ECCO STRALCI DEI VERBALI SEQUESTRATI
TOTO RIINA Più si fa vecchio e più se la tira. Con tutti i suoi segreti e con la smisurata considerazione che ha di se stesso, pensa che sta diventando un bene sempre più prezioso. A novembre, di anni ne farà ottantuno. Nonostante i malanni dell´età due infarti, l´ipertrofia prostatica, una cirrosi da epatite C e il perenne isolamento, a sentirlo parlare sembra quello che era prima. Un capo. Forse il tempo non passa mai per lo «zio Totò». Vive fuori dal mondo e si sente al centro del mondo. È sepolto dal 1993 in un buco (una cella lunga tre metri e larga centottanta centimetri), si mostra duro e puro però sotto sotto nasconde qualche fragilità. Cedimenti mai, non è il tipo. Solo piccole debolezze. È sempre lui ma da quello che leggerete si può capire che un po´ gli si è sciolta la lingua. Dopo un´esistenza di ostinato silenzio Salvatore Riina concede e si concede. Allude, ammicca, annuncia, nega, conferma, rettifica, pontifica su tutto e tutti. Difficile supporre che si tratti di strategia difensiva con i tredici ergastoli che ha da scontare, è più probabile che voglia levarsi qualche sassolino dalla scarpa. E mandare messaggi ad amici e nemici. Dalle sue parole racchiuse in due verbali di interrogatorio top secret dei magistrati di Caltanissetta di cui pubblichiamo ampi stralci affiora un autoritratto inedito del boss di Corleone. STRAGE VIA DAMELIO Con Totò Riina che racconta Totò Riina chiacchierando di stragi e di pubblici ministeri, di vecchi compari, di paesani suoi, di generali, spie, di senatori e di pentiti. Colloqui e sproloqui di alta mafiosità. Nel suo stile e in un molto approssimativo italiano, a modo suo Salvatore Riina si confessa per la prima volta. Ce l´ha con quel furbacchione di Massimo Ciancimino «che vi usa per recuperare i soldi perduti di suo padre». È risentito con il procuratore Gian Carlo Caselli «che non mi ha mai chiesto se ho baciato o no Andreotti». Ricorda Paolo Borsellino ed esorta ad indagare sulla scomparsa della sua agenda rossa. Ironizza su un Bernardo Provenzano «troppo scrittore» per quella mania dei pizzini ritrovati nei covi di mezza Sicilia. Chiede conto e ragione della chiaroveggenza dell´allora ministro degli Interni Nicola Mancino sulla sua cattura. E poi parla e straparla. Di trattative e papelli, di traditori veri e presunti, della «tiratura morale» di Luciano Violante, della sua condizione carceraria «Non mi pozzo fare neanche un bidè pei telecamere 24 ore su 24» e naturalmente di sé: «Aio 80 anni e si hanno una volta sola. A 80 anni c´è morte. Gli anni sono gli anni». Però come vedete non sono proprio abbattuto penso che tirerò ancora un altro po´». NICOLA MANCINO Il pensiero di quello che ancora oggi viene indicato come il capo dei capi della Cosa Nostra siciliana è dentro un centinaio di pagine (settantatré nell´interrogatorio del 24 luglio 2009 e trentatré nell´interrogatorio del 1 luglio 2010) che di fatto se si esclude un breve e brusco incontro del 22 aprile 1996 fra lui e il procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna rappresentano le uniche testimonianze ufficiali di Totò Riina dal giorno del suo arresto avvenuto nel gennaio del 1993. L´interrogatorio del luglio 2009 l´ha voluto proprio lui, quando ha chiesto di presentarsi davanti al procuratore capo Sergio Lari «per fare dichiarazioni spontanee». Insomma, dopo tanto tempo abbiamo scoperto che lo «zio Totò» non è muto. TOTÒ PARLA DI SE STESSO «Io sono stato dichiarato dal direttore del carcere un detenuto modello. Se lei mi dice che cosa vuol dire detenuto modello io glielo dico: io sono uno che mi faccio i fatti miei, non so niente di nessuno. Lei mi vede e dice: "Ma com´è che Salvatore Riina è così sereno, così tranquillo?" Perché io sono al di fuori del mondo. Io non vivo sulla terra, io vivo sulla luna». «Io se faccio parte di Cosa Nostra o se sono il capo dei capi o il sotto capo dei sotto capi, non sono tenuto a dirlo né a lei né a nessuno. Tengo a precisare pure di non mi fare questa domanda, perché io sono per i fatti miei e voialtri siete per i fatti vostri. Lei fa il procuratore di Caltanissetta e io sono Salvatore Riina da Corleone». «Se io avrebbi conosciuto a uno delle servizi segreti deviati o ansirtati (letteralmente centrati, in questo caso regolari, ndr) io non mi chiamerebbe Salvatore Riina perché facissi parte a questa pentita, a questi signori e a questa deviata, a questo Ciancimino, a questo Spatuzza fusse (sarei) una persona uguale a iddri (loro) se io avissi iunciuto (mi fossi accompagnato) a uno di questi o conosciuto uno di questi, io sarebbi una persona uguale a questi. No, questo non è Salvatore Riina. Dovete sapere chi è Salvatore Riina. Salvatore Riina è escluso da tutti questi servizi perché non ce l´ha nella testa, nella mente e nel fisico Riina Salvatore è Riina Salvatore da Corleone, paese agricolo di campagna sperduto e lasciato là». L´UCCISIONE DI BORSELLINO «Visto considerato che questo Spatuzza e altri pentiti parlano.. allora ci dissi all´avvocato: si vuole interessare di tutti questi miei casi nuovi e vedere come stanno i fatti e che c´è di vero di questi papelli, di queste mie cose scritte, di queste mie con lo Stato? Ma volete cercare? Ma volete trovare? Volete vedere? Se dice la verità questa signora (Rita Borsellino, ndr) che l´agenda era lì, cioè che l´agenda ce l´hanno preso, che aveva tutte cose scritte, tutti gli appunti di dove andava, quello che faceva, scritti in quell´agenda rossa rossa, detto dalla signora Borsellino..». «Ma allora per qui (la strage Borsellino ndr) chi è stato? Perché al Castel Utveggio (una costruzione sulla cima di Montepellegrino che guarda via D´Amelio e dove le indagini ipotizzavano che ci fosse una base clandestina di 007 nei giorni dell´uccisione del procuratore, ndr) ci sono i servizi segreti quando scoppia la bomba di Borsellino? E allora qui come siamo combinati? Chi ha commesso questo omicidio di Borsellino? Chi sono queste queste persone. Procuratore, mi sento preso in giro dalla mattina alla sera perché faccio 17 anni che sono in isolamento, sempre in isolamento, area riservata, telecamere nelle stanze, non lo so più che cosa debbo fare e sono poi sempre io il capomafia, io che conta, io che ho la posta controllata, i telecameri nella stanza, nella saletta, nel bagno, non mi pozzo fare il bidet, non mi pozzo fare la doccia. SPATUZZA E allora questo è il momento per dirci: ma volete vedere questi incartamenti, dove io ho fatto ste trattative ccu stu´ Statu? Chi è questo Stato che io fatto queste trattative? Ecco perché sono venuto alla scoperta e sono stato io al mio avvocato a dire: faccia una richiesta di essere sentiti. Quindi che cosa ho fatto di male, signor procuratore? Sti servizi segreti che cosa facevano? Che cosa hanno fatto? Io non conoscevo Borsellino, non ho mai avuto una contravvenzione fatta da Borsellino». Il PAPELLO E MASSIMO CIANCIMINO «Non, non è cosa mia, non ho scritto questo papello e non ne so parlare. Se c´è questo papello, ci deve essere anche la mia firma. Io non lo conosco Ciancimino, loro sono di Corleone ma non sono mai abitati a Corleone Ciancimino se ne vuole andare sulla luna, vuole recuperare i soldi e vuole recuperare anche voi altri per recuperare i soldi perduti di suo padre. Io gli dò la risposta signor procuratore: lei dice che non la pozzo scrivere questa risposta ma io gliela dò lo stesso. Come vede sacciu pure rispondere e rispondo. Questo (Ciancimino ndr) e tanto lui e tanto Spatuzza, vi usano per i mezzi propri..». «Io di queste trattative sono caduto dalle nuvole..non deve prendere le mie parole per oro colato, però io di tutti questi fatti sono oscuro..loro facevano trattative con Lo Donno (il capitano del Ros Giuseppe De Donno, ndr) con Mori (il generale Mario Mori, ndr) con altri..io sono stato arrestato da Mori e sono qua. E da quel giorno che sono qua carcerato. Io la voglio aiutare, ma posso dire le cose che .non li conosco a questi, io sono stato oggetto della trattativa, hanno cercato di speculare tutti su di me». GIAN CARLO CASELLI «Io non ho mai parlato con Giovanni Brusca di trattative e del ministro Mancino. Bugiardo, bugiardo fino a sopra i capelli Brusca. Lui ha sempre cercato di farsi i fatti suoi, di non volersi fare galera, c´è riuscito Ma diciamo vero? Brusca ha detto che volevo qualcuno dell´opposizione per la trattativa e che poteva essere Luciano Violante. Violante era un giudice che per me, per me, Riina Salvatore, era un giudice tedesco, io non voglio descrivere lei che è pure magistrato ma deve sapere che (Violante ndr) è di una tiratura morale, Violante, da non ci credere. E mi fermo lì, mi fermo lì». LA LATITANZA E LA CATTURA «Per grazie a Dio e per la mia abitudine io potei fare 24 anni il latitante solo per..un latitante può durare un anno, due anni.. non può fare ventiquattro anni il latitante..io fici ventiquattro anni di latitante, mi fici una famiglia, mi sposai così.. perché facevo il solitario per i fatti miei..io ero un solitario, io sono un solitario». «Glielo pozzo giurare davanti a Dio e davanti ai figli, Provenzano non lo sapeva dove abitavo io e non mi poteva fare arrestare perché non lo sapeva dove mi nascondevo e non lo sapeva manco Ciancimino ccu ci l´avia addiri (chi glielo doveva dire, ndr) possiamo scrivere tutti i libri che vogliamo ma ccu ci l´avia addiri a Ciancimino C´è stato qualcuno che ha avuto interesse di vendermi e farmi arrestare.. e quelle parole dette da Mancino (ministro degli Interni nel gennaio del 1993, ndr) disse: "Fra 5-6 giorni l´arrestiamo Riina e lo mettiamo in carcere.." perciò, quindi, 6 giorni prima sapevano che mi dovevano arrestare e lo sapeva Mancino e qualcun altro che non so chi è. GIOVANNI FALCONE Provenzano? Non lo so Provenzano io lo conosco come corleonese perché è corleonese, però io non ho niente da dire, mai. Io sono sempre stato per i fatti miei, stu´ Provenzano non lo so. Se vogliamo dire una bugia se io facevo un passo Provenzano non lo sapeva. L´unica colpa che ha Provenzano è quella che è troppo scrittore». «Io sono stato venduto, però non posso dire che è stato Vito Ciancimino, non lo so. Però non è stato quello Di Maggio. Mi si dice Di Maggio (Balduccio Di Maggio, l´ex autista di Riina indicato dagli ufficiali del Ros come l´uomo che li ha portati alla villa di via Bernini dove il capo dei capi aveva il suo rifugio ndr) ma non è stato Di Maggio». IL BACIO FRA LUI E ANDREOTTI «Io non mi sono mai incontrato con stu´ Andreotti. La prego di capirmi, signor procuratore. Non mi ha chiamato mai manco Caselli, ma a lei ci sembra giusto signor procuratore.. non mi chiama per dirmi: "Ma Riina, ma ti sei incontrato ccù Andreotti? L´hai visto Andreotti? L´hai baciato Andreotti?" Mai interrogato. Mai citato. Signor procuratore, questo se lo vuole scrivere? Che poi sarà sicuramente copiato e registrato. E quindi è storia. Mai interrogato. Io solo dovevo dire sì o no. Però non mi si è mai domandato. Si è fatto un processo, si è fatto un appello, si è fatto tutto non esiste. Mi dicisse una cosa, nella magistratura, nella legge è giusto di non essere..non essere interrogato una volta..una volta io glielo sto dicendo perché è importante. Una volta per dire: ma ti sei incontrato con questo? Mai. Vidisse, vidisse (veda) che un procuratore non può fare questo abuso di potere, questa è una cosa che non è giusto, lei signor procuratore l´ammiro, l´accetto, questa mattina è stato brillante, però non si fanno queste cose. Ma Andreotti si baciava con me? Ma che era, lo scemo d´Italia?». BERNARDO PROVENZANO «Non ho mai sentito parlare dell´esistenza del signor Franco o del signor Carlo (è il misterioso personaggio che secondo Massimo Ciancimino avrebbe fatto da mediatore fra Cosa Nostra e i servizi segreti al tempo delle stragi, ndr) io gliel´ho detto: mi chiamo Riina Riina questo è Riina accetta Riina per quello che è..se poi altri che l´abbiamo fatto..ma io Se poi spunta mio fratello e potrebbe aprire queste cose io non lo so..io parlo per me». «Io sono al di fuori di queste riconoscenze, io nella mia vita non ho mai trattato con gente che potessero essere al di fuori di pensarla come me..se trattavo con una persona la doveva pensare come me dritta per dritta, perché sono una specie di acqua e sapone fatto: me patri e me madri quando mi ficiru mi ficiru accussì (mio padre e mia padre quando mi hanno fatto mi hanno fatto così). Signor procuratore, la prego una volta per sempre, cercate la verità, fate luce perché voi potete, potete trovare tante strade, tanto lavoro. Smettiamola con Riina a parafulmine, Riina e Totò Riina. Riina non è niente. Riina è 20 anni che è sacrificato ccà, io signor procuratore la prego mi lascino stare in pace, io aio 80 anni, sono malato, io sono un vecchio finito». Via D'Amelio: fu depistaggio di Lirio Abbate Due falsi pentiti sono stati usati per sviare le indagini sulla strage in cui fu ucciso Paolo Borsellino. Obiettivo: coprire il boss Giuseppe Graviano, in contatto con i servizi segreti deviati e con settori della politica (29 settembre 2011) L attentato al giudice Paolo Borsellino in via D Amelio nel 1992 L'attentato al giudice Paolo Borsellino in via D'Amelio nel 1992Due falsi pentiti, manovrati per depistare le indagini sulla strage di via D'Amelio del 19 luglio 1992. Due collaboratori che hanno costruito una verità fittizia sull'autobomba che uccise Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, cambiando la storia d'Italia. Dopo anni di indagini la procura di Caltanissetta è convinta che in cella ci siano otto ergastolani estranei a quell'attentato. E che altri nomi siano sfuggiti finora alla giustizia: come quello di Giuseppe Graviano, il regista dell'attacco allo Stato con gli ordigni di Roma, Milano, Firenze. Il procuratore generale Roberto Scarpinato fra pochi giorni depositerà alla Corte d'appello di Catania un provvedimento in cui affronterà il problema dei detenuti-innocenti e una memoria per la revisione del processo. Il capo dei pm nisseni, Sergio Lari, con il pool di magistrati impegnati su questa inchiesta ha ricostruito tutte le fasi dell'attentato. Un lavoro meticoloso, eseguito dagli investigatori del centro operativo Dia di Caltanissetta, che ha svelato retroscena inquietanti. Enzo Scaratino e Salvatorte Candura, i due falsi pentiti che con le loro accuse hanno costruito le condanne, non avevano interesse a mentire. All'epoca non rischiavano pesanti condanne e non avevano bisogno di offrire rivelazioni in cambio di sconti di pena. Secondo la nuova istruttoria, qualcuno li ha introdotti e istruiti. Perché c'è stato questo depistaggio? E soprattutto chi lo ha ordinato? Due le ipotesi. Qualcuno tra gli investigatori ha giocato sporco per fare carriera. Oppure volontà superiori hanno deciso di sviare le indagini per proteggere i mandanti occulti. Accusando Pietro Aglieri e il suo clan, sono stati tenuti fuori come esecutori i Graviano: quelli in rapporto con i servizi segreti deviati e la politica. Un depistaggio. Gli inquirenti ipotizzano che "non solo è una storia di famiglia interna alla mafia ma anche alle istituzioni". Ed anche i grandi boss hanno deciso per la prima volta di parlare di questa vicenda con i magistrati. Ecco la sintesi dei loro verbali. Carlo Greco "Non sono un animale e nemmeno un santo. Ma non voglio pagare per gli errori che non ho fatto. Su questa strage voglio che si faccia luce, per me, per i miei figli e per la giustizia". Parla ai pm per la prima volta il boss della famiglia di Santa Maria del Gesù, il "macellaio" Carlo Greco, 54 anni, detenuto dal luglio 1996 dopo una lunga latitanza. Ha sulle spalle quattro ergastoli, due dei quali per le stragi di via D'Amelio e Capaci: non è un pentito, e porta ancora sul corpo i segni del passaggio nel carcere durissimo di Pianosa. Considera "un'ingiustizia" la sua condanna e quella dei suoi picciotti per l'attentato a Borsellino. E per questo motivo il fedelissimo del padrino Pietro Aglieri si apre ai magistrati, ammettendo di far parte della cosca di Santa Maria del Gesù, senza però mai confermare il suo ruolo. Greco rivela di aver svolto "indagini difensive" dopo l'arresto di Enzo Scarantino, il ladro di auto che lo chiamò in causa per l'uccisione del giudice. "Eravamo stupiti perché sapevamo che Enzo non aveva lo spessore per commettere questi crimini. Capimmo subito che qualcuno voleva addossarci colpe non nostre". La mafia indagò e i boss vicini ad Aglieri scoprirono, come afferma Greco, che "Scarantino il giorno dell'attentato era in un albergo con una donna, e non in via d'Amelio come aveva detto ai magistrati. Delegammo Giuffré ad acquisire i documenti che avrebbero portato a smentirlo e lui ci riferì che tutto era a posto. Ma i documenti non arrivarono...". Adesso i pm hanno scoperto che Scarantino era un falso collaboratore di giustizia. "Se dopo la strage hanno gioito o brindato non lo so, ma è andata a finire che chi lo ha fatto oggi è fuori, libero, e chi non ha brindato ne stiamo pagando le conseguenze". Nel suo italiano spesso stentato, il boss sottolinea una questione di grande rilevanza: i segreti sulla politica taciuti da Vittorio Mangano, lo stalliere assunto ad Arcore da Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi, e dal suo padrino Salvatore Cancemi. Sostiene che Cancemi, poi diventato collaboratore di giustizia, è rimasto in silenzio su molte cose. "Sono sicuro che Mangano che era un soldato avrà riferito fatti a Cancemi che era il suo capo. Ed è una regola che al proprio boss si deve dire la verità". Per far comprendere la legge di Cosa nostra aggiunge: "Cancemi conosce molto sulle cose che sa Mangano. Perché se io ho un contatto con un esponente politico o magistrato, al mio capo Aglieri lo devo informare...". Cancemi è morto a gennaio, tre mesi dopo l'interrogatorio di Greco; Mangano invece è deceduto dieci anni fa: qualunque segreto è stato sepolto con loro. E il depistaggio? Greco durante la latitanza ha cercato di capire "come mai il dottor Arnaldo La Barbera (il questore che guidava le indagini, ndr.) avesse utilizzato Scarantino e le sue false accuse per arrivare ad Aglieri e a me; è una domanda che mi faccio da 18 anni e non sono riuscito a darmi una risposta". Ed anche qui alza il tiro:"La Barbera non lo ritenevamo direttamente responsabile del depistaggio che attribuivamo ad altri di maggior rilievo". Per i boss c'era un livello superiore: "Pensavamo che La Barbera, persona importante, non poteva occuparsi personalmente delle indagini su figure di così basso spessore, ma tutto ciò poteva significare che aveva ricevuto disposizioni per comportarsi in questo modo. Lui faceva il suo lavoro, e noi capimmo che qualcuno "più importante" ce l'aveva con noi". Totò Riina Totò Riina è sepolto dal 1993 in una cella di sei metri quadri. A quasi 81 anni si mostra duro e puro nella sua veste di capo di Cosa nostra. Un capo che dopo un'esistenza di ostinato silenzio decide di parlare con i pm, di rispondere alle loro domande "ma non chiedetemi di questa Cosa nostra perché non lo saccio". Salvatore Riina ai pm che indagano sulla strage di via D'Amelio concede e si concede. Vuole allontanare da sé ogni responsabilità della morte di Borsellino e degli agenti di scorta, sostenendo che "a Borsellino non lo conoscevo e non mi aveva fatto mai nulla, nemmeno una multa". Rispondendo ai pm allude, ammicca, annuncia, nega, conferma, rettifica, pontifica su tutto e tutti. Difficile supporre che si tratti di strategia difensiva con i 13 ergastoli che ha da scontare, è probabile che voglia levarsi qualche sassolino dalle scarpe. E lanciare messaggi. Per due volte i pm lo hanno interrogato e Riina ha parlato di stragi e di magistrati, di vecchi compari, di paesani suoi "scrittori", di generali, spie, di senatori e di pentiti. Segnali in codice a tutto campo. Colloqui e sproloqui che sono una prova tecnica di alta mafiosità. Nel suo stile e nel suo molto approssimativo italiano, a modo suo Riina si confessa per la prima volta. E' risentito con il procuratore Gian Carlo Caselli "che non mi ha mai chiesto se ho baciato o no Andreotti". Ricorda Borsellino e la scomparsa della sua agenda rossa. Ironizza su un Bernardo Provenzano "troppo scrittore" per i pizzini trovati nel covo. Chiede conto e ragione della chiaroveggenza dell'allora ministro degli Interni Nicola Mancino "sei giorni prima" del suo arresto. Di trattative e papelli, che dice di non aver mai fatto e mai scritto, della "tiratura morale" di Luciano Violante che considera un "giudice tedesco", della sua condizione carceraria, controllato a vista dalle telecamere: "Non mi pozzo fare neanche un bidè pei telecamere 24 ore su 24". E della sua età: "Aio 80 anni e si hanno una volta sola. A 80 anni c'è morte. Gli anni sono gli anni". "Però come vedete non sono proprio abbattuto... penso che tirerò ancora un altro po'...". Rivolgendosi al capo dei pm di Caltanissetta, Sergio Lari dice: "Signor procuratore, la prego una volta per sempre, cercate la verità, fate luce perché voi potete, potete trovare tante strade, tanto lavoro. Smettiamola con Riina a parafulmine, Riina è Totò Riina. Riina non è niente. Riina è 20 anni che è sacrificato ccà, io signor procuratore la prego mi lascino stare in pace, io aio 80 anni, sono malato, io sono un vecchio finito". Tenta di allontanare da sé il sospetto della strage e lancia messaggi a chi può aver aiutato Riina in questo attentato e poi lo avrà abbandonato. Da capo di Cosa nostra non vuole accusare nessuno, ma lancia veleni e ipotesi. "Se io avrebbi conosciuto a uno delle servizi segreti... deviati o ansirtati (regolari, ndr.) io non mi chiamerebbe Salvatore Riina". Pietro Aglieri Parla di Cosa nostra, della frequentazione durante la latitanza con Bernardo Provenzano e del fatto che con la strage Borsellino lui e i suoi uomini non hanno alcuna responsabilità. Pietro Aglieri è il boss di Santa Maria del Gesù, provenzaniano di ferro, si è sempre dimostrato lontano dalle posizioni di Filippo e Giuseppe Graviano boss di Brancaccio. In due interrogatori risponde ai pm di Caltanissetta perché sostiene che è "nel mio interesse dire nomi e cognomi, o quantomeno indicarli, perché sapete benissimo che ci sono persone innocenti che stanno pagando". Ma non fa accuse. Sostiene che non era a conoscenza della "strategia stragista", e nemmeno di una trattativa. "Non ricordo che vi sia mai stata una convergenza di interessi tra appartenenti a Cosa nostra e soggetti esterni: posso solo dire che io personalmente non mi sarei mai avvalso di soggetti esterni". Poi ripercorre la storia della dissociazione, o come la chiama lui della "desistenza" che nel 2000 avviò insieme ad altri boss con l'allora procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna. "Quella iniziativa non era finalizzata ad avanzare richieste di benefici per i detenuti", spiega Aglieri "tanto è vero che, all'epoca, la chiamai "desistenza", poiché ciò che si voleva ottenere era dichiarare la "resa" nei confronti dello Stato, almeno in riferimento ai detenuti che avessero aderito all'iniziativa". Aglieri precisa che si trattava di un "discorso rivolto alle nuove generazioni". "Se fosse andata in porto, questa situazione avrebbe consentito, a chi avesse voluto, di uscire da Cosa nostra senza pericolo di incorrere nella morte". Parla da capomafia, da uomo d'onore che ha a cuore la sorte dei suoi uomini difendendoli da accuse di strage che secondo lui sono state costruite ad arte. E per questo cerca di provare il depistaggio, senza accusare nessuno. Rispettando la regola che in Cosa nostra è basilare: se punti il dito contro una persona, anche per discolparti, sei un pentito o uno sbirro. Per questo motivo avvia la "desistenza". E ricorda ai pm che dopo l'arresto di Riina le redini dell'organizzazione le presero Brusca e Bagarella. "Provenzano pensò di fare un passo indietro adducendo motivi di salute, idea che abbandonò per evitare di esporre a ritorsioni i soggetti che gli erano più vicini". Il capomafia svela un retroscena, confermando alcune dichiarazioni fatte dal pentito Giuffré, e fa riferimento all'ipotesi circolata fra alcuni boss di "sciogliere l'organizzazione", perché si era creato un clima di tensione dentro Cosa nostra "uguale a quello già visto dopo la guerra di mafia degli anni Ottanta". Ma alla fine nulla di tutto ciò si concretizzò secondo Aglieri "per colpa di alcuni, come Giuffré, che non aderirono ai discorsi rispetto ai quali si erano mostrati concordi". |