La transizione: esserci, capirla, per trasformarla
Scritto da Giulietto Chiesa Relazione di Giulietto Chiesa alla Seconda
Assemblea nazionale di Alternativa. (Genova, 30 Ottobre 2010) Prima di tutto voglio partire dai dati. È il
secondo incontro nazionale e dobbiamo discutere a tutto
campo, ma senza dimenticare, neppure per un attimo,
quanti siamo, chi siamo e perché siamo qui. Se abbiamo chiari questi aspetti potremo meglio
discutere di cosa succede attorno a noi e cosa possiamo
fare per influire sugli avvenimenti. Eravamo 385 alla fine di agosto. Siamo 467 iscritti ad Alternativa. Iscritti sul
sito, intendo dire. Il che non significa affatto quei
militanti ai quali io chiesi di dare sette ore del loro
tempo vitale settimanale. Dico subito che questa
richiesta resta valida anche oggi. Non era e non voleva
essere una esagerazione. Perché tutti devono
capire che, senza il loro apporto individuale, personale,
non vi sarà né alternativa all'attuale situazione, né
Alternativa come organizzazione politica. Di questi 467 iscritti i tesserati sono 105,
meno di uno su quattro. Che conferma esattamente quanto
ho detto poc'anzi. Molti ancora non hanno capito chi
siamo, chi vogliamo essere, e perché. Abbiamo comunque dieci gruppi territoriali,
ormai dotati di un responsabile. Ed è una buona cosa. Ma
siamo quasi del tutto assenti nel sud e nelle isole.
Pochi gl'iscritti in Sicilia, Sardegna, Abruzzo Puglia,
Calabria, Basilicata. Nemmeno un tesserato in queste tre
ultime regioni. Perché mi soffermo su questi dati, con le loro
alcune luci e molte ombre? Perché dobbiamo porci il
problema di come crescere e diventare forza reale nei
territori. Si è detto fin dall'inizio che Alternativa
non intendeva diventare ed essere alternativa a nessuno
di coloro che operano già sui territori, e sui temi. Noi
vogliamo essere con tutti quelli che si battono per un
radicale rinnovamento culturale economico, sociale;
insieme a coloro che già difendono i territori, i beni
comuni, la giustizia sociale. Ma siamo consapevoli della
assoluta necessità di fare uno anzi molti
passi verso un nuovo soggetto politico che unifichi le
forze disperse, che sia in grado di fare massa critica e
di agire sulla scena politica nazionale. Alternativa
ambisce dunque non a sostituire, ma a integrare, ad
aiutare a far crescere una visione comune, a superare
divisioni e particolarismi. Insomma ambisce a far emergere la vera
complessità di una transizione che sarà difficile e
proteica, e che non è affrontabile, per così dire, da
un solo lato. Ma per poter fare anche solo alcune di queste
cose occorre esserci. Direi che occorre esserci e sapere. Dunque dobbiamo uscire da questa due giorni con
le idee più chiare su come crescere, cioè esserci e sapere. L'identità di Alternativa E' questione ancora aperta e credo lo sarà a
lungo. È non solo normale che sia così: è giusto. I
molti che verranno a noi saranno viandanti che arrivano
da molte strade diverse. Ciascuno con i suoi
interrogativi. Rispondere ora a tutti con le stesse
risposte è impossibile e sbagliato. Altrettanto sbagliata (e pericolosamente
sbagliata) è l'idea che, per esistere, noi dobbiamo
occupare tutti i terreni, dare risposte a tutti i
problemi, rispondere a tutte le esigenze sociali,
culturali, psicologiche di questa società malata. Come
se, non facendo questo, fossimo ininfluenti e
impossibilitati a crescere. È un errore sotto tutti i
profili. Lo è perché noi non siamo in grado di
rispondere a tutti e su tutti i terreni. Non lo siamo
ancora e non lo saremo per un certo tempo. Lo è perché è una pretesa verticistica
pensare che noi, gli attuali noi, siamo in
grado di avere le conoscenze adeguate per farlo. Noi non
abbiamo queste conoscenze in tutti i campi. Dovremo
studiare per apprenderle e conquistare coloro che le
hanno affinché ce le trasmettano e le inquadrino in una
prospettiva nuova quale quella che noi proponiamo. Lo è perché le nostre forze attuali non ci
consentono di parlare a tutti. Perché la nostra sfera
d'azione è per ora delimitata ed è quindi del tutto
inutile, per esempio, avere una organica piattaforma per
i contadini, se non sappiamo neppure dove sono, cosa
fanno e come raggiungerli. Alla fin fine dobbiamo partire dalla
constatazione che se è malato tutto l'organismo non ha
senso curare un dito del piede. Certo non ha senso
partire da un dito del piede per curare un organismo che
sta morendo. Quindi dobbiamo sapere bene dove siamo, con chi
parliamo, e procedere, allargandoci fino a investire
gruppi diversi. Allora, e solo allora, potremo dispiegare
la nostra presenza e dovremo trovare le risposte. È ciò
che deve accadere domani e dopodomani. Sappiamo dunque che molti tasselli sono da
riempire. E sappiamo che altri a quei punti ci sono già
arrivati, quindi dovremo evitare anche di reinventare la
bicicletta dove essa esiste già: solo occorrerà fare in
modo che le biciclette che già esistono corrano tutte
insieme nella stessa direzione. Ciò detto, credo tuttavia che tutti quelli che
sono qui sappiano perché sono qui. Il che vuol dire che
c'è già molto di comune in cui ci riconosciamo, che ci
sono capisaldi, o colonne portanti di un ragionamento
comune, che è e sarà il cemento che ci unisce. Quali sono? Cerco di riassumerli in parole
essenziali, ma ciascuno di essi è il terminale di
un'ampia analisi. Un'analisi che non abbiamo fatto noi,
che è il prodotto ormai di anni di battaglie e di
visioni critiche, ma della quale dobbiamo impadronirci
tutti fino in fondo. Perché saranno questi gli strumenti
della nostra battaglia. Il primo di essi è la certezza della irreversibilità
della crisi molteplice che ha investito la comunità
umana alla fine del XX secolo. E, correlata ad essa, è
l'idea di una transizione epocale, che non ha precedenti
nella storia umana (per lo meno negli ultimi dieci
secoli), verso una società radicalmente diversa da
quella attuale. Sappiamo che, per queste ragioni stesse, si
tratterà di una transizione estremamente difficile,
probabilmente drammatica. Intravvediamo che le
probabilità di guerre e collisioni, anche assai vaste,
diventano ogni giorno che passa più alte e inquietanti.
Da qui la necessità di impedire che la transizione si
trasformi in una catastrofe in cui milioni e miliardi
siano travolti dalla sofferenza, in cui si perdano
oltre a milioni di vite umane - i valori di civiltà e di
convivenza, di democrazia che, seppure con mostruose
ingiustizie e diseguaglianze, sono stati elaborati e
attuati dal genere umano. Ecco: se ci guardiamo intorno ci accorgiamo
subito che sono in pochi, pochissimi, anche tra i nostri
migliori e più avveduti interlocutori, a vedere questi
scenari. Pochi vedono l'irreversibilità della crisi.
Molti cercano vie illusorie. Pochissimi sono in grado di
analizzare le forze in campo e i vettori che le spingono.
Chiusi in giuste battaglie particolari non vedono la
vastità dello scontro. Non pochi di quelli che
intravvedono le cose, se ne ritraggono impauriti. Il compito nostro, al momento insostituibile, è
sgombrare il campo dalle illusioni e aiutare il formarsi
di una visione d'insieme della complessità. La decrescita è l'altro pilastro. Per fortuna
non è solo il nostro. Nella voragine dei non
più rappresentati, a cui ci rivolgiamo in primo luogo,
sono in molti a capire che la crescita, così come la
conosciamo, è finita. Ma questa è acquisizione
relativa, perché molti, anzi moltissimi, pensano che
possa riprendere in molti altri modi. E si sbagliano. Ed
è questione, come sappiamo, del tutto estranea a tutta
la casta partitica e alle élites dominanti inclusa la
sinistra in tutte le sue componenti, da quelle moderate a
quelle cosiddette radicali. Le prime non ne parlano, anzi
cercano di nasconderla, assecondati dai loro manutengoli
nel mainstream. Le seconde anch'esse nate,
cresciute e finite nell'idea sviluppista pensano
ancora che la difesa dell'occupazione possa essere fatta
chiudendo gli occhi di fronte alla crisi irreversibile
della crescita del PIL. E si fermano qui, ostaggio delle
idee dell'avversario e costrette a rinunciare a tutti i
valori di giustizia e di diritti sociali e umani che le
caratterizzarono fin dalla loro nascita. Torno qui a
suggerire, a chi non l'avesse ancora fatto, la lettura
dei contributi di Badiale e Bontempelli, di Luigi
Sertorio e di Guido Cosenza, che hanno dato una scossa
salutare al dibattito italiano su questi temi, sia su
quello della decrescita, sia su quello del superamento
della dicotomia tra destra e sinistra. Uno dei punti cruciali della nostra diversità
è il tema della transizione. Anche qui c'è molto da
chiarire e spero che oggi faremo tutti insieme un passo
in avanti. Facciamo ordine su questo punto. Io penso che
questa transizione sia già cominciata. Noi viviamo per inerzia sulle orme del passato,
ma ci siamo già dentro. Essa procede velocemente, a prescindere dalle
decisioni politiche (che, per altro, sono tutte
catastroficamente insufficienti e sbagliate) e dalla
volontà nostra. Intendo dire che ci sono due modi possibili per
affrontarla: o restare inerti ad attenderla (ma allora la
transizione si presenterà come una devastante serie di
cataclismi sociali e materiali e umani). Che si
tradurranno simultaneamente in svolte reazionarie sempre
più crude. E che apriranno la strada a guerre di
gigantesca portata. Oppure cercheremo di orientarla per
renderla meno traumatica e, in tal modo, creeremo uno
spazio di difesa della democrazia e della convivenza
civile e, al tempo stesso, ostacoleremo i venti di guerra
che già soffiano impetuosi. Dobbiamo sapere che sarà un cambio di civiltà,
che richiederà immense risorse materiali, ma soprattutto
radicali cambiamenti psicologici, di abitudini, di
relazioni tra gl'individui. Entrambe cose difficilissime, la seconda più
della prima. Come prepararci a questi cambiamenti? Come
organizzarci, come comunità umana, con quali tappe
intermedie? Realisticamente dobbiamo sapere che non sarà
l'Uomo a determinare i loro ritmi. Credo che, nelle
attuali condizioni, nessuno sia in grado di farlo.
Dovremo cercare di limitare i danni. Questo possiamo
farlo. È uno dei compiti principali per cui Alternativa
è nata. Colgo la domanda: come possiamo noi, che siamo
piccoli e pochi, porci un compito di questa, smisurata
grandezza? Rispondo semplicemente: chi vede la portata
del cambiamento che si delinea ha il dovere morale di
porsi questo problema, in nome della generazione che
verrà dopo di noi. Se siamo in pochi dobbiamo cercare di
diventare molti. Altra via non c'è. Il successo non è
assicurato e non sta scritto da nessuna parte che noi
potremo farcela. Dobbiamo solo evitare di sbagliare i calcoli. Di
nutrire illusioni: dentro di noi e fuori di noi. C'è chi prova a immaginare le forme di questa
transizione, e chi già sperimenta alcuni modi per
affrontarla civilmente. Noi siamo solidali con tutti
questi tentativi. Dobbiamo lavorare per estenderli. È
una delle strade da percorrere. Ho già citato molte
volte Herzen e la sua frase del «procedere con il passo
dell'Uomo». È una chiave fondamentale, in molti sensi. Noi non potremo inventare una transizione senza
tenere conto della sensibilità, della storia,
dell'esperienza dei popoli, a cominciare dal nostro. Non
si potrà fare questa transizione senza ritornare alle
radici umane, perfino a quelle fisiche della terra che
sono state perdute nei gorghi della civiltà occidentale,
in cui tutto è ormai merce e consumo. Non ci potrà
essere questa transizione senza una riscoperta della
spiritualità, senza una nuova scala di valori. Non può esserci, e non ci sarà, un piano
quinquennale della transizione. Non ci potrà essere
un'avanguardia che detta le norme da un centro di
comando, perché questa transizione può essere soltanto
il frutto della consapevolezza collettiva di milioni di
individui. Ma, al contempo, dobbiamo sapere che saranno
le comunità umane, singolarmente e insieme, a stabilire
quale percorso potranno fare. Cioè che, se c'è un modo
per uscirne sani, questo sarà il frutto di una per ora
inimmaginabile partecipazione di milioni di esseri umani
al processo del loro proprio mutamento. Questa
transizione può essere vista soltanto altrimenti
non sarà e si trasformerà in una giungla dove varranno
solo le leggi selvagge della sopraffazione come un
immenso e inedito esperimento democratico, nel senso più
genuino di partecipazione individuale. Il nostro è perciò un discorso difficile da
fare, me ne rendo conto perfettamente. Ho partecipato a diverse discussioni tra di noi
e fuori di noi. Molti si scoraggiano vedendo che è molto
difficile essere compresi su questioni di così vasta
portata, politiche, ma anche etiche. C'è chi si ritrae,
impaurito; c'è chi non capisce perché il suo orizzonte
è chiuso nei confini definiti dalle idee correnti; c'è
chi capisce ma non sa esattamente cosa può fare.
Ribadisco: dobbiamo sapere che stiamo facendo un discorso
difficile e mettere in conto che molti non capiranno. Non
possiamo stupirci di queste reazioni, che sono naturali.
In primo luogo perché noi non offriamo toccasana e
speranze gratuite, e, al contrario, chiediamo di compiere
imprese individuali tremendamente difficili, come è
quella di mutare le proprie abitudini. Bisogna scontare
il fatto di essere considerati diversi.
Perché, per fare questi discorsi bisogna essere diversi.
Chi non sa essere diverso non può portare il
discorso di Alternativa. Al tempo stesso, poiché la nostra analisi è
giusta, noi dobbiamo tenere conto del fatto che la
transizione non aspetta né i progetti di Berlusconi, né
quelli di Bersani (supposto che ne abbiano), né quelli
di Wall Street, né quelli di Hu Jintao: ciò che oggi
non si vede, o può apparire incredibile, come il picco
del petrolio, o l'esaurimento dell'acqua potabile, o il
cambiamento climatico, domani si vedrà meglio,
dopodomani diverrà tremendamente evidente. E allora ci
saranno quelli che l'avranno previsto e saranno pronti,
mentre gli altri cadranno nel panico e cercheranno
soccorso. Dunque resta il problema del come
fare al meglio questa battaglia, partendo dalle
condizioni minoritarie, assai esigue, in cui ci troviamo.
Facendo ora il migliore investimento sul futuro che
possiamo realizzare con le nostre forze. Sappiamo che
saremo contrastati duramente. Non siamo noi che possiamo
controllare lo stato psicologico-emotivo delle grandi
masse. Chi detiene il potere finanziario, detiene anche
il potere della comunicazione: le due cose sono ormai
indistinguibili. Costoro non hanno alcun interesse a dire
la verità. Per impedirla e ritardarla stanno già
mettendo in atto cortine fumogene impenetrabili.
L'avventura del nucleare è una di quelle, e nemmeno la
più insidiosa. Inventano il business verde, inventano la
favola che le energie rinnovabili potranno consentirci di
continuare a consumare energia a piacimento, cioè ci
garantiranno il proseguimento della crescita ai ritmi
attuali. Hanno da tempo inventato la favola che la
tecnologia risolverà tutti i problemi. La crescita
conviene a un numero ristrettissimo di persone. Esse sono
le stesse che detengono la forza finanziaria, militare,
spettacolare in grado di tenere in vita l'illusione. Naturalmente tutto ciò che portano sul
palcoscenico del loro spettacolo è falso. Lo è
attivamente. Poi c'è il falso riflesso, che consiste
nello spingere ancora, giorno dopo giorno, verso la
creazione e la moltiplicazione del consumatore
compulsivo. Siamo già nel mezzo di una furibonda battaglia
politica mondiale che si combatte sul campo
dell'informazione comunicazione. Ecco un altro dei
pilastri che caratterizzano Alternativa: il cambio del campo di battaglia, che consiste
nel portare la lotta direttamente sul terreno della
informazione-comunicazione. Ecco un punto su cui concentrare la nostra
riflessione nei prossimi mesi. Cosa significa questo
slogan? Significa, lo dico per sommi capi: in primo luogo
capire cosa è già accaduto e che ha portato alla
sconfitta di ogni idea di convivenza civile e ha prodotto
una regressione intellettuale collettiva. Se non si
capiscono le cause non si potrà trovare il rimedio. Noi
siamo il prodotto finale di un uso sistematico di
tecnologie manipolatorie che sono state usate come armi
di nuovo tipo per annichilire le precedenti forme di
pensiero, in tutte le loro accezioni, e per sostituirle
con l'ideologia e la pratica del consumo. È questo il
significato ultimo del pensiero unico: di
fatto un non pensiero che ha sostituito il
pensiero. La mercificazione generale dei rapporti umani è
anch'essa un sottoprodotto dello stesso processo
manipolatorio. Il brutale accorciamento del tempo, cioè
la liquidazione del passato, è esso stesso uno dei
corollari della mercificazione: ogni merce nuova deve
cancellare le precedenti per diventare oggetto di
compravendita. Anche il ricordo deve essere sostituito
sistematicamente da altri ricordi, sempre più corti e
striminziti. Anche il linguaggio deve essere sostituito e
ridotto, in volume e quantità di significati. È
l'Orwell di 1984 che s'invera ai giorni
nostri. Di fatto noi siamo stati occupati da
un nemico tecnologico, quindi non umano - che è
stato in grado di penetrare dentro le nostre difese,
cambiando i nostri pensieri. C'è voluto un bombardamento
sistematico di ben due generazioni per smantellare l'idea
stessa di appartenenza a una comunità o a una classe.
Questo nemico è il sistema
dell'informazione-comunicazione, divenuto negli ultimi
tre decenni lo strumento militare di questa occupazione
permanente delle menti. O capiamo questo e, di conseguenza, tentiamo di
uscire dalle vecchie fortezze (ideologie, inclusa la
rappresentazione tradizionale della lotta di classe;
inclusa l'idea stessa di democrazia liberale, travolta
anch'essa come tutto il resto dell'armamentario
filosofico del XX secolo); fortezze che non servono più
a niente essendo già state conquistate, oppure non
potremo liberarci dalla società dello spettacolo (per
citare qui Guy Debord) in cui ci ritroviamo. Troppi di noi non hanno ancora capito, o non vi
hanno ben riflettuto, che ogni comunicazione (parlo di
ripetizione sistematica della comunicazione) non solo
influisce sulla coscienza individuale, ma la forma, la
modella. Spesso lo stesso creatore di quella
comunicazione non è necessariamente consapevole. di ciò
che produce. Crede, spesso, che la sua produzione cominci
e finisca nelle immagini che crea, ma non vede di quanti
significati esse si caricano, sgravandosene poi negli
occhi e nel cervello di chi le guarda attraverso gli
schermi. Prendete i pubblicitari. Creano l'arredo urbano
delle città, invadono con i loro prodotti visivi le
menti di milioni. Pensate che si pongano il problema di
cosa producono nelle menti? Dobbiamo ancora renderci conto che non esiste
una comunicazione neutrale. Nulla di ciò che viene
trasmesso è neutrale. Ogni comunicazione visiva ha un
effetto formativo, o deformativo, che è la stessa
identica cosa. Peggio: poiché ogni comunicazione ha in
sé un aspetto informativo e un aspetto emotivo, occorre
sapere che, quando l'aspetto informativo, che attiene
alla sfera del razionale, svanisce, resta l'aspetto
emotivo. E questo non c'è individuo che possa
dimenticarlo. E quando questo aspetto emotivo s'insedia
non ci sarà più alcuna logica in grado di smantellarlo.
E la comunicazione, una volta installatasi nel
subconscio, non può più essere scoperta dallo stesso
individuo che ne è portatore, mentre influirà su tutti
i suoi atti successivi, a sua insaputa. Noi viviamo già nel mondo dell'immagine in
movimento e non ci sarà alcun ritorno all'indietro. L'homo
diventerà sempre più videns, perché il
numero degli schermi che ci circondano non farà che
aumentare, accentuando fino al parossismo la mutazione
antropologica di cui parla Giovanni Sartori. Dunque o noi
ci rendiamo conto della potenza delle armi del nemico,
armi che non uccidono, ma annientano, noi non potremo
nemmeno più combattere. Questo significa solo una cosa: che dobbiamo
organizzarci per intaccare questo dominio là dove esso
nasce. La lotta per il potere e per la democrazia, hic
et nunc, si è già trasformata in combattimento di
tecnologie per manipolare la coscienza collettiva. Certo noi non vogliamo porci il compito di
manipolare, a nostra volta, la coscienza. Ma per
combattere la manipolazione dominante e per ricostruire
un pensiero critico, non si può stare altrove.
Del resto la sinistra, le sinistre mondiali, sono state
debellate in primo luogo perché hanno continuato a
combattere (quelle che hanno combattuto e non si sono
arrese) altrove. Cioè hanno perduto senza nemmeno capire dove si
svolgeva la vera guerra. Non hanno capito che la mercificazione delle
attività umane avrebbe alla fine mercificato gl'istituti
dello stato, della convivenza civile. Non hanno capito
che mercificare significa trascinare verso il basso,
verso il consumo delle cose, verso l'adorazione del
denaro, la vita individuale e collettiva. Non hanno
capito che trascinare verso il basso è più facile che
trascinare verso l'alto. Ma ogni idea di costruzione e di
vita collettiva implica un grado di ordine superiore: è
l'opposto di una discesa entropica. Così, non avendo
capito e non sapendo come opporsi, sia le idee socialiste
che quelle democratiche liberali non si sono rese conto
che veniva mortificata ogni ipotesi di redenzione. E
invece di elaborare gli antidoti, si sono accinte a
imitare i processi degenerativi, sperando di sostituirsi
al superclan nella loro gestione. Ovvio che non
sarebbero state in grado di competere su quel terreno e,
infatti, sono state fatte prigioniere. Dunque che fare? La mia risposta è: raccogliere le forze
esistenti, intellettuali e morali, e usare le tecnologie
informativo comunicative che sono, per nostra
fortuna, per un certo tempo ancora utilizzabili e alla
nostra portata per portare la battaglia sul
terreno del nemico, dell'occupante. È, tanto per cominciare il discorso di una
televisione della gente. Ma non è soltanto questo. È
una miriade di forme e di luoghi di lotta che dev'essere
interamente costruita. È una nuova educazione collettiva
al linguaggio dei media. È una nuova educazione e
istruzione in generale. È la conquista - ideale,
culturale morale - di coloro che fanno informazione,
comunicazione, pubblicità. È l'introduzione dei temi
della comunicazione in ogni battaglia rivendicativa, di
ogni gruppo sociale, partendo dalla banalissima
constatazione che, nella società dello spettacolo, se
non sei trasmesso non esisti. È nel rifiuto dell'idea
subalterna della contro-informazione, che
significa lasciare nelle mani del nemico la quasi
totalità delle menti, cioè significa perderle. È nel
rifiuto dell'illusione che internet sia, di per sé, la
liberazione e l'emancipazione dal controllo. A che punto è la nostra comprensione di questi
aspetti? A che punto è la nostra sperimentazione di
nuove forme di combattimento? Ho l'impressione che queste
idee facciano fatica a procedere perfino tra di noi.
Neanche questo mi stupisce, conoscendo la potenza della
società dello spettacolo e la forza dell'inerzia del
pensiero della sinistra, e di quello cattolico, anche tra
di noi. Ma qui c'è uno degli anelli decisivi che
c'incatenano alla sconfitta. Questo anello dobbiamo
romperlo. Un altro punto che ci caratterizza è la visione
mondiale dei processi in atto. Il dibattito italiano,
così asfittico e provinciale, rischia spesso di
risucchiare anche noi. Ma dobbiamo resistere. Su questo
punto, di una nuova politica estera di pace e di
sovranità, nazionale ed europea, la discussione
all'interno di Alternativa, è stata fino ad ora ridotta,
tradizionale e poco interessante, sebbene Megachip.info
abbia dato importanti contributi in senso contrario, di
apertura. Noi dobbiamo parlare del pericolo di guerra
perché dobbiamo cambiare la politica pacifista: da
difensiva a offensiva. Il movimento pacifista è stato sconfitto non
solo perché molte delle sue componenti si sono lasciate
prendere in ostaggio da diversi settori della casta
politica, che le hanno succhiate e uccise, ma soprattutto
perché non sono state capaci di guardare ai processi
mondiali. La sinistra non li ha studiati e, quindi, non
poteva nemmeno tentare di capirli. Ma la stessa cosa hanno fatto i pacifisti. Le
guerre sono andate avanti nel silenzio dei più, ma il
pericolo di altre guerre, qualitativamente senza paragoni
con quelle già viste nell'ultimo quindicennio, si
estende a vista d'occhio. Il silenzio dei movimenti,
l'assenza di una mobilitazione, impedisce perfino di
vedere quanto sta accadendo attorno all'Iran, per esempio
e non soltanto. Quanto accade attorno alla Cina,
sopratutto. Dobbiamo porre la questione dell'uscita
dell'Italia dalla NATO, senza esitazioni e senza indugi.
Dobbiamo porre la questione delle nostre spropositate,
insensate spese militari. Dobbiamo porre la questione
dell'indipendenza dei nostri servizi segreti dal
controllo e dal comando americano. Sono solo alcune idee
preliminari, ma vorrei che fossero discusse. Più in generale dobbiamo formulare una serie di
ipotesi di lavoro che ci consentano di giungere a una
visione complessiva della crisi mondiale. Siamo ancora lontani dal percepirne tutti gli
aspetti e le conseguenze. Al momento noi sappiamo
soltanto che le classi dirigenti mondiali sono
strutturalmente incapaci di formulare una ipotesi diversa
da quella sviluppista e, quindi, il massimo che possono
programmare e un attacco generalizzato ai diritti e alla
civiltà. O addirittura, come qualcuno già comincia a
ipotizzare, si candideranno loro - costruendo un esito
apertamente autoritario ai conflitti sociali che
innescano giorno dopo giorno - un'ipotesi autoritaria di
gestione della scarsità delle risorse. Io non credo che, in questo momento, sia
all'ordine del giorno una ipotesi di nuovo ordine
mondiale. Non è che non ci stiano pensando o che
non ci abbiano pensato. Il fatto è che non mi sembra
probabile che i reggenti del superclan, che hanno
mostrato una tale insipienza e miopia in tutti questi
decenni, siano capaci di un vero sguardo d'insieme sulle
macerie che hanno creato. Non può, colui che ha una
visione così corta, costruire un piano di lunga portata. Il che significa che siamo noi che dovremo
disegnare un piano. Dobbiamo farlo rispondendo alla domanda: dove
comincia il futuro? La risposta è: in una nuova e
diversa educazione, a tutti i livelli. C'è una frase di
Albert Einstein che dovremmo tenere presente: «I
problemi più importanti che abbiamo non possono essere
risolti con lo stesso tipo di pensiero che li ha
creati». Noi ci troviamo di fronte a una intera classe
politica mondiale, non parlo di quella italiana, che
continua a pensare che ciò che è bene per Wall Street
è bene per tutti. Se mai lo è stata, questa idea non è più vera
oggi. La crisi del nostro tempo è il risultato di una
bancarotta intellettuale, quella del pensiero economico e
sociale degli ultimi 40 anni. La transizione di cui ho
parlato all'inizio è necessaria e inevitabile anche
perché le élites dominanti non sono più capaci di
reagire alle sfide poste dalla natura violata. Per poter reagire occorre una nuova architettura
sociale, istituzionale, nazionale e internazionale.
Purtroppo mai, nella storia umana, questo tipo di
transizioni è avvenuto pacificamente. Non esiste
un'evoluzione naturale di questo genere, perché ciò che
è stato creato non ha nulla di naturale. Sarà difficile
difendersi, e potremo farlo meglio se riusciremo a
definire il terreno e le forme della battaglia. Provo a
dirvi come vedo questo terreno: ---- È il territorio, in cui ciascuno di noi
vive, il luogo dove si svolge l'offensiva della Scimmia.
Occorre dunque organizzare la difesa del territorioattraverso
le comunità che lo abitano. ---- È una catena di rapporti di produzione
sostenibile, il chilometro zero, la solidarietà è il
mutuo soccorso, la creazione di strumenti monetari e di
scambio che consentano di sfuggire al ricatto
dell'intermediazione bancaria; è l'educazione,
l'istruzione, una comunicazione democratica, è la difesa
della salute e lo sviluppo della cultura. ---- È la partecipazione diretta della gente
all'organizzazione del proprio territorio. Tutte queste cose devono essere definite in base
alle esigenze vitali delle generazioni future. Ogni
scelta che prescinda da questo dato è da considerarsi
come errata. Noi viviamo in un contesto in cui nessun
peso viene attribuito a effetti che si producono in un
lungo periodo di tempo. La nostra mente (e la nostra
cultura) sono state modellate dall'occupante
per concentrarsi sul presente. In questo modo la gran
parte delle questioni vengono poste in modo sbagliato. Il
nostro corto vedere non riesce a trovare un ponte capace
di connettere il futuro lontano delle generazioni che
verranno con i conflitti e le contraddizioni - per
esempio in tema di distribuzione della ricchezza, oppure
di produzione di energia nelle quali oggi viviamo.
Eppure molto, se non tutto, ciò che accade ci sta
dicendo che l'intero apparato concettuale abituale di cui
disponiamo è del tutto inadatto alla situazione. Una
situazione che non è già più lineare, ma che noi
continuiamo ad aggravare con un comportamento logistico
che è quello, suicida, «di una collettività che
attinge a una risorsa finita (la Terra), con la legge
dell'incremento percentuale costante» (Luigi Sertorio).
Allora, se non fossimo ciechi, dovremmo prendere in esame
la possibilità concreta che il collasso possa arrivare
non dopo secoli, ma «all'improvviso, come un ladro nella
notte» (Niall Ferguson). Qui dovremo dire cose radicalmente nuove. Tanto
nuove quanto mostruosa è la fotografia del mondo
contemporaneo post-industriale. Non posso qui, per brevità, portare che alcuni
degli elementi dell'analisi, i più impressionanti.
Viviamo in una mostruosa asimmetria proprietaria in cui
il 2% dei ricchissimi ha il 51% delle ricchezze
esistenti, mentre i poveri, che sono oltre il 50%,
disponevano nell'anno 2000, meno dell'1%. Viviamo in un mondo dove 4 miliardi di persone
vivono in povertà, cioè con meno di 1 o 2 dollari al
giorno, e i loro diritti umani fondamentali sono uguali a
zero. Questa è in gran parte gente che non è
proletaria, né impiegatizia, ma vive di attività non
censite, in nero. Non è computabile cioè con i criteri
occidentali, nemmeno con quelli delle sinistre. E
riteniamo normale che trilioni di dollari siano
trasferiti a un pugno di persone dell'oligarchia
finanziaria, mentre non abbiamo mai preso in
considerazione neppure l'idea che se ne possa trasferire
una parte a centinaia di milioni di persone che non hanno
niente. I profitti del settore finanziario nei soli Stati
Uniti sono passati dal 16% (1973-1985) al 41%
(2000-2010). I 200 trilioni di dollari creati dal nulla nel
decennio 2000-2007 (cifre inferiori di gran lunga alla
realtà) cosa sono? Valore reale? Ma a che servono se non
sono più investibili in un sistema che è ormai in
sovrapproduzione in lungo e in largo? Il fatto è che la moneta non è una merce e non
ha un valore se non è rapportata all'economia reale. E
cosa è dunque? È potere, potere allo stato puro. Serve
a tenere in cattività il mondo intero. Chi ha questo
potere sfugge a ogni regolazione e a ogni legge. La
democrazia è estinta in queste condizioni e il dominio
è interamente nelle mani della Scimmia. Che è incapace
di calcolo al di fuori della sua fantastica ambizione di
noccioline. Lo dimostra il fatto che i primi cinquanta
banchieri di Wall Street hanno incamerato ciascuno 590
milioni di dollari di emolumenti nel 2007, anno in cui
cominciava la crisi di Wall Street e del mondo. E
continuano a farlo. Non c'è da aspettarsi ragionevolezza
da pazzi di questa portata. Ebbene, ora domandiamoci: tutto questo è un
errore? Errore di egoismo? Niente affatto! Il sistema è
stato costruito per funzionare esattamente così.
Indovina un po' chi lo ha disegnato? E adesso che si è rotto, come facciamo? Ecco il
punto. La Scimmia non lo sa. E noi neppure. Ma qualche risposta dobbiamo cominciare a darla.
La prima è sottrarre a questo pugno di criminali il
controllo sulla moneta. Il controllo sulla sua emissione.
Chiamatelo signoraggio o come vi pare, Ma la stortura
principale, ormai clamorosamente evidente è lì. Ed è
la contraddizione insanabile, sotto forma finanziaria,
dello sviluppo ormai insostenibile. La natura è finita,
non infinita, mentre il denaro, creato dall'uomo, con
questo sistema, è potenzialmente infinito e con esso si
può distruggere ogni equilibrio naturale, oltre che ogni
regola umana. Un capitolo assolutamente centrale della nostra
piattaforma politica, dunque, certo suscettibile di
sollevare reazioni violente, è quello dell'architettura
finanziaria mondiale. Occorre ridisegnare il ruolo del denaro nella
società di transizione. Perché di denaro avremo
bisogno, ma non di questo. Come farlo sarà impresa
difficile e pericolosa, ma inevitabile. A cominciare
dalla rinazionalizzazione delle banche centrali e
dall'imposizione di regole che rimettano la creazione del
denaro in mani pubbliche e sotto controllo democratico.
Cioè per trasformarlo in un bene comune. Uno dei modi
con cui ciò sarebbe possibile sarebbe quello di
costringere le banche ad avere riserve del 100% quanto a
denaro emesso. In tal modo il signoraggio bancario
tornerebbe nelle mani dello Stato, e l'attuale
indebitamento degli Stati verrebbe azzerato perché
sarebbero gli Stati ad autofinanziarsi, a tasso zero per
tutte le loro esigenze interne di produzione di beni e di
servizi. Eresia? Ma i due principali economisti americani degli
anni '20, Irving Fisher di Yale e Frank Knight di
Chicago, sostenevano la tesi che le riserve avrebbero
dovuto essere del 100%, e non , com'è poi avvenuto, una
minima parte di quella quota. Ed è appunto questo
differenziale quello che garantisce alle banche di
emettere denaro incassandone giganteschi dividendi, più
simili a una rapina che a un guadagno, per quanto esoso.
. Io ricavo da Herman Daly le linee generali di
una strategia di risposta al delirio della Scimmia. Tre
pilastri: 1) Il bene comune Natura dev'essere protetto.
Può esserlo soltanto come proprietà pubblica perché
questo è l'unico modo per impedire la sua dilapidazione.
L'acqua è l'esempio più eclatante. 2) Il bene della conoscenza deve essere
considerato non rivale, cioè liberato dal
connotato proprietario. 3) La ricchezza istituzionale, imperniata sulla
moneta, deve essere pubblica, Il signoraggio deve essere
appannaggio dello Stato democratico. Il sistema in cui viviamo è esattamente
l'opposto di queste tre regole. E porta al disastro,
perché queste tre regole non sono più eludibili. La
Natura non negozia su queste basi e proseguirà la
propria strada senza di noi. Il contrario non è
possibile. Concludo ripetendo ciò che avevo scritto nello Stato
dell'Arte n.3. Alternativa dovrà lavorare per: a) individuare, punto per punto, i vettori della
crisi, b) saper tradurre le previsioni in proposta
strategica; c) mantenere il realismo senza perdere di vista
che ci saranno svolte radicali incompatibili con la realpolitik
continuista e sviluppista e perfino con il buon senso. Siamo già fuori dal buonsenso, come siamo in overshooting
da oltre trent'anni. Le risposte da individuare sono complesse, molte
delle quali non possono essere politically correct.
Il quadro è fosco. Non possiamo inventarcene un altro.
La transizione sarà difficile e dobbiamo dirlo. Tutto questo dice anche che il lavoro da fare è
enorme, richiederà studio, disciplina, azione, non
chiacchiere sul computer. Ecco perché i militanti di
Alternativa devono essere diversi. Credo che tutti abbiate letto il mio articolo
dal titolo Uniti e diversi. Credo che dovremo
discutere a fondo di questo tentativo costituente. Avevo chiesto il mandato di poter avviare questa
fase costituente di un nuovo soggetto politico, che non
sarà noi, ma al quale noi parteciperemo. La
totalità dei gruppi territoriali che si sono espressi
(cinque in tutto) ha dato mandato positivo. Alla luce di
quanto sta avvenendo chiedo di poter proseguire il
tentativo e di svilupparlo, con l'impegno che tutta
Alternativa sarà informata, passo dopo passo, dei suoi
sviluppi e potrà esprimersi su ogni fase di esso. Credo che, quanto più forti saremo sui
territori, tanto più avanti andremo e tanto meglio. Siamo partiti il 17 Aprile e abbiamo individuato
i capisaldi comuni dell'analisi della crisi. Abbiamo
compreso che la politica (le sue forme i suoi metodi) è
incapace di farvi fronte; che la rappresentanza attuale
non rappresenta più nessuno e che la democrazia in
questo paese è stata ridotta a larva, contrassegnata non
da momenti di decisione ma da cerimoniali sempre più
insulsi. Per questo abbiamo deciso di diventare soggetto
politico radicalmente nuovo. Per fare cosa? Tra l'altro,
ma non solo, per costruire una nuova rappresentanza
politica e una nuova democrazia, basata sui valori
originari della Costituzione. Il che significa che, quando saremo abbastanza
forti per farlo (e questo lo decideremo tutti insieme)
parteciperemo alle elezioni di ogni ordine e grado, da
soli o e sarebbe meglio insieme ad altri
che condividano i pilastri del nostro agire e del nostro
metodo. E anche questo lo decideremo tutti insieme. Condividi |