Lettera alla moglie di Simone Cola

di Lisa Clark

Cara Alessandra
non ero al funerale del tuo Simone, oggi. Ma voglio dirti che sento nel profondo il dolore per la morte di un giovane uomo, con una vita intera davanti, con tanti sogni da realizzare.
Cara Alessandra, non so da dove mi venga il coraggio di scriverti, per dirti le cose che sento di dover condividere con te. Vedi, oggi il sacerdote che ha pronunciato l'omelia al funerale del tuo Simone (credo che fosse l'Ordinario Militare) ha detto che Simone era un "costruttore di pace".
Io faccio parte di un'associazione che si chiama "Beati i costruttori di pace" e che ha fatto tutto il possibile per evitare che questa guerra si facesse, insieme a gran parte della popolazione di questo nostro paese. E, una volta iniziata la guerra, ha chiesto con forza che l'Italia rispettasse l'Articolo 11 della sua Costituzione (scritta da uomini di diverse idee politiche, ma tutti della stessa generazione, quella che riprendeva a vivere sulle macerie della seconda guerra mondiale), rifiutandosi di prendervi parte. E, adesso, dopo che il Governo con l'avallo della maggioranza in Parlamento, ha comunque inviato un contingente militare per partecipare all'occupazione, siamo coloro che continuano a richiedere, senza stancarsi mai, che si rientri nella legalità costituzionale e che si ritirino immediatamente i soldati italiani.
Perché, cara Alessandra, per me è impossibile chiamare il compito che svolgeva il tuo Simone in Iraq "costruzione di pace". Ti chiedo perdono se, in questo momento, ti scrivo queste parole. Sono dure, lo so. Ma finché permetteremo a chi vuole trascinarci in fondo al baratro della violenza, a chi vuole dividerci con il ricatto del "o con noi o contro di noi", di strumentalizzare le parole, dando loro il significato che si addice meglio ai loro scopi, non risaliremo mai la china. Invece, abbiamo bisogno di riappropriarci della nostra comune umanità. Per questo ti abbraccio, ti dico che il dolore per la morte di Simone è forte. Come lo è, però, anche il dolore per la morte dei 13 partecipanti ad una festa di nozze, uccisi lo stesso giorno. Dobbiamo scoprire insieme di far parte di un'unica famiglia umana.

Negli anni ho passato parecchio tempo in vari paesi sconvolti dalle guerre. Ho visto i disastri che la guerra, ogni guerra, combina. Ho avuto modo anche di vedere l'umanità e il coraggio dei soldati in tante occasioni. A Sarajevo molti militari francesi dell'Unprofor hanno rischiato la vita (ed alcuni l'hanno sacrificata) per salvare bambini, per aiutare donne e anziani. I Carabinieri italiani a Srbinje, nella Serbo-Bosnia, rischiavano di persona per assicurare alla giustizia criminali di guerra ricercati dai tribunali internazionali. Quindi non ho dubbi sul fatto che Simone, in un altro contesto, in un'altra missione, con un altro mandato, sarebbe stato un "costruttore di pace". Ma lì, in Iraq, come membro di un esercito di occupazione, sotto il comando del contingente britannico, non svolgeva il ruolo di "costruttore di pace".
Se vogliamo lavorare davvero alla costruzione di un mondo di pace, dove ci sia pace per tutti, però, e non solo per alcuni di noi, non possiamo confondere le parole. Ho scelto di scrivere a te, anche se non sei stata tu a pronunciare quelle parole, bensì l'Ordinario Militare e, prima di lui, il Papa stesso. Penso che se la vedranno con la loro coscienza e la loro fede, per aver usato la parola di Gesù, il Principe della Pace, al fine di confondere la verità. Ma a te, cara Alessandra, sentivo il bisogno di parlare dal cuore, per esprimerti tutto il mio affetto, tutto il dolore che provo per la morte di un uomo che aveva davanti una vita intera, una vita di marito e padre.

26 gennaio 2005