LUGLIO
2001
A Genova il vertice dei grandi
travolto dalla violenza
I black bloc provocano scontri, quasi seicento feriti
Il
G8 finisce nel sangue
ucciso un manifestante
Via all'indagine
parlamentare per fare luce sulla Diaz e
sui presunti pestaggi nella caserma di Bolzaneto
ROMA - Un morto, quasi seicento
feriti (560), oltre duecento persone arrestate (219),
circa cinquanta miliardi di danni: ecco le cifre del G8.
Ecco i numeri del vertice degli otto paesi più
industrializzati, andato in scena a Genova da venerdì 20
luglio a domenica 22. Tre giorni di discussioni per i
grandi della terra, tre giorni segnati in maniera tragica
dall'uccisione di un ragazzo di 23 anni, Carlo Giuliani,
uno dei contestatori colpito venerdì pomeriggio da un
colpo di pistola esploso da un giovane carabiniere. La
foto di questo ragazzo, steso sul selciato di piazza
Alimonda, con una pozza di sangue ad allargarsi dietro la
testa, le braccia a croce e un compagno che tenta di
rianimarlo è il simbolo di quello che è accaduto a
Genova. Attorno a quel corpo, le decisioni degli otto
grandi vengono travolte dagli scontri piazza e dalle
durissime polemiche che ne sono seguite, con scambi di
accuse tra il Gsf e il governo. E dopo giorni di scontro,
l'aula vara un'indagine parlamentare per fare luce sulle
violenze. Non solo, dalle relazioni degli ispettori si
evidenziano gravi errori nella conduzione dell'irruzione
nella scuola Diaz (60 ragazzi feriti e 92 arresti).
Mentre si susseguono le testimonianze sui pestaggi dei
manifestanti ad opera degli agenti nella caserma di
Bolzaneto.
E nelle prime sedute della commissione parlamentare
vengono ascoltati gli aministratori genovesi (sindaco e
presidente della Provinica) e il capo della Polizia,
Giuseppe De Gennaro. Il sindaco di Genova, Giuseppe
Pericu, accusa il governo e i responsabili delle forze
dell'ordine di non aver dato ascolto alle autorità
locali e di aver concentrato forze e impegno nella sola
difesa della "zona rossa" (dove, infatti, non
è successo nulla, lasciando quasi incustodita la zona
("gialla") dove, poi, si sono verificati gli
scontri più duri.
De Gennaro, invece, ha ammesso "eccessi di
repressione" da parte delle forze dell'ordine (che
andranno puniti) e carenze informative (a livello di
intelligence) nelle conoscenze del fenomeno "Black
bloc".
Poi ha accusato il Genoa Social
Forum di ambiguità e reticenza nel prendere le distanze
dalle parti più dure e nel definirei propri livelli di
rappresentatività.
Eppure l'anti G8 inizia nel modo migliore mercoledì
notte con il concerto di Manu Chao: sono in ventimila a
ballare e saltare con l'ex leader della Mano Negra.
Giovedì sfila il primo corteo degli anti-global con la
manifestazione dei migranti. La marcia di cinquantamila
persone si snoda per Genova senza problemi di ordine
pubblico. Il Gsf incassa il successo, ma dal giorno dopo
lo scenario e i commenti cambiano bruscamente.
Venerdì all'ora di pranzo il presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi riceve i leader a Palazzo Ducale. Negli
stessi minuti iniziano in città gli incidenti. A
provocarli sono i black bloc, le Tute nere, che si
muovono ai margini del movimento pacifista con l'unico
obbiettivo di creare disordini. Non sono moltissimi, ma
riescono nell'intento: dal primo Bancomat mandato in
frantumi, Genova non sarà più la stessa.
Dentro la cittadella blidanta i grandi parlano di
economia e lotta all'Aids, fuori è il caos. Le tute
bianche e i militanti del Gsf marciano verso la zona
rossa (in quattro riusciranno anche ad entrare) lungo le
strade devastate dal passaggio degli anarchici. La
tensione è alta, la situazione ormai fuori controllo. La
polizia carica con durezza, si scontra anche con le tute
bianche, che accuseranno di aver subito una vera e
propria imboscata. In periferia i black bloc sfasciano
tutto quello che trovano, assaltano anche il carcere di
Marassi. Poco prima delle 18, alle 17.57, le agenzie
battono la notizia: "C'è un ragazzo morto in piazza
Alimonda". La notizia è confermata: in terra resta
Carlo Giuliani, 23 anni di Genova, figlio di un ex
sindacalista Cgil (ma l'identificazione arriva solo in
tarda serata). A colpirlo a morte un carabiniere di
vent'anni, assediato dentro una jeep assieme ad altri
militari.
Il Gsf decide comunque di scendere in piazza sabato per
manifestare in maniera pacifica contro l'oppressione
della polizia. L'illusione di un corteo tranquillo dura
poco: i black bloc ricompaiono, il servizio d'ordine dei
militanti di Rifondazione e dei centri sociali non riesce
a isolare i violenti. La manifestazione si trova stretta
tra le cariche delle forze dell'ordine e la furia delle
tute nere. La guerriglia si estende a tutta la città, il
bilancio è pesante: altre centinaia di feriti, altre
centinaia di arresti. Il leader dei centri sociali del
Nordest, Casarini accusa: "Ci sono infiltrati della
polizia nei cortei, abbiamo le prove".
Ma non è finita, nella notte la polizia fa irruzione in
due scuole che ospitano il centro stampa del Gsf e un
dormitorio dei contestatori. Il blitz porta a 92 fermati
e 66 feriti e porta soprattutto uno scambio di accuse
violentissimo tra forze dell'ordine e Gsf. Vittorio
Agnoletto e gli altri parlano di "massacro, di
pestaggio indiscriminato, di violenze senza senso e
distruzioni". Le forze dell'ordine ribattono che
"era una perquisizione per individuare black bloc
nascosti nella scuola" e che "un agente è
stato colpito da una coltellata".
Il vertice ufficiale si chiude alle 12 di domenica con la
foto ufficiale: i grandi si impegnano a lottare contro la
povertà e l'inquinamento (anche se sul vertice di Kyoto
non c'è accordo), il presidente russo Putin e il suo
collega statunitense Bush parlano di scudo spaziale e
"fanno passi avanti".
Il premier canadese Jean Chretien annuncia che il
prossimo vertice si svolgerà a Kananaskis, un paesino di
montagna nella provincia di Alberta. Il G8 finisce con i
portavoce del Gsf che ribadiscono le accuse alla polizia
e al governo, che replicano con altre contro accuse.
(22
luglio 2001)
Il giovane militare di
Catanzaro racconta l'assalto
alla sua Land Rover, il terrore, la reazione
Mario,
vent'anni, confessa
"Ho avuto paura di morire"
GENOVA - "Ho sparato
perché ho avuto paura di morire. Ho messo il colpo in
canna, ma ho messo anche la sicura, poi non so come sia
successo, mi tremavano le mani e ho sparato". Lo
dice e lo ripete, fra le lacrime, quasi ossessionato
Mario Placanica, carabiniere di leva. E' chiuso in una
stanza in un'ala lontana di Forte San Giorgio, la sede
del comando provinciale dei carabinieri, un fortino con i
muri di cinta che affacciano sul mare. Può sentire bene
i duecentomila del corteo no global che passano lì sotto
in corso Italia e gridano a quel fortino:
"Assassini, assassini". Lo hanno anche scritto
in uno striscione nero lungo quaranta metri. E' sotto
choc, non si dà pace. Ha ammesso tutto davanti ai
magistrati Anna Canepa, Francesco Pinto e Andrea Canciani
durante la notte, ha firmato il verbale e ha chiesto di
poter essere dimesso dall'ospedale. Erano le tre. Il suo
è stato un racconto drammatico che la procura di Genova
sta valutando attentamente.
Comincia all'alba la giornata maledetta del carabiniere
ausiliario in servizio al battaglione di Palermo e
spedito in missione G8 da un paio di settimane. E' un
giovane alto, magro, i capelli cortissimi che fra le
lacrime ha ripetuto ai magistrati: "Posso fare
ancora fare questo lavoro? Io ci tengo". Una
giornata impossibile, la città militarizzata come
neppure lui si sarebbe mai immaginato, container, blindo,
carrarmati, le squadre in assetto militare e
antisommossa, fumogeni, caschi e maschere antigas.
"Entro in servizio alle sei del mattino in piazza
Kennedy, a piedi con il mio battaglione. Durante la
giornata siamo risaliti verso la zona degli scontri.
Eravamo in mezzo alla cariche almeno da mezzogiorno,
sempre lì, in quelle strade fra la ferrovia, la collina
e le case, avanti, indietro, una carica, una controcarica
e poi gli assalti". Da impazzire, il caldo, la tuta
antisommossa, la maschera antigas e una città che non
conosce e dove fra il fumo delle barricate e quello dei
lacrimogeni è facile perdere l'orientamento.
La squadra di Mario era già rimasta coinvolta in uno
scontro terribile un paio d'ore prima quando in corso
Torino un blindato dei carabinieri era stato
"conquistato" dai black bloc e incendiato con
le molotov. I militari a bordo avevano fatto appena in
tempo a fuggire ma ancora pochi secondi e sarebbero
finiti ostaggi di quei giovani scatenati vestiti di nero
e col cappuccio.
Alle cinque del pomeriggio il quartiere sembrava
riconquistato e piazza Alimonda poteva anche essere
l'ultima carica della giornata. "Ci spingono sempre
a piedi prima verso via Barabino, poi via Caffa. Dietro
abbiamo due mezzi a protezione. C'è molto fumo". I
lacrimogeni sono caricati con una sostanza urticante che
annebbia la vista e toglie il fiato. "Mi sento male
- racconta ancora il carabiniere - il filtro della
maschera non mi fa più respirare e mi levo tutto, casco
e maschera. Chiedo ai colleghi di salire sulla jeep.
Vomito. Sale anche un altro militare, sta male anche
lui". La carica sembra respinta. C'è un momento di
rilassamento. Sono tre i militari sulla jeep. Forse è
finita.
Invece no. Dalla strada sul lato sinistro della piazza si
materializza all'improvviso un altro gruppo di black
bloc. Venti, trenta persone che assaltano la jeep rimasta
incastrata fra i cassonetti che poco prima erano stati
usati come barricate dai no global. "Uno di loro ha
in mano un palo della segnaletica stradale e sfonda il
lunotto posteriore, dove sono io, sdraiato. Un altro con
un asse di legno in mano fa lo stesso contro il
finestrino laterale. Uso lo spray urticante ma il vento
lo riporta dentro l'abitacolo. Loro hanno i passamontagna
e i caschi. Noi non ci vediamo più, si annebbia la vista
e ci manca il respiro".
Il carabiniere di leva arma la pistola, carica il colpo,
dice ai magistrati di aver messo anche la sicura.
"Urlavo andate via, andate via. Mi tremavano le
mani, ma ho sparato, nel vuoto, davanti a me". Nel
vuoto c'era Carlo Giuliani, appena tre anni più di lui.
Due ragazzi. "E' stata una fatalità accaduta dopo
una giornata di choc" dice l'avvocato Umberto
Pruzzo. E' andata che "un ragazzo dell'80 ha sparato
e ha ucciso uno del '78".
(22
luglio 2001)
Il ragazzo era figlio di un
sindacalista della Cgil
"Non era un punk, su di lui hanno detto tante
falsità"
"Mio
figlio contro l'ingiustizia"
parla il padre di Carlo Giuliani
L'appello dei
genitori: "Vogliamo pace, non vendetta"
GENOVA - "Non è vero che
mio figlio era un punk. Era un caro ragazzo che non
sopportava le ingiustizie. E di ingiustizie ne sono state
fatte tante... Di lui hanno detto un mare di
falsità". Giuliano Giuliani, sindacalista della
Cgil conosciutissimo a Genova anche perché teneva una
trasmissione televisiva su Telecittà, un'emittente
privata, è il padre di Carlo, il ragazzo di 23 anni
ucciso ieri durante gli scontri. Come tanti altri ha
appreso dalla tv che un ragazzo era morto in via Caffa
durante la manifestazione. Per lunghe ore il dubbio non
l'ha sfiorato: si parlava di un ragazzo spagnolo e da
quelle immagini spezzate, paradossalmente, non aveva
riconosciuto il figlio in quel corpo magro e
disarticolato dalle ruote della camionetta. Adesso, lui e
sua moglie non chiedono vendetta: "Rifiutiamo la
violenza, vogliamo la pace" hanno detto questa
mattina, poco prima del corteo che sembra destinato a
trasformarsi in un enorme funerale per il loro Carlo.
"Non esiste nulla - hanno aggiunto - che valga la
morte di un ragazzo. Nulla che possa restituircelo.
Chiediamo che pace e solidarietà siano i valori
autentici nei quali riconoscersi".
Solo molto tardi, ieri sera, i poliziotti si sono
presentati a casa Giuliani per dare ai genitori la
terribile notizia. Poi, sulle agenzie e, di conseguenza,
sui giornali di questa mattina, la descrizione di Carlo:
"23 anni, appartenente ai gruppi dei 'punk
bestia'... figlio di un sindacalista aveva lasciato la
famiglia... viveva di elemosina nel centro storico con i
suoi amici e i loro cani...aveva piccoli precedenti
penali... forse era tossicodipendente".
Adesso Giuliano Giuliani e sua moglie, che abitano in una
casetta al Righi, sulle alture di Genova, sono distrutti
due volte: per quel figlio ucciso all'obitoro (solo
questa mattina hanno potuto vederlo) e per le cose
cattive che qualcuno ha messo in giro sul suo conto.
Certo, Carlo frequentava il
centro sociale "Zapata" (uno dei più soft a
Genova); certo, sicuramente era fortemente
"antiglobal" e lo prova il fatto che si sia
trovato in mezzo agli scontri più duri. Ma non era uno
sbandato (lo dicono i compagni di scuola, i vicini di
casa e tutti quelli che lo conoscevano), studiava Storia
all'Università: "Avrà avuto i suoi problemi, i
suoi scontri generazionali - dice un amico - Ma era uno
normale". E un altro: "L'altra sera siamo
andati insieme al concerto di Manu Chao... La
manifestazione? Eravamo indecisi se partecipare.. Carlo
aveva detto che se fosse stata una bella giornata avremmo
potuto andare al mare... Invece, poi, è andato in
piazza". Ma era un 'punk bestia'? "Ma quale
punk? Gli piacevano gli animali. Piacciono anche a me.
Magari metteva una maglietta sdrucita, ma da lì a
definirlo 'punk bestia'...". In effetti, a giudicare
dalle immagini, quello steso per terra in via Caffa, non
sembra il corpo di un "punk bestia": capelli
corti, barbetta quasi curata, niente piercing o altri
ornamenti del genere. Uno come tanti, un "cane
sciolto", probabilmente che si è fatto coinvolgere
in un'ora di folle violenza e ha pagato con la vita.
E Giuliano Giuliani si chiede anche fino a che punto
l'uccisione di suo figlio sia riconducibile ad un caso di
legittima difesa: "Non me ne intendo - premette - ma
mi dicono che perché ci sia legittima difesa bisogna che
il pericolo sia altrettanto grave. Non so, non so se
Carlo stava minacciando la vita di quel
carabiniere...". La senszione è che l'uccisione di
Carlo Giuliani non sarà una questione tanto semplice da
chiudere per chi se ne deve occupare.
(21
luglio 2001)
Bruno Abile, fotografo, spiega
la dinamica della tragedia
"Colpi esplosi da una jeep dei carabinieri"
Un
testimone racconta
"Così gli hanno sparato"
GENOVA - Il corpo del ragazzo
ucciso in via Caffa è ancora immobile, la polizia e i
carabinieri formano un cordone tutto intorno. La gente
preme, urla, piange e in molti raccontano la loro
versione. I primi testimoni sono due ragazze, due
volontarie del Gsf, che sono state le prime a cercare di
prestare soccorso al ragazzo ucciso.
Le loro parole sono frammentarie: "Ha perso la vita
in seguito a due colpi in pieno volto: sulla fronte una
ferita lacero contusa profonda, all'altezza di uno zigomo
un foro circolare, simile a quelli provocati da colpi
d'arma da fuoco". La ragazza ha riferito che il
giovane morto portava un passamontagna nero. "Sono
stata io a levarglielo e ho visto quelle ferite".
Erano da arma da fuoco? "Non lo so, so solo che quel
ragazzo quando siamo arrivati era appena morto. Aveva gli
occhi azzurri e perdeva molto sangue dalla bocca.
Qualcuno gli ha fatto un massaggio cardiaco, ma
inutilmente".
Poi arriva il racconto di Bruno Abile, fotografo
freelance di Parigi che fornisce molti dettagli sulla
vicenda: "Ho sentito due colpi. Pensavo
fossero in aria invece ho visto cadere un ragazzo.
Intorno alle 17.30 il grosso dello schieramento di
polizia in via Tolemaide ha cominciato a tornare indietro
rapidamente fino a fermarsi all'altezza del cavalcavia
della ferrovia in corso Torino. Trecento manifestanti
hanno seguito la polizia, mentre molti da dietro
gridavano 'è una trappola'".
"Io sono andato dietro ai manifestanti - aggiunge -
tranquillo e in un piccolo vicolo a sinistra ho visto
30-40 carabinieri con gli scudi. La polizia ha sparato i
lacrimogeni. I carabinieri del vicolo invece non hanno
sparato, ma si sono spostati indietro di una ventina di
metri correndo in disordine sino a piazza Alimonda. Qui
c'erano un furgone e due jeep che sono subito partite.
Una jeep si scontrata contro un cassonetto. E non è
riuscita a ripartire. A bordo c'erano un autista e due
persone. Sei o sette manifestanti si sono avvicinati e
hanno gettato sassi da cinque o sei metri. Poi hanno
cominciato a colpire la macchina con i bastoni".
"I poliziotti erano fermi a venti metri - conclude
il fotografo - Io non capivo perché non andavano ad
aiutare i carabinieri. Mentre fotografavo, ho visto un
uomo in divisa senza scudo, forse un ufficiale, che
impugnava una pistola. Ho sentito due colpi. Pensavo
fossero in aria invece ho visto cadere un ragazzo. Il
proiettile gli è entrato nell'occhio destro e il sangue
zampillava dall'occhio".
(20 luglio 2001)
LE
TESTIMONIANZE
Violenze
e pestaggi:
pagina nera a Genova
La testimonianza
di Fabrizio Ferrazzi, ex professore
di filosofia di 51 anni arrestato venerdì a Genova
"Ci
picchiavano
senza pietà"
"Stranieri
costretti a firmare falsi verbali"
ROMA - "La polizia
penitenziaria, i reparti scelti dei Gom, indossavano i
guanti bianchi e ci rifornivano di acqua e sigarette?
Sono miserabili menzogne. I signori in grigioverde con lo
stemma Gom ci costringevano in piedi per ore nei gabbioni
con la fronte al muro e ci ordinavano di gridare
"viva la polizia penitenziaria". Avevano guanti
neri imbottiti e picchiavano con i manganelli in modo
sapiente alle gambe e alle reni per evitare di lasciare
segni. Ma la cosa peggiore succedeva all'ufficio
matricola, l'ultimo passaggio prima del carcere:
costringevano a firmare verbali con finte ammissioni di
responsabilità. E' successo a un ragazzino francese
biondo accusato di tentato omicidio. Lui si è rifiutato
perché, senza traduzione, non capiva. Al grido "non
vuol firmare", lo hanno ributtato nel corridoi della
palestra di Bolzaneto fra due ali di agenti penitenziari
che lo picchiavano". Dopo ore in piedi a gambe
divaricate, il giovane ha ceduto e ha firmato.
Quello che segue è il racconto di Fabrizio Ferrazzi, 51
anni, professore di filosofia da qualche anno prestato
alla campagna, arrivato a Genova la mattina di venerdì
20 luglio da La Spezia con un amico per la manifestazione
dei Cobas in piazza da Novi. Il punto x degli incidenti
di Genova, dove sono cominciati gli scontri, dove le
prime squadre di black bloc hanno cominciato la
guerriglia durata 48 ore. "Credo di essere stato uno
dei primi arrestati, intorno a mezzogiorno. Sono stato
travolto da una carica perché volevo aiutare una
signora, chiaramente una esaltata religiosa, che
camminava in mezzo al lancio dei lacrimogeni della
polizia e alle pietre degli anarchici ripetendo "Dio
non vuole questo". Mi sono trovato davanti la
polizia, non sono scappato perché non aveva senso, ho
alzato le braccia e mi hanno travolto e bastonato".
"Sono una maschera di sangue, ho un taglio profondo
sulla testa che solo il giorno dopo mi cuciono con venti
punti. Da qual momento un inferno di botte, insulti e
violenza durato fino al sabato pomeriggio quando arrivo
nel carcere di Alessandria. In una cella. Posso dire,
finalmente".
Prima del lager di Bolzaneto c'è il purgatorio di una
caserma della polizia stradale e della Fiera del Levante,
il fortinoquartier generale della polizia nei giorni di
Genova. "Dalle due alle nove di sera in piedi, sotto
il sole, il sangue rappreso sulla faccia, la voglia di
svenire e la paura di farlo. All'inizio io, il ragazzino
francese e uno di Roma, poi una ventina di fermati. Ogni
volta che si provava a dire qualcosa erano botte e
insulti del tipo "meglio essere in Cina così vi
potevamo uccidere subito"". Poi il lager di
Bolzaneto. "Ci danno il benvenuto i signori in
grigioverde col giubbotto nero dei Gom, solito
trattamento: ginocchia a terra, calci e manganello. I
colleghi della polizia ci mettono in fila fronte al muro
e guai a chi si gira, soprattutto se sentiamo qualcuno
che si lamenta o piange. Il gioco era provocarci per
vedere se si reagiva. Anche il medico vede queste scene.
La sua visita, quelle che il ministro nomina come prova
del nostro stato di salute, consiste in un'occhiata al
volo e due pacche sulle spalle. Eppure io continuavo a
sanguinare dalla testa e tremavo".
L'elenco delle offese e delle violenze è lungo e prende
allo stomaco. "Il medico di Bolzaneto dice che i
piercing venivano estratti con pinzette? Ho visto io un
ragazzo siciliano a cui veniva strappato via dal
capezzolo. Non erano torture vere e proprie, non ci hanno
messo i chiodi sotto le unghie. Erano sottili violenze
sistematiche: per me gridare viva il Duce è una violenza
più di un colpo di mangenallo". "Tutti hanno
picchiato a Bolzaneto, polizia e penitenziari. Ma la cosa
più agghiacciante è che si eccitavano nel farlo".
Fabrizio Ferrazzi fino a lunedì sera, davanti al gip,
non ha saputo perché si trovava lì. "All'inizio mi
accusano di aver lanciato una molotov, poi mi hanno detto
che avevano sbagliato foglio". Ora è libero,
indagato per resistenza a pubblico ufficiale. Ricorda
volti e qualche nome. Promette che denuncerà tutti.
(29
luglio 2001)
Genova, un poliziotto racconta
cosa è successo nella caserma
del Gruppo operativo mobile di polizia penitenziaria
La
notte dei pestaggi
a Bolzaneto il lager dei Gom
"Calci,
pugni, insulti: i diritti costituzionali
erano sospesi. E dicevano: tranquilli, siamo
coperti"
GENOVA - Un poliziotto che
presta servizio al Reparto Mobile di Bolzaneto, e di cui
Repubblica conosce il nome e il grado ma che non rivela
per ragioni di riservatezza, racconta la "notte
cilena" del G8. "Purtroppo è tutto vero. Anche
di più. Ho ancora nel naso l'odore di quelle ore, quello
delle feci degli arrestati ai quali non veniva permesso
di andare in bagno. Ma quella notte è cominciata una
settimana prima. Quando qui da noi a Bolzaneto sono
arrivati un centinaio di agenti del Gruppo operativo
mobile della polizia penitenziaria".
E' il primo di uno dei molti retroscena sconosciuti del
drammatico sabato del G8. Il nostro interlocutore ammette
che "nella polizia c'è ancora tanto fascismo, c'è
la sottocultura di tanti giovani facilmente
influenzabili, e di quelli di noi che quella sera hanno
applaudito. Ma il macello lo hanno fatto gli altri,
quelli del Gom della penitenziaria".
E il pestaggio sistematico nella scuola? "Quello è
roba nostra. C'è chi dice sia stata una rappresaglia,
chi invece che da Roma fosse arrivato un ordine preciso:
fare degli arresti a qualunque costo. L'intervento lo
hanno fatto i colleghi del Reparto Mobile di Roma, i
celerini della capitale. E a dirigerlo c'erano i vertici
dello Sco e dirigenti dei Nocs, altro che la questura di
Genova che è stata esautorata. E' stata una follia. Sia
per le vittime, che per la nostra immagine, che per i
rischi di una sommossa popolare. Quella notte in questura
c'era chi bestemmiava perché se la notizia fosse
arrivata alle orecchie dei ventimila in partenza alla
stazione di Brignole, si rischiava un'insurrezione".
La trasformazione della caserma di Bolzaneto in un
"lager" comincia lunedì con l'arrivo dei Gom,
reparto speciale istituito nel 1997 con a capo un ex
generale del Sisde, e già protagonista di un durissimo
intervento di repressione nel carcere di Opera. Appena
arrivati - vestiti con le mimetiche grigio verde, il
giubbotto senza maniche nero multitasche, il cinturone
nero cui è agganciata la fondina con la pistola, alla
cintola le manette e il manganello, e la
radiotrasmittente fissata allo spallaccio - prendono
possesso della parte di caserma che già alcune settimane
prima del vertice era stata adattata a carcere, con
annessa infermeria, per gli arrestati del G8.
La palestra è stata trasformata nel centro di primo
arrivo e di identificazione. Tutti i manifestanti fermati
vengono portati qui, chi ha i documenti li mostra, a
tutti vengono prese le impronte. A fianco alla palestra,
sulla sinistra, accanto al campo da tennis, c'è una
palazzina che è stata appositamente ristrutturata per il
vertice ed è stata trasformata nel carcere vero e
proprio. All'ingresso ci sono due stanzoni aperti che
fungono da anticamera. Qui, la notte di sabato, fino a
mattina inoltrata di domenica, staziona il vicecapo della
Digos genovese con alcuni poliziotti dell'ufficio e
qualche carabiniere.
"Quello accaduto alla scuola e poi continuato qui a
Bolzaneto è stata una sospensione dei diritti, un vuoto
della Costituzione. Ho provato a parlarne con dei
colleghi e loro sai che rispondono: che tanto non
dobbiamo avere paura, perché siamo coperti".
Quella notte. "Il cancello si apriva in
continuazione - racconta il poliziotto - dai furgoni
scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti
stare in piedi contro i muri. Una volta all'interno gli
sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno
pisciato addosso, altri colpi se non cantavano faccetta
nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei Gom la
stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di
stuprarle con i manganelli... insomma è inutile che ti
racconto quello che ho già letto".
E voi, gli altri? "Di noi non c'era tanta gente. Il
grosso era ancora a Genova a presidiare la zona rossa.
Comunque c'è stato chi ha approvato, chi invece è
intervenuto, come un ispettore che ha interrotto un
pestaggio dicendo "questa non è casa vostra".
E c'è stato chi come me ha fatto forse poco, e adesso ha
vergogna". E se non ci fossero stati i Gom?
"Non credo sarebbe accaduto quel macello. Il nostro
comandante è un duro ma uno di quelli all'antica, che
hanno il culto dell'onore e sanno educare gli uomini, noi
lo chiamiamo Rommel".
Che fine hanno fatto i poliziotti democratici?
"Siamo ancora molti - risponde il poliziotto - ma
oggi abbiamo paura e vergogna".
(26
luglio 2001)
Il consiglio di amministrazione
della casa torinese
approva l'operazione e dà pieni poteri a Fresco e
Cantarella
Fiat,
una nuova società
per la scalata a Montedison
Edf conferma
l'interesse a partecipare al progetto
La contromossa: vendita di Fondiaria per far cassa
TORINO - Comincia ufficialmente
in una calda domenica di luglio l'attacco della Fiat e
dei suoi alleati francesi dell'Edf alla Montedison. E
sarà battaglia dura visto il tenore delle decisioni
prese a Lingotto dal Consiglio di amministrazione della
casa torinese e viste le prime repliche degli uomini di
Foro Bonaparte che hanno deciso di vendere importanti
partecipazioni come quella in Fondiaria per far cassa e
sottrarre alla Fiat quote strategiche in Mediobanca.
Ieri pomeriggio, è bastata poco più di un'ora e mezza
per far uscire da Lingotto la decisione che ormai tutti
sapevano. Il Cda Fiat ha deciso di conferire tutte le sue
attività nel settore energia a una nuova società che
avrà anche il compito di procedere "ad un'eventuale
acquisizione di una rilevante partecipazione in
Montedison".
La nuova società che, per ora, si chiama, appunto
"New.co." (cioé "new company" come
si fa in questi casi in attesa di darle un nome) vede
tutte le presenze che dovevano esserci: i francesi
dell'Edf (che, una quarantina di minuti dopo la fine del
Cda Fiat confermano con calore la loro partecipazione),
Tassara (la società del finanziere Romain Zaleski che, a
sua volta, fa sapere: "La mia presenza è
assolutamente sicura") e le tre banche (San Paolo
Imi, Banca Intesa, Banca di Roma). Insieme a Deutsche
Bank dovrebero essere già al 46 per cento del capitale
Montedison e potrebbero salire ancora se si aggregasse
anche la famiglia Strazzera.
A guidare l'operazione Montedison per conto della Fiat
saranno il presidente Paolo Fresco e l'amministratore
delegato Paolo Cantarella ai quali il consiglio di
amministrazione della casa torinese "ha conferito
pieni poteri". L'Opa, secondo quanto si rileva dalla
nota Fiat, non punterà all'acquisizione della totalità
del capitale Montedison, ma di una partecipazione
"rilevante", tale da garantire una gestione
sicura. Fra i particolari da conoscere l'arco di durata
dell'Opa e il prezzo che verrà offerto per le azioni
(gli analisti lo fanno oscillare tra i 2,8 e i 3,2 euro).
Tutte cose che dovrebbero essere rese note questa mattina
in tempo per l'apertura dei mercati.
"Sarà un'operazione
lineare e trasparente, perchè deciderà il
mercato", si fa notare negli ambienti vicini alla
cordata.
Dall'altra parte si è corsi subito ai ripari.
Montedison, Mediobanca e i loro alleati si sono riuniti,
quasi in contemporanea con il consiglio straordinario
della Fiat. Intorno al tavolo c'erano il presidente
Montedison Luigi Lucchini e l'amministratore delegato di
Mediobanca Vincenzo Maranghi e gli esponenti di
Unicredit, compreso il presidente Alessandro Profumo e
poi Paolo Biasi, presidente della Fondazione CariVerona e
Fabrizio Palenzona, vice presidente di Unicredit per
conto della fondazione Crt. A una domanda sull'esito del
summit Palenzona si è limitato a rispondere "che è
andato benissimo".
Ma le decisioni si sono sapute più tardi e danno il
senso della volontà di lotta di Montedison e Mediobanca.
Qualcuno ha parlato di una "pillola
avvelenata". Montedison ha ceduto le partecipazioni
in La Fondiaria assicurazioni alla Sai e in Dieci srl al
gruppo Bollorè, per un importo complessivo valutabile in
circa 1.140 milioni di euro ossia 2.200 miliardi di lire.
Due operazioni che finanziariamente - come rileva il
comunicato emesso in serata dalla Montedison -
"consentiranno di ridurre l'indebitamento del
gruppo" di un importo equivalente e di
"proseguire nel piano industriale di rafforzamento
di Edison", ma che sotto il profilo strategico
rappresentano una risposta dura all'operazione di Fiat ed
Edf.
La mossa di Montedison scompagina il quadro sul quale gli
strateghi di Fiat ed Edf hanno lavorato in questi giorni
per definire i dettagli dell'Opa e sfila di fatto dal
portafoglio di partecipazioni di Montedison la Fondiaria
che a sua volta detiene una quota strategica in
Mediobanca pari al 2%.
Nell'operazione difensiva di Maranghi e Lucchini c'è un
primo verdetto. Ligresti (Sai) si è schierato dalla loro
parte e, in cambio, ha avuto quello che da anni cercava
di avere senza successo: la sua Sai diventa padrona della
Fondiaria (sulla questione pesa l'incognita di un
eventuale giudizio dell'Antitrust e dell'Isvap) che era
partecipata da Montedison al 32,5%.
(2
luglio 2001)
L'autore canadese aveva 70
anni, è morto a Montreal
In Italia il suo romanzo è diventato oggetto di culto
Addio
a Mordecai Richler
il papà di Barney
SE NE è andato dopo aver
spento l'ultimo Montecristo e svuotato l'ultimo bicchiere
di Macallan. Se ne è andato ridendo in faccia al destino
beffardo, venuto a rapirlo proprio nel momento di maggior
successo. Se ne è andato così Mordecai Richler,
l'autore della "Versione di Barney", il romanzo
che lo ha lanciato in Europa e che in Italia ha scatenato
una vera e propria mania. Aveva settanta anni, un tumore
ai polmoni e non aveva mai smesso di fumare.
Mordecai nasce a Montreal, in una famiglia ebrea
ortodossa in cui si parla solo yiddish. Non ci sono molti
soldi per casa, lo mandano in una scuola talmudica ed il
sogno di mamma e papà è quello di vederlo un giorno
rabbino della sinagoga. Non li accontenterà. A tredici
anni annuncia di essere laico, a diciannove se ne va a
Parigi, dove insegue il mito dei suoi idoli Jean Paul
Sartre e Hemingway. Si appassiona alla guerra di Spagna e
alle avventure delle Brigate Internazionali.
E' la Parigi presa in giro da Barney nella prima parte
della sua versione, ma Mordecai in quel periodo ci crede,
respira letteratura e comunismo e va pure in Spagna a
vedere di persona. Ne ricava un libro: "Gli
acrobati", che vende poco e male.
Gira l'Europa, va in Inghilterra, dove fa anche il
giornalista free lance: scrive sempre, ma critica e
pubblico continuano a ignorarlo. Sino a quando non mette
mano alla sua prima opera di successo:
"L'apprendistato di Duddy Kraavitz", un ebreo
di Montreal che partendo da un quartiere povero e
malfamato riesce a far soldi. Il ragazzo usa mezzi non
proprio leciti, ma cerca di non andare mai contro la
tradizione ebraica.
Dentro il libro ci sono già gli ingredienti che
esploderanno poi nella "Versione di Barney":
c'è l'ironia, ci sono i graffi contro i conservatori.
Manca lo sguardo amaro e disicantato sulla vita, ma
quello arriverà solo con la vecchiaia.
Nel 1997, dopo aver costruito una solida carriera tra
libri (anche alcuni per bambini) e sceneggiature,
Mordecai Richler tira le somme della propria esistenza e
scrive il suo romanzo più famoso. E' la storia di Barney
Panofsky, un produttore televisivo ebreo che decide di
stendere un'autobiografia per difendersi dall'accusa di
aver ucciso il proprio miglior amico.
E' un libro travolgente, irresitibile, impregnato
dell'umorismo nero di Barney: le pagine volano, si ride e
si piange. La sua vita è come un film: dalla gioventù
spensierata a Parigi sino alla vecchiaia canadese. In
mezzo ci sono tre matrimoni: il primo finito con un
suicidio (della moglie, prima scrittrice poi icona del
femminismo), il secondo finito in tribunale (con l'accusa
per Barney di aver ucciso il suo amico Boggie) e il
terzo, con l'amata Miriam, finito per un tradimento (di
Barney).
Poi ci sono le sue passioni come i sigari, il mangiar
bene e tanto, il bere, l'amicizia, l'hockey e la
letteratura. E i suoi odi, soprattutto contro le
femministe e gli ebrei osservanti. Tutto affrontato a
suon di parolacce e sberleffi, il politicamente scorretto
come regola di vita. Sempre.
Ed è questa forse la molla dell'incredibile successo del
libro. In una società dove il politically correct è
ormai una dittatura, le irridenti battute di Barney sono
sembrate a molti ossigeno vitale, pura aria fresca. In
Italia nella primavera scorsa Mordecai faticava a
spiegarsi tanta passione per il suo romanzo, a cui il
Foglio di Giuliano Ferrara ha dedicato addirittura una
rubrica: "E dire che ho fatto lo scrittore perché
non mi hanno mai offerto un lavoro più onesto",
ripeteva, guardando con aria perplessa ora il sigaro, ora
il bicchiere mezzo vuoto di whisky.
(3
luglio 2001)
L'ex dittatore jugoslavo in
aula conferma le previsioni
e disconosce il processo: "Questa corte è
illegale"
L'Aja,
Milosevic non risponde
E' chiusa la prima udienza
Chirac: "Deve
rispondere dei suoi crimini"
L'AJA - "Questa corte è
illegale". Slobodan Milosevic, davanti al tribunale
internazionale dell'Aja non ha risposto ad alcuna domanda
e l'udienza si è conclusa in poco meno di dieci minuti.
Il presidente della Corte, Richard May, gli ha rivolto le
domande di rito sulla sua colpevolezza o innocenza e l'ex
dittatore serbo è rimasto in silenzio: sulla base delle
regole di procedura del Tribunale, il presidente della
Corte ha stabilito che tra un mese, se il silenzio di
"Slobo" continuerà, il suo tacere verrà
interpretato come una dichiarazione di non colpevolezza.
Solo allora, il 27 di agosto, comincerà il processo con
la lettura dei quattro capi d'imputazione.
Milosevic ha confermato le previsioni e davanti ai
giudici del Tribunale dell'Aja si è difeso da solo
disconoscendo l'autorità dei suoi giudici. Il processo
è cominciato alle 10 in punto.
Poco prima l'ex dittatore era
arivato a bordo di un convoglio formato da quattro
automobili con i vetri oscurati, scortate da alcuni
poliziotti in motocicletta a sirene spiegate.
"Considero falso questo tribunale - ha detto - e
considero false le accuse che mi vengono mosse".
L'ex presidente jugoslavo ha anche rinunciato alla
difesa. "E' illegale - ha detto - non ho bisogno di
assistenza di fronte a questo organo". Il discorso
che Milosevic si preparava a fare è stato interrotto dal
giudice. "Questo non è il momento opportuno per i
discorsi - ha detto May - avrà piena possibilità di
difedersi i farsi difendere davanti al tribunale".
Milosevic ha lasciato il carcere di Sheveningen, dove è
rinchiuso, per comparire, senza avvocati, davanti al
giudice britannico Richard May, del quale, dice:
"Questo è un falso tribunale e le accuse sono false
accuse".
Più tardi saranno letti i quattro capi di imputazione e,
davanti al procuratore Carla Del Ponte, Milosevic dovrà
dichiararsi colpevole o non colpevole. E' probabile che,
dopo le affermazioni iniziali sull'illegalità della
corte, scelga di restare in silenzio, cosa che fra 30
giorni sarà formalmente interpretata dal tribunale come
una dichiarazione di non colpevolezza.
E con la severa signora svizzera il confronto è però
cominciato in modo quasi informale. Carla Del POnte ha
infatti incontrato Milosevic per alcuni minuti al termine
dell'udienza. Secondo il portavoce del tribunale, gli ha
chiesto "se intende avere contatti o se ha qualche
dichiarazione da fare". Non si sa cosa abbia
risposto l'ex presidente ora imputato.
(3
luglio 2001)
Nel registro degli indagati
anche Gnutti
Erede e Marco Bonaiardi della Kpmg
Inchiesta
bilanci Telecom
indagati Colaninno e Pellicioli
TORINO - Dopo rumors e smentite
sono partiti davvero gli avvisi di garanzia per Roberto
Colaninno, Emilio Gnutti, Lorenzo Pellicioli. I tre big
della Telecom sono indagati nell'inchiesta sui bilanci
dell'azienda di telecomunicazioni per falsa perizia,
falso in bilancio, conflitto di interessi e manipolazione
di titoli. Insieme a loro altre sette persone sarebbero
finite nel mirino della procura di Torino fra cui l'
avvocato Sergio Erede, vicepresidente di Telecom, e Marco
Bonaiardi, l'esperto della società di revisione Kpmg che
nel 2000 firmò una perizia nell' ambito della fusione
fra Seat e Tin.it.. Contemporaneamente la procura ha
chiesto all'azienda della documentazione. In Telecom
confermano solo quest'ultimo passaggio della svolta
nell'inchiesta affermando di aver consegnato quanto
richiesto alla polizia giudiziaria ma negando che
"amministratori o dirigenti del gruppo sia stato
raggiunto da avvisi di garanzia".
La procura di Torino, un paio di mesi fa, ha aperto
un'inchiesta per presunti reati societari a proposito di
alcune operazioni effettuate da società nell'orbita di
Telecom che hanno sede legale a Torino. In particolare i
pubblici ministeri Paolo Storari e Roberto Furlan stanno
approfondendo le indagini sull'operazione che lo scorso
anno portò alla fusione fra Seat e Tin.it, operazione su
cui la procura aveva dato parere contrario perché
nutriva perplessità sul rapporto di concambio fissato 1
a 1 e ritenuto troppo favorevole a Tin.it. La Kpmg fu una
delle società chiamate ad occuparsi dell'operazione.
Contemporaneamente alle perquisizioni, secondo fonti
vicine alla procura, dieci funzionari della Telecom sono
stati raggiunti da avvisi di garanzia per falsa perizia,
per conflitto di interessi e per falsa comunicazione
sociale.
(5
luglio 2001)
Si è spento a Milano nel
pomeriggio. Aveva 92 anni
È stato il più noto inviato e opinionista italiano
È
morto Indro Montanelli
in lutto il giornalismo
Il ricordo di
Berlusconi dopo le polemiche e lo strappo
"Sono rimasto legato a lui nonostante i
dissensi"
MILANO - Indro Montanelli è
morto. Se ne è andato in silenzio dopo una lunga vita di
bastian contrario, burbero e brontolone. Quasi come se
fosse ancora in polemica con i mali e le ipocrisie di un
secolo di cui è stato tra i più grandi testimoni. Il
decano dei giornalisti italiani si è spento oggi
pomeriggio a Milano. Aveva 92 anni: da tre settimane era
ricoverato nella clinica "Madonnina" a causa di
un malore. Mercoledì era stato sottoposto a un
intervento chirurgico. Con esito positivo, avevano detto
i medici, che avevano anche ipotizzato il suo ritorno a
casa. Le sue condizioni però sono improvvisamente
peggiorate. Fino alla crisi che oggi pomeriggio gli ha
tolto la vita.
Con lui si chiude un capitolo enorme della storia del
giornalismo italiano. È la storia di un cronista d'altri
tempi, abituato sempre a confrontarsi con la realtà dei
fatti. Ma anche di un opinionista capace di schierarsi e
prendere posizione a dispetto dei luoghi comuni e delle
ideologie. La sua vita professionale è infatti
attraversata da numerosi strappi. Con il fascismo, dopo
un reportage in Spagna nel '37, molto critico nei
confronti del regime. Con il "Corriere della
Sera", nel '76, in polemica con la linea
"progressista" dell'allora direttore Piero
Ottone. Con Silvio Berlusconi, suo ex editore, alla
vigilia delle ultime elezioni politiche.
E proprio Berlusconi oggi ha voluto ricordarlo.
"Scompare con Indro Montanelli un testimone del
secolo", ha detto il premier alla notizia della sua
scomparsa. Aggiungendo: "Piango l'amico con cui ho
condiviso molte battaglie e al quale sono rimasto legato
anche quando ha espresso dissenso dalle mie posizioni,
con lo spirito di libertà che ha sempre animato il suo
lavoro e che io ho sempre rispettato".
Indro Montanelli era nato a Fucecchio, tra Firenze e
Pisa, il 22 aprile del 1909. Durante gli anni del
fascismo, ma soprattutto nel dopoguera era diventato una
delle firme italiane più lette, una delle voci più
ascoltate.
Esplulso nel 1937 dall'albo dei giornalisti e costretto
ad emigrare per i suoi pezzi sulla guerra civile
spagnola, aveva cominciato a scrivere per il Corriere
della sera l'anno successivo.
Si era messo in mostra come
corrispondente di guerra, in particolare durante il
conflitto russo-finlandese del 1939-40. Nel 1944 era
stato condannato a morte dai nazisti e rinchiuso nel
carcere di san Vittore a Milano, poi graziato per
intervento dell'allora arcivescovo di Milano, il
cardinale Ildefonso Schuster poi beatificato da Wojtyla.
Nel dopoguerra si era affermato come il più brillante
degli inviati italiani, smepre dalle colonne del
quotidiano di via Solferino. Nel '74, dopo la rottura con
il "Corriere della Sera", aveva deciso di fare
tutto da solo, fondando il "Giornale Nuovo",
quello che presto sarebbe stato conosciuto come "il
Giornale" di Indro Montanelli. Una avventura durata
fino al 1994. Dopo la "discesa in campo" di
Berlusconi, e il tentativo di allineare il quotidiano
alla linea del suo editore-politico, aveva ancora una
volta sbattuto la porta.
Era subito ripartito però, fondando "La Voce".
Una esperienza non felice: il giornale si scontrò subito
con le difficoltà di un mercato editoriale sempre più
competitivo, sempre più dipendente dalla pubblicità. Le
difficoltà economiche presto fecero terra bruciata
intorno alla sua creatura, che nell'aprile del 1995 (ad
appena 13 mesi dalla nascita) fu costretta a uscire di
scena.
Era ritornato a scrivere sulle colonne del "Corriere
della Sera" come opinionista. Senza mai risparmiare
la sua penna: con le armi della vis polemica e
dell'ironia aveva osservato e commentato la difficile
transizione italiana negli anni del centrosinistra. Anni
che aveva in fin dei conti apprezzato, a dispetto della
sua profonda cultura conservatrice. L'ultimo strappo
risale alla recente campagna elettorale, quando a
sorpresa aveva annunciato di voler votare Francesco
Rutelli considerato il "male minore" rispetto
alla destra di Berlusconi.
(22
luglio 2001)
Nel documento finale, i
"Grandi" si impegnano a lottare
contro povertà e inquinamento. Un ringraziamento a
Genova
G8,
finisce il vertice
nessun accordo su Kyoto
Schroeder
abbandona improvvisamente la foto ricordo
GENOVA - Cala il sipario sul
vertice di Genova. Gli otto "Grandi" posano a
Palazzo Ducale per la foto di famiglia e si apprestano a
lasciare alla spicciolata il capoluogo ligure. Il vertice
è finito (nel pomeriggio è in programma il comunque
atteso faccia a faccia tra Bush e Putin), e quello che
resta è un'immagine con qualche sorriso e un documento
comune con tanti nodi ancora da sciogliere. E un giallo
finale: durante la foto di rito, il cancelliere tedesco
Gerhard Schoreder ha lasciato improvvisamente il piccolo
palco preparato per il tradizionale scatto collettivo.
Dopo un attimo di sconcerto anche gli altri leader,
accortisi che Schroeder si era allontanato, hanno rotto
le fila. Forse un piccolo e insignificante incidente,
forse un segno di nervosismo.
A raccontare e spiegare le discussioni di questo vertice,
ci sono le nove pagine del comunicato finale: impegni,
progetti e proposte che gli otto leader hanno riassunto
in un documento che è un po' il resoconto ufficiale di
questo G8. Molti i problemi affrontati, dalla povertà
nel mondo all'inquinamento, dalla globalizzazione ai
problemi legati alla nuove tecnologie. Ecco, in
dettaglio, i principali temi affrontati e le conclusioni
dei "Grandi".
Ambiente - L'incontro di Genova doveva servire anche, e
forse soprattutto, a vincere le resistenze americane sul
protocollo di Kyoto, ma al riguardo non è stato fatto
nessun passo in avanti. Restano lontane le posizioni di
Stati Uniti ed Europa. La promessa degli otto è quella
di "lavorare insieme intensamente per raggiungere il
nostro comune obiettivo", vale a dire la riduzione
delle emissioni responsabili dell'effetto serra, ma
George W. Bush conferma la sua opposizione al protocollo.
Il Giappone comunica che ratificherà l'accordo in
occasione della Conferenza Onu sul clima in programma a
Rabat in Marocco il prossimo ottobre per farlo entrare in
vigore nel 2002, con o senza gli Stati Uniti. Passa la
proposta russa di convocare nel 2003 una conferenza
mondiale sui cambiamenti climatici. Gli otto assumono
inoltre un vago impegno a "inserire le energie
rinnovabili nei rispettivi piani nazionali".
Lotta alla povertà - Tra gli impegni riconosciuti dagli
otto leader, c'è la lotta alla povertà. "Siamo
determinati a far funzionare la globalizzazione per tutti
i nostri cittadini - si legge nella dichiarazione finale
del vertice di Genova che gli otto stanno per approvare -
ed in particolare per i poveri del mondo. Come leader
democratici crediamo nella fondamentale importanza di un
dibattito pubblico aperto sulle sfide chiave di fronte
alle nostre societa". Per questo, i
"Grandi" continueranno lungo la strada della
riduzione del debito dei Paesi in via di sviluppo.
Previsto inoltre un fondo di 1,3 miliardi di dollari per
combattere l'Aids, la malaria e la tubercolosi.
Istruzione - Il G8 cercherà di "estendere
l'utilizzo delle tecnologie informatiche e della
comunicazione per la formazione degli insegnanti e per
rafforzare le strategie educative". Sarà inoltre
istituita una task force con il compito di valutare
"il modo migliore per raggiungere gli obiettivi di
Dakar, per offrire un'istruzione di base elementare a
tutti entro il 2015".
Lotta al crimine - L'altro imperativo degli otto, e
contenuto nel documento finale, è la lotta al crimine
organizzato e a quello telematico. Con particolare
attenzione al traffico di stupefacenti. I leader del
mondo industrializzato confermano "l'impegno a
combattere il crimine organizzato su base
transanazionale" e a questo fine sostengono "i
risultati della conferenza dei ministri della Giustizia
che si è tenuta l'anno scorso a Milano".
Sicurezza alimentare - I "Grandi" pongono
attenzione alla sicurezza alimentare, dichiarando di
voler "ottenere un consenso più generalizzato su
come debba applicarsi la precauzione alla sicurezza
alimentare quando l'informazione scientifica disponibile
è incompleta o contraddittoria". E sarà fatto
tutto "il possibile per dare ai consumatori le
informazioni pertinenti sulla sicurezza dei prodotti
alimentari".
La riforma del G8 - A Genova, più che altrove, è però
sembrato in dubbio lo stesso futuro del summit, così
come è stato inteso finora. Molte sono state le proposte
di riforma, per rendere il vertice più vicino alla
società civile. Su questo punto, Berlusconi precisa:
"Il G8 serve ed è utile, ma alla luce degli scontri
e delle contestazioni accadute in questi giorni, abbiamo
deciso di ridurre le dimensioni dei prossimi
incontri".
E i "Grandi" non dimenticano la città di
Genova, ferita da due giorni di scontri e di violenze. I
leader del G8 si dicono "grati ai cittadini del
capoluogo ligure per la loro ospitalità" e
deplorano "la violenza, la perdita di vite umane e
l'insensato vandalismo che essi hanno dovuto
sopportare". Il prossimo appuntamento è fissato in
Canada, tra il 26 e il 28 giugno 2002. A ospitare il
vertice sarà Kananaskis, una cittadina turistica dello
stato dell'Alberta, sulle montagne rocciose, lì dove,
come afferma il premier canadese Jean Chretien, "non
ci sono letti per tutti".
(22
luglio 2001)
Con 14.000 miliardi hanno
acquistato dalla Bell
la quota di controllo Olivetti e, quindi, del gruppo tlc
Pirelli
e Benetton
nuovi padroni di Telecom
Tronchetti
Provera: "Cambieremo subito i vertici del
gruppo"
MILANO - Pirelli e Benetton
sono i nuovi padroni di Telecom Italia e, quindi, del
maggior gruppo di telecomunicazioni italiano con le sue
controllate Tim e Seat. Con circa 14 mila miliardi
"cash" Marco Tronchetti Provera e la famiglia
Benetton hanno comprato dalla finanziaria lussemburghese
Bell la quota di controllo (il 22,54%) di Olivetti che a
sua volta possiede la maggioranza (con il 54%) di
Telecom. Le azioni sono state valutate 4,17 euro
ciascuna, molto di più dell'ultima quotazione di mercato
che era di 2,326 euro.
Le voci circolate nei giorni scorsi, che avevano fatto
salire il titolo di Ivrea, hanno trovato conferma questa
sera. Dopo alcune indiscrezioni, in serata è arrivata la
conferenza stampa del presidente della Pirelli che ha
confermato tutto. Nella cordata ci potrebbero essere
anche altri soci: si parla di Della Valle (Tod's) e
Micheli (eBiscom). Tronchetti Provera ha annunciato che i
vertici del gruppo verranno cambiati subito e già
lunedì si sapranno i nuovi nomi.
L'operazione è costata relativamente poco (Telecom vale
più di un centinaio di migliaia di miliardi) proprio
perché la cordata ha puntato su Bell e ha evitato di
dover arrivare all'Opa (offerta pubblica di acquisto)
sull'intera catena proprietaria che, partendo da Bell,
passa per Olivetti e arriva a Telecom.
Pirelli e Benetton hanno comprato da Bell il 22,58% di
Olivetti. Una quota inferiore al 30% (al di sopra della
quale l'Opa diventa obbligatoria) ma sufficiente a
controllare l'azienda di Ivrea che ha un forte flottante
sul mercato. Per capire basta verificare che gli altri
principali azionisti di Olivetti (dopo Bell) sono
Olivetti International, Assicurazioni Generali, Cgi e
Lehman con quote di intorno al 2/3 per cento ciascuno.
Tra l'altro, i due gruppi possedevano già piccole quote
di Olivetti (intorno all'1,8% ciascuno) il che porta al
27% la quota di Olivetti adesso nelle mani della cordata
sufficient4e a controllare il gruppo di Ivrea e, di
conseguenza, la Telecom.
L'operazione verrà materialmente svolta da una nuova
società (il nome non è ancora stato indicato)
posseduta, indicativamente, al 60% da Pirelli e al 40% da
Benetton attraverso la finanziaria di famiglia Edizioni
Holding. Benetton che, nella telefonia, è già azionista
di riferimento di Blu attraverso la stessa Edizioni
Holding (9%) e attraverso la controllata
Autostrade-Sitech (32%) dovrebbe, come già annunciato
nei mesi scorsi, liberarsi di queste partecipazioni.
Ovviamente soddisfatto Tronchetti Provera che annuncia
cambiamenti al vertice della società: "Non si sa
ancora chi guiderà il gruppo, comunque ci saranno
cambiamenti ai vertici Olivetti-Telecom. La nostra è una
partecipazione industriale e strategica, vogliamo
gestire". La composizione del nuovo gruppo dirigente
sarà resa nota lunedì mattina. Circolano già molti
nomi (da Bernabé a Gamberale) e ci si chiede anche che
fine farà l'operazione "La7" nella quale
Telecom, atraverso Seat e con l'impegno personale del
presidente e amministratore delegato delle Pagine gialle,
Lorenzo Pellicioli.
Tronchetti poi ha voluto sottolineare che l'acquisizione
rientra nella strategia industriale del gruppo Pirelli,
fortemente impegnato nel settore delle telecomunicazioni.
Il perfezionamento dell'accordo, ha concluso, avrà luogo
dopo le necessarie autorizzazioni delle autorità
competenti.
Quanto alla trattativa, dopo le indiscrezioni e le
smentite dei giorni scorsi, e dopo il rastrellamento di
azioni Olivetti di cui si aveva avuto sentore, non è
stata facile. Pare che Roberto Colaninno abbia opposto
una certa resistenza, ma che, alla fine, abbia ceduto
davanti decisamente importante della cordata
lombardo-veneta e anche davanti alle pressioni dei suoi
compagni di avventura (gli industriali bresciani e, in
particolare, Emilio Gnutti) ansiosi di incassare.
Colaninno e Gnutti, infatti, (attraverso una serie di
società minori) hanno il controllo di Hopa che possiede
il 54% di Bell.
Ma anche sulla ventilata contrarietà di Colaninno,
Tronchetti Provera ha tagliato la testa al toro:
"Abbiamo preso il cento per cento della quota di
Olivetti in Bell. Questo smentisce ogni contrarietà. Non
abbiamo voluto creare situazioni di conflitto". In
effetti, il fatto di non aver tentato un forte
rastrellamento sul mercato, dove le azioni Olivetti
costavano molto meno di quanto poi la cordata le ha
pagate, dimostrerebbe la non ostilità dell'operazione
nei confronti dei precedenti padroni di Telecom.
(28
luglio 2001)
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