FEBBRAIO 2001

Il leader della destra ha trionfato con il 62,5 per cento
Apertura coi laburisti, ma subito duro sulla città sacra


Israele, Sharon nuovo premier
"Gerusalemme indivisibile"

Primi due obiettivi: riprendere il processo di pace
e formare un governo di unità nazionale con l'opposizione

GERUSALEMME - Vince Sharon. Anzi, stravince. Meglio: nessuno, prima di lui è mai riuscito a fare di più. Il leader dell'opposizione di destra del Likud è il nuovo primo ministro di Israele con una schiacciante vittoria sul rivale laburista, e premier uscente, Ehud Barak. Sharon ha ottenuto il 62,5% dei suffragi. Il premier laburista uscente ha preso il 37,5% e si è dimesso dalla Knesset, il Parlamento israeliano, e dalla guida del partito.

Sharon, presa stamane parola davanti alla stampa estera, ha subito fatto chiarezza sulla questione di Gerusalemme definendo la capitale di Israele "eterna e indivisibile". Un chiaro avvertimento ai palestinesi che puntano a stabilire nella zona est della città la capitale del loro stato. Poi, dopo averli avvertiti, ha teso la mano ai palestinesi, offrendo loro di portare avanti le trattative di pace. Infine, il leader del Likud ha suggerito ai rivali laburisti di costituire un governo di unità nazionale. Cosa non facile perché, prima, il partito di Barak e Peres dovrà regolare i suoi conti interni. Barak, comunque, come si diceva, si è già chiamato fuori durante una telefonata col vincitore. L'uomo dell'unità nazionale potrebbe quindi essere Peres il quale, a sua volta, avrebbe però enormi problemi a lavorare insieme al detestatissimo Sharon.

"La pace costerà sacrifici" ha detto il "falco" del Likud che ha anche esposto le linee principali del suo programma di governo, basato sulla realizzazione di un'economia di mercato e di una politica sociale. "Voglio dire ai Paesi che confinano con Israele - ha aggiunto - che il mio governo cercherà di raggiungere una pace vera e chiamo i nostri vicini palestinesi a lavorare insieme per questo obiettivo".

In un primo commento alle notizie che davano Sharon vincente, il leader palestinese Yasser Arafat si è limitato a dichiarare di "rispettare le scelte degli elettori israeliani e di sperare nel proseguimento del processo di pace". Nei giorni scorsi esponenti palestinesi avevano già detto che avrebbero eventualmente trattato con Sharon.

Il ministro della giustizia uscente, Yossi Beilin, uno dei principali negoziatori israeliani nel processo di pace, ha commentato l'esito delle elezioni affermando che "ciò che è accaduto ieri in Israele è la più grande scommessa politica a rischio dal 1948 e io spero e prego che questo azzardo non sarà un disastro e che il processo di pace continuerà".

Obiettivo, quello della pace, cui punta il mondo intero, dall'Europa agli Stati Uniti. Ieri sera da Washington, insieme alla telefonata di congratulazioni da parte di Bush al vincitore, il segretario di stato Colin Powell ha lanciato un appello alla calma, inviando le parti ad evitare le provocazione per non innescare un incontrollabile spirale di violenza. E si è congratulata con il vincitore anche la presidenza svedese dell'Unione europea, in un comunicato diramato oggi a Stoccolma, auspicando che il nuovo premier "prosegua il processo di pace e il dialogo con tutte le parti coinvolte".

Le elezioni di ieri in Israele hanno fatto segnare, oltre al record di preferenze incassate da Sharon, anche la percentuale più bassa di affluenza alle urne nella storia di Israele. E' stato infatti soltanto il 62% degli israeliani a votare, circa due milioni e ottocentomila elettori su un totale di circa 4,5 milioni di aventi diritto.

(7 febbraio 2001)

Il divieto non avrà corso solo in cinque paesi
fra cui il Regno Unito e il Portogallo


L'Unione europea ha deciso
"Al bando la fiorentina"

Dovrà essere eliminata la colonna vertebrale
in tutte le bestie con più di dodici mesi

BRUXELLES - Fiorentina, addio. Adesso è ufficiale: la Commissione europea, su proposta del commissario europeo per la Sanità David Byrne ha messo al bando la bistecca con l'osso, e così dal 31 marzo sulle tavole dei paesi europei, esclusi Regno Unito, Portogallo, Svezia, Austria e Finlandia la costata scomparirà. La Commissione ha infatti detto sì alla proposta di Byrne di eliminare la colonna vertebrale su tutti i bovini di oltre 12 mesi.

Altre due misure precauzionali per prevenire una diffusione del morbo in Europa riguardano: il bando della carne bovina raschiata meccanicamente dalle ossa e destinata alla fabbricazione di alcuni salumi soprattutto in Germania e un più severo trattamento termico per i grassi derivati da ossa e tessuti di ruminanti. Per l'adozione definitva del pacchetto anti mucca pazza manca solo il via libera del Comitato veterinario europeo che si riunirà nel pomeriggio.

Il pacchetto Byrne non mancherà di suscitare polemiche soprattutto per il capitolo che riguarda le deroghe concesse ad alcuni Stati. Per quanto riguarda Svezia, Austria e Finlandia si è riconosciuto che, non avendo avuto a tutt'oggi nessun caso di Bse, vengono ritenuti sicuri.

Le perplessità riguardano Gran Bretagna e Portogallo, due Paesi ad alto rischio ma in cui i controlli speciali sono in vigore da alcuni anni. E proprio questo regime speciale di attenzione garantirebbe sull'attuale sicurezza dei bovini di quei Paesi. Si è poi appreso che le esenzioni previste per Regno Unito e Portogallo non implicano che questi due paesi possano esportare negli altri stati membri la bistecca con l'osso.

Per Regno Unito e Portogallo - sottolinea l'esecutivo Ue - sono infatti già in vigore provvedimenti che vietano l'export: in entrambi i paesi, dunque, il significato della deroga sarà solo quello di permettere il consumo della carne con l'osso a livello nazionale.

In Italia infine sono 15.247 i test anti-Bse eseguiti finora, circa 14.000 da quando il controllo è diventato obbligatorio. Secondo il ministero della Sanità, su oltre 15.000 test è risultato positivo un solo caso. I test fatti ieri sono stati 942 mentre sono 923 i campioni attualmente sottoposti al test e per i quali si avrà una risposta nelle prossime 48 ore. L'aggiornamento costante dell'andamento dei test è ora accessibile nel sito Internet del ministero, all'indirizzo www.sanita.it/bse, dove sono contenute inoltre indicazioni sulla Bse e sugli eventuali rischi per l'uomo.

(7 febbraio 2001)

I giudici della Corte d'Assise d'appello di Roma hanno
ritenuto responsabile anche Liparota per favoreggiamento


Marta Russo, condannati
Scattone e Ferraro

La madre della ragazza uccisa: "Giustizia è fatta"

ROMA - Otto anni a Scattone, sei a Ferraro, quattro a Liparota. Si conclude con queste condanne il processo d'appello presso la Corte d'Assise di Roma per l'omicidio Marta Russo. I giudici hanno ritenuto Giovanni Scattone colpevole del reato di omicidio colposo aggravato dalla detenzione di arma da fuoco, Salvatore Ferraro di favoreggiamento e porto d'arma da fuoco, Francesco Liparota del solo favoreggiamento. Le pene inflitte ai tre si sono inasprite rispetto a quelle di primo grado: nel primo processo Scattone aveva avuto 7 anni per omicidio colposo; Ferraro 4 anni per favoreggiamento; Liparota era stato assolto.

Alla lettura della sentenza Scattone e Ferraro non erano presenti in aula. "E' stata fatta giustizia per Marta". E' stato questo il primo commento tra le lacrime di Aureliana, la madre di Marta Russo, avvertita del pronunciamento dei giudici per telefono dall'avvocato Luca Petrucci. "Sembrava che fossimo rimasti da soli - ha aggiunto - invece la Corte ha riconosciuto le nostre ragioni".

E soddisfatti della sentenza si sono detti i pg Antonio Marini e Luciano Infelisi: "il fatto è stato accertato. Scattone ha sparato, Ferraro era con lui e accanto a loro c' era Liparota". Soddisfatti perchè l'accusa ha tenuto. "Ora si tratta di leggere le motivazioni - spiega Antonio Marini -. Se troveremo soddisfazione non faremo di certo ricorso in Cassazione".

Ma in Cassazione hanno invece annunciato il ricorso i difensori di Scattone. L'avvocato Manfredo Rossi in aula, quasi in diretta, ha chiamato Giovanni Scattone per comunicargli la sentenza. "Non mi ha detto una sola parola - ha spiegato l'avvocato - anche perchè non c' è stato tempo di commentare. Ho subito richiuso il telefono perchè eravamo in aula. Potete immaginare che giornata abbia passato, proprio oggi che era il suo compleanno".

E un ricorso in Cassazione è anche nei programmi di uno dei legali di Salvatore Ferraro, Vincenzo Siniscalchi, che definisce quella di stasera "una sentenza non dà risposte" e "che torna al punto di partenza".

La sentenza della Corte d'Assise d'appello è stata presieduta dal giudice Francesco Plotino, affiancato, a latere, da Maria Cristina Siotto. Sei i giudici popolari.

Il processo di secondo grado si è aperto il 3 maggio del 2000. Alla sbarra i due ricercatori dell'Istituto di filosofia del diritto, Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone (il presunto killer che avrebbe sparato e poi infilato l'arma in una cartella), ma anche Francesco Liparota, l'uscere dell'istituto, inizialmente accusato di omicidio volontario, poi di favoreggiamento, quindi assolto in primo grado.

La Procura generale, il 25 gennaio, aveva chiesto 22 anni per Scattone, 16 per Ferraro per omicidio volontario con dolo eventuale, la condanna di Liparota a 4 anni per favoreggiamento e l'assoluzione per Romano. Un processo lungo 37 udienze, dove protagoniste sono state le perizie: balistica, chimica e nanometrica sulle quali si sono scontrate accusa e difesa. Il movente, grande assente nel primo processo, rimane tale, anche nel secondo. Così come avvolto nella nebbia rimane il mistero del quarto uomo, che Gabriella Alletto, l'ex segretaria dell'istituto di filosofia del diritto, conferma di aver notato, ma che non sa identificare.

Il primo processo si era chiuso il 1 giugno del 1999 con la condanna di Scattone a 7 anni e Ferraro a 4, e l'assoluzione degli altri imputati. Stamattina c'erano i due grandi imputati in aula: Scattone, che proprio oggi compie 33 anni, aveva detto di sertirsi "fiducioso e tranquillo". Salvatore Ferraro era invece sgusciato via. Due atteggiamenti diversi, come diverso è stato questo secondo processo, che si è svolto in sordina, senza i colpi di scena del primo, senza testiomoni finiti sotto inchiesta.

Tutto concentraro sulle perizie, le stesse che scatenaro le polemiche anche nel primo dibattimento. Accertamenti scientifici che si sono rivelati soggetti a diverse interpretazioni e quindi incapaci di fornire delle certezze. Non si sono stancati di ripeterlo, lunedì, nella loro arringa conclusiva, i difensori dei tre imputati.

Nessuna certezza, nessuna prova incrollabile. "La somma di più prove incerte non fanno una prova certa", aveva detto l'avvocato Giovanni Aricò, difensore di Francesco Liparota nella sua arringa conclusiva, che ha sottolineato come "alla fine la verità non è stata raggiunta".

(7 febbraio 2001)

Il senatore a vita, acclamato dai 2.500 delegati, si schiera
contro il "duopolio" e a favore del proporzionale


E' Andreotti la superstar
alla convention di D'Antoni

L'ex numero uno della Cisl smentisce il feeling
col Polo: "Tutto falso, vogliono dividerci"

ROMA - E' Giulio Andreotti il più amato dal popolo di Democrazia Europea. E' infatti al grido "Giulio, Giulio", con tanto di standing ovation, che si è aperta l'assemblea congressuale del nuovo partito di Sergio D'Antoni. L'aula magna dell'hotel Ergife, che ospita l'evento, è affollata da circa circa 2500 delegati, con una scenografia essenziale: sul palco campeggia il simbolo, una via di mezzo fra uno scudo crociato e una vela bianca con una croce rossa nel mezzo. Nella platea qualche bandiera del movimento, e alcuni stendardi della Dc. Poi sono cominciati gli interventi: il senatore a vita si è scagliato contro "il duopolio" nella politica, mentre D'Antoni che ha ancora una volta precisato di essere alternativo non solo al centrosinistra, ma anche al centrodestra.

E' però Andreotti la vera star della giornata. Appena l'ex presidente del Consiglio è comparso in sala, la platea è andata in delirio. Dopo un saluto di Pippo Baudo, preceduto dalla canzone di Adriano Celentano "Sono un uomo libero" (diventata l'inno del nuovo movimento), l'anziano leader ha preso la parola. Schierandosi con forza a favore del proporzionale, che garantisce, a suo giudizio, pluralismo di idee e maggiore partecipazione. Da qui le critiche al bipolarismo: "La politica - ha detto - non deve essere un ring sul quale due pugili si studiano per colpire al momento ritenuto giusto e mettere l'altro al tappeto. Questa, purtroppo, è l'immagine che il duopolio sta dando, con una pericolosa diminuzione di partecipazione e di elettori. Nel duopolio dei due 'grandi fratelli' si nasconde, anche senza che lo si voglia, la tentazione del monopolio".

Quanto a D'Antoni, ha dovuto, incalzato dai giornalisti, smentire ancora una volta le parole pronunciate a "Porta a porta" ("al ballottaggio voterei centrodestra", aveva detto): "Non c'è mai stato problema - ha spiegato oggi - la nostra linea è chiara. Il manifesto di Democrazia europea è esplicito e forte ed è alternativo ai due schieramenti e su questo ci siamo ritrovati con Andreotti e Zecchino e centinaia di migliaia di cittadini". Insomma, "non c'è nessun giallo, c'è una frase estrapolata all'interno di un ragionamento politico". D'Antoni ha anche negato una sua cena ad Arcore, magari per stipulare un accordo segreto con la Casa delle libertà: con queste indiscrezioni "tentano solo di dividerci", ha tagliato corto.

Nel pomeriggio, i vertici del partito, designati per acclamazione: Andreotti presidente onorario, Zecchino presidente, D'Antoni segretario. Per le altre nomine bisognerà aspettare: "Oggi non abbiamo tempo per gli organigrammi - ha detto D'Antoni - Dobbiamo concentrarci nell'individuazione dei candidati. E poi vogliamo evitare di scontentare qualcuno come succede sempre in questi casi.

(10 febbraio 2001)


Un sommergibile nucleare Usa ha preso in pieno un battello
scuola giapponese che trasportava 34 persone, 9 i dispersi


Scontro in alto mare
tra sottomarino e nave

WASHINGTON - Un sottomarino nucleare statunitense e una nave scuola giapponese si sono scontrati al largo dell'isola di
Oahu, nell'arcipelago delle Hawaii, al largo della base navale di Pearl Harbor. La nave, con a bordo 34 persone, tra le quali 13 studenti e alcuni professori, è colata a picco in pochi minuti. Nove persone risultano disperse. E più passa il tempo, più si assottigliano le possibilità di trovare sopravvissuti, ha dichiarato il responsabile della Guardia costiera di Honolulu.

"Per ora non c'è nessuna traccia sulla superficie del mare dei dispersi", hanno confermato fonti del consolato giapponese di Honolulu.

Ecco il racconto di un sopravvissuto: "Abbiamo visto all'improvviso un'enorme macchia scura affiorare e subito siamo stati urtati violentemente".

La nave, la Ehime Maru, di 499 tonnellate e lunga 58 metri, era in viaggio di istruzione per la pesca in alto mare. Non si conoscono ancora i particolari dell'incidente, che sembra avvenuto al momento dell'emersione del sottomarino, il Greenville, 8000 tonnellate di stazza. Un sommergibile nucleare Usa a propulsione nucleare di base a Pearl Harbor, che secondo le prime dichiarazioni non dovrebbe aver subito danni.

"Ciò che possiamo dire al momento - ha dichiarato un portavoce del Pentagono - è che l'incidente è avvenuto alle 1.

45 di notte, ora italiana. Il sottomarino era impegnato in operazioni di routine quando è avvenuta la collisione con la nave giapponese". La marina Usa ha già aperto un'inchiesta sull'accaduto. Un incidente "inspiegabile", come è stato definito da fonti giapponesi. I sottomarini sono dotati di sofisticati sonar che individuano qualsiasi oggetto in navigazione sulla superficie del mare e, in fase di emersione, a 20 metri dalla superfice devono far affiorare un periscopio per controllare che non vi siano navi nelle immediate vicinanze.

(10 febbraio 2001)

La pubblicazione della sequenza del genoma
fa emergere alcuni risultati del tutto inaspettati


Sorpresa, pochi geni
nel Dna dell'uomo

Se ne prevedevano centomila, non sono più di trentamila
Cambia il paradigma di comprensione: più peso all'ambiente

ROMA - Trentamila o giù di lì. La scoperta che il numero di geni che determinano l'organizzazione e il funzionamento dell'organismo umano è assai inferiore al previsto è uno dei risultati principali e forse la maggiore novità delle due ricerche sul genoma umano che oggi diventano finalmente pubbliche <http://www.repubblica.it/online/cultura_scienze/piantanoma/pubblicato/pubblicato.html>. In tutto, i nostri geni sarebbero 31.780, secondo i dati raccolti dal Progetto Genoma Umano, e circa 37 mila secondo quelli della Celera, quindi molti meno dei 100 mila che rappresentavano fino ad oggi l'ipotesi più accreditata.

E soprattutto, pochi di più rispetto ad organismi dalla struttura e dal comportamento decisamente meno complessi dei nostri. Il nematode, studiatissimo lombrico, vive e funziona con 19.900 geni, il moscerino della frutta con 13.601 e la distanza tra noi e le piante è ancora più ridotta: l'Arabidopsis, la prima pianta di cui è stato decodificato l'intero genoma, ne possiede quasi 26.000. O, se preferiamo il confronto diretto con un nostro parente più diretto, un altro mammifero, un topo ha appena 300 geni meno di noi. Inoltre, rispetto agli altri organismi, i nostri geni sono più frammentati, più lontani fra loro, sparsi in mezzo al cosiddetto "Dna spazzatura", le sequenze apparentemente inutili e che costituiscono il 95 per cento dell'intero genoma.

Evidentemente, non c'è un gran rapporto tra la complessità di un organismo e la quantità di Dna che possiede, e conta molto di più la qualità, cioè il modo in cui funziona il genoma, la sua capacità di "costruire" molte proteine diverse a partire dagli stessi geni, in breve la flessibilità del genoma umano, che riesce a codificare un numero di proteine cinque volte maggiore di quello dei più "rigidi" vermi o moscerini.

In uno dei molti articoli di commento che accompagnano la duplice pubblicazione delle sequenze del genoma umano, il genetista francese Jean-Michel Claverie scrive su "Science" che "un numero tanto basso di geni costituisce un cambio di paradigma, che potrebbe modificare radicalmente la nostra comprensione della complessità degli organismi e dell'evoluzione". Un cambio di paradigma che potrebbe costringerci a rivalutare completamente il peso del controllo della componente genetica su quello che siamo e facciamo, rilanciando il ruolo dell'ambiente e la sua interazione col genoma. Una vera e propria rivoluzione, insomma, che sembra dar ragione ai molti, anche tra i genetisti di punta, che combattevano da tempo il cosiddetto "determinismo biologico": una visione tutto sommato meccanica del vivente, e a quanto pare lontana dalla realtà.

(11 febbraio 2001)

Ai fini della prova varranno solo le dichiarazioni
che verranno confermate nel corso del dibattimento


Giusto processo
Da oggi è legge

Approvazione definitiva in commissione alla Camera
Si chiude un iter cominciato alla fine del 1998

ROMA - Il giusto processo è legge dello Stato. La commissione Giustizia della Camera ha dato il suo via libera alla legge attuativa, necessaria per rendere operanti le norme costituzionali approvate dal Parlamento alla fine del 1999.

Con questa legge il processo penale perde praticamente del tutto la sua vecchia natura inquisitoria. Viene infatti confermato il principio della formazione della prova nel contraddittorio tra le parti durante il dibattimento. Le dichiarazioni rese durante le indagini, ma non confermate in aula, potranno perciò valere soltanto ai fini della valutazione della credibilità del teste (naturalmente, a meno che la mancata conferma sia provocata da minacce o violenze).

E' un principio fondamentale che mette sullo stesso piano le due parti (accusa e difesa) nel corso del processo. E che separa nettamente le due fasi di un procedimento: quella delle indagini e quella del dibattimento.

In estrema sintesi le principali novità introdotte sono le seguenti.

Dichiarazioni non confermate in dibattimento. Il "cuore" della riforma. Non avranno più alcun valore di prova e potranno essere utilizzate dal magistrato solo ai fini della credibilità del dichiarante. In sostanza, è escluso che quanto detto da pentiti e testimoni durante le indagini possa essere usato ai fini della decisione se non riconfermato in contraddittorio.

Falsa testimonianza. Aumenta la pena per la testimonianza falsa e reticente: da un minimo di tre anni di reclusione ad un massimo di sei. Oggi invece la pena minima è di due anni.

Diritto al silenzio. L'imputato di un reato connesso o collegato non è compatibile il ruolo di testimone a meno che nei suoi confronti sia stata pronunciata una sentenza irrevocabile. L'imputato di reato connesso o collegato, che ha accusato altri, non potrà essere obbligato a ripetere in giudizio le sue accuse. Naturalmente l'imputato ha comunque ha l'obbligo di dire la verità, e ha comunque quello di rispondere in dibattimento davanti al giudice.

Gup in ogni tribunale. Il testo prevede anche l'istituzione in ogni Tribunale della sezione del giudice dell'udienza preliminare che oltre ad esercitare l'azione penale dovrà decidere anche sulla libertà personale dell'imputato.

Con l'approvazione di queste norme da parte della commissione giustizia di Montecitorio (riunita in seduta legislativa, caso in cui il voto equivale in tutto e per tutto a quello dell'aula), si conclude un iter cominciato oltre due anni fa, sulla scorta di una serie di polemiche sul malfunzionamento della legge sui pentiti.

Esultano naturalmente gli avvocati (il ruolo della difesa assume infatti un "peso" maggiore nel corso del processo), ma anche il ministro della Giustizia, Fassino. E una sia pure parziale soddisfazione arriva anche da parte della Casa delle Libertà, i cui rappresentanti si sono astenuti ripromettendosi di correggere nella prosima legislatura alcuni "elementi di squilibrio".

(14 febbraio 2001)

La storia dell'accordo segreto Roma-Belgrado

L'affare
Telekom Serbia


IL 9 GIUGNO del 1997 l'amministratore delegato della Stet, Tomaso Tommasi di Vignano, firma un contratto che sancisce l'ingresso di Telecom Italia in Telekom Serbia. La quota acquisita è il 29 per cento, il prezzo da pagare è di 893 milioni di marchi. Un contratto strano, secretato. Inaccessibile persino all'allora presidente della Stet, Guido Rossi. Da qui si dipana un misterioso intreccio economico-diplomatico, che IL QUOTIDIANO LaRepubblica è stato in grado di descrivere minuziosamente.

Il vicepremier Zarco Korac
"Fu un atto di cinismo politico"


"Quel denaro italiano
ha salvato il regime"


BELGRADO Il viceprimoministro Zarco Korac, cinquantenne professore di psicologia prestato alla politica, leader dell'Unione socialdemocratica, se ne sta dritto in piedi a fare gli onori di casa al secondo piano del civico 11 di Nemangina, sede del neoinsediato governo democratico di Serbia. Sorridendo, apre la porta comunicante con il suo ufficio. Ama l'Italia, Korac. Lo capisci per come ne parla, per le considerazioni che gli suscita. "Se non fosse stato per la grande simpatia che la vostra gente riscuote qui a Belgrado, avreste pagato anche voi un prezzo per questi anni di guerra nei Balcani. E poi, siamo sinceri, per noi serbi l'Italia, in questi ultimi anni, è stata la colomba in un'alleanza occidentale di falchi".

Perché? Abbiamo bombardato Belgrado come il resto dei paesi dell'Alleanza.
"Certo, avete partecipato alle operazioni militari. Ma non c'è un solo serbo che non sia convinto che l'Italia è stata in qualche modo obbligata a formalizzare scelte prese da altri in sede Nato e a cui non poteva sottrarsi. Ricordo le parole di Scalfaro, nel riferirsi all'impegno militare dell'Italia: pacta sunt servanda. Certo non erano di entusiasta adesione alla guerra. E comunque dico tutto questo con cognizione diretta di causa".

In che senso?
"Quando eravamo all'opposizione, quando combattevamo politicamente contro il regime di Milosevic, abbiamo vissuto con rammarico e disagio i tanti momenti di passività dell'Italia nei confronti del regime. Avremmo desiderato sì, in quei momenti, un maggior attivismo. Avete avuto una politica estera a due vie. I vostri diplomatici mantenevano rapporti cordiali con noi dell'opposizione, ma poi facevate affari con il regime. Non siamo mai riusciti a capire dove, nella vostra politica estera, finisse il pragmatismo e cominciasse il cinismo".

Un esempio?
"L'affare Telekom è l'esempio lampante. L'approccio fu sicuramente pragmatico. Secondo un ragionamento classico: quando si parla di investimenti, di interessi, il resto non conta. Ma c'è un ma. Quel vostro denaro servì per sostenere il regime di Milosevic, allora in difficoltà, e, forse, anche le operazioni militari in Kosovo, perché una volta dato al governo di Milosevic, certo il denaro finiva dove lui riteneva dovesse finire. Quell'affare fu dunque una dimostrazione di cinismo. Fu un errore di Dini. Anche perché il vostro ministro degli esteri, in questi anni, non è mai riuscito a far capire dove finisse la comprensione italiana per le ragioni del popolo serbo e la sua voglia di pace e dove cominciasse la comprensione per le ragioni e le esigenze del regime. Questo creò confusione. So che non è facile far comprendere, ma sarebbe stato necessario uno sforzo di chiarezza. Anche perché ad aumentare la confusione, in quel periodo, fu anche l'atteggiamento di una minoranza dello schieramento di sinistra".

Quale?
"Qualcuno accreditò l'idea che esistesse un'ala riformista nel partito di Milosevic. Come a dire: Hitler era un liberale di destra. Un falso, di cui tutti, oggi, possono facilmente rendersi conto. Quel partito ha eletto Milosevic dopo i fatti di Ottobre. Dov'è dunque quest'ala riformista? Veramente non capisco. E il guaio fu che la propaganda di Milosevic utilizzò questa Fata morgana del riformismo. Comunque, è una vecchia storia. Telekom fu un errore dettato da cinismo. Fu un affare concluso in una cornice non democratica. E il popolo serbo certo non ci guadagnò".

Il governatore della Banca centrale, Dinkic, sostiene che parte dei soldi Telekom potrebbero essere finiti in Svizzera, sui conti di Invest Banka.
"Dinkic è un giovane che ama le sfide. Ma devo dire con franchezza che nonostante gli sforzi che stiamo facendo sarà difficile recuperare quel denaro e comunque, in generale, il tesoro di Milosevic. Pensi a quel che è accaduto in Svizzera con l'oro degli ebrei".

Furono versate tangenti per l'affare Telekom?
"Anche noi abbiamo raccolto questo tipo di informazioni. Anche a noi è stato detto che una parte di quei soldi finirono allo Jul, il partito di Milosevic. Ma in un processo, se mai si dovesse arrivare ad un processo per fatti di corruzione, servono prove. E prove non ce ne sono. Di certe cose si cancellano le tracce. Magari quelle prove potrebbero aiutarci a trovarle le autorità finanziarie o fiscali italiane".

E' una richiesta?
"Siamo un paese piccolo e povero che non può avanzare pretese. Diciamo solo, se posso usare un'immagine, che, con le dovute differenze, si pone il cosiddetto dilemma di Schindler. Il dilemma di chi, avendo fatto profitti durante una guerra, ad un certo punto si fa carico del destino del popolo sulla cui pelle quella guerra si è combattuta. Ma, ripeto, sono certo che l'Italia ci aiuterà ad andare avanti e a lasciarci alle spalle il passato".

(16 febbraio 2001)

Tangenti, l'accordo segreto tra Roma e Belgrado

Ecco come Milosevic
incassò 1.500 miliardi


BELGRADO - "Quei mafiosi di italiani...", ghigna Slobodan Milosevic, e si guarda intorno con apparente disinteresse. Intorno, le sue parole hanno già tacitato l' eccitato chiacchiericcio degli uomini della nomenklatura. E' il 10 giugno del 1997. Ventiquattro ore prima, senza troppo clamore, l'amministratore delegato della Stet, Tomaso Tommasi di Vigliano, firma l'ingresso di Telecom Italia in Telekom Serbia acquisendone il 29 per cento a fronte di 893 milioni di marchi: 701.770 da pagare nelle successive 48 ore, 117 a sei mesi e 74 milioni di marchi all'atto della licenza per la telefonia mobile (versati a marzo del 1998).

Il dado è tratto, finalmente. A Belgrado arrivano i benedetti soldi, e non solo degli italiani. Anche i greci della Ote (l'ente greco delle telecomunicazioni) hanno voluto stare nell'affare. Sono saltati per ultimi sul carro e pagano pegno con un sovrappiù del 16 per cento. Hanno avuto il 20 per cento e l'hanno pagato 624 milioni di marchi, oltre ai 51 milioni di marchi che dovranno tirar fuori per "la componente mobile". Un miliardo e 517 milioni di marchi tedeschi, più o meno 1.500 miliardi di lire italiane. E' una gran bella cifra per la Serbia il cui prodotto nazionale lordo pro capite tocca appena i 1.400 dollari annui.


E' una manna dopo tante vacche magre. Con quel danaro lo Jul, il partito della signora Milosevic, Mira Markovic, e il Partito socialdemocratico di Slobo vinceranno le elezioni di settembre a dispetto delle manifestazioni organizzate dall'opposizione, notte dopo notte, in piazza della Repubblica. Slobo Milosevic pagherà le pensioni di anzianità e gli stipendi di Stato. Potrà rianimare le riserve in valuta ridotte a soli 200 milioni di dollari. E, quel che più conta, potrà armare l'esercito e la milizia in Kosovo, e gli albanesi del Kosovo avranno quel che si meritano.

E' il 10 giugno 1997, e sono le otto del mattino. Ad Atene, al 16 di via Panepistimou, sede centrale della European Popular Bank (Epb), quattro uomini raggiungono gli uffici della direzione. Rappresentano Epb, Stet, Ote e Ptt (l'azienda telefonica serba, proprietaria di Telekom Serbia). I quattro funzionari scambiano le lettere di credito che ratificano la cessione delle azioni e preparano il contante che, entro le 16 di quello stesso giorno, dovrà essere depositato in due diversi conti accesi nella banca ellenica e intestati a Stet ed Ote. Stet versa 701.770 mila marchi tedeschi. Ote 543.230 mila marchi.

E' il 10 giugno 1997. Ora è sera. Siamo di nuovo a Belgrado. Chi c'era quel giorno a Belgrado, al piano nobile del Palazzo della Presidenza della Repubblica serba, la racconta così. Un pugno di uomini della nomenklatura "saranno stati dodici, al massimo quindici" si stringe attorno al presidente Slobodan Milosevic, che fa il suo ingresso nel salone. Sono uomini soddisfatti e fiduciosi. Erano precipitati in un pozzo nero e d'incanto, per una trovata della sorte o di una malandrina intelligenza, vedono la luce al di là del cono buio. Le bottiglie di champagne hanno già il tappo lievemente allentato. Si attende soltanto il cenno del maestro di cerimonie e il maestro di cerimonie attende che il "presidente" stringa le mani che deve, sorrida a chi deve sorridere. Ora c'è un attimo di silenzio sospeso. Tutti appaiono imbarazzati e allora il maestro di cerimonie dà il via ai camerieri e i sugheri saltano allegri verso l'alto. Gli uomini gridano "evviva", brindano alla "Madre Serbia", al "presidente". Tutti bevono.

Slobodan Milosevic si bagna appena le labbra. Ha accanto il ministro per le privatizzazioni Milan Beko. Slobo gli chiede: "Non capisco perché abbiamo dovuto pagare noi quei 32 milioni di marchi, noi che siamo i più piccoli e i più poveri. Non poteva pagare la Telecom?". Lo champagne quasi va di traverso a Milan Beko, Milosevic parla a voce alta e non c'è, nel salone, chi non lo abbia ascoltato. Beko deve dire qualcosa, e presto. Dice: "Presidente, è soltanto il 3 per cento!".

Slobo sembra non capire. Chiede: "E allora?". "E allora, signor presidente continua il ministro il 3 per cento è abituale pagarlo in Occidente, e doveroso quando si fanno affari con gli italiani".

"...Quei mafiosi", ridacchia Slobo.

Ride anche Beko. Ride e rilancia: "Mafiosi sì, ma poi è meglio una tassa del 3 per cento e non come da noi la taglia del 100 per cento". Tutti ridono e Milan ne approfitta per congedarsi. "Mi scusi, signor presidente, ho un affare urgente e devo partire. Al ritorno, le spiegherò...".

(16 febbraio 2001)

Afghanistan, i talebani mettono in pratica
la minaccia di radere al suolo il sito archeologico


Carri armati e cannoni
contro i Buddha di Bamiyan


KABUL - Lo avevano promesso e lo hanno fatto: i talebani stanno sparando con carri armati e lanciarazzi contro le statue giganti di Buddha a Bamiyan, nell'Afghanistan centrale. Due opere straordinarie che rischiano di essere ridotte in macerie nel giro di poche ore, nonostante gli appelli e i tentativi di salvarle attuati da governi ed istituzioni culturali del mondo intero.

La furia fanatica dei seguaci del mullah Mohammed Omar ha iniziato a sfogarsi "con tutte le armi a disposizione" ha detto un testimone, contro le statue che risalgono al secondo secolo dopo cristo che hanno come unica colpa di essere state costruite prima dell'Islam. Un insulto da far scomparire, secondo Mohammed Omar e il ministro della cultura del regime islamico che controlla il 95 per cento dell'Afghanistan, così come tutte le testimonianze preislamiche che si trovano nel martoriato Paese.

I colpi di cannone contro i due Buddah, uno alto 53 metri e l'altro 35, sono solo l'inizio dell'opera di distruzione. L'agenzia di stampa del regime ha riferito che stanno arrivando a Bamiyan gli esplosivi necessari per radere al suolo il sito archeologico. Non si sa se l'intera operazione verrà conclusa oggi, visto che il venerdì per l'Islam è giorno di preghiera e non si compiono altre attività anche se i Talebani proprio il venerdì usano compiere le esecuzioni pubbliche dei peccatori.

Le suppliche giunte dal Metropolitan di New York che ha chiesto il permesso di portare negli Usa i due Buddha, così come la proposta del governo indiano di prenderle in consegna, sono state lasciate cadere nel vuoto mentre sembra che nel museo di Kabul siano stati distrutti i pochi oggetti rimasti. Un inviato speciale dell'Unesco è partito ieri sera d'urgenza per Kabul, con un messaggio per i Talebani nel quale il direttore dell'organizzazione dell'Onu Koichiro Matsuura, chiede che sia sospesa la distruzione delle statue preislamiche.

FINE FEBBRAIO