La transizione: esserci, capirla, per trasformarla

 

 

Scritto da Giulietto Chiesa

 

Relazione di Giulietto Chiesa alla Seconda Assemblea nazionale di Alternativa.

(Genova, 30 Ottobre 2010)

Prima di tutto voglio partire dai dati. È il secondo incontro nazionale e dobbiamo discutere a tutto campo, ma senza dimenticare, neppure per un attimo, quanti siamo, chi siamo e perché siamo qui.

Se abbiamo chiari questi aspetti potremo meglio discutere di cosa succede attorno a noi e cosa possiamo fare per influire sugli avvenimenti.

 

Eravamo 385 alla fine di agosto.

Siamo 467 iscritti ad Alternativa. Iscritti sul sito, intendo dire. Il che non significa affatto quei militanti ai quali io chiesi di dare sette ore del loro tempo vitale settimanale. Dico subito che questa richiesta resta valida anche oggi. Non era e non voleva essere una “esagerazione”. Perché tutti devono capire che, senza il loro apporto individuale, personale, non vi sarà né alternativa all'attuale situazione, né “Alternativa” come organizzazione politica.

Di questi 467 iscritti i tesserati sono 105, meno di uno su quattro. Che conferma esattamente quanto ho detto poc'anzi. Molti ancora non hanno capito chi siamo, chi vogliamo essere, e perché.

Abbiamo comunque dieci gruppi territoriali, ormai dotati di un responsabile. Ed è una buona cosa. Ma siamo quasi del tutto assenti nel sud e nelle isole. Pochi gl'iscritti in Sicilia, Sardegna, Abruzzo Puglia, Calabria, Basilicata. Nemmeno un tesserato in queste tre ultime regioni.

Perché mi soffermo su questi dati, con le loro alcune luci e molte ombre? Perché dobbiamo porci il problema di come crescere e diventare forza reale nei territori. Si è detto fin dall'inizio che Alternativa non intendeva diventare ed essere alternativa a nessuno di coloro che operano già sui territori, e sui temi. Noi vogliamo essere con tutti quelli che si battono per un radicale rinnovamento culturale economico, sociale; insieme a coloro che già difendono i territori, i beni comuni, la giustizia sociale. Ma siamo consapevoli della assoluta necessità di fare uno – anzi molti – passi verso un nuovo soggetto politico che unifichi le forze disperse, che sia in grado di fare massa critica e di agire sulla scena politica nazionale. Alternativa ambisce dunque non a sostituire, ma a integrare, ad aiutare a far crescere una visione comune, a superare divisioni e particolarismi.

Insomma ambisce a far emergere la vera complessità di una transizione che sarà difficile e proteica, e che non è affrontabile, per così dire, da un solo lato.

Ma per poter fare anche solo alcune di queste cose occorre esserci.

Direi che occorre esserci e sapere.

 

Dunque dobbiamo uscire da questa due giorni con le idee più chiare su come crescere, cioè esserci e sapere.

 

 

L'identità di Alternativa

E' questione ancora aperta e credo lo sarà a lungo. È non solo normale che sia così: è giusto. I molti che verranno a noi saranno viandanti che arrivano da molte strade diverse. Ciascuno con i suoi interrogativi. Rispondere ora a tutti con le stesse risposte è impossibile e sbagliato.

Altrettanto sbagliata (e pericolosamente sbagliata) è l'idea che, per esistere, noi dobbiamo occupare tutti i terreni, dare risposte a tutti i problemi, rispondere a tutte le esigenze sociali, culturali, psicologiche di questa società malata. Come se, non facendo questo, fossimo ininfluenti e impossibilitati a crescere. È un errore sotto tutti i profili.

Lo è perché noi non siamo in grado di rispondere a tutti e su tutti i terreni. Non lo siamo ancora e non lo saremo per un certo tempo.

Lo è perché è una pretesa verticistica pensare che noi, gli attuali “noi”, siamo in grado di avere le conoscenze adeguate per farlo. Noi non abbiamo queste conoscenze in tutti i campi. Dovremo studiare per apprenderle e conquistare coloro che le hanno affinché ce le trasmettano e le inquadrino in una prospettiva nuova quale quella che noi proponiamo.

Lo è perché le nostre forze attuali non ci consentono di parlare a tutti. Perché la nostra sfera d'azione è per ora delimitata ed è quindi del tutto inutile, per esempio, avere una organica piattaforma per i contadini, se non sappiamo neppure dove sono, cosa fanno e come raggiungerli.

Alla fin fine dobbiamo partire dalla constatazione che se è malato tutto l'organismo non ha senso curare un dito del piede. Certo non ha senso partire da un dito del piede per curare un organismo che sta morendo.

Quindi dobbiamo sapere bene dove siamo, con chi parliamo, e procedere, allargandoci fino a investire gruppi diversi. Allora, e solo allora, potremo dispiegare la nostra presenza e dovremo trovare le risposte. È ciò che deve accadere domani e dopodomani.

Sappiamo dunque che molti tasselli sono da riempire. E sappiamo che altri a quei punti ci sono già arrivati, quindi dovremo evitare anche di reinventare la bicicletta dove essa esiste già: solo occorrerà fare in modo che le biciclette che già esistono corrano tutte insieme nella stessa direzione.

 

Ciò detto, credo tuttavia che tutti quelli che sono qui sappiano perché sono qui. Il che vuol dire che c'è già molto di comune in cui ci riconosciamo, che ci sono capisaldi, o colonne portanti di un ragionamento comune, che è e sarà il cemento che ci unisce.

Quali sono? Cerco di riassumerli in parole essenziali, ma ciascuno di essi è il terminale di un'ampia analisi. Un'analisi che non abbiamo fatto noi, che è il prodotto ormai di anni di battaglie e di visioni critiche, ma della quale dobbiamo impadronirci tutti fino in fondo. Perché saranno questi gli strumenti della nostra battaglia.

 

Il primo di essi è la certezza della irreversibilità della crisi molteplice che ha investito la comunità umana alla fine del XX secolo. E, correlata ad essa, è l'idea di una transizione epocale, che non ha precedenti nella storia umana (per lo meno negli ultimi dieci secoli), verso una società radicalmente diversa da quella attuale.

Sappiamo che, per queste ragioni stesse, si tratterà di una transizione estremamente difficile, probabilmente drammatica. Intravvediamo che le probabilità di guerre e collisioni, anche assai vaste, diventano ogni giorno che passa più alte e inquietanti. Da qui la necessità di impedire che la transizione si trasformi in una catastrofe in cui milioni e miliardi siano travolti dalla sofferenza, in cui si perdano – oltre a milioni di vite umane - i valori di civiltà e di convivenza, di democrazia che, seppure con mostruose ingiustizie e diseguaglianze, sono stati elaborati e attuati dal genere umano.

Ecco: se ci guardiamo intorno ci accorgiamo subito che sono in pochi, pochissimi, anche tra i nostri migliori e più avveduti interlocutori, a vedere questi scenari. Pochi vedono l'irreversibilità della crisi. Molti cercano vie illusorie. Pochissimi sono in grado di analizzare le forze in campo e i vettori che le spingono. Chiusi in giuste battaglie particolari non vedono la vastità dello scontro. Non pochi di quelli che intravvedono le cose, se ne ritraggono impauriti.

Il compito nostro, al momento insostituibile, è sgombrare il campo dalle illusioni e aiutare il formarsi di una visione d'insieme della complessità.

 

La decrescita è l'altro pilastro. Per fortuna non è solo il nostro. Nella “voragine” dei non più rappresentati, a cui ci rivolgiamo in primo luogo, sono in molti a capire che la crescita, così come la conosciamo, è finita. Ma questa è acquisizione relativa, perché molti, anzi moltissimi, pensano che possa riprendere in molti altri modi. E si sbagliano. Ed è questione, come sappiamo, del tutto estranea a tutta la casta partitica e alle élites dominanti inclusa la sinistra in tutte le sue componenti, da quelle moderate a quelle cosiddette radicali. Le prime non ne parlano, anzi cercano di nasconderla, assecondati dai loro manutengoli nel mainstream. Le seconde – anch'esse nate, cresciute e finite nell'idea sviluppista – pensano ancora che la difesa dell'occupazione possa essere fatta chiudendo gli occhi di fronte alla crisi irreversibile della crescita del PIL. E si fermano qui, ostaggio delle idee dell'avversario e costrette a rinunciare a tutti i valori di giustizia e di diritti sociali e umani che le caratterizzarono fin dalla loro nascita. Torno qui a suggerire, a chi non l'avesse ancora fatto, la lettura dei contributi di Badiale e Bontempelli, di Luigi Sertorio e di Guido Cosenza, che hanno dato una scossa salutare al dibattito italiano su questi temi, sia su quello della decrescita, sia su quello del superamento della dicotomia tra destra e sinistra.

 

Uno dei punti cruciali della nostra diversità è il tema della transizione. Anche qui c'è molto da chiarire e spero che oggi faremo tutti insieme un passo in avanti. Facciamo ordine su questo punto. Io penso che questa transizione sia già cominciata.

Noi viviamo per inerzia sulle orme del passato, ma ci siamo già dentro.

Essa procede velocemente, a prescindere dalle decisioni politiche (che, per altro, sono tutte catastroficamente insufficienti e sbagliate) e dalla volontà nostra.

Intendo dire che ci sono due modi possibili per affrontarla: o restare inerti ad attenderla (ma allora la transizione si presenterà come una devastante serie di cataclismi sociali e materiali e umani). Che si tradurranno simultaneamente in svolte reazionarie sempre più crude. E che apriranno la strada a guerre di gigantesca portata. Oppure cercheremo di orientarla per renderla meno traumatica e, in tal modo, creeremo uno spazio di difesa della democrazia e della convivenza civile e, al tempo stesso, ostacoleremo i venti di guerra che già soffiano impetuosi.

Dobbiamo sapere che sarà un cambio di civiltà, che richiederà immense risorse materiali, ma soprattutto radicali cambiamenti psicologici, di abitudini, di relazioni tra gl'individui.

Entrambe cose difficilissime, la seconda più della prima.

Come prepararci a questi cambiamenti? Come organizzarci, come comunità umana, con quali tappe intermedie? Realisticamente dobbiamo sapere che non sarà l'Uomo a determinare i loro ritmi. Credo che, nelle attuali condizioni, nessuno sia in grado di farlo. Dovremo cercare di limitare i danni. Questo possiamo farlo. È uno dei compiti principali per cui Alternativa è nata.

Colgo la domanda: come possiamo noi, che siamo piccoli e pochi, porci un compito di questa, smisurata grandezza? Rispondo semplicemente: chi vede la portata del cambiamento che si delinea ha il dovere morale di porsi questo problema, in nome della generazione che verrà dopo di noi. Se siamo in pochi dobbiamo cercare di diventare molti. Altra via non c'è. Il successo non è assicurato e non sta scritto da nessuna parte che noi potremo farcela.

Dobbiamo solo evitare di sbagliare i calcoli. Di nutrire illusioni: dentro di noi e fuori di noi.

C'è chi prova a immaginare le forme di questa transizione, e chi già sperimenta alcuni modi per affrontarla civilmente. Noi siamo solidali con tutti questi tentativi. Dobbiamo lavorare per estenderli. È una delle strade da percorrere. Ho già citato molte volte Herzen e la sua frase del «procedere con il passo dell'Uomo». È una chiave fondamentale, in molti sensi.

Noi non potremo inventare una transizione senza tenere conto della sensibilità, della storia, dell'esperienza dei popoli, a cominciare dal nostro. Non si potrà fare questa transizione senza ritornare alle radici umane, perfino a quelle fisiche della terra che sono state perdute nei gorghi della civiltà occidentale, in cui tutto è ormai merce e consumo. Non ci potrà essere questa transizione senza una riscoperta della spiritualità, senza una nuova scala di valori.

Non può esserci, e non ci sarà, un piano quinquennale della transizione. Non ci potrà essere un'avanguardia che detta le norme da un centro di comando, perché questa transizione può essere soltanto il frutto della consapevolezza collettiva di milioni di individui. Ma, al contempo, dobbiamo sapere che saranno le comunità umane, singolarmente e insieme, a stabilire quale percorso potranno fare. Cioè che, se c'è un modo per uscirne sani, questo sarà il frutto di una per ora inimmaginabile partecipazione di milioni di esseri umani al processo del loro proprio mutamento. Questa transizione può essere vista soltanto – altrimenti non sarà e si trasformerà in una giungla dove varranno solo le leggi selvagge della sopraffazione – come un immenso e inedito esperimento democratico, nel senso più genuino di partecipazione individuale.

 

Il nostro è perciò un discorso difficile da fare, me ne rendo conto perfettamente.

Ho partecipato a diverse discussioni tra di noi e fuori di noi. Molti si scoraggiano vedendo che è molto difficile essere compresi su questioni di così vasta portata, politiche, ma anche etiche. C'è chi si ritrae, impaurito; c'è chi non capisce perché il suo orizzonte è chiuso nei confini definiti dalle idee correnti; c'è chi capisce ma non sa esattamente cosa può fare. Ribadisco: dobbiamo sapere che stiamo facendo un discorso difficile e mettere in conto che molti non capiranno. Non possiamo stupirci di queste reazioni, che sono naturali. In primo luogo perché noi non offriamo toccasana e speranze gratuite, e, al contrario, chiediamo di compiere imprese individuali tremendamente difficili, come è quella di mutare le proprie abitudini. Bisogna scontare il fatto di essere considerati “diversi”. Perché, per fare questi discorsi bisogna essere “diversi”. Chi non sa essere “diverso” non può portare il discorso di Alternativa.

Al tempo stesso, poiché la nostra analisi è giusta, noi dobbiamo tenere conto del fatto che la transizione non aspetta né i progetti di Berlusconi, né quelli di Bersani (supposto che ne abbiano), né quelli di Wall Street, né quelli di Hu Jintao: ciò che oggi non si vede, o può apparire incredibile, come il picco del petrolio, o l'esaurimento dell'acqua potabile, o il cambiamento climatico, domani si vedrà meglio, dopodomani diverrà tremendamente evidente. E allora ci saranno quelli che l'avranno previsto e saranno pronti, mentre gli altri cadranno nel panico e cercheranno soccorso.

 

Dunque resta il problema del “come” fare al meglio questa battaglia, partendo dalle condizioni minoritarie, assai esigue, in cui ci troviamo. Facendo ora il migliore investimento sul futuro che possiamo realizzare con le nostre forze. Sappiamo che saremo contrastati duramente. Non siamo noi che possiamo controllare lo stato psicologico-emotivo delle grandi masse.

Chi detiene il potere finanziario, detiene anche il potere della comunicazione: le due cose sono ormai indistinguibili. Costoro non hanno alcun interesse a dire la verità. Per impedirla e ritardarla stanno già mettendo in atto cortine fumogene impenetrabili. L'avventura del nucleare è una di quelle, e nemmeno la più insidiosa. Inventano il business verde, inventano la favola che le energie rinnovabili potranno consentirci di continuare a consumare energia a piacimento, cioè ci garantiranno il proseguimento della crescita ai ritmi attuali. Hanno da tempo inventato la favola che la tecnologia risolverà tutti i problemi. La crescita conviene a un numero ristrettissimo di persone. Esse sono le stesse che detengono la forza finanziaria, militare, spettacolare in grado di tenere in vita l'illusione.

Naturalmente tutto ciò che portano sul palcoscenico del loro spettacolo è falso. Lo è attivamente. Poi c'è il falso riflesso, che consiste nello spingere ancora, giorno dopo giorno, verso la creazione e la moltiplicazione del consumatore compulsivo.

Siamo già nel mezzo di una furibonda battaglia politica mondiale che si combatte sul campo dell'informazione comunicazione. Ecco un altro dei pilastri che caratterizzano Alternativa:

il cambio del campo di battaglia, che consiste nel portare la lotta direttamente sul terreno della informazione-comunicazione.

Ecco un punto su cui concentrare la nostra riflessione nei prossimi mesi. Cosa significa questo slogan? Significa, lo dico per sommi capi: in primo luogo capire cosa è già accaduto e che ha portato alla sconfitta di ogni idea di convivenza civile e ha prodotto una regressione intellettuale collettiva. Se non si capiscono le cause non si potrà trovare il rimedio. Noi siamo il prodotto finale di un uso sistematico di tecnologie manipolatorie che sono state usate come armi di nuovo tipo per annichilire le precedenti forme di pensiero, in tutte le loro accezioni, e per sostituirle con l'ideologia e la pratica del consumo. È questo il significato ultimo del “pensiero unico”: di fatto un “non pensiero” che ha sostituito il pensiero.

La mercificazione generale dei rapporti umani è anch'essa un sottoprodotto dello stesso processo manipolatorio. Il brutale accorciamento del tempo, cioè la liquidazione del passato, è esso stesso uno dei corollari della mercificazione: ogni merce nuova deve cancellare le precedenti per diventare oggetto di compravendita. Anche il ricordo deve essere sostituito sistematicamente da altri ricordi, sempre più corti e striminziti. Anche il linguaggio deve essere sostituito e ridotto, in volume e quantità di significati. È l'Orwell di “1984” che s'invera ai giorni nostri.

Di fatto noi siamo stati “occupati” da un nemico – tecnologico, quindi non umano - che è stato in grado di penetrare dentro le nostre difese, cambiando i nostri pensieri. C'è voluto un bombardamento sistematico di ben due generazioni per smantellare l'idea stessa di appartenenza a una comunità o a una classe. Questo nemico è il sistema dell'informazione-comunicazione, divenuto negli ultimi tre decenni lo strumento militare di questa occupazione permanente delle menti.

O capiamo questo e, di conseguenza, tentiamo di uscire dalle vecchie fortezze (ideologie, inclusa la rappresentazione tradizionale della lotta di classe; inclusa l'idea stessa di democrazia liberale, travolta anch'essa come tutto il resto dell'armamentario filosofico del XX secolo); fortezze che non servono più a niente essendo già state conquistate, oppure non potremo liberarci dalla società dello spettacolo (per citare qui Guy Debord) in cui ci ritroviamo.

Troppi di noi non hanno ancora capito, o non vi hanno ben riflettuto, che ogni comunicazione (parlo di ripetizione sistematica della comunicazione) non solo influisce sulla coscienza individuale, ma la forma, la modella. Spesso lo stesso creatore di quella comunicazione non è necessariamente consapevole. di ciò che produce. Crede, spesso, che la sua produzione cominci e finisca nelle immagini che crea, ma non vede di quanti significati esse si caricano, sgravandosene poi negli occhi e nel cervello di chi le guarda attraverso gli schermi. Prendete i pubblicitari. Creano l'arredo urbano delle città, invadono con i loro prodotti visivi le menti di milioni. Pensate che si pongano il problema di cosa producono nelle menti?

Dobbiamo ancora renderci conto che non esiste una comunicazione neutrale. Nulla di ciò che viene trasmesso è neutrale. Ogni comunicazione visiva ha un effetto formativo, o deformativo, che è la stessa identica cosa. Peggio: poiché ogni comunicazione ha in sé un aspetto informativo e un aspetto emotivo, occorre sapere che, quando l'aspetto informativo, che attiene alla sfera del razionale, svanisce, resta l'aspetto emotivo. E questo non c'è individuo che possa dimenticarlo. E quando questo aspetto emotivo s'insedia non ci sarà più alcuna logica in grado di smantellarlo. E la comunicazione, una volta installatasi nel subconscio, non può più essere scoperta dallo stesso individuo che ne è portatore, mentre influirà su tutti i suoi atti successivi, a sua insaputa.

Noi viviamo già nel mondo dell'immagine in movimento e non ci sarà alcun ritorno all'indietro. L'homo diventerà sempre più videns, perché il numero degli schermi che ci circondano non farà che aumentare, accentuando fino al parossismo la mutazione antropologica di cui parla Giovanni Sartori. Dunque o noi ci rendiamo conto della potenza delle armi del nemico, armi che non uccidono, ma annientano, noi non potremo nemmeno più combattere.

 

Questo significa solo una cosa: che dobbiamo organizzarci per intaccare questo dominio là dove esso nasce. La lotta per il potere e per la democrazia, hic et nunc, si è già trasformata in combattimento di tecnologie per manipolare la coscienza collettiva.

Certo noi non vogliamo porci il compito di manipolare, a nostra volta, la coscienza. Ma per combattere la manipolazione dominante e per ricostruire un pensiero critico, non si può stare “altrove”. Del resto la sinistra, le sinistre mondiali, sono state debellate in primo luogo perché hanno continuato a combattere (quelle che hanno combattuto e non si sono arrese) “altrove”.

Cioè hanno perduto senza nemmeno capire dove si svolgeva la vera guerra.

Non hanno capito che la mercificazione delle attività umane avrebbe alla fine mercificato gl'istituti dello stato, della convivenza civile. Non hanno capito che mercificare significa trascinare verso il basso, verso il consumo delle cose, verso l'adorazione del denaro, la vita individuale e collettiva. Non hanno capito che trascinare verso il basso è più facile che trascinare verso l'alto. Ma ogni idea di costruzione e di vita collettiva implica un grado di ordine superiore: è l'opposto di una discesa entropica. Così, non avendo capito e non sapendo come opporsi, sia le idee socialiste che quelle democratiche liberali non si sono rese conto che veniva mortificata ogni ipotesi di redenzione. E invece di elaborare gli antidoti, si sono accinte a imitare i processi degenerativi, sperando di sostituirsi al superclan nella loro gestione. Ovvio che non sarebbero state in grado di competere su quel terreno e, infatti, sono state fatte prigioniere.

Dunque che fare?

La mia risposta è: raccogliere le forze esistenti, intellettuali e morali, e usare le tecnologie informativo comunicative – che sono, per nostra fortuna, per un certo tempo ancora utilizzabili e alla nostra portata – per portare la battaglia sul terreno del nemico, dell'occupante.

È, tanto per cominciare il discorso di una televisione della gente. Ma non è soltanto questo. È una miriade di forme e di luoghi di lotta che dev'essere interamente costruita. È una nuova educazione collettiva al linguaggio dei media. È una nuova educazione e istruzione in generale. È la conquista - ideale, culturale morale - di coloro che fanno informazione, comunicazione, pubblicità. È l'introduzione dei temi della comunicazione in ogni battaglia rivendicativa, di ogni gruppo sociale, partendo dalla banalissima constatazione che, nella società dello spettacolo, se non sei trasmesso non esisti. È nel rifiuto dell'idea subalterna della “contro-informazione”, che significa lasciare nelle mani del nemico la quasi totalità delle menti, cioè significa perderle. È nel rifiuto dell'illusione che internet sia, di per sé, la liberazione e l'emancipazione dal controllo.

A che punto è la nostra comprensione di questi aspetti? A che punto è la nostra sperimentazione di nuove forme di combattimento? Ho l'impressione che queste idee facciano fatica a procedere perfino tra di noi. Neanche questo mi stupisce, conoscendo la potenza della società dello spettacolo e la forza dell'inerzia del pensiero della sinistra, e di quello cattolico, anche tra di noi.

Ma qui c'è uno degli anelli decisivi che c'incatenano alla sconfitta. Questo anello dobbiamo romperlo.

 

Un altro punto che ci caratterizza è la visione mondiale dei processi in atto. Il dibattito italiano, così asfittico e provinciale, rischia spesso di risucchiare anche noi. Ma dobbiamo resistere. Su questo punto, di una nuova politica estera di pace e di sovranità, nazionale ed europea, la discussione all'interno di Alternativa, è stata fino ad ora ridotta, tradizionale e poco interessante, sebbene Megachip.info abbia dato importanti contributi in senso contrario, di apertura. Noi dobbiamo parlare del pericolo di guerra perché dobbiamo cambiare la politica pacifista: da difensiva a offensiva.

Il movimento pacifista è stato sconfitto non solo perché molte delle sue componenti si sono lasciate prendere in ostaggio da diversi settori della casta politica, che le hanno succhiate e uccise, ma soprattutto perché non sono state capaci di guardare ai processi mondiali.

La sinistra non li ha studiati e, quindi, non poteva nemmeno tentare di capirli.

Ma la stessa cosa hanno fatto i pacifisti. Le guerre sono andate avanti nel silenzio dei più, ma il pericolo di altre guerre, qualitativamente senza paragoni con quelle già viste nell'ultimo quindicennio, si estende a vista d'occhio. Il silenzio dei movimenti, l'assenza di una mobilitazione, impedisce perfino di vedere quanto sta accadendo attorno all'Iran, per esempio e non soltanto. Quanto accade attorno alla Cina, sopratutto.

Dobbiamo porre la questione dell'uscita dell'Italia dalla NATO, senza esitazioni e senza indugi. Dobbiamo porre la questione delle nostre spropositate, insensate spese militari. Dobbiamo porre la questione dell'indipendenza dei nostri servizi segreti dal controllo e dal comando americano. Sono solo alcune idee preliminari, ma vorrei che fossero discusse.

 

Più in generale dobbiamo formulare una serie di ipotesi di lavoro che ci consentano di giungere a una visione complessiva della crisi mondiale.

Siamo ancora lontani dal percepirne tutti gli aspetti e le conseguenze. Al momento noi sappiamo soltanto che le classi dirigenti mondiali sono strutturalmente incapaci di formulare una ipotesi diversa da quella sviluppista e, quindi, il massimo che possono programmare e un attacco generalizzato ai diritti e alla civiltà.

O addirittura, come qualcuno già comincia a ipotizzare, si candideranno loro - costruendo un esito apertamente autoritario ai conflitti sociali che innescano giorno dopo giorno - un'ipotesi autoritaria di gestione della scarsità delle risorse.

Io non credo che, in questo momento, sia all'ordine del giorno una ipotesi di “nuovo ordine mondiale”. Non è che non ci stiano pensando o che non ci abbiano pensato. Il fatto è che non mi sembra probabile che i reggenti del superclan, che hanno mostrato una tale insipienza e miopia in tutti questi decenni, siano capaci di un vero sguardo d'insieme sulle macerie che hanno creato. Non può, colui che ha una visione così corta, costruire un piano di lunga portata.

Il che significa che siamo noi che dovremo disegnare un piano.

Dobbiamo farlo rispondendo alla domanda: dove comincia il futuro? La risposta è: in una nuova e diversa educazione, a tutti i livelli. C'è una frase di Albert Einstein che dovremmo tenere presente: «I problemi più importanti che abbiamo non possono essere risolti con lo stesso tipo di pensiero che li ha creati».

Noi ci troviamo di fronte a una intera classe politica mondiale, non parlo di quella italiana, che continua a pensare che ciò che è bene per Wall Street è bene per tutti.

Se mai lo è stata, questa idea non è più vera oggi. La crisi del nostro tempo è il risultato di una bancarotta intellettuale, quella del pensiero economico e sociale degli ultimi 40 anni. La transizione di cui ho parlato all'inizio è necessaria e inevitabile anche perché le élites dominanti non sono più capaci di reagire alle sfide poste dalla natura violata.

Per poter reagire occorre una nuova architettura sociale, istituzionale, nazionale e internazionale. Purtroppo mai, nella storia umana, questo tipo di transizioni è avvenuto pacificamente. Non esiste un'evoluzione naturale di questo genere, perché ciò che è stato creato non ha nulla di naturale. Sarà difficile difendersi, e potremo farlo meglio se riusciremo a definire il terreno e le forme della battaglia. Provo a dirvi come vedo questo “terreno”:

---- È il territorio, in cui ciascuno di noi vive, il luogo dove si svolge l'offensiva della Scimmia. Occorre dunque organizzare la difesa del territorioattraverso le comunità che lo abitano.

---- È una catena di rapporti di produzione sostenibile, il chilometro zero, la solidarietà è il mutuo soccorso, la creazione di strumenti monetari e di scambio che consentano di sfuggire al ricatto dell'intermediazione bancaria; è l'educazione, l'istruzione, una comunicazione democratica, è la difesa della salute e lo sviluppo della cultura.

---- È la partecipazione diretta della gente all'organizzazione del proprio territorio.

 

Tutte queste cose devono essere definite in base alle esigenze vitali delle generazioni future. Ogni scelta che prescinda da questo dato è da considerarsi come errata. Noi viviamo in un contesto in cui nessun peso viene attribuito a effetti che si producono in un lungo periodo di tempo. La nostra mente (e la nostra cultura) sono state modellate dall'”occupante” per concentrarsi sul presente. In questo modo la gran parte delle questioni vengono poste in modo sbagliato. Il nostro corto vedere non riesce a trovare un ponte capace di connettere il futuro lontano delle generazioni che verranno con i conflitti e le contraddizioni - per esempio in tema di distribuzione della ricchezza, oppure di produzione di energia – nelle quali oggi viviamo. Eppure molto, se non tutto, ciò che accade ci sta dicendo che l'intero apparato concettuale abituale di cui disponiamo è del tutto inadatto alla situazione. Una situazione che non è già più lineare, ma che noi continuiamo ad aggravare con un comportamento logistico che è quello, suicida, «di una collettività che attinge a una risorsa finita (la Terra), con la legge dell'incremento percentuale costante» (Luigi Sertorio). Allora, se non fossimo ciechi, dovremmo prendere in esame la possibilità concreta che il collasso possa arrivare non dopo secoli, ma «all'improvviso, come un ladro nella notte» (Niall Ferguson).

Qui dovremo dire cose radicalmente nuove. Tanto nuove quanto mostruosa è la fotografia del mondo contemporaneo post-industriale.

Non posso qui, per brevità, portare che alcuni degli elementi dell'analisi, i più impressionanti. Viviamo in una mostruosa asimmetria proprietaria in cui il 2% dei ricchissimi ha il 51% delle ricchezze esistenti, mentre i poveri, che sono oltre il 50%, disponevano nell'anno 2000, meno dell'1%.

Viviamo in un mondo dove 4 miliardi di persone vivono in povertà, cioè con meno di 1 o 2 dollari al giorno, e i loro diritti umani fondamentali sono uguali a zero. Questa è in gran parte gente che non è proletaria, né impiegatizia, ma vive di attività non censite, in nero. Non è computabile cioè con i criteri occidentali, nemmeno con quelli delle sinistre. E riteniamo normale che trilioni di dollari siano trasferiti a un pugno di persone dell'oligarchia finanziaria, mentre non abbiamo mai preso in considerazione neppure l'idea che se ne possa trasferire una parte a centinaia di milioni di persone che non hanno niente. I profitti del settore finanziario nei soli Stati Uniti sono passati dal 16% (1973-1985) al 41% (2000-2010).

I 200 trilioni di dollari creati dal nulla nel decennio 2000-2007 (cifre inferiori di gran lunga alla realtà) cosa sono? Valore reale? Ma a che servono se non sono più investibili in un sistema che è ormai in sovrapproduzione in lungo e in largo?

Il fatto è che la moneta non è una merce e non ha un valore se non è rapportata all'economia reale. E cosa è dunque? È potere, potere allo stato puro. Serve a tenere in cattività il mondo intero. Chi ha questo potere sfugge a ogni regolazione e a ogni legge. La democrazia è estinta in queste condizioni e il dominio è interamente nelle mani della Scimmia. Che è incapace di calcolo al di fuori della sua fantastica ambizione di noccioline. Lo dimostra il fatto che i primi cinquanta banchieri di Wall Street hanno incamerato ciascuno 590 milioni di dollari di emolumenti nel 2007, anno in cui cominciava la crisi di Wall Street e del mondo. E continuano a farlo. Non c'è da aspettarsi ragionevolezza da pazzi di questa portata.

Ebbene, ora domandiamoci: tutto questo è un errore? Errore di egoismo? Niente affatto! Il sistema è stato costruito per funzionare esattamente così. Indovina un po' chi lo ha disegnato?

E adesso che si è rotto, come facciamo? Ecco il punto. La Scimmia non lo sa. E noi neppure.

Ma qualche risposta dobbiamo cominciare a darla. La prima è sottrarre a questo pugno di criminali il controllo sulla moneta. Il controllo sulla sua emissione. Chiamatelo signoraggio o come vi pare, Ma la stortura principale, ormai clamorosamente evidente è lì. Ed è la contraddizione insanabile, sotto forma finanziaria, dello sviluppo ormai insostenibile. La natura è finita, non infinita, mentre il denaro, creato dall'uomo, con questo sistema, è potenzialmente infinito e con esso si può distruggere ogni equilibrio naturale, oltre che ogni regola umana.

 

Un capitolo assolutamente centrale della nostra piattaforma politica, dunque, certo suscettibile di sollevare reazioni violente, è quello dell'architettura finanziaria mondiale.

Occorre ridisegnare il ruolo del denaro nella società di transizione. Perché di denaro avremo bisogno, ma non di questo. Come farlo sarà impresa difficile e pericolosa, ma inevitabile. A cominciare dalla rinazionalizzazione delle banche centrali e dall'imposizione di regole che rimettano la creazione del denaro in mani pubbliche e sotto controllo democratico. Cioè per trasformarlo in un bene comune. Uno dei modi con cui ciò sarebbe possibile sarebbe quello di costringere le banche ad avere riserve del 100% quanto a denaro emesso. In tal modo il signoraggio bancario tornerebbe nelle mani dello Stato, e l'attuale indebitamento degli Stati verrebbe azzerato perché sarebbero gli Stati ad autofinanziarsi, a tasso zero per tutte le loro esigenze interne di produzione di beni e di servizi. Eresia?

Ma i due principali economisti americani degli anni '20, Irving Fisher di Yale e Frank Knight di Chicago, sostenevano la tesi che le riserve avrebbero dovuto essere del 100%, e non , com'è poi avvenuto, una minima parte di quella quota. Ed è appunto questo differenziale quello che garantisce alle banche di emettere denaro incassandone giganteschi dividendi, più simili a una rapina che a un guadagno, per quanto esoso. .

Io ricavo da Herman Daly le linee generali di una strategia di risposta al delirio della Scimmia. Tre pilastri:

1) Il bene comune Natura dev'essere protetto. Può esserlo soltanto come proprietà pubblica perché questo è l'unico modo per impedire la sua dilapidazione. L'acqua è l'esempio più eclatante.

2) Il bene della conoscenza deve essere considerato “non rivale”, cioè liberato dal connotato proprietario.

3) La ricchezza istituzionale, imperniata sulla moneta, deve essere pubblica, Il signoraggio deve essere appannaggio dello Stato democratico.

 

Il sistema in cui viviamo è esattamente l'opposto di queste tre regole. E porta al disastro, perché queste tre regole non sono più eludibili. La Natura non negozia su queste basi e proseguirà la propria strada senza di noi. Il contrario non è possibile.

 

Concludo ripetendo ciò che avevo scritto nello Stato dell'Arte n.3. Alternativa dovrà lavorare per:

a) individuare, punto per punto, i vettori della crisi,

b) saper tradurre le previsioni in proposta strategica;

c) mantenere il realismo senza perdere di vista che ci saranno svolte radicali incompatibili con la realpolitik continuista e sviluppista e perfino con il buon senso.

 

Siamo già fuori dal buonsenso, come siamo in overshooting da oltre trent'anni.

Le risposte da individuare sono complesse, molte delle quali non possono essere politically correct. Il quadro è fosco. Non possiamo inventarcene un altro. La transizione sarà difficile e dobbiamo dirlo.

Tutto questo dice anche che il lavoro da fare è enorme, richiederà studio, disciplina, azione, non chiacchiere sul computer. Ecco perché i militanti di Alternativa devono essere diversi.

Credo che tutti abbiate letto il mio articolo dal titolo “Uniti e diversi”. Credo che dovremo discutere a fondo di questo “tentativo costituente”.

Avevo chiesto il mandato di poter avviare questa fase costituente di un nuovo soggetto politico, che non sarà “noi”, ma al quale noi parteciperemo. La totalità dei gruppi territoriali che si sono espressi (cinque in tutto) ha dato mandato positivo. Alla luce di quanto sta avvenendo chiedo di poter proseguire il tentativo e di svilupparlo, con l'impegno che tutta Alternativa sarà informata, passo dopo passo, dei suoi sviluppi e potrà esprimersi su ogni fase di esso.

Credo che, quanto più forti saremo sui territori, tanto più avanti andremo e tanto meglio.

Siamo partiti il 17 Aprile e abbiamo individuato i capisaldi comuni dell'analisi della crisi. Abbiamo compreso che la politica (le sue forme i suoi metodi) è incapace di farvi fronte; che la rappresentanza attuale non rappresenta più nessuno e che la democrazia in questo paese è stata ridotta a larva, contrassegnata non da momenti di decisione ma da cerimoniali sempre più insulsi.

Per questo abbiamo deciso di diventare soggetto politico radicalmente nuovo. Per fare cosa? Tra l'altro, ma non solo, per costruire una nuova rappresentanza politica e una nuova democrazia, basata sui valori originari della Costituzione.

Il che significa che, quando saremo abbastanza forti per farlo (e questo lo decideremo tutti insieme) parteciperemo alle elezioni di ogni ordine e grado, da soli o – e sarebbe meglio – insieme ad altri che condividano i pilastri del nostro agire e del nostro metodo. E anche questo lo decideremo tutti insieme.

 

 

 

Condividi