.

E spesso la domanda ci offre la possibilità di tentare esitare la libertà. Perché dove è l’“io” non è la libertà, e viceversa. Bando alle ciance il mito della Rover nel deserto americano… Così, dove cessa l’“io”, spesso resta lo spazio di iniziare, senza conficcare la bandierina in alcun suolo, ma attendendo, mostrando attenzione. Con rispetto.

Questo è un salto nel vuoto, e dal vuoto si riprende (a pensare,) le fila di queste parole che Lasker-Schüler lasciò cadere e così, riprendiamo la via. Un lettore risponde.

Per scoprire, che tempo fa, che tempo è oggi. Com’è il tempo?

Così non può bastare, non mi basta, nulla mi basta, e tutto mi basta, ma – sia ben presente – non si può rinunciare a sapere com’è oggi il cielo.

Ecco le stelle, se forse è vero che comunque “non siamo oro”.

Per ulteriori risposte ad Else Lasker-Schüler inviare a

lettereparole@tiscali.it

Risposta a Else Lasker-Schüler da parte della lettrice.

"Sono sceso da cavallo secoli fa’
ho posato la corazza e lasciato cadere l'elmo nell'acqua
ho fermato il tempo del mio cuore sopra di te
Non sono oro,
le mie stelle già le possiedi,
lascia che la tua paura si allontani e svanisca lontano da noi perché
saremo sempre uniti insieme in questo corpo e nella tua anima"

 

(Anonimo)

Da annatte@tiscali.it