FEBBRAIO
2001
Il leader della destra ha
trionfato con il 62,5 per cento
Apertura coi laburisti, ma subito duro sulla città sacra
Israele,
Sharon nuovo premier
"Gerusalemme indivisibile"
Primi due
obiettivi: riprendere il processo di pace
e formare un governo di unità nazionale con
l'opposizione
GERUSALEMME - Vince Sharon.
Anzi, stravince. Meglio: nessuno, prima di lui è mai
riuscito a fare di più. Il leader dell'opposizione di
destra del Likud è il nuovo primo ministro di Israele
con una schiacciante vittoria sul rivale laburista, e
premier uscente, Ehud Barak. Sharon ha ottenuto il 62,5%
dei suffragi. Il premier laburista uscente ha preso il
37,5% e si è dimesso dalla Knesset, il Parlamento
israeliano, e dalla guida del partito.
Sharon, presa stamane parola davanti alla stampa estera,
ha subito fatto chiarezza sulla questione di Gerusalemme
definendo la capitale di Israele "eterna e
indivisibile". Un chiaro avvertimento ai palestinesi
che puntano a stabilire nella zona est della città la
capitale del loro stato. Poi, dopo averli avvertiti, ha
teso la mano ai palestinesi, offrendo loro di portare
avanti le trattative di pace. Infine, il leader del Likud
ha suggerito ai rivali laburisti di costituire un governo
di unità nazionale. Cosa non facile perché, prima, il
partito di Barak e Peres dovrà regolare i suoi conti
interni. Barak, comunque, come si diceva, si è già
chiamato fuori durante una telefonata col vincitore.
L'uomo dell'unità nazionale potrebbe quindi essere Peres
il quale, a sua volta, avrebbe però enormi problemi a
lavorare insieme al detestatissimo Sharon.
"La pace costerà sacrifici" ha detto il
"falco" del Likud che ha anche esposto le linee
principali del suo programma di governo, basato sulla
realizzazione di un'economia di mercato e di una politica
sociale. "Voglio dire ai Paesi che confinano con
Israele - ha aggiunto - che il mio governo cercherà di
raggiungere una pace vera e chiamo i nostri vicini
palestinesi a lavorare insieme per questo
obiettivo".
In un primo commento alle notizie che davano Sharon
vincente, il leader palestinese Yasser Arafat si è
limitato a dichiarare di "rispettare le scelte degli
elettori israeliani e di sperare nel proseguimento del
processo di pace". Nei giorni scorsi esponenti
palestinesi avevano già detto che avrebbero
eventualmente trattato con Sharon.
Il ministro della giustizia uscente, Yossi Beilin, uno
dei principali negoziatori israeliani nel processo di
pace, ha commentato l'esito delle elezioni affermando che
"ciò che è accaduto ieri in Israele è la più
grande scommessa politica a rischio dal 1948 e io spero e
prego che questo azzardo non sarà un disastro e che il
processo di pace continuerà".
Obiettivo, quello della pace, cui punta il mondo intero,
dall'Europa agli Stati Uniti. Ieri sera da Washington,
insieme alla telefonata di congratulazioni da parte di
Bush al vincitore, il segretario di stato Colin Powell ha
lanciato un appello alla calma, inviando le parti ad
evitare le provocazione per non innescare un
incontrollabile spirale di violenza. E si è congratulata
con il vincitore anche la presidenza svedese dell'Unione
europea, in un comunicato diramato oggi a Stoccolma,
auspicando che il nuovo premier "prosegua il
processo di pace e il dialogo con tutte le parti
coinvolte".
Le elezioni di ieri in Israele hanno fatto segnare, oltre
al record di preferenze incassate da Sharon, anche la
percentuale più bassa di affluenza alle urne nella
storia di Israele. E' stato infatti soltanto il 62% degli
israeliani a votare, circa due milioni e ottocentomila
elettori su un totale di circa 4,5 milioni di aventi
diritto.
(7
febbraio 2001)
Il divieto non avrà corso solo
in cinque paesi
fra cui il Regno Unito e il Portogallo
L'Unione
europea ha deciso
"Al bando la fiorentina"
Dovrà essere
eliminata la colonna vertebrale
in tutte le bestie con più di dodici mesi
BRUXELLES - Fiorentina, addio.
Adesso è ufficiale: la Commissione europea, su proposta
del commissario europeo per la Sanità David Byrne ha
messo al bando la bistecca con l'osso, e così dal 31
marzo sulle tavole dei paesi europei, esclusi Regno
Unito, Portogallo, Svezia, Austria e Finlandia la costata
scomparirà. La Commissione ha infatti detto sì alla
proposta di Byrne di eliminare la colonna vertebrale su
tutti i bovini di oltre 12 mesi.
Altre due misure precauzionali per prevenire una
diffusione del morbo in Europa riguardano: il bando della
carne bovina raschiata meccanicamente dalle ossa e
destinata alla fabbricazione di alcuni salumi soprattutto
in Germania e un più severo trattamento termico per i
grassi derivati da ossa e tessuti di ruminanti. Per
l'adozione definitva del pacchetto anti mucca pazza manca
solo il via libera del Comitato veterinario europeo che
si riunirà nel pomeriggio.
Il pacchetto Byrne non mancherà di suscitare polemiche
soprattutto per il capitolo che riguarda le deroghe
concesse ad alcuni Stati. Per quanto riguarda Svezia,
Austria e Finlandia si è riconosciuto che, non avendo
avuto a tutt'oggi nessun caso di Bse, vengono ritenuti
sicuri.
Le perplessità riguardano Gran Bretagna e Portogallo,
due Paesi ad alto rischio ma in cui i controlli speciali
sono in vigore da alcuni anni. E proprio questo regime
speciale di attenzione garantirebbe sull'attuale
sicurezza dei bovini di quei Paesi. Si è poi appreso che
le esenzioni previste per Regno Unito e Portogallo non
implicano che questi due paesi possano esportare negli
altri stati membri la bistecca con l'osso.
Per Regno Unito e Portogallo - sottolinea l'esecutivo Ue
- sono infatti già in vigore provvedimenti che vietano
l'export: in entrambi i paesi, dunque, il significato
della deroga sarà solo quello di permettere il consumo
della carne con l'osso a livello nazionale.
In Italia infine sono 15.247 i test anti-Bse eseguiti
finora, circa 14.000 da quando il controllo è diventato
obbligatorio. Secondo il ministero della Sanità, su
oltre 15.000 test è risultato positivo un solo caso. I
test fatti ieri sono stati 942 mentre sono 923 i campioni
attualmente sottoposti al test e per i quali si avrà una
risposta nelle prossime 48 ore. L'aggiornamento costante
dell'andamento dei test è ora accessibile nel sito
Internet del ministero, all'indirizzo www.sanita.it/bse,
dove sono contenute inoltre indicazioni sulla Bse e sugli
eventuali rischi per l'uomo.
(7
febbraio 2001)
I giudici della Corte d'Assise
d'appello di Roma hanno
ritenuto responsabile anche Liparota per favoreggiamento
Marta
Russo, condannati
Scattone e Ferraro
La madre della
ragazza uccisa: "Giustizia è fatta"
ROMA - Otto anni a Scattone,
sei a Ferraro, quattro a Liparota. Si conclude con queste
condanne il processo d'appello presso la Corte d'Assise
di Roma per l'omicidio Marta Russo. I giudici hanno
ritenuto Giovanni Scattone colpevole del reato di
omicidio colposo aggravato dalla detenzione di arma da
fuoco, Salvatore Ferraro di favoreggiamento e porto
d'arma da fuoco, Francesco Liparota del solo
favoreggiamento. Le pene inflitte ai tre si sono
inasprite rispetto a quelle di primo grado: nel primo
processo Scattone aveva avuto 7 anni per omicidio
colposo; Ferraro 4 anni per favoreggiamento; Liparota era
stato assolto.
Alla lettura della sentenza Scattone e Ferraro non erano
presenti in aula. "E' stata fatta giustizia per
Marta". E' stato questo il primo commento tra le
lacrime di Aureliana, la madre di Marta Russo, avvertita
del pronunciamento dei giudici per telefono dall'avvocato
Luca Petrucci. "Sembrava che fossimo rimasti da soli
- ha aggiunto - invece la Corte ha riconosciuto le nostre
ragioni".
E soddisfatti della sentenza si sono detti i pg Antonio
Marini e Luciano Infelisi: "il fatto è stato
accertato. Scattone ha sparato, Ferraro era con lui e
accanto a loro c' era Liparota". Soddisfatti perchè
l'accusa ha tenuto. "Ora si tratta di leggere le
motivazioni - spiega Antonio Marini -. Se troveremo
soddisfazione non faremo di certo ricorso in
Cassazione".
Ma in Cassazione hanno invece annunciato il ricorso i
difensori di Scattone. L'avvocato Manfredo Rossi in aula,
quasi in diretta, ha chiamato Giovanni Scattone per
comunicargli la sentenza. "Non mi ha detto una sola
parola - ha spiegato l'avvocato - anche perchè non c' è
stato tempo di commentare. Ho subito richiuso il telefono
perchè eravamo in aula. Potete immaginare che giornata
abbia passato, proprio oggi che era il suo
compleanno".
E un ricorso in Cassazione è anche nei programmi di uno
dei legali di Salvatore Ferraro, Vincenzo Siniscalchi,
che definisce quella di stasera "una sentenza non
dà risposte" e "che torna al punto di
partenza".
La sentenza della Corte d'Assise d'appello è stata
presieduta dal giudice Francesco Plotino, affiancato, a
latere, da Maria Cristina Siotto. Sei i giudici popolari.
Il processo di secondo grado si
è aperto il 3 maggio del 2000. Alla sbarra i due
ricercatori dell'Istituto di filosofia del diritto,
Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone (il presunto killer
che avrebbe sparato e poi infilato l'arma in una
cartella), ma anche Francesco Liparota, l'uscere
dell'istituto, inizialmente accusato di omicidio
volontario, poi di favoreggiamento, quindi assolto in
primo grado.
La Procura generale, il 25 gennaio, aveva chiesto 22 anni
per Scattone, 16 per Ferraro per omicidio volontario con
dolo eventuale, la condanna di Liparota a 4 anni per
favoreggiamento e l'assoluzione per Romano. Un processo
lungo 37 udienze, dove protagoniste sono state le
perizie: balistica, chimica e nanometrica sulle quali si
sono scontrate accusa e difesa. Il movente, grande
assente nel primo processo, rimane tale, anche nel
secondo. Così come avvolto nella nebbia rimane il
mistero del quarto uomo, che Gabriella Alletto, l'ex
segretaria dell'istituto di filosofia del diritto,
conferma di aver notato, ma che non sa identificare.
Il primo processo si era chiuso il 1 giugno del 1999 con
la condanna di Scattone a 7 anni e Ferraro a 4, e
l'assoluzione degli altri imputati. Stamattina c'erano i
due grandi imputati in aula: Scattone, che proprio oggi
compie 33 anni, aveva detto di sertirsi "fiducioso e
tranquillo". Salvatore Ferraro era invece sgusciato
via. Due atteggiamenti diversi, come diverso è stato
questo secondo processo, che si è svolto in sordina,
senza i colpi di scena del primo, senza testiomoni finiti
sotto inchiesta.
Tutto concentraro sulle perizie, le stesse che scatenaro
le polemiche anche nel primo dibattimento. Accertamenti
scientifici che si sono rivelati soggetti a diverse
interpretazioni e quindi incapaci di fornire delle
certezze. Non si sono stancati di ripeterlo, lunedì,
nella loro arringa conclusiva, i difensori dei tre
imputati.
Nessuna certezza, nessuna prova incrollabile. "La
somma di più prove incerte non fanno una prova
certa", aveva detto l'avvocato Giovanni Aricò,
difensore di Francesco Liparota nella sua arringa
conclusiva, che ha sottolineato come "alla fine la
verità non è stata raggiunta".
(7
febbraio 2001)
Il senatore a vita, acclamato
dai 2.500 delegati, si schiera
contro il "duopolio" e a favore del
proporzionale
E'
Andreotti la superstar
alla convention di D'Antoni
L'ex numero uno
della Cisl smentisce il feeling
col Polo: "Tutto falso, vogliono dividerci"
ROMA - E' Giulio Andreotti il
più amato dal popolo di Democrazia Europea. E' infatti
al grido "Giulio, Giulio", con tanto di
standing ovation, che si è aperta l'assemblea
congressuale del nuovo partito di Sergio D'Antoni. L'aula
magna dell'hotel Ergife, che ospita l'evento, è
affollata da circa circa 2500 delegati, con una
scenografia essenziale: sul palco campeggia il simbolo,
una via di mezzo fra uno scudo crociato e una vela bianca
con una croce rossa nel mezzo. Nella platea qualche
bandiera del movimento, e alcuni stendardi della Dc. Poi
sono cominciati gli interventi: il senatore a vita si è
scagliato contro "il duopolio" nella politica,
mentre D'Antoni che ha ancora una volta precisato di
essere alternativo non solo al centrosinistra, ma anche
al centrodestra.
E' però Andreotti la vera star della giornata. Appena
l'ex presidente del Consiglio è comparso in sala, la
platea è andata in delirio. Dopo un saluto di Pippo
Baudo, preceduto dalla canzone di Adriano Celentano
"Sono un uomo libero" (diventata l'inno del
nuovo movimento), l'anziano leader ha preso la parola.
Schierandosi con forza a favore del proporzionale, che
garantisce, a suo giudizio, pluralismo di idee e maggiore
partecipazione. Da qui le critiche al bipolarismo:
"La politica - ha detto - non deve essere un ring
sul quale due pugili si studiano per colpire al momento
ritenuto giusto e mettere l'altro al tappeto. Questa,
purtroppo, è l'immagine che il duopolio sta dando, con
una pericolosa diminuzione di partecipazione e di
elettori. Nel duopolio dei due 'grandi fratelli' si
nasconde, anche senza che lo si voglia, la tentazione del
monopolio".
Quanto a D'Antoni, ha dovuto, incalzato dai giornalisti,
smentire ancora una volta le parole pronunciate a
"Porta a porta" ("al ballottaggio voterei
centrodestra", aveva detto): "Non c'è mai
stato problema - ha spiegato oggi - la nostra linea è
chiara. Il manifesto di Democrazia europea è esplicito e
forte ed è alternativo ai due schieramenti e su questo
ci siamo ritrovati con Andreotti e Zecchino e centinaia
di migliaia di cittadini". Insomma, "non c'è
nessun giallo, c'è una frase estrapolata all'interno di
un ragionamento politico". D'Antoni ha anche negato
una sua cena ad Arcore, magari per stipulare un accordo
segreto con la Casa delle libertà: con queste
indiscrezioni "tentano solo di dividerci", ha
tagliato corto.
Nel pomeriggio, i vertici del partito, designati per
acclamazione: Andreotti presidente onorario, Zecchino
presidente, D'Antoni segretario. Per le altre nomine
bisognerà aspettare: "Oggi non abbiamo tempo per
gli organigrammi - ha detto D'Antoni - Dobbiamo
concentrarci nell'individuazione dei candidati. E poi
vogliamo evitare di scontentare qualcuno come succede
sempre in questi casi.
(10
febbraio 2001)
Un sommergibile
nucleare Usa ha preso in pieno un battello
scuola giapponese che trasportava 34 persone, 9 i
dispersi
Scontro
in alto mare
tra sottomarino e nave
WASHINGTON - Un sottomarino
nucleare statunitense e una nave scuola giapponese si
sono scontrati al largo dell'isola di
Oahu, nell'arcipelago delle Hawaii, al largo della base
navale di Pearl Harbor. La nave, con a bordo 34 persone,
tra le quali 13 studenti e alcuni professori, è colata a
picco in pochi minuti. Nove persone risultano disperse. E
più passa il tempo, più si assottigliano le
possibilità di trovare sopravvissuti, ha dichiarato il
responsabile della Guardia costiera di Honolulu.
"Per ora non c'è nessuna traccia sulla superficie
del mare dei dispersi", hanno confermato fonti del
consolato giapponese di Honolulu.
Ecco il racconto di un
sopravvissuto: "Abbiamo visto all'improvviso
un'enorme macchia scura affiorare e subito siamo stati
urtati violentemente".
La nave, la Ehime Maru, di 499 tonnellate e lunga 58
metri, era in viaggio di istruzione per la pesca in alto
mare. Non si conoscono ancora i particolari
dell'incidente, che sembra avvenuto al momento
dell'emersione del sottomarino, il Greenville, 8000
tonnellate di stazza. Un sommergibile nucleare Usa a
propulsione nucleare di base a Pearl Harbor, che secondo
le prime dichiarazioni non dovrebbe aver subito danni.
"Ciò che possiamo dire al momento - ha dichiarato
un portavoce del Pentagono - è che l'incidente è
avvenuto alle 1.
45 di notte, ora italiana. Il
sottomarino era impegnato in operazioni di routine quando
è avvenuta la collisione con la nave giapponese".
La marina Usa ha già aperto un'inchiesta sull'accaduto.
Un incidente "inspiegabile", come è stato
definito da fonti giapponesi. I sottomarini sono dotati
di sofisticati sonar che individuano qualsiasi oggetto in
navigazione sulla superficie del mare e, in fase di
emersione, a 20 metri dalla superfice devono far
affiorare un periscopio per controllare che non vi siano
navi nelle immediate vicinanze.
(10
febbraio 2001)
La pubblicazione della sequenza
del genoma
fa emergere alcuni risultati del tutto inaspettati
Sorpresa,
pochi geni
nel Dna dell'uomo
Se ne prevedevano
centomila, non sono più di trentamila
Cambia il paradigma di comprensione: più peso
all'ambiente
ROMA - Trentamila o giù di
lì. La scoperta che il numero di geni che determinano
l'organizzazione e il funzionamento dell'organismo umano
è assai inferiore al previsto è uno dei risultati
principali e forse la maggiore novità delle due ricerche sul
genoma umano che oggi diventano finalmente pubbliche
<http://www.repubblica.it/online/cultura_scienze/piantanoma/pubblicato/pubblicato.html>. In tutto, i nostri geni sarebbero
31.780, secondo i dati raccolti dal Progetto Genoma
Umano, e circa 37 mila secondo quelli della Celera,
quindi molti meno dei 100 mila che rappresentavano fino
ad oggi l'ipotesi più accreditata.
E soprattutto, pochi di più rispetto ad organismi dalla
struttura e dal comportamento decisamente meno complessi
dei nostri. Il nematode, studiatissimo lombrico, vive e
funziona con 19.900 geni, il moscerino della frutta con
13.601 e la distanza tra noi e le piante è ancora più
ridotta: l'Arabidopsis, la prima pianta di cui è stato
decodificato l'intero genoma, ne possiede quasi 26.000.
O, se preferiamo il confronto diretto con un nostro
parente più diretto, un altro mammifero, un topo ha
appena 300 geni meno di noi. Inoltre, rispetto agli altri
organismi, i nostri geni sono più frammentati, più
lontani fra loro, sparsi in mezzo al cosiddetto "Dna
spazzatura", le sequenze apparentemente inutili e
che costituiscono il 95 per cento dell'intero genoma.
Evidentemente, non c'è un gran rapporto tra la
complessità di un organismo e la quantità di Dna che
possiede, e conta molto di più la qualità, cioè il
modo in cui funziona il genoma, la sua capacità di
"costruire" molte proteine diverse a partire
dagli stessi geni, in breve la flessibilità del genoma
umano, che riesce a codificare un numero di proteine
cinque volte maggiore di quello dei più
"rigidi" vermi o moscerini.
In uno dei molti articoli di commento che accompagnano la
duplice pubblicazione delle sequenze del genoma umano, il
genetista francese Jean-Michel Claverie scrive su
"Science" che "un numero tanto basso di
geni costituisce un cambio di paradigma, che potrebbe
modificare radicalmente la nostra comprensione della
complessità degli organismi e dell'evoluzione". Un
cambio di paradigma che potrebbe costringerci a
rivalutare completamente il peso del controllo della
componente genetica su quello che siamo e facciamo,
rilanciando il ruolo dell'ambiente e la sua interazione
col genoma. Una vera e propria rivoluzione, insomma, che
sembra dar ragione ai molti, anche tra i genetisti di
punta, che combattevano da tempo il cosiddetto
"determinismo biologico": una visione tutto
sommato meccanica del vivente, e a quanto pare lontana
dalla realtà.
(11
febbraio 2001)
Ai fini della prova varranno
solo le dichiarazioni
che verranno confermate nel corso del dibattimento
Giusto
processo
Da oggi è legge
Approvazione
definitiva in commissione alla Camera
Si chiude un iter cominciato alla fine del 1998
ROMA - Il giusto processo è
legge dello Stato. La commissione Giustizia della Camera
ha dato il suo via libera alla legge attuativa,
necessaria per rendere operanti le norme costituzionali
approvate dal Parlamento alla fine del 1999.
Con questa legge il processo penale perde praticamente
del tutto la sua vecchia natura inquisitoria. Viene
infatti confermato il principio della formazione della
prova nel contraddittorio tra le parti durante il
dibattimento. Le dichiarazioni rese durante le indagini,
ma non confermate in aula, potranno perciò valere
soltanto ai fini della valutazione della credibilità del
teste (naturalmente, a meno che la mancata conferma sia
provocata da minacce o violenze).
E' un principio fondamentale che mette sullo stesso piano
le due parti (accusa e difesa) nel corso del processo. E
che separa nettamente le due fasi di un procedimento:
quella delle indagini e quella del dibattimento.
In estrema sintesi le principali novità introdotte sono
le seguenti.
Dichiarazioni non confermate in dibattimento. Il
"cuore" della riforma. Non avranno più alcun
valore di prova e potranno essere utilizzate dal
magistrato solo ai fini della credibilità del
dichiarante. In sostanza, è escluso che quanto detto da
pentiti e testimoni durante le indagini possa essere
usato ai fini della decisione se non riconfermato in
contraddittorio.
Falsa testimonianza. Aumenta la pena per la testimonianza
falsa e reticente: da un minimo di tre anni di reclusione
ad un massimo di sei. Oggi invece la pena minima è di
due anni.
Diritto al silenzio. L'imputato di un reato connesso o
collegato non è compatibile il ruolo di testimone a meno
che nei suoi confronti sia stata pronunciata una sentenza
irrevocabile. L'imputato di reato connesso o collegato,
che ha accusato altri, non potrà essere obbligato a
ripetere in giudizio le sue accuse. Naturalmente
l'imputato ha comunque ha l'obbligo di dire la verità, e
ha comunque quello di rispondere in dibattimento davanti
al giudice.
Gup in ogni tribunale. Il testo prevede anche
l'istituzione in ogni Tribunale della sezione del giudice
dell'udienza preliminare che oltre ad esercitare l'azione
penale dovrà decidere anche sulla libertà personale
dell'imputato.
Con l'approvazione di queste norme da parte della
commissione giustizia di Montecitorio (riunita in seduta
legislativa, caso in cui il voto equivale in tutto e per
tutto a quello dell'aula), si conclude un iter cominciato
oltre due anni fa, sulla scorta di una serie di polemiche
sul malfunzionamento della legge sui pentiti.
Esultano naturalmente gli avvocati (il ruolo della difesa
assume infatti un "peso" maggiore nel corso del
processo), ma anche il ministro della Giustizia, Fassino.
E una sia pure parziale soddisfazione arriva anche da
parte della Casa delle Libertà, i cui rappresentanti si
sono astenuti ripromettendosi di correggere nella prosima
legislatura alcuni "elementi di squilibrio".
(14
febbraio 2001)
La storia dell'accordo segreto
Roma-Belgrado
L'affare
Telekom Serbia
IL 9 GIUGNO del 1997
l'amministratore delegato della Stet, Tomaso Tommasi di
Vignano, firma un contratto che sancisce l'ingresso di
Telecom Italia in Telekom Serbia. La quota acquisita è
il 29 per cento, il prezzo da pagare è di 893 milioni di
marchi. Un contratto strano, secretato. Inaccessibile
persino all'allora presidente della Stet, Guido Rossi. Da
qui si dipana un misterioso intreccio
economico-diplomatico, che IL QUOTIDIANO LaRepubblica è
stato in grado di descrivere minuziosamente.
Il vicepremier Zarco Korac
"Fu un atto di cinismo politico"
"Quel
denaro italiano
ha salvato il regime"
BELGRADO Il viceprimoministro
Zarco Korac, cinquantenne professore di psicologia
prestato alla politica, leader dell'Unione
socialdemocratica, se ne sta dritto in piedi a fare gli
onori di casa al secondo piano del civico 11 di
Nemangina, sede del neoinsediato governo democratico di
Serbia. Sorridendo, apre la porta comunicante con il suo
ufficio. Ama l'Italia, Korac. Lo capisci per come ne
parla, per le considerazioni che gli suscita. "Se
non fosse stato per la grande simpatia che la vostra
gente riscuote qui a Belgrado, avreste pagato anche voi
un prezzo per questi anni di guerra nei Balcani. E poi,
siamo sinceri, per noi serbi l'Italia, in questi ultimi
anni, è stata la colomba in un'alleanza occidentale di
falchi".
Perché? Abbiamo bombardato Belgrado come il resto dei
paesi dell'Alleanza.
"Certo, avete partecipato alle operazioni militari.
Ma non c'è un solo serbo che non sia convinto che
l'Italia è stata in qualche modo obbligata a
formalizzare scelte prese da altri in sede Nato e a cui
non poteva sottrarsi. Ricordo le parole di Scalfaro, nel
riferirsi all'impegno militare dell'Italia: pacta sunt
servanda. Certo non erano di entusiasta adesione alla
guerra. E comunque dico tutto questo con cognizione
diretta di causa".
In che senso?
"Quando eravamo all'opposizione, quando combattevamo
politicamente contro il regime di Milosevic, abbiamo
vissuto con rammarico e disagio i tanti momenti di
passività dell'Italia nei confronti del regime. Avremmo
desiderato sì, in quei momenti, un maggior attivismo.
Avete avuto una politica estera a due vie. I vostri
diplomatici mantenevano rapporti cordiali con noi
dell'opposizione, ma poi facevate affari con il regime.
Non siamo mai riusciti a capire dove, nella vostra
politica estera, finisse il pragmatismo e cominciasse il
cinismo".
Un esempio?
"L'affare Telekom è l'esempio lampante. L'approccio
fu sicuramente pragmatico. Secondo un ragionamento
classico: quando si parla di investimenti, di interessi,
il resto non conta. Ma c'è un ma. Quel vostro denaro
servì per sostenere il regime di Milosevic, allora in
difficoltà, e, forse, anche le operazioni militari in
Kosovo, perché una volta dato al governo di Milosevic,
certo il denaro finiva dove lui riteneva dovesse finire.
Quell'affare fu dunque una dimostrazione di cinismo. Fu
un errore di Dini. Anche perché il vostro ministro degli
esteri, in questi anni, non è mai riuscito a far capire
dove finisse la comprensione italiana per le ragioni del
popolo serbo e la sua voglia di pace e dove cominciasse
la comprensione per le ragioni e le esigenze del regime.
Questo creò confusione. So che non è facile far
comprendere, ma sarebbe stato necessario uno sforzo di
chiarezza. Anche perché ad aumentare la confusione, in
quel periodo, fu anche l'atteggiamento di una minoranza
dello schieramento di sinistra".
Quale?
"Qualcuno accreditò l'idea che esistesse un'ala
riformista nel partito di Milosevic. Come a dire: Hitler
era un liberale di destra. Un falso, di cui tutti, oggi,
possono facilmente rendersi conto. Quel partito ha eletto
Milosevic dopo i fatti di Ottobre. Dov'è dunque
quest'ala riformista? Veramente non capisco. E il guaio
fu che la propaganda di Milosevic utilizzò questa Fata
morgana del riformismo. Comunque, è una vecchia storia.
Telekom fu un errore dettato da cinismo. Fu un affare
concluso in una cornice non democratica. E il popolo
serbo certo non ci guadagnò".
Il governatore della Banca centrale, Dinkic, sostiene che
parte dei soldi Telekom potrebbero essere finiti in
Svizzera, sui conti di Invest Banka.
"Dinkic è un giovane che ama le sfide. Ma devo dire
con franchezza che nonostante gli sforzi che stiamo
facendo sarà difficile recuperare quel denaro e
comunque, in generale, il tesoro di Milosevic. Pensi a
quel che è accaduto in Svizzera con l'oro degli
ebrei".
Furono versate tangenti per l'affare Telekom?
"Anche noi abbiamo raccolto questo tipo di
informazioni. Anche a noi è stato detto che una parte di
quei soldi finirono allo Jul, il partito di Milosevic. Ma
in un processo, se mai si dovesse arrivare ad un processo
per fatti di corruzione, servono prove. E prove non ce ne
sono. Di certe cose si cancellano le tracce. Magari
quelle prove potrebbero aiutarci a trovarle le autorità
finanziarie o fiscali italiane".
E' una richiesta?
"Siamo un paese piccolo e povero che non può
avanzare pretese. Diciamo solo, se posso usare
un'immagine, che, con le dovute differenze, si pone il
cosiddetto dilemma di Schindler. Il dilemma di chi,
avendo fatto profitti durante una guerra, ad un certo
punto si fa carico del destino del popolo sulla cui pelle
quella guerra si è combattuta. Ma, ripeto, sono certo
che l'Italia ci aiuterà ad andare avanti e a lasciarci
alle spalle il passato".
(16
febbraio 2001)
Tangenti, l'accordo segreto tra
Roma e Belgrado
Ecco
come Milosevic
incassò 1.500 miliardi
BELGRADO - "Quei mafiosi
di italiani...", ghigna Slobodan Milosevic, e si
guarda intorno con apparente disinteresse. Intorno, le
sue parole hanno già tacitato l' eccitato
chiacchiericcio degli uomini della nomenklatura. E' il 10
giugno del 1997. Ventiquattro ore prima, senza troppo
clamore, l'amministratore delegato della Stet, Tomaso
Tommasi di Vigliano, firma l'ingresso di Telecom Italia
in Telekom Serbia acquisendone il 29 per cento a fronte
di 893 milioni di marchi: 701.770 da pagare nelle
successive 48 ore, 117 a sei mesi e 74 milioni di marchi
all'atto della licenza per la telefonia mobile (versati a
marzo del 1998).
Il dado è tratto, finalmente. A Belgrado arrivano i
benedetti soldi, e non solo degli italiani. Anche i greci
della Ote (l'ente greco delle telecomunicazioni) hanno
voluto stare nell'affare. Sono saltati per ultimi sul
carro e pagano pegno con un sovrappiù del 16 per cento.
Hanno avuto il 20 per cento e l'hanno pagato 624 milioni
di marchi, oltre ai 51 milioni di marchi che dovranno
tirar fuori per "la componente mobile". Un
miliardo e 517 milioni di marchi tedeschi, più o meno
1.500 miliardi di lire italiane. E' una gran bella cifra
per la Serbia il cui prodotto nazionale lordo pro capite
tocca appena i 1.400 dollari annui.
E' una manna dopo tante vacche magre. Con quel danaro lo
Jul, il partito della signora Milosevic, Mira Markovic, e
il Partito socialdemocratico di Slobo vinceranno le
elezioni di settembre a dispetto delle manifestazioni
organizzate dall'opposizione, notte dopo notte, in piazza
della Repubblica. Slobo Milosevic pagherà le pensioni di
anzianità e gli stipendi di Stato. Potrà rianimare le
riserve in valuta ridotte a soli 200 milioni di dollari.
E, quel che più conta, potrà armare l'esercito e la
milizia in Kosovo, e gli albanesi del Kosovo avranno quel
che si meritano.
E' il 10 giugno 1997, e sono le otto del mattino. Ad
Atene, al 16 di via Panepistimou, sede centrale della
European Popular Bank (Epb), quattro uomini raggiungono
gli uffici della direzione. Rappresentano Epb, Stet, Ote
e Ptt (l'azienda telefonica serba, proprietaria di
Telekom Serbia). I quattro funzionari scambiano le
lettere di credito che ratificano la cessione delle
azioni e preparano il contante che, entro le 16 di quello
stesso giorno, dovrà essere depositato in due diversi
conti accesi nella banca ellenica e intestati a Stet ed
Ote. Stet versa 701.770 mila marchi tedeschi. Ote 543.230
mila marchi.
E' il 10 giugno 1997. Ora è sera. Siamo di nuovo a
Belgrado. Chi c'era quel giorno a Belgrado, al piano
nobile del Palazzo della Presidenza della Repubblica
serba, la racconta così. Un pugno di uomini della
nomenklatura "saranno stati dodici, al massimo
quindici" si stringe attorno al presidente Slobodan
Milosevic, che fa il suo ingresso nel salone. Sono uomini
soddisfatti e fiduciosi. Erano precipitati in un pozzo
nero e d'incanto, per una trovata della sorte o di una
malandrina intelligenza, vedono la luce al di là del
cono buio. Le bottiglie di champagne hanno già il tappo
lievemente allentato. Si attende soltanto il cenno del
maestro di cerimonie e il maestro di cerimonie attende
che il "presidente" stringa le mani che deve,
sorrida a chi deve sorridere. Ora c'è un attimo di
silenzio sospeso. Tutti appaiono imbarazzati e allora il
maestro di cerimonie dà il via ai camerieri e i sugheri
saltano allegri verso l'alto. Gli uomini gridano
"evviva", brindano alla "Madre
Serbia", al "presidente". Tutti bevono.
Slobodan Milosevic si bagna appena le labbra. Ha accanto
il ministro per le privatizzazioni Milan Beko. Slobo gli
chiede: "Non capisco perché abbiamo dovuto pagare
noi quei 32 milioni di marchi, noi che siamo i più
piccoli e i più poveri. Non poteva pagare la
Telecom?". Lo champagne quasi va di traverso a Milan
Beko, Milosevic parla a voce alta e non c'è, nel salone,
chi non lo abbia ascoltato. Beko deve dire qualcosa, e
presto. Dice: "Presidente, è soltanto il 3 per
cento!".
Slobo sembra non capire. Chiede: "E allora?".
"E allora, signor presidente continua il ministro il
3 per cento è abituale pagarlo in Occidente, e doveroso
quando si fanno affari con gli italiani".
"...Quei mafiosi", ridacchia Slobo.
Ride anche Beko. Ride e rilancia: "Mafiosi sì, ma
poi è meglio una tassa del 3 per cento e non come da noi
la taglia del 100 per cento". Tutti ridono e Milan
ne approfitta per congedarsi. "Mi scusi, signor
presidente, ho un affare urgente e devo partire. Al
ritorno, le spiegherò...".
(16
febbraio 2001)
Afghanistan, i talebani mettono
in pratica
la minaccia di radere al suolo il sito archeologico
Carri
armati e cannoni
contro i Buddha di Bamiyan
KABUL - Lo avevano promesso e
lo hanno fatto: i talebani stanno sparando con carri
armati e lanciarazzi contro le statue giganti di Buddha a
Bamiyan, nell'Afghanistan centrale. Due opere
straordinarie che rischiano di essere ridotte in macerie
nel giro di poche ore, nonostante gli appelli e i
tentativi di salvarle attuati da governi ed istituzioni
culturali del mondo intero.
La furia fanatica dei seguaci del mullah Mohammed Omar ha
iniziato a sfogarsi "con tutte le armi a
disposizione" ha detto un testimone, contro le
statue che risalgono al secondo secolo dopo cristo che
hanno come unica colpa di essere state costruite prima
dell'Islam. Un insulto da far scomparire, secondo
Mohammed Omar e il ministro della cultura del regime
islamico che controlla il 95 per cento dell'Afghanistan,
così come tutte le testimonianze preislamiche che si
trovano nel martoriato Paese.
I colpi di cannone contro i due Buddah, uno alto 53 metri
e l'altro 35, sono solo l'inizio dell'opera di
distruzione. L'agenzia di stampa del regime ha riferito
che stanno arrivando a Bamiyan gli esplosivi necessari
per radere al suolo il sito archeologico. Non si sa se
l'intera operazione verrà conclusa oggi, visto che il
venerdì per l'Islam è giorno di preghiera e non si
compiono altre attività anche se i Talebani proprio il
venerdì usano compiere le esecuzioni pubbliche dei
peccatori.
Le suppliche giunte dal Metropolitan di New York che ha
chiesto il permesso di portare negli Usa i due Buddha,
così come la proposta del governo indiano di prenderle
in consegna, sono state lasciate cadere nel vuoto mentre
sembra che nel museo di Kabul siano stati distrutti i
pochi oggetti rimasti. Un inviato speciale dell'Unesco è
partito ieri sera d'urgenza per Kabul, con un messaggio
per i Talebani nel quale il direttore dell'organizzazione
dell'Onu Koichiro Matsuura, chiede che sia sospesa la
distruzione delle statue preislamiche.
FINE
FEBBRAIO
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