LUGLIO 2001

A Genova il vertice dei grandi travolto dalla violenza
I black bloc provocano scontri, quasi seicento feriti


Il G8 finisce nel sangue
ucciso un manifestante

Via all'indagine parlamentare per fare luce sulla Diaz e
sui presunti pestaggi nella caserma di Bolzaneto

ROMA - Un morto, quasi seicento feriti (560), oltre duecento persone arrestate (219), circa cinquanta miliardi di danni: ecco le cifre del G8. Ecco i numeri del vertice degli otto paesi più industrializzati, andato in scena a Genova da venerdì 20 luglio a domenica 22. Tre giorni di discussioni per i grandi della terra, tre giorni segnati in maniera tragica dall'uccisione di un ragazzo di 23 anni, Carlo Giuliani, uno dei contestatori colpito venerdì pomeriggio da un colpo di pistola esploso da un giovane carabiniere. La foto di questo ragazzo, steso sul selciato di piazza Alimonda, con una pozza di sangue ad allargarsi dietro la testa, le braccia a croce e un compagno che tenta di rianimarlo è il simbolo di quello che è accaduto a Genova. Attorno a quel corpo, le decisioni degli otto grandi vengono travolte dagli scontri piazza e dalle durissime polemiche che ne sono seguite, con scambi di accuse tra il Gsf e il governo. E dopo giorni di scontro, l'aula vara un'indagine parlamentare per fare luce sulle violenze. Non solo, dalle relazioni degli ispettori si evidenziano gravi errori nella conduzione dell'irruzione nella scuola Diaz (60 ragazzi feriti e 92 arresti). Mentre si susseguono le testimonianze sui pestaggi dei manifestanti ad opera degli agenti nella caserma di Bolzaneto.

E nelle prime sedute della commissione parlamentare vengono ascoltati gli aministratori genovesi (sindaco e presidente della Provinica) e il capo della Polizia, Giuseppe De Gennaro. Il sindaco di Genova, Giuseppe Pericu, accusa il governo e i responsabili delle forze dell'ordine di non aver dato ascolto alle autorità locali e di aver concentrato forze e impegno nella sola difesa della "zona rossa" (dove, infatti, non è successo nulla, lasciando quasi incustodita la zona ("gialla") dove, poi, si sono verificati gli scontri più duri.

De Gennaro, invece, ha ammesso "eccessi di repressione" da parte delle forze dell'ordine (che andranno puniti) e carenze informative (a livello di intelligence) nelle conoscenze del fenomeno "Black bloc".

Poi ha accusato il Genoa Social Forum di ambiguità e reticenza nel prendere le distanze dalle parti più dure e nel definirei propri livelli di rappresentatività.

Eppure l'anti G8 inizia nel modo migliore mercoledì notte con il concerto di Manu Chao: sono in ventimila a ballare e saltare con l'ex leader della Mano Negra. Giovedì sfila il primo corteo degli anti-global con la manifestazione dei migranti. La marcia di cinquantamila persone si snoda per Genova senza problemi di ordine pubblico. Il Gsf incassa il successo, ma dal giorno dopo lo scenario e i commenti cambiano bruscamente.

Venerdì all'ora di pranzo il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi riceve i leader a Palazzo Ducale. Negli stessi minuti iniziano in città gli incidenti. A provocarli sono i black bloc, le Tute nere, che si muovono ai margini del movimento pacifista con l'unico obbiettivo di creare disordini. Non sono moltissimi, ma riescono nell'intento: dal primo Bancomat mandato in frantumi, Genova non sarà più la stessa.

Dentro la cittadella blidanta i grandi parlano di economia e lotta all'Aids, fuori è il caos. Le tute bianche e i militanti del Gsf marciano verso la zona rossa (in quattro riusciranno anche ad entrare) lungo le strade devastate dal passaggio degli anarchici. La tensione è alta, la situazione ormai fuori controllo. La polizia carica con durezza, si scontra anche con le tute bianche, che accuseranno di aver subito una vera e propria imboscata. In periferia i black bloc sfasciano tutto quello che trovano, assaltano anche il carcere di Marassi. Poco prima delle 18, alle 17.57, le agenzie battono la notizia: "C'è un ragazzo morto in piazza Alimonda". La notizia è confermata: in terra resta Carlo Giuliani, 23 anni di Genova, figlio di un ex sindacalista Cgil (ma l'identificazione arriva solo in tarda serata). A colpirlo a morte un carabiniere di vent'anni, assediato dentro una jeep assieme ad altri militari.



Il Gsf decide comunque di scendere in piazza sabato per manifestare in maniera pacifica contro l'oppressione della polizia. L'illusione di un corteo tranquillo dura poco: i black bloc ricompaiono, il servizio d'ordine dei militanti di Rifondazione e dei centri sociali non riesce a isolare i violenti. La manifestazione si trova stretta tra le cariche delle forze dell'ordine e la furia delle tute nere. La guerriglia si estende a tutta la città, il bilancio è pesante: altre centinaia di feriti, altre centinaia di arresti. Il leader dei centri sociali del Nordest, Casarini accusa: "Ci sono infiltrati della polizia nei cortei, abbiamo le prove".

Ma non è finita, nella notte la polizia fa irruzione in due scuole che ospitano il centro stampa del Gsf e un dormitorio dei contestatori. Il blitz porta a 92 fermati e 66 feriti e porta soprattutto uno scambio di accuse violentissimo tra forze dell'ordine e Gsf. Vittorio Agnoletto e gli altri parlano di "massacro, di pestaggio indiscriminato, di violenze senza senso e distruzioni". Le forze dell'ordine ribattono che "era una perquisizione per individuare black bloc nascosti nella scuola" e che "un agente è stato colpito da una coltellata".

Il vertice ufficiale si chiude alle 12 di domenica con la foto ufficiale: i grandi si impegnano a lottare contro la povertà e l'inquinamento (anche se sul vertice di Kyoto non c'è accordo), il presidente russo Putin e il suo collega statunitense Bush parlano di scudo spaziale e "fanno passi avanti".

Il premier canadese Jean Chretien annuncia che il prossimo vertice si svolgerà a Kananaskis, un paesino di montagna nella provincia di Alberta. Il G8 finisce con i portavoce del Gsf che ribadiscono le accuse alla polizia e al governo, che replicano con altre contro accuse.

(22 luglio 2001)

Il giovane militare di Catanzaro racconta l'assalto
alla sua Land Rover, il terrore, la reazione


Mario, vent'anni, confessa
"Ho avuto paura di morire"

GENOVA - "Ho sparato perché ho avuto paura di morire. Ho messo il colpo in canna, ma ho messo anche la sicura, poi non so come sia successo, mi tremavano le mani e ho sparato". Lo dice e lo ripete, fra le lacrime, quasi ossessionato Mario Placanica, carabiniere di leva. E' chiuso in una stanza in un'ala lontana di Forte San Giorgio, la sede del comando provinciale dei carabinieri, un fortino con i muri di cinta che affacciano sul mare. Può sentire bene i duecentomila del corteo no global che passano lì sotto in corso Italia e gridano a quel fortino: "Assassini, assassini". Lo hanno anche scritto in uno striscione nero lungo quaranta metri. E' sotto choc, non si dà pace. Ha ammesso tutto davanti ai magistrati Anna Canepa, Francesco Pinto e Andrea Canciani durante la notte, ha firmato il verbale e ha chiesto di poter essere dimesso dall'ospedale. Erano le tre. Il suo è stato un racconto drammatico che la procura di Genova sta valutando attentamente.

Comincia all'alba la giornata maledetta del carabiniere ausiliario in servizio al battaglione di Palermo e spedito in missione G8 da un paio di settimane. E' un giovane alto, magro, i capelli cortissimi che fra le lacrime ha ripetuto ai magistrati: "Posso fare ancora fare questo lavoro? Io ci tengo". Una giornata impossibile, la città militarizzata come neppure lui si sarebbe mai immaginato, container, blindo, carrarmati, le squadre in assetto militare e antisommossa, fumogeni, caschi e maschere antigas. "Entro in servizio alle sei del mattino in piazza Kennedy, a piedi con il mio battaglione. Durante la giornata siamo risaliti verso la zona degli scontri. Eravamo in mezzo alla cariche almeno da mezzogiorno, sempre lì, in quelle strade fra la ferrovia, la collina e le case, avanti, indietro, una carica, una controcarica e poi gli assalti". Da impazzire, il caldo, la tuta antisommossa, la maschera antigas e una città che non conosce e dove fra il fumo delle barricate e quello dei lacrimogeni è facile perdere l'orientamento.

La squadra di Mario era già rimasta coinvolta in uno scontro terribile un paio d'ore prima quando in corso Torino un blindato dei carabinieri era stato "conquistato" dai black bloc e incendiato con le molotov. I militari a bordo avevano fatto appena in tempo a fuggire ma ancora pochi secondi e sarebbero finiti ostaggi di quei giovani scatenati vestiti di nero e col cappuccio.

Alle cinque del pomeriggio il quartiere sembrava riconquistato e piazza Alimonda poteva anche essere l'ultima carica della giornata. "Ci spingono sempre a piedi prima verso via Barabino, poi via Caffa. Dietro abbiamo due mezzi a protezione. C'è molto fumo". I lacrimogeni sono caricati con una sostanza urticante che annebbia la vista e toglie il fiato. "Mi sento male - racconta ancora il carabiniere - il filtro della maschera non mi fa più respirare e mi levo tutto, casco e maschera. Chiedo ai colleghi di salire sulla jeep. Vomito. Sale anche un altro militare, sta male anche lui". La carica sembra respinta. C'è un momento di rilassamento. Sono tre i militari sulla jeep. Forse è finita.

Invece no. Dalla strada sul lato sinistro della piazza si materializza all'improvviso un altro gruppo di black bloc. Venti, trenta persone che assaltano la jeep rimasta incastrata fra i cassonetti che poco prima erano stati usati come barricate dai no global. "Uno di loro ha in mano un palo della segnaletica stradale e sfonda il lunotto posteriore, dove sono io, sdraiato. Un altro con un asse di legno in mano fa lo stesso contro il finestrino laterale. Uso lo spray urticante ma il vento lo riporta dentro l'abitacolo. Loro hanno i passamontagna e i caschi. Noi non ci vediamo più, si annebbia la vista e ci manca il respiro".

Il carabiniere di leva arma la pistola, carica il colpo, dice ai magistrati di aver messo anche la sicura. "Urlavo andate via, andate via. Mi tremavano le mani, ma ho sparato, nel vuoto, davanti a me". Nel vuoto c'era Carlo Giuliani, appena tre anni più di lui. Due ragazzi. "E' stata una fatalità accaduta dopo una giornata di choc" dice l'avvocato Umberto Pruzzo. E' andata che "un ragazzo dell'80 ha sparato e ha ucciso uno del '78".

(22 luglio 2001)

Il ragazzo era figlio di un sindacalista della Cgil
"Non era un punk, su di lui hanno detto tante falsità"


"Mio figlio contro l'ingiustizia"
parla il padre di Carlo Giuliani

L'appello dei genitori: "Vogliamo pace, non vendetta"

GENOVA - "Non è vero che mio figlio era un punk. Era un caro ragazzo che non sopportava le ingiustizie. E di ingiustizie ne sono state fatte tante... Di lui hanno detto un mare di falsità". Giuliano Giuliani, sindacalista della Cgil conosciutissimo a Genova anche perché teneva una trasmissione televisiva su Telecittà, un'emittente privata, è il padre di Carlo, il ragazzo di 23 anni ucciso ieri durante gli scontri. Come tanti altri ha appreso dalla tv che un ragazzo era morto in via Caffa durante la manifestazione. Per lunghe ore il dubbio non l'ha sfiorato: si parlava di un ragazzo spagnolo e da quelle immagini spezzate, paradossalmente, non aveva riconosciuto il figlio in quel corpo magro e disarticolato dalle ruote della camionetta. Adesso, lui e sua moglie non chiedono vendetta: "Rifiutiamo la violenza, vogliamo la pace" hanno detto questa mattina, poco prima del corteo che sembra destinato a trasformarsi in un enorme funerale per il loro Carlo. "Non esiste nulla - hanno aggiunto - che valga la morte di un ragazzo. Nulla che possa restituircelo. Chiediamo che pace e solidarietà siano i valori autentici nei quali riconoscersi".

Solo molto tardi, ieri sera, i poliziotti si sono presentati a casa Giuliani per dare ai genitori la terribile notizia. Poi, sulle agenzie e, di conseguenza, sui giornali di questa mattina, la descrizione di Carlo: "23 anni, appartenente ai gruppi dei 'punk bestia'... figlio di un sindacalista aveva lasciato la famiglia... viveva di elemosina nel centro storico con i suoi amici e i loro cani...aveva piccoli precedenti penali... forse era tossicodipendente".

Adesso Giuliano Giuliani e sua moglie, che abitano in una casetta al Righi, sulle alture di Genova, sono distrutti due volte: per quel figlio ucciso all'obitoro (solo questa mattina hanno potuto vederlo) e per le cose cattive che qualcuno ha messo in giro sul suo conto.

Certo, Carlo frequentava il centro sociale "Zapata" (uno dei più soft a Genova); certo, sicuramente era fortemente "antiglobal" e lo prova il fatto che si sia trovato in mezzo agli scontri più duri. Ma non era uno sbandato (lo dicono i compagni di scuola, i vicini di casa e tutti quelli che lo conoscevano), studiava Storia all'Università: "Avrà avuto i suoi problemi, i suoi scontri generazionali - dice un amico - Ma era uno normale". E un altro: "L'altra sera siamo andati insieme al concerto di Manu Chao... La manifestazione? Eravamo indecisi se partecipare.. Carlo aveva detto che se fosse stata una bella giornata avremmo potuto andare al mare... Invece, poi, è andato in piazza". Ma era un 'punk bestia'? "Ma quale punk? Gli piacevano gli animali. Piacciono anche a me. Magari metteva una maglietta sdrucita, ma da lì a definirlo 'punk bestia'...". In effetti, a giudicare dalle immagini, quello steso per terra in via Caffa, non sembra il corpo di un "punk bestia": capelli corti, barbetta quasi curata, niente piercing o altri ornamenti del genere. Uno come tanti, un "cane sciolto", probabilmente che si è fatto coinvolgere in un'ora di folle violenza e ha pagato con la vita.

E Giuliano Giuliani si chiede anche fino a che punto l'uccisione di suo figlio sia riconducibile ad un caso di legittima difesa: "Non me ne intendo - premette - ma mi dicono che perché ci sia legittima difesa bisogna che il pericolo sia altrettanto grave. Non so, non so se Carlo stava minacciando la vita di quel carabiniere...". La senszione è che l'uccisione di Carlo Giuliani non sarà una questione tanto semplice da chiudere per chi se ne deve occupare.

(21 luglio 2001)

Bruno Abile, fotografo, spiega la dinamica della tragedia
"Colpi esplosi da una jeep dei carabinieri"


Un testimone racconta
"Così gli hanno sparato"


GENOVA - Il corpo del ragazzo ucciso in via Caffa è ancora immobile, la polizia e i carabinieri formano un cordone tutto intorno. La gente preme, urla, piange e in molti raccontano la loro versione. I primi testimoni sono due ragazze, due volontarie del Gsf, che sono state le prime a cercare di prestare soccorso al ragazzo ucciso.

Le loro parole sono frammentarie: "Ha perso la vita in seguito a due colpi in pieno volto: sulla fronte una ferita lacero contusa profonda, all'altezza di uno zigomo un foro circolare, simile a quelli provocati da colpi d'arma da fuoco". La ragazza ha riferito che il giovane morto portava un passamontagna nero. "Sono stata io a levarglielo e ho visto quelle ferite". Erano da arma da fuoco? "Non lo so, so solo che quel ragazzo quando siamo arrivati era appena morto. Aveva gli occhi azzurri e perdeva molto sangue dalla bocca. Qualcuno gli ha fatto un massaggio cardiaco, ma inutilmente".

Poi arriva il racconto di Bruno Abile, fotografo freelance di Parigi che fornisce molti dettagli sulla vicenda: "Ho sentito due colpi. Pensavo
fossero in aria invece ho visto cadere un ragazzo. Intorno alle 17.30 il grosso dello schieramento di polizia in via Tolemaide ha cominciato a tornare indietro rapidamente fino a fermarsi all'altezza del cavalcavia della ferrovia in corso Torino. Trecento manifestanti hanno seguito la polizia, mentre molti da dietro gridavano 'è una trappola'".

"Io sono andato dietro ai manifestanti - aggiunge - tranquillo e in un piccolo vicolo a sinistra ho visto 30-40 carabinieri con gli scudi. La polizia ha sparato i lacrimogeni. I carabinieri del vicolo invece non hanno sparato, ma si sono spostati indietro di una ventina di metri correndo in disordine sino a piazza Alimonda. Qui c'erano un furgone e due jeep che sono subito partite. Una jeep si scontrata contro un cassonetto. E non è riuscita a ripartire. A bordo c'erano un autista e due persone. Sei o sette manifestanti si sono avvicinati e hanno gettato sassi da cinque o sei metri. Poi hanno cominciato a colpire la macchina con i bastoni".

"I poliziotti erano fermi a venti metri - conclude il fotografo - Io non capivo perché non andavano ad aiutare i carabinieri. Mentre fotografavo, ho visto un uomo in divisa senza scudo, forse un ufficiale, che impugnava una pistola. Ho sentito due colpi. Pensavo fossero in aria invece ho visto cadere un ragazzo. Il proiettile gli è entrato nell'occhio destro e il sangue zampillava dall'occhio".

(20 luglio 2001)

LE TESTIMONIANZE

Violenze e pestaggi:
pagina nera a Genova



La testimonianza di Fabrizio Ferrazzi, ex professore
di filosofia di 51 anni arrestato venerdì a Genova


"Ci picchiavano
senza pietà"

"Stranieri costretti a firmare falsi verbali"

ROMA - "La polizia penitenziaria, i reparti scelti dei Gom, indossavano i guanti bianchi e ci rifornivano di acqua e sigarette? Sono miserabili menzogne. I signori in grigioverde con lo stemma Gom ci costringevano in piedi per ore nei gabbioni con la fronte al muro e ci ordinavano di gridare "viva la polizia penitenziaria". Avevano guanti neri imbottiti e picchiavano con i manganelli in modo sapiente alle gambe e alle reni per evitare di lasciare segni. Ma la cosa peggiore succedeva all'ufficio matricola, l'ultimo passaggio prima del carcere: costringevano a firmare verbali con finte ammissioni di responsabilità. E' successo a un ragazzino francese biondo accusato di tentato omicidio. Lui si è rifiutato perché, senza traduzione, non capiva. Al grido "non vuol firmare", lo hanno ributtato nel corridoi della palestra di Bolzaneto fra due ali di agenti penitenziari che lo picchiavano". Dopo ore in piedi a gambe divaricate, il giovane ha ceduto e ha firmato.

Quello che segue è il racconto di Fabrizio Ferrazzi, 51 anni, professore di filosofia da qualche anno prestato alla campagna, arrivato a Genova la mattina di venerdì 20 luglio da La Spezia con un amico per la manifestazione dei Cobas in piazza da Novi. Il punto x degli incidenti di Genova, dove sono cominciati gli scontri, dove le prime squadre di black bloc hanno cominciato la guerriglia durata 48 ore. "Credo di essere stato uno dei primi arrestati, intorno a mezzogiorno. Sono stato travolto da una carica perché volevo aiutare una signora, chiaramente una esaltata religiosa, che camminava in mezzo al lancio dei lacrimogeni della polizia e alle pietre degli anarchici ripetendo "Dio non vuole questo". Mi sono trovato davanti la polizia, non sono scappato perché non aveva senso, ho alzato le braccia e mi hanno travolto e bastonato". "Sono una maschera di sangue, ho un taglio profondo sulla testa che solo il giorno dopo mi cuciono con venti punti. Da qual momento un inferno di botte, insulti e violenza durato fino al sabato pomeriggio quando arrivo nel carcere di Alessandria. In una cella. Posso dire, finalmente".

Prima del lager di Bolzaneto c'è il purgatorio di una caserma della polizia stradale e della Fiera del Levante, il fortinoquartier generale della polizia nei giorni di Genova. "Dalle due alle nove di sera in piedi, sotto il sole, il sangue rappreso sulla faccia, la voglia di svenire e la paura di farlo. All'inizio io, il ragazzino francese e uno di Roma, poi una ventina di fermati. Ogni volta che si provava a dire qualcosa erano botte e insulti del tipo "meglio essere in Cina così vi potevamo uccidere subito"". Poi il lager di Bolzaneto. "Ci danno il benvenuto i signori in grigioverde col giubbotto nero dei Gom, solito trattamento: ginocchia a terra, calci e manganello. I colleghi della polizia ci mettono in fila fronte al muro e guai a chi si gira, soprattutto se sentiamo qualcuno che si lamenta o piange. Il gioco era provocarci per vedere se si reagiva. Anche il medico vede queste scene. La sua visita, quelle che il ministro nomina come prova del nostro stato di salute, consiste in un'occhiata al volo e due pacche sulle spalle. Eppure io continuavo a sanguinare dalla testa e tremavo".

L'elenco delle offese e delle violenze è lungo e prende allo stomaco. "Il medico di Bolzaneto dice che i piercing venivano estratti con pinzette? Ho visto io un ragazzo siciliano a cui veniva strappato via dal capezzolo. Non erano torture vere e proprie, non ci hanno messo i chiodi sotto le unghie. Erano sottili violenze sistematiche: per me gridare viva il Duce è una violenza più di un colpo di mangenallo". "Tutti hanno picchiato a Bolzaneto, polizia e penitenziari. Ma la cosa più agghiacciante è che si eccitavano nel farlo". Fabrizio Ferrazzi fino a lunedì sera, davanti al gip, non ha saputo perché si trovava lì. "All'inizio mi accusano di aver lanciato una molotov, poi mi hanno detto che avevano sbagliato foglio". Ora è libero, indagato per resistenza a pubblico ufficiale. Ricorda volti e qualche nome. Promette che denuncerà tutti.

(29 luglio 2001)

Genova, un poliziotto racconta cosa è successo nella caserma
del Gruppo operativo mobile di polizia penitenziaria


La notte dei pestaggi
a Bolzaneto il lager dei Gom

"Calci, pugni, insulti: i diritti costituzionali
erano sospesi. E dicevano: tranquilli, siamo coperti"


GENOVA - Un poliziotto che presta servizio al Reparto Mobile di Bolzaneto, e di cui Repubblica conosce il nome e il grado ma che non rivela per ragioni di riservatezza, racconta la "notte cilena" del G8. "Purtroppo è tutto vero. Anche di più. Ho ancora nel naso l'odore di quelle ore, quello delle feci degli arrestati ai quali non veniva permesso di andare in bagno. Ma quella notte è cominciata una settimana prima. Quando qui da noi a Bolzaneto sono arrivati un centinaio di agenti del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria".

E' il primo di uno dei molti retroscena sconosciuti del drammatico sabato del G8. Il nostro interlocutore ammette che "nella polizia c'è ancora tanto fascismo, c'è la sottocultura di tanti giovani facilmente influenzabili, e di quelli di noi che quella sera hanno applaudito. Ma il macello lo hanno fatto gli altri, quelli del Gom della penitenziaria".

E il pestaggio sistematico nella scuola? "Quello è roba nostra. C'è chi dice sia stata una rappresaglia, chi invece che da Roma fosse arrivato un ordine preciso: fare degli arresti a qualunque costo. L'intervento lo hanno fatto i colleghi del Reparto Mobile di Roma, i celerini della capitale. E a dirigerlo c'erano i vertici dello Sco e dirigenti dei Nocs, altro che la questura di Genova che è stata esautorata. E' stata una follia. Sia per le vittime, che per la nostra immagine, che per i rischi di una sommossa popolare. Quella notte in questura c'era chi bestemmiava perché se la notizia fosse arrivata alle orecchie dei ventimila in partenza alla stazione di Brignole, si rischiava un'insurrezione".

La trasformazione della caserma di Bolzaneto in un "lager" comincia lunedì con l'arrivo dei Gom, reparto speciale istituito nel 1997 con a capo un ex generale del Sisde, e già protagonista di un durissimo intervento di repressione nel carcere di Opera. Appena arrivati - vestiti con le mimetiche grigio verde, il giubbotto senza maniche nero multitasche, il cinturone nero cui è agganciata la fondina con la pistola, alla cintola le manette e il manganello, e la radiotrasmittente fissata allo spallaccio - prendono possesso della parte di caserma che già alcune settimane prima del vertice era stata adattata a carcere, con annessa infermeria, per gli arrestati del G8.

La palestra è stata trasformata nel centro di primo arrivo e di identificazione. Tutti i manifestanti fermati vengono portati qui, chi ha i documenti li mostra, a tutti vengono prese le impronte. A fianco alla palestra, sulla sinistra, accanto al campo da tennis, c'è una palazzina che è stata appositamente ristrutturata per il vertice ed è stata trasformata nel carcere vero e proprio. All'ingresso ci sono due stanzoni aperti che fungono da anticamera. Qui, la notte di sabato, fino a mattina inoltrata di domenica, staziona il vicecapo della Digos genovese con alcuni poliziotti dell'ufficio e qualche carabiniere.

"Quello accaduto alla scuola e poi continuato qui a Bolzaneto è stata una sospensione dei diritti, un vuoto della Costituzione. Ho provato a parlarne con dei colleghi e loro sai che rispondono: che tanto non dobbiamo avere paura, perché siamo coperti".

Quella notte. "Il cancello si apriva in continuazione - racconta il poliziotto - dai furgoni scendevano quei ragazzi e giù botte. Li hanno fatti stare in piedi contro i muri. Una volta all'interno gli sbattevano la testa contro il muro. A qualcuno hanno pisciato addosso, altri colpi se non cantavano faccetta nera. Una ragazza vomitava sangue e le kapò dei Gom la stavano a guardare. Alle ragazze le minacciavano di stuprarle con i manganelli... insomma è inutile che ti racconto quello che ho già letto".

E voi, gli altri? "Di noi non c'era tanta gente. Il grosso era ancora a Genova a presidiare la zona rossa. Comunque c'è stato chi ha approvato, chi invece è intervenuto, come un ispettore che ha interrotto un pestaggio dicendo "questa non è casa vostra". E c'è stato chi come me ha fatto forse poco, e adesso ha vergogna". E se non ci fossero stati i Gom? "Non credo sarebbe accaduto quel macello. Il nostro comandante è un duro ma uno di quelli all'antica, che hanno il culto dell'onore e sanno educare gli uomini, noi lo chiamiamo Rommel".

Che fine hanno fatto i poliziotti democratici? "Siamo ancora molti - risponde il poliziotto - ma oggi abbiamo paura e vergogna".

(26 luglio 2001)

Il consiglio di amministrazione della casa torinese
approva l'operazione e dà pieni poteri a Fresco e Cantarella


Fiat, una nuova società
per la scalata a Montedison

Edf conferma l'interesse a partecipare al progetto
La contromossa: vendita di Fondiaria per far cassa

TORINO - Comincia ufficialmente in una calda domenica di luglio l'attacco della Fiat e dei suoi alleati francesi dell'Edf alla Montedison. E sarà battaglia dura visto il tenore delle decisioni prese a Lingotto dal Consiglio di amministrazione della casa torinese e viste le prime repliche degli uomini di Foro Bonaparte che hanno deciso di vendere importanti partecipazioni come quella in Fondiaria per far cassa e sottrarre alla Fiat quote strategiche in Mediobanca.

Ieri pomeriggio, è bastata poco più di un'ora e mezza per far uscire da Lingotto la decisione che ormai tutti sapevano. Il Cda Fiat ha deciso di conferire tutte le sue attività nel settore energia a una nuova società che avrà anche il compito di procedere "ad un'eventuale acquisizione di una rilevante partecipazione in Montedison".

La nuova società che, per ora, si chiama, appunto "New.co." (cioé "new company" come si fa in questi casi in attesa di darle un nome) vede tutte le presenze che dovevano esserci: i francesi dell'Edf (che, una quarantina di minuti dopo la fine del Cda Fiat confermano con calore la loro partecipazione), Tassara (la società del finanziere Romain Zaleski che, a sua volta, fa sapere: "La mia presenza è assolutamente sicura") e le tre banche (San Paolo Imi, Banca Intesa, Banca di Roma). Insieme a Deutsche Bank dovrebero essere già al 46 per cento del capitale Montedison e potrebbero salire ancora se si aggregasse anche la famiglia Strazzera.

A guidare l'operazione Montedison per conto della Fiat saranno il presidente Paolo Fresco e l'amministratore delegato Paolo Cantarella ai quali il consiglio di amministrazione della casa torinese "ha conferito pieni poteri". L'Opa, secondo quanto si rileva dalla nota Fiat, non punterà all'acquisizione della totalità del capitale Montedison, ma di una partecipazione "rilevante", tale da garantire una gestione sicura. Fra i particolari da conoscere l'arco di durata dell'Opa e il prezzo che verrà offerto per le azioni (gli analisti lo fanno oscillare tra i 2,8 e i 3,2 euro). Tutte cose che dovrebbero essere rese note questa mattina in tempo per l'apertura dei mercati.

"Sarà un'operazione lineare e trasparente, perchè deciderà il mercato", si fa notare negli ambienti vicini alla cordata.

Dall'altra parte si è corsi subito ai ripari. Montedison, Mediobanca e i loro alleati si sono riuniti, quasi in contemporanea con il consiglio straordinario della Fiat. Intorno al tavolo c'erano il presidente Montedison Luigi Lucchini e l'amministratore delegato di Mediobanca Vincenzo Maranghi e gli esponenti di Unicredit, compreso il presidente Alessandro Profumo e poi Paolo Biasi, presidente della Fondazione CariVerona e Fabrizio Palenzona, vice presidente di Unicredit per conto della fondazione Crt. A una domanda sull'esito del summit Palenzona si è limitato a rispondere "che è andato benissimo".

Ma le decisioni si sono sapute più tardi e danno il senso della volontà di lotta di Montedison e Mediobanca. Qualcuno ha parlato di una "pillola avvelenata". Montedison ha ceduto le partecipazioni in La Fondiaria assicurazioni alla Sai e in Dieci srl al gruppo Bollorè, per un importo complessivo valutabile in circa 1.140 milioni di euro ossia 2.200 miliardi di lire.

Due operazioni che finanziariamente - come rileva il comunicato emesso in serata dalla Montedison - "consentiranno di ridurre l'indebitamento del gruppo" di un importo equivalente e di "proseguire nel piano industriale di rafforzamento di Edison", ma che sotto il profilo strategico rappresentano una risposta dura all'operazione di Fiat ed Edf.

La mossa di Montedison scompagina il quadro sul quale gli strateghi di Fiat ed Edf hanno lavorato in questi giorni per definire i dettagli dell'Opa e sfila di fatto dal portafoglio di partecipazioni di Montedison la Fondiaria che a sua volta detiene una quota strategica in Mediobanca pari al 2%.

Nell'operazione difensiva di Maranghi e Lucchini c'è un primo verdetto. Ligresti (Sai) si è schierato dalla loro parte e, in cambio, ha avuto quello che da anni cercava di avere senza successo: la sua Sai diventa padrona della Fondiaria (sulla questione pesa l'incognita di un eventuale giudizio dell'Antitrust e dell'Isvap) che era partecipata da Montedison al 32,5%.

(2 luglio 2001)

L'autore canadese aveva 70 anni, è morto a Montreal
In Italia il suo romanzo è diventato oggetto di culto


Addio a Mordecai Richler
il papà di Barney

SE NE è andato dopo aver spento l'ultimo Montecristo e svuotato l'ultimo bicchiere di Macallan. Se ne è andato ridendo in faccia al destino beffardo, venuto a rapirlo proprio nel momento di maggior successo. Se ne è andato così Mordecai Richler, l'autore della "Versione di Barney", il romanzo che lo ha lanciato in Europa e che in Italia ha scatenato una vera e propria mania. Aveva settanta anni, un tumore ai polmoni e non aveva mai smesso di fumare.

Mordecai nasce a Montreal, in una famiglia ebrea ortodossa in cui si parla solo yiddish. Non ci sono molti soldi per casa, lo mandano in una scuola talmudica ed il sogno di mamma e papà è quello di vederlo un giorno rabbino della sinagoga. Non li accontenterà. A tredici anni annuncia di essere laico, a diciannove se ne va a Parigi, dove insegue il mito dei suoi idoli Jean Paul Sartre e Hemingway. Si appassiona alla guerra di Spagna e alle avventure delle Brigate Internazionali.

E' la Parigi presa in giro da Barney nella prima parte della sua versione, ma Mordecai in quel periodo ci crede, respira letteratura e comunismo e va pure in Spagna a vedere di persona. Ne ricava un libro: "Gli acrobati", che vende poco e male.

Gira l'Europa, va in Inghilterra, dove fa anche il giornalista free lance: scrive sempre, ma critica e pubblico continuano a ignorarlo. Sino a quando non mette mano alla sua prima opera di successo: "L'apprendistato di Duddy Kraavitz", un ebreo di Montreal che partendo da un quartiere povero e malfamato riesce a far soldi. Il ragazzo usa mezzi non proprio leciti, ma cerca di non andare mai contro la tradizione ebraica.

Dentro il libro ci sono già gli ingredienti che esploderanno poi nella "Versione di Barney": c'è l'ironia, ci sono i graffi contro i conservatori. Manca lo sguardo amaro e disicantato sulla vita, ma quello arriverà solo con la vecchiaia.


Nel 1997, dopo aver costruito una solida carriera tra libri (anche alcuni per bambini) e sceneggiature, Mordecai Richler tira le somme della propria esistenza e scrive il suo romanzo più famoso. E' la storia di Barney Panofsky, un produttore televisivo ebreo che decide di stendere un'autobiografia per difendersi dall'accusa di aver ucciso il proprio miglior amico.

E' un libro travolgente, irresitibile, impregnato dell'umorismo nero di Barney: le pagine volano, si ride e si piange. La sua vita è come un film: dalla gioventù spensierata a Parigi sino alla vecchiaia canadese. In mezzo ci sono tre matrimoni: il primo finito con un suicidio (della moglie, prima scrittrice poi icona del femminismo), il secondo finito in tribunale (con l'accusa per Barney di aver ucciso il suo amico Boggie) e il terzo, con l'amata Miriam, finito per un tradimento (di Barney).

Poi ci sono le sue passioni come i sigari, il mangiar bene e tanto, il bere, l'amicizia, l'hockey e la letteratura. E i suoi odi, soprattutto contro le femministe e gli ebrei osservanti. Tutto affrontato a suon di parolacce e sberleffi, il politicamente scorretto come regola di vita. Sempre.

Ed è questa forse la molla dell'incredibile successo del libro. In una società dove il politically correct è ormai una dittatura, le irridenti battute di Barney sono sembrate a molti ossigeno vitale, pura aria fresca. In Italia nella primavera scorsa Mordecai faticava a spiegarsi tanta passione per il suo romanzo, a cui il Foglio di Giuliano Ferrara ha dedicato addirittura una rubrica: "E dire che ho fatto lo scrittore perché non mi hanno mai offerto un lavoro più onesto", ripeteva, guardando con aria perplessa ora il sigaro, ora il bicchiere mezzo vuoto di whisky.

(3 luglio 2001)

L'ex dittatore jugoslavo in aula conferma le previsioni
e disconosce il processo: "Questa corte è illegale"


L'Aja, Milosevic non risponde
E' chiusa la prima udienza

Chirac: "Deve rispondere dei suoi crimini"

L'AJA - "Questa corte è illegale". Slobodan Milosevic, davanti al tribunale internazionale dell'Aja non ha risposto ad alcuna domanda e l'udienza si è conclusa in poco meno di dieci minuti. Il presidente della Corte, Richard May, gli ha rivolto le domande di rito sulla sua colpevolezza o innocenza e l'ex dittatore serbo è rimasto in silenzio: sulla base delle regole di procedura del Tribunale, il presidente della Corte ha stabilito che tra un mese, se il silenzio di "Slobo" continuerà, il suo tacere verrà interpretato come una dichiarazione di non colpevolezza. Solo allora, il 27 di agosto, comincerà il processo con la lettura dei quattro capi d'imputazione.

Milosevic ha confermato le previsioni e davanti ai giudici del Tribunale dell'Aja si è difeso da solo disconoscendo l'autorità dei suoi giudici. Il processo è cominciato alle 10 in punto.

Poco prima l'ex dittatore era arivato a bordo di un convoglio formato da quattro automobili con i vetri oscurati, scortate da alcuni poliziotti in motocicletta a sirene spiegate.

"Considero falso questo tribunale - ha detto - e considero false le accuse che mi vengono mosse". L'ex presidente jugoslavo ha anche rinunciato alla difesa. "E' illegale - ha detto - non ho bisogno di assistenza di fronte a questo organo". Il discorso che Milosevic si preparava a fare è stato interrotto dal giudice. "Questo non è il momento opportuno per i discorsi - ha detto May - avrà piena possibilità di difedersi i farsi difendere davanti al tribunale".

Milosevic ha lasciato il carcere di Sheveningen, dove è rinchiuso, per comparire, senza avvocati, davanti al giudice britannico Richard May, del quale, dice: "Questo è un falso tribunale e le accuse sono false accuse".


Più tardi saranno letti i quattro capi di imputazione e, davanti al procuratore Carla Del Ponte, Milosevic dovrà dichiararsi colpevole o non colpevole. E' probabile che, dopo le affermazioni iniziali sull'illegalità della corte, scelga di restare in silenzio, cosa che fra 30 giorni sarà formalmente interpretata dal tribunale come una dichiarazione di non colpevolezza.

E con la severa signora svizzera il confronto è però cominciato in modo quasi informale. Carla Del POnte ha infatti incontrato Milosevic per alcuni minuti al termine dell'udienza. Secondo il portavoce del tribunale, gli ha chiesto "se intende avere contatti o se ha qualche dichiarazione da fare". Non si sa cosa abbia risposto l'ex presidente ora imputato.

(3 luglio 2001)

Nel registro degli indagati anche Gnutti
Erede e Marco Bonaiardi della Kpmg


Inchiesta bilanci Telecom
indagati Colaninno e Pellicioli

TORINO - Dopo rumors e smentite sono partiti davvero gli avvisi di garanzia per Roberto Colaninno, Emilio Gnutti, Lorenzo Pellicioli. I tre big della Telecom sono indagati nell'inchiesta sui bilanci dell'azienda di telecomunicazioni per falsa perizia, falso in bilancio, conflitto di interessi e manipolazione di titoli. Insieme a loro altre sette persone sarebbero finite nel mirino della procura di Torino fra cui l' avvocato Sergio Erede, vicepresidente di Telecom, e Marco Bonaiardi, l'esperto della società di revisione Kpmg che nel 2000 firmò una perizia nell' ambito della fusione fra Seat e Tin.it.. Contemporaneamente la procura ha chiesto all'azienda della documentazione. In Telecom confermano solo quest'ultimo passaggio della svolta nell'inchiesta affermando di aver consegnato quanto richiesto alla polizia giudiziaria ma negando che "amministratori o dirigenti del gruppo sia stato raggiunto da avvisi di garanzia".

La procura di Torino, un paio di mesi fa, ha aperto un'inchiesta per presunti reati societari a proposito di alcune operazioni effettuate da società nell'orbita di Telecom che hanno sede legale a Torino. In particolare i pubblici ministeri Paolo Storari e Roberto Furlan stanno approfondendo le indagini sull'operazione che lo scorso anno portò alla fusione fra Seat e Tin.it, operazione su cui la procura aveva dato parere contrario perché nutriva perplessità sul rapporto di concambio fissato 1 a 1 e ritenuto troppo favorevole a Tin.it. La Kpmg fu una delle società chiamate ad occuparsi dell'operazione.

Contemporaneamente alle perquisizioni, secondo fonti vicine alla procura, dieci funzionari della Telecom sono stati raggiunti da avvisi di garanzia per falsa perizia, per conflitto di interessi e per falsa comunicazione sociale.

(5 luglio 2001)

Si è spento a Milano nel pomeriggio. Aveva 92 anni
È stato il più noto inviato e opinionista italiano


È morto Indro Montanelli
in lutto il giornalismo

Il ricordo di Berlusconi dopo le polemiche e lo strappo
"Sono rimasto legato a lui nonostante i dissensi"

MILANO - Indro Montanelli è morto. Se ne è andato in silenzio dopo una lunga vita di bastian contrario, burbero e brontolone. Quasi come se fosse ancora in polemica con i mali e le ipocrisie di un secolo di cui è stato tra i più grandi testimoni. Il decano dei giornalisti italiani si è spento oggi pomeriggio a Milano. Aveva 92 anni: da tre settimane era ricoverato nella clinica "Madonnina" a causa di un malore. Mercoledì era stato sottoposto a un intervento chirurgico. Con esito positivo, avevano detto i medici, che avevano anche ipotizzato il suo ritorno a casa. Le sue condizioni però sono improvvisamente peggiorate. Fino alla crisi che oggi pomeriggio gli ha tolto la vita.

Con lui si chiude un capitolo enorme della storia del giornalismo italiano. È la storia di un cronista d'altri tempi, abituato sempre a confrontarsi con la realtà dei fatti. Ma anche di un opinionista capace di schierarsi e prendere posizione a dispetto dei luoghi comuni e delle ideologie. La sua vita professionale è infatti attraversata da numerosi strappi. Con il fascismo, dopo un reportage in Spagna nel '37, molto critico nei confronti del regime. Con il "Corriere della Sera", nel '76, in polemica con la linea "progressista" dell'allora direttore Piero Ottone. Con Silvio Berlusconi, suo ex editore, alla vigilia delle ultime elezioni politiche.

E proprio Berlusconi oggi ha voluto ricordarlo. "Scompare con Indro Montanelli un testimone del secolo", ha detto il premier alla notizia della sua scomparsa. Aggiungendo: "Piango l'amico con cui ho condiviso molte battaglie e al quale sono rimasto legato anche quando ha espresso dissenso dalle mie posizioni, con lo spirito di libertà che ha sempre animato il suo lavoro e che io ho sempre rispettato".

Indro Montanelli era nato a Fucecchio, tra Firenze e Pisa, il 22 aprile del 1909. Durante gli anni del fascismo, ma soprattutto nel dopoguera era diventato una delle firme italiane più lette, una delle voci più ascoltate.

Esplulso nel 1937 dall'albo dei giornalisti e costretto ad emigrare per i suoi pezzi sulla guerra civile spagnola, aveva cominciato a scrivere per il Corriere della sera l'anno successivo.

Si era messo in mostra come corrispondente di guerra, in particolare durante il conflitto russo-finlandese del 1939-40. Nel 1944 era stato condannato a morte dai nazisti e rinchiuso nel carcere di san Vittore a Milano, poi graziato per intervento dell'allora arcivescovo di Milano, il cardinale Ildefonso Schuster poi beatificato da Wojtyla.

Nel dopoguerra si era affermato come il più brillante degli inviati italiani, smepre dalle colonne del quotidiano di via Solferino. Nel '74, dopo la rottura con il "Corriere della Sera", aveva deciso di fare tutto da solo, fondando il "Giornale Nuovo", quello che presto sarebbe stato conosciuto come "il Giornale" di Indro Montanelli. Una avventura durata fino al 1994. Dopo la "discesa in campo" di Berlusconi, e il tentativo di allineare il quotidiano alla linea del suo editore-politico, aveva ancora una volta sbattuto la porta.

Era subito ripartito però, fondando "La Voce". Una esperienza non felice: il giornale si scontrò subito con le difficoltà di un mercato editoriale sempre più competitivo, sempre più dipendente dalla pubblicità. Le difficoltà economiche presto fecero terra bruciata intorno alla sua creatura, che nell'aprile del 1995 (ad appena 13 mesi dalla nascita) fu costretta a uscire di scena.

Era ritornato a scrivere sulle colonne del "Corriere della Sera" come opinionista. Senza mai risparmiare la sua penna: con le armi della vis polemica e dell'ironia aveva osservato e commentato la difficile transizione italiana negli anni del centrosinistra. Anni che aveva in fin dei conti apprezzato, a dispetto della sua profonda cultura conservatrice. L'ultimo strappo risale alla recente campagna elettorale, quando a sorpresa aveva annunciato di voler votare Francesco Rutelli considerato il "male minore" rispetto alla destra di Berlusconi.

(22 luglio 2001)

Nel documento finale, i "Grandi" si impegnano a lottare
contro povertà e inquinamento. Un ringraziamento a Genova


G8, finisce il vertice
nessun accordo su Kyoto

Schroeder abbandona improvvisamente la foto ricordo

GENOVA - Cala il sipario sul vertice di Genova. Gli otto "Grandi" posano a Palazzo Ducale per la foto di famiglia e si apprestano a lasciare alla spicciolata il capoluogo ligure. Il vertice è finito (nel pomeriggio è in programma il comunque atteso faccia a faccia tra Bush e Putin), e quello che resta è un'immagine con qualche sorriso e un documento comune con tanti nodi ancora da sciogliere. E un giallo finale: durante la foto di rito, il cancelliere tedesco Gerhard Schoreder ha lasciato improvvisamente il piccolo palco preparato per il tradizionale scatto collettivo. Dopo un attimo di sconcerto anche gli altri leader, accortisi che Schroeder si era allontanato, hanno rotto le fila. Forse un piccolo e insignificante incidente, forse un segno di nervosismo.

A raccontare e spiegare le discussioni di questo vertice, ci sono le nove pagine del comunicato finale: impegni, progetti e proposte che gli otto leader hanno riassunto in un documento che è un po' il resoconto ufficiale di questo G8. Molti i problemi affrontati, dalla povertà nel mondo all'inquinamento, dalla globalizzazione ai problemi legati alla nuove tecnologie. Ecco, in dettaglio, i principali temi affrontati e le conclusioni dei "Grandi".

Ambiente - L'incontro di Genova doveva servire anche, e forse soprattutto, a vincere le resistenze americane sul protocollo di Kyoto, ma al riguardo non è stato fatto nessun passo in avanti. Restano lontane le posizioni di Stati Uniti ed Europa. La promessa degli otto è quella di "lavorare insieme intensamente per raggiungere il nostro comune obiettivo", vale a dire la riduzione delle emissioni responsabili dell'effetto serra, ma George W. Bush conferma la sua opposizione al protocollo. Il Giappone comunica che ratificherà l'accordo in occasione della Conferenza Onu sul clima in programma a Rabat in Marocco il prossimo ottobre per farlo entrare in vigore nel 2002, con o senza gli Stati Uniti. Passa la proposta russa di convocare nel 2003 una conferenza mondiale sui cambiamenti climatici. Gli otto assumono inoltre un vago impegno a "inserire le energie rinnovabili nei rispettivi piani nazionali".

Lotta alla povertà - Tra gli impegni riconosciuti dagli otto leader, c'è la lotta alla povertà. "Siamo determinati a far funzionare la globalizzazione per tutti i nostri cittadini - si legge nella dichiarazione finale del vertice di Genova che gli otto stanno per approvare - ed in particolare per i poveri del mondo. Come leader democratici crediamo nella fondamentale importanza di un dibattito pubblico aperto sulle sfide chiave di fronte alle nostre societa". Per questo, i "Grandi" continueranno lungo la strada della riduzione del debito dei Paesi in via di sviluppo. Previsto inoltre un fondo di 1,3 miliardi di dollari per combattere l'Aids, la malaria e la tubercolosi.

Istruzione - Il G8 cercherà di "estendere l'utilizzo delle tecnologie informatiche e della comunicazione per la formazione degli insegnanti e per rafforzare le strategie educative". Sarà inoltre istituita una task force con il compito di valutare "il modo migliore per raggiungere gli obiettivi di Dakar, per offrire un'istruzione di base elementare a tutti entro il 2015".

Lotta al crimine - L'altro imperativo degli otto, e contenuto nel documento finale, è la lotta al crimine organizzato e a quello telematico. Con particolare attenzione al traffico di stupefacenti. I leader del mondo industrializzato confermano "l'impegno a combattere il crimine organizzato su base transanazionale" e a questo fine sostengono "i risultati della conferenza dei ministri della Giustizia che si è tenuta l'anno scorso a Milano".

Sicurezza alimentare - I "Grandi" pongono attenzione alla sicurezza alimentare, dichiarando di voler "ottenere un consenso più generalizzato su come debba applicarsi la precauzione alla sicurezza alimentare quando l'informazione scientifica disponibile è incompleta o contraddittoria". E sarà fatto tutto "il possibile per dare ai consumatori le informazioni pertinenti sulla sicurezza dei prodotti alimentari".

La riforma del G8 - A Genova, più che altrove, è però sembrato in dubbio lo stesso futuro del summit, così come è stato inteso finora. Molte sono state le proposte di riforma, per rendere il vertice più vicino alla società civile. Su questo punto, Berlusconi precisa: "Il G8 serve ed è utile, ma alla luce degli scontri e delle contestazioni accadute in questi giorni, abbiamo deciso di ridurre le dimensioni dei prossimi incontri".

E i "Grandi" non dimenticano la città di Genova, ferita da due giorni di scontri e di violenze. I leader del G8 si dicono "grati ai cittadini del capoluogo ligure per la loro ospitalità" e deplorano "la violenza, la perdita di vite umane e l'insensato vandalismo che essi hanno dovuto sopportare". Il prossimo appuntamento è fissato in Canada, tra il 26 e il 28 giugno 2002. A ospitare il vertice sarà Kananaskis, una cittadina turistica dello stato dell'Alberta, sulle montagne rocciose, lì dove, come afferma il premier canadese Jean Chretien, "non ci sono letti per tutti".

(22 luglio 2001)

Con 14.000 miliardi hanno acquistato dalla Bell
la quota di controllo Olivetti e, quindi, del gruppo tlc


Pirelli e Benetton
nuovi padroni di Telecom

Tronchetti Provera: "Cambieremo subito i vertici del gruppo"

MILANO - Pirelli e Benetton sono i nuovi padroni di Telecom Italia e, quindi, del maggior gruppo di telecomunicazioni italiano con le sue controllate Tim e Seat. Con circa 14 mila miliardi "cash" Marco Tronchetti Provera e la famiglia Benetton hanno comprato dalla finanziaria lussemburghese Bell la quota di controllo (il 22,54%) di Olivetti che a sua volta possiede la maggioranza (con il 54%) di Telecom. Le azioni sono state valutate 4,17 euro ciascuna, molto di più dell'ultima quotazione di mercato che era di 2,326 euro.

Le voci circolate nei giorni scorsi, che avevano fatto salire il titolo di Ivrea, hanno trovato conferma questa sera. Dopo alcune indiscrezioni, in serata è arrivata la conferenza stampa del presidente della Pirelli che ha confermato tutto. Nella cordata ci potrebbero essere anche altri soci: si parla di Della Valle (Tod's) e Micheli (eBiscom). Tronchetti Provera ha annunciato che i vertici del gruppo verranno cambiati subito e già lunedì si sapranno i nuovi nomi.

L'operazione è costata relativamente poco (Telecom vale più di un centinaio di migliaia di miliardi) proprio perché la cordata ha puntato su Bell e ha evitato di dover arrivare all'Opa (offerta pubblica di acquisto) sull'intera catena proprietaria che, partendo da Bell, passa per Olivetti e arriva a Telecom.

Pirelli e Benetton hanno comprato da Bell il 22,58% di Olivetti. Una quota inferiore al 30% (al di sopra della quale l'Opa diventa obbligatoria) ma sufficiente a controllare l'azienda di Ivrea che ha un forte flottante sul mercato. Per capire basta verificare che gli altri principali azionisti di Olivetti (dopo Bell) sono Olivetti International, Assicurazioni Generali, Cgi e Lehman con quote di intorno al 2/3 per cento ciascuno. Tra l'altro, i due gruppi possedevano già piccole quote di Olivetti (intorno all'1,8% ciascuno) il che porta al 27% la quota di Olivetti adesso nelle mani della cordata sufficient4e a controllare il gruppo di Ivrea e, di conseguenza, la Telecom.

L'operazione verrà materialmente svolta da una nuova società (il nome non è ancora stato indicato) posseduta, indicativamente, al 60% da Pirelli e al 40% da Benetton attraverso la finanziaria di famiglia Edizioni Holding. Benetton che, nella telefonia, è già azionista di riferimento di Blu attraverso la stessa Edizioni Holding (9%) e attraverso la controllata Autostrade-Sitech (32%) dovrebbe, come già annunciato nei mesi scorsi, liberarsi di queste partecipazioni.

Ovviamente soddisfatto Tronchetti Provera che annuncia cambiamenti al vertice della società: "Non si sa ancora chi guiderà il gruppo, comunque ci saranno cambiamenti ai vertici Olivetti-Telecom. La nostra è una partecipazione industriale e strategica, vogliamo gestire". La composizione del nuovo gruppo dirigente sarà resa nota lunedì mattina. Circolano già molti nomi (da Bernabé a Gamberale) e ci si chiede anche che fine farà l'operazione "La7" nella quale Telecom, atraverso Seat e con l'impegno personale del presidente e amministratore delegato delle Pagine gialle, Lorenzo Pellicioli.

Tronchetti poi ha voluto sottolineare che l'acquisizione rientra nella strategia industriale del gruppo Pirelli, fortemente impegnato nel settore delle telecomunicazioni. Il perfezionamento dell'accordo, ha concluso, avrà luogo dopo le necessarie autorizzazioni delle autorità competenti.

Quanto alla trattativa, dopo le indiscrezioni e le smentite dei giorni scorsi, e dopo il rastrellamento di azioni Olivetti di cui si aveva avuto sentore, non è stata facile. Pare che Roberto Colaninno abbia opposto una certa resistenza, ma che, alla fine, abbia ceduto davanti decisamente importante della cordata lombardo-veneta e anche davanti alle pressioni dei suoi compagni di avventura (gli industriali bresciani e, in particolare, Emilio Gnutti) ansiosi di incassare. Colaninno e Gnutti, infatti, (attraverso una serie di società minori) hanno il controllo di Hopa che possiede il 54% di Bell.

Ma anche sulla ventilata contrarietà di Colaninno, Tronchetti Provera ha tagliato la testa al toro: "Abbiamo preso il cento per cento della quota di Olivetti in Bell. Questo smentisce ogni contrarietà. Non abbiamo voluto creare situazioni di conflitto". In effetti, il fatto di non aver tentato un forte rastrellamento sul mercato, dove le azioni Olivetti costavano molto meno di quanto poi la cordata le ha pagate, dimostrerebbe la non ostilità dell'operazione nei confronti dei precedenti padroni di Telecom.




(28 luglio 2001)