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Muore Giovanni Agnelli, nel momento più difficile per la Fiat
di red

È morto l'avvocato Giovanni Agnelli, presidente onorario della Fiat. Era nato il 12 marzo 1921, e da tempo era ammalato. In un comunicato della famiglia si annuncia che «Giovanni Agnelli è spirato nella sua casa torinese, dopo mesi di malattia. L'hanno assistito la moglie Marella e la figlia Margherita con i suoi figli. La camera ardente sarà allestita al Lingotto e i funerali si svolgeranno a Villar Perosa in forma strettamente privata».

L'avvocato Agnelli è deceduto poco prima di una cruciale riunione della accomandita di famiglia, la Giovanni Agnelli & C., definita anche la “cassaforte” del gruppo Fiat. La notizia della sua morte si è diffusa quando già i componenti della famiglia e gli amministratori del gruppo erano giunti nella sede storica della Fiat. In particolare nella riunione avrebbe dovuto essere ufficializzato il passaggio di consegne alla guida della finanziaria di famiglia al fratello Umberto.

Nella sua edizione di venerdì mattina il quotidiano britannico Financial Times ha dedicato una pagina intera alla situazione della Fiat. Secondo il giornale questo venerdì 24 sarebbe stato il giorno della «resa dei conti». «Poche riunioni di famiglia sono state importanti per l'Italia come quella di oggi della degli Agnelli». Un «clan simbolo» che in anni migliori «consigliava» Henry Kissinger e Fidel Castro sulla politica italiana.

Nato a Torino nel 1921, orfano di padre a 15 anni, Gianni Agnelli trascorre una giovinezza sotto l'ombra della figura imponente del nonno. Alla Fiat entra alla fine del periodo bellico come vicepresidente, quando l'azienda è guidata con pugno di ferro da Vittorio Valletta, che procede alla «normalizzazione» e avvia la produzione di quei modelli di auto popolare che imporranno la casa torinese come vera protagonista della motorizzazione di massa in Italia.

Finita l'epoca Valletta, Gianni prende la guida della Fiat: nel 1963 diventa amministratore delegato e nel 1966 presidente. È in questo periodo, in cui il gruppo sta rapidamente uscendo dalla dimensione nazionale per assumerne una mondiale. Dal 1974 al 1976 viene chiamato alla presidenza della Confindustria per rilanciare l'organizzazione, ridare fiato all'impresa privata e riaprire il dialogo con i sindacati.

Saldamente spalleggiato dalla Mediobanca di Enrico Cuccia, il gruppo Agnelli presidia tutti gli snodi importanti della finanza italiana e quando la situazione si fa molto difficile per la Fiat non esita neppure di fronte ad un socio scomodo, ma portatore di preziose risorse, come la libica Lafico di Gheddafi.

Lascerà la presidenza Fiat nel 1996 a Cesare Romiti, assumendo il ruolo di presidente onorario. Da questa poltrona piloterà il passaggio alla presidenza di Paolo Fresco e le nuove scelte strategiche.

Fiat è diventata un'altra cosa, rispetto a 30 anni prima. È uscita da alcuni settori, è entrata in altri come l'energia. Anche quando in molti, in particolare il fratello Umberto, spingono per uscire dal business delle quattro ruote, l'Avvocato mantiene la Fiat ancorata all'automobile.

La sua lunga stagione al vertice del gruppo è segnata dalla costante difesa del settore automobilistico della fabbrica Italiana Automobili Torino e dall'impegno a tenere unita la grande famiglia che negli anni si è accresciuta e ramificata. Giovanni Alberto Agnelli, «Giovannino», l'erede designato alla guida dell'impero, figlio di Umberto e Antonella Piaggio, muore stroncato da un cancro nel 1997. Il figlio Edoardo, una figura tormentata dalla ricerca di un difficile equilibrio, si toglie la vita nel 2001.

Quando le condizioni di salute peggiorano, per rompere la ridda di voci e le speculazioni sul titolo, il 9 maggio 2002 annuncia «vado negli Usa per sottopormi ad ulteriori accertamenti e terapie per curare una affezione prostatica di lunga data, ma continuerà a seguire l'andamento del gruppo. Da New York seguirà telefonicamente, la prima volta dopo 60 anni ininterrotti, l'assemblea degli azionisti che approva un bilancio 2001 chiuso in rosso.

 

 

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Colombo: «Non aveva nulla a che fare con questa classe politica»
di red

Per Furio Colombo, direttore de L'Unità, «la morte di Agnelli è certamente una linea di confine tra un periodo e l'altro della vita di questo paese e forse non solo di questo paese. È la scomparsa di una persona per cui ho avuto stima e amicizia e di fronte a cui provo dolore e nostalgia. Dolore perché questo è il sentimento più umano e nostalgia per il tipo di qualità umana che ha portato attraverso la vita».

Per Colombo «la lunga malattia ha reso visibile il distacco che aveva già maturato nei confronti di questa vita politica e dico questa vita politica perché con questo estabislhment, con questa classe dirigente lui non aveva proprio nulla a che fare».

 

 

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L'Italia ricorda Agnelli. Berlinguer: «Guidò l'azienda con molta dignità»
di red

Immediate e numerose le reazioni alla notizia, non inaspettata, della morte di Gianni Agnelli, la cui vita racchiude, nel bene e nel male, un pezzo della storia d'Italia. Imprenditori, politici, sindacalisti, sono in molti a ricordare l'uomo che ha guidato per cinquant'anni il più grande gruppo industriale italiano. «È stata una figura altamente rappresentativa del capitalismo familiare italiano che ha saputo a lungo guidare l'azienda con molta dignità, incrementi produttivi e lavorativi. Certamente l'ultima fase della gestione familiare della Fiat è opinabile, ma questo non cancella i suoi meriti e il grandissimo rispetto che abbiamo e tutti dobbiamo avere della sua figura», dice il diessino Giovanni Berlinguer.

A lui si unisce immediatamente il segretario dei Ds, Piero Fassino che ha appreso la notizia della scomparsa del senatore Agnelli mentre si stava recando in ufficio. «Agnelli è stato un protagonista della storia d'Italia. Un uomo che, lungo mezzo secolo, è stato il simbolo stesso - ha detto - di quello straordinario sviluppo industriale che ha fatto dell'Italia uno dei grandi paesi del mondo».

Della stessa opinione il segretario della Uil, Luigi Angeletti, «per decenni è stato il simbolo dell'imprenditoria italiana e ha avuto sempre un profondo rispetto nei confronti dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali».

«Con Giovanni Agnelli scompare un altro pezzo della storia civile del nostro Paese, di una storia fatta di vittorie e di sconfitte, di libertà e di dittatura, di cadute e di rinascite». È il senatore a vita Francesco Cossiga che commenda la morte del presidente onorario della Fiat.

Dall’Europa è arrivato anche il cordoglio di Romano Prodi: «L'Avvocato Agnelli non è solo l'Italia industriale. È una persona che ha accompagnato lo sviluppo sociale, politico ed economico di tutto il Paese. Davvero una persona insostituibile, non solo per il suo ruolo».

Il commento di Don Vitaliano Della Sala, il parroco no global rimosso un mese fa dalla parrocchia di Sant'Angelo a Scala (Av), sulla morte di Agnelli è l’unico fino adesso segnato da un giudizio profondamente negativo: «Personalmente do un giudizio negativo sull'Avvocato e sulla famiglia in generale. Con tutto il rispetto per questa morte. Gli Agnelli hanno camminato con la storia dell'Italia, sapendo stare sempre dalla parte dei vincitori. Forse, proprio Giovanni, ha recuperato un po’ di dignità mettendosi contro Berlusconi in quest'ultimo scorcio di storia. Ma va ricordato che questa famiglia ha pensato sempre a se stessa e non al bene degli operai».

«Ovviamente mi spiace che non ci sia più – aggiunge il prete, scindendo l’aspetto umano da quello politico - perché dinnanzi alla morte di chiunque non si può gioire. Non so come la sua scomparsa possa influire sulla ripresa della Fiat. Spero che le cose non peggiorino».

 

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Sospese le 2 ore di sciopero a Mirafiori. Cordoglio e preoccupazione a Termini Imerese
di red

La Fiom ha sospeso lo sciopero di due ore previsto per oggi pomeriggio a Mirafiori «in segno di rispetto per la conclusione della vita di un uomo» si legge nel comunicato sindacale che informa della decisione presa. Le due ore di sciopero facevano parte del pacchetto di otto ore proclamate dalla Fiom entro la fine di gennaio in tutti gli stabilimenti Fiat auto e indotto.

Le iniziative proseguiranno nei prossimi giorni «per ottenere il riconoscimento del diritto al lavoro e un futuro per i lavoratori Fiat». Forte cordoglio per la scomparsa del senatore Giovanni Agnelli è stata espressa, in una nota, dalla segreteria nazionale della Fiom Cgil e dalla Fiom del Piemonte.

Anche la Uilm si unisce. «Con Gianni Agnelli se ne va un grande personaggio del nostro Paese», un imprenditore che ha rappresentato più di ogni altro l'Italia all'estero». Così il segretario generale della Uilm,
Tonino Regazzi, ha commentato la scomparsa del presidente onorario della Fiat.

«Era rispettoso degli altri e dei propri dipendenti - ha detto - ci teneva a mantenere il settore dell'auto nel nostro Paese. È stato grande appassionato di automobile, quando la Ferrari era in difficoltà ne è andato in soccorso e ne ha fatto una grande azienda vincente».

Cordoglio e preoccupazione. Anche a Termini Imerese la notizia della morte di Gianni Agnelli ha lasciato tutti senza parole. È soprattutto l’incertezza per il futuro a preoccupare lavoratori e sindacati.

«Siamo profondamente dispiaciuti - dice Giuseppe Vono, rappresentante della Fim nella Rsu di Termini Imerese - Giovanni Agnelli era per l' azienda e per tutti i dipendenti un punto di riferimento forte, speriamo che adesso la situazione non si complichi ulteriormente».

Gli fa eco Angelo Barbera della Fiom, che non riesce a nascondere i suoi timori: «Per noi era l' ultimo filo di speranza, l' uomo che poteva ancora dare una svolta. Umberto non è Giovanni, sappiamo che ha un' idea diversa del settore auto. Adesso nel consiglio di amministrazione potrebbero prevalere i falchi e inasprire la vertenza, rendendo più rigido quell' accordo di programma che pure noi contestiamo».

Un concetto ribadito anche da Silvana Bova, leader del coordinamento donne di Termini Imerese: «Dal punto di vista umano siamo dispiaciute per la scomparsa dell' avvocato, come mogli degli operai siamo invece preoccupate: Gianni Agnelli rappresentava infatti l' unica garanzia di continuità per il settore auto dell' azienda torinese».

 

 

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Con Agnelli finisce la stagione dell'industria che costruisce
di Oreste Pivetta

Giovanni Agnelli se n’è andato e anche per la sua morte vale un’aria di finesecolo, malgrado il secolo per i calendari sia tramontato da tempo. Con il valore di una vita che finisce e che può rappresentare un simbolo, la morte di Gianni Agnelli chiude, almeno in Italia, una stagione, quella dell’industria, dell’industria che costruisce, che produce, della grande industria taylorizzata, delle ciminiere, dei fumi, delle presse, delle estenuanti catene di montaggio, dell’operaio massa, di una macchina che sfrutta, consuma, piega, con un obiettivo: il profitto per chi la governa... Un cuore che batte e pulsa, che fece di Torino la nostra piccola, ambiziosa e familiare Detroit. Oltre il recinto della fabbrica vi sarebbe dell’altro a definire quella stagione italiana: la collusione con il fascismo, l’assistenza dello stato, la garanzia del mercato protetto, le lotte sindacali, le figure della politica...

Gli ultimi anni di Gianni Agnelli possiamo immaginare non siano stati i più felici: ha visto morire il nipote, destinato a rivestire i suoi stessi abiti di numero uno nell’azienda di famiglia, ha visto poco dopo morire il fragile, delicato, figliolo Edoardo, ha ceduto agli inviti della General Motors, ha subìto una Confindustria e un presidente che rappresentavano qualche cosa molto lontano da lui, ha subìto allo stesso modo Berlusconi, ancor più distante per le idee, per il lavoro, per il volgare e manifesto perenne conflitto d’interessi, per i modi, per la povertà di stile e di cultura o per lo stile dell’ultimo arrivato, perchè Berlusconi rappresenta un mondo degli affari, senza principi, senza morale, novità che non significano modernità.

Gianni Agnelli credo avesse in mente e nel sangue la storia e il mito di «un’industria aristocratica accentrata - come scrisse Piero Gobetti - attraverso una formidabile selezione di spiriti e capacità, nelle mani di pochi uomini geniali...», di «un piccolo Stato assoluto - come aveva scritto nel 1920, due anni prima di Gobetti, Antonio Gramsci - che ha un autocrate: il comm. Giovanni Agnelli, il più audace e tenace dei capitani d’industria, un eroe del capitalismo moderno».

Giovanni Agnelli nacque nel 1921, il 12 marzo, quando la Fabbrica Italiana Automobili Torino produceva undicimila (circa) veicoli all’anno, tre settimane dopo il congresso di Livorno e la fondazione del Partito comunista italiano, un paio di settimane prima che il ragionier, professor, dottor Vittorio Valletta entrasse in Fiat con la qualifica di direttore generale, «impegnato nel lavoro oscuro e silenzioso, a battere ogni giorno sul fronte della concorrenza, derll’amministrazione, dell’organizzazione del lavoro in fabbrica, per far quadrare i conti e per allargare i confini dell’Impero» (così Valerio Castronovo).

La madre si chiamava Virginia Bourbon del Monte di San Faustino e pare fosse una bellissima donna, assai corteggiata. Il padre era Edoardo, che, prima di morire nel 1935, appena quarantatreenne (in un incidente di volo, nel mare di Genova, sul deltaplano di Arturo Ferrarin, che per cause inspiegabili si capottò) aveva messo al mondo sette creature: Clara (nata nel 1920), Giovanni appunto, Susanna (1922), Maria Sole (1925), Cristiana (1927), Giorgio (1929), Umberto (1934), aveva creato la grande Juventus di Mumo Orsi e Luisito Monti, aveva investito al Sestriere, s’era fatto “licenziare” per scarso rendimento dal consiglio d’amministrazione della Franchi-Gregorini, un’azienda meccanica di Brescia, con un brusca lettera di Giuseppe Toeplitz, il banchiere della Commerciale. Era pure fascista, il più fascista della famiglia.

Giovanni o Gianni, per non confonderlo con il grande nonno, impara a leggere e a scrivere in casa (non gli mancano neppure una palestra e una sala cinematografica), frequenta invece il ginnasio pubblico, il Massimo D’Azeglio, con risultati non sempre brillanti e un cinque in matematica in quinta ginnasio (rimandato a ottobre). Raggiunge comunque la maturità liceale e in premio dal nonno riceve un viaggio negli Stati Uniti. Attraverserà l’oceano a bordo del Rex. Visiterà New York, Chicago, le campagne del Mississippi e naturalmente Detroit, tanto per imparare. Imparerà l’inglese, come non era riuscito con i professori del D’Azeglio e con Franco Antonicelli, l’antifascista che il nonno gli aveva messo al fianco come precettore, dopo la morte del padre. Pare che Franco Antonicelli, escluso dall’insegnamento pubblico per la sua fama d’oppositore, non fosse riuscito a trasmettere neppure i suoi orientamenti antifascisti al vivace allievo, che vestiva la sua camicia nera, frequentava le adunate dei balilla e degli avanguardisti e la sera del 10 giugno 1940, ormai universitario, era in piazza con i colleghi del Guf per festeggiare l’entrata in guerra dell’Italia. Guerra che ebbe modo, in qualche modo, di frequentare. Si presentò alla leva, scuola di cavalleria di Pinerolo, partì per il fronte orientale, tornò nell’aprile del 1942, con un principio di congelamento a un dito e un distintivo della Wermacht, “Winter in Russland”, ripartì nell’autunno dello stesso anno per la Libia, tornò pochi mesi dopo con una ferita alla gamba e un’altra al braccio, due schegge di un proiettile inglese.

Tornò, anche questa volta, soprattutto per le insistenze protettive di nonno Giovanni, in tempo per diventare a ventitrè anni vice presidente della Fiat: «Tu sei l’unica persona in famiglia di cui mi fido e devi assumere questa responsabilità».
Dopo l'8 settembre Gianni Agnelli cercò di seguire i Savoia al Sud, insieme con la sorella Susanna, Suni. Se ne andò a bordo di una Topolino, la campionissima Topolino inventata un decennio prima da uno tra i più fedeli uomini Fiat, Dante Giacosa, che alla Fiat lavorò per quarantasette anni, dal 1928 al 1975, morì nel 1996. La Topolino di Gianni Agnelli si ribaltò per la fretta nei pressi di Arezzo. Gianni andò in ospedale, lasciò perdere i Savoia e si laureò in diritto penale con una tesi su "Materia giuridica del dolo e della colpa".

Negli anni di Salò, mentre Giovanni Agnelli vietava ai suoi dirigenti l'iscrizione al Partito fascista repubblicano, Valletta tesseva rapporti con il principe Umberto, con la principessa Maria Josè e con il socialista Bruno Buozzi e il vicepresidente Giancarlo Camerana incontrava a Berna il capo dei servizi segreti americani, mentre tutti temevano le collusioni del passato, l'incertezza del presente e l'oscurità dell'avvenire, Gianni sembrò in disparte. Si rifece vivo attraverso il testamento del nonno che lo premiava con il doppio delle azioni degli altri eredi, riconoscendogli dunque il potere e i soldi del futuro capo. Giovanni morì il 16 dicembre 1945. Gianni malgrado l’investitura risponderà a Valletta «Professore, lo faccia lei», quando Valletta gli espose semplice semplice il problema: «I casi sono due: o lo fa lei il presidente o lo faccio io». Gianni sapeva attendere. D'altra parte il nonno lo aveva lasciato non solo con il doppio delle azioni degli altri e con una nomination senza equivoci, ma anche con una rendita valutata intorno al milione di dollari all’anno, quando l’operaio del Lingotto guadagnava quattromila lire al mese.

Il passato si può cancellare. Dopo la morte Giovanni Agnelli verrà riabilitato, Valletta non dovrà attendere molto per venir riabilitato in vita. Manca solo il referendum tra repubblica e monarchia, poi tutto tornerà come prima. Gianni Agnelli voterà, come confesserà parecchi decenni dopo, monarchia. Saluterà subito la giovane repubblica per un viaggio negli Stati Uniti che diventeranno la sua "seconda terra", dove conoscerà presidenti come Kennedy e Reagan e diventerà amico di Kissinger. A Torino lascerà fare al professor Valletta, che ama la Fiat e vorrebbe che tutti l'amassero come lui, che teme i comunisti e in particolar modo quelli (in maggioranza tra gli operai), che stanno nella sua fabbrica, che complotta con la signora Claire Boothe Luce, ambasciatrice d'America in Italia, per spaccare il sindacato schiacciando la Fiom, che inventa il sindacato giallo, il Sida (Sindacato italiano dei lavoratori dell'automobile), per poter concludere che regna l'ordine e che i rapporti sindacali sono gloriosamente buoni. Valletta inventò anche la Seicento e Togliattigrad (con i finanziamenti a bassissimo tasso d’interesse decisi dal governo italiano. Lama lo definirà «un padrone duro, spietato, un avversario di classe ma un uomo d'onore».

D'altro di quegli anni, per quanto riguarda Gianni, si ricorda l'incidente d'auto nel 1952, quando vicino a Viareggio finì contro un camion, con un danno alla gamba per tutta la vita, il matrimonio con Marella Caracciolo, la nascita nel 1954 del figlio Edoardo, l'incontro con Krusciov nel 1962 durante una mostra italiana a Mosca, l'amicizia con Guido Carli, la curiosa frequentazione a Torino con giovani intellettuali come Gianni Vattimo, Umberto Eco, Claudio Magris, Furio Colombo...

Anche il tempo, lunghissimo, di Valletta finirà. Gianni questa volta fece il padrone: nel 1966 offrì la presidenza onoraria a Valletta e assunse lui la massima carica, il salto è fatto, probabilmente all’età giusta, per esperienza, conoscenze, amicizie di tutto il mondo. Basterà attendere qualche mese perchè il nuovo presidente veda iniziare una stagione tumultuosa, difficile, certo ricca di suggestioni, ma assai complicata da governare, per tutti, anche per la Fiat.

«Il 1969 operaio - scriveva Marco Revelli in Lavorare in Fiat - colse di sorpresa l’establishment Fiat. Appena due anni prima Agnelli aveva potuto aprire la propria relazione agli azionisti celebrando gli sviluppi senza precedenti dell’azienda, che aveva permesso alla quota Fiat di superare il 21 per cento della produzione automobilistica Cee e di passare dal 5 al 6 per cento sul piano mondiale. Ancora l’anno precedente - il 1968 - in un clima di euforia, la relazione si era conclusa con «un vivissimo encomio al nostro personale - dirigenti, impiegati, maestranze - per lo spirito di corpo e il senso del dovere dimostrati nell’adempimento dei compiti a ciascuno affidati». E con la constatazione che il livello di utilizzazione degli impianti era giunto a sfiorare il 90 per cento. Nel ‘68 Gianni Agnelli aveva firmato l’accordo con la Citroen, per coordinare ricerche, promozione, programnmi di produzione, vendite. I giornali lo definirono storico. Ricorda ancora Marco Revelli che l’11 aprile 1969 i sindacati avevano proclamato tre ore di sciopero per i fatti di Battipaglia. Nella sala mensa di Mirafiori Sud, un operaio, Francesco Morini, che aderiva al Psiup, salì su un tavolo e parlò a millecinquencento operai. Era la prima assemblea all’interno della Fiat, dagli anni Cinquanta, Valletta era definitivamente alle porte, si riapriva la stagione dei conflitti.

Gianni Agnelli si muove con prudenza. All’assemblea degli azionisti del 29 aprile 1971 respinge il suggerimento di ridurre gli investimenti a titolo di rappresaglia contro l’assenteismo. Ritiene che «il solo mezzo per combattere tale fenomeno sia il miglioramento del clima di lavoro in generale».
In Francia la decisiva vittoria del fronte conservatore nelle elezioni del giugno 1968 aveva ridato fiducia agli imprenditori, aprendo così la strada a una straordinaria crescita degli investimenti... In Italia non era prossima alcuna rassicurazione politica del genere... In una situazione la risposta degli imprenditori non fu univoca.
L’industria di Stato e i grandi gruppi privati, come la Fiat e la Pirelli, mantennero alti i livelli d’investimento .. Essi tentarono anche di venire a patto con la nuova situazione esistente nelle fabbriche, cercando di rafforzare i sindacati come contrappeso all’azione e all’organizzazione della base operaia.

Così rispose Giovanni Agnelli a Eugenio Scalfari nel novembre 1972: «Coi profitti a zero la crisi non si risolve ma si incancrenisce e può produrre il peggio. Noi abbiamo due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e d’inefficienza. È inutile dire che questa è la nostra scelta».

Umberto salirà al fianco di Gianni divenendo amministratore delegato. Alcuni anni e Gianni farà un altro salto: il 18 aprile 1974 diventerà presidente di Confindustria, nello stesso giorno in cui le Br sequestrarono il giudice di Genova, Mario Sossi. Le Br valutarono l’insediamento di Agnelli alla testa della Confindustria come «l’inizio di un colpo di stato di tipo gollista in Italia». Il sequestro Sossi durò 35 giorni. Il magistrato fu liberato indenne.

Mentre Berlinguer continuava a proclamare la necessità del compromesso storico, la Dc faceva appello ai suoi tradizionali alleati infoltendo le proprie fila di cattolici rispettati e convincendo Umberto Agnelli, fratello più giovane di Giovanni, a presentarsi tra i suoi candidati: serrare i ranghi per appoggiare l’onesto Zac... p. 447
Nel 1974 arriva alla Fiat, con l’incarico di responsabile per la finanza e la pianificazione, Cesare Romiti. Due anno dopo arriveranno i soldi di Gheddafi (quattrocento miliardi), che significano la fine della totale dell’indipendenza della Fiat e il suo ingresso nel mercato della finanza mondiale. Altri giorni e mesi e anni tumultuosi: il terrorismo, l’assassinio di Aldo Moro, la fine del compromesso storico, la sconfitta comunista del 1979... La Fiat cominciò a licenziare, proprio alla fine del 1979, 61 operai di Mirafiori, accusandoli di aver compiuto violenze all’interno della fabbrica. Tra i sessantuno vi erano molti attivisti sindacali che non avevano nulla a che fare con il terrorismo. Un anno dopo l’attacco decisivo: l’8 settembre 1980 l’azienda annunciò che in seguito alla caduta della domanda di automobili avrebbe posto in cassa integrazione ventiquattro mila operai per quindici mesi, una metà sarebbe poi tornata in fabbrica. Seguirono lotte e scioperi, Berlinguer (il 25 settembre) parlò davanti ai cancelli di Mirafiori, il 14 ottobre a Torino sfilarono trenta quarantamila persone, dirigenti, capisquadra, impiegati e operai gridando: «Novelli, Novelli, fai aprire i cancelli». Novelli era il sindaco comunista di Torino. La marcia dei quarantamila, segnò la fine della contesa dopo trentaquattro giorni di sciopero. Il giorno seguente venne firmato un accordo tra la fiat e il sindacato. Fu una straordinari affermazione per Gianni Agnelli, che fissò così il modello di relazioni industriali per il futuro decennio. La cura Romiti: 134 mila operai fiat auto nel 1980, 78 mila nel 1986.

Gli anni successivi saranno quelli dell’Alfa Romeo sottratta alla concorrenza della Ford e alla scena auspicata da molti di una Fiat costretta a confrontarsi in Italia con un azienda aggressiva e competitiva senza bisogno di sostegni statali, di Cuccia e di Mediobanca, del pensionamento di Romiti e della scelta di Paolo Fresco, della scoperta di nuovi mercati, dall’Africa all’India al Sudamerica, dei Gardini e dei De Benedetti, della stella nascente di Marco Tronchetti Provera, persino di tangentopoli (Romiti e Francesco Paolo Mattioli sul banco degli imputati: per loro la procura aveva chiesto rispettivamente otto e venti mesi di reclusione e l’avvocato difensore Vittorio Chiusano definì equa la richiesta)... del ventenne John Elkann, figlio di Margherita e di Alain, lo scrittore, comandato nel consiglio d’amministrazione per rappresentare la famiglia. La Fiat, nel 1999, festeggiava un secolo di vita. I D’Amato e i Berlusconi, i cedimenti di Giovanni, la consapevolezza forse di un tramonto (con il colpo di coda, un sogno forse, della General Motors).

Raccontando la vita di Giovanni Agnelli, l’Avvocato, come si vede si incrocia un secolo attraverso i suoi protagonisti, soprattutto italiani, e tantissimo si deve trascurare, dimenticare, cancellare. Non è detto che ciò che resta sia quello più importante. Certo resterà quel nome, Agnelli. Non resterà nessun Albino Saluggia di Mirafiori, di Rivalta o del Lingotto. Proprio al Lingotto la Fiat è tornata per il suo finesecolo. L’Avvocato seguì la lunga trafila del restauro, i concorsi con gli architetti, i dibattiti sulla storia e sul destino di quell’imponente manufatto industriale. Alla fine se ne occupò Renzo Piano, il più famoso, forse internazionale degli architetti italiani, che nel primo progetto presentato aveva cercato, seguendo una sua vena ecologica, di affievolire la monumentalità dell’edificio alzando a ridosso dei muri collinette fiorite. Togliere significato a quel simbolo, alla fabbrica inventata dall’ingegner Mattè Trucco, lodata da Le Corbusier, espressione di razionalismo e di un’idea assoluta di lavoro fordista. Altrimenti, di “lavoro alla catena”. I lavoratori del Lingotto inventarono un giornaletto clandestino che battezzarono Portolongone, come il penitenziario...

Anche questa di Gianni Agnelli è una storia del lavoro. Comunque, dopo una storia così, rivivendo quel che resta (tanto) di un mito, rivedendo magari i luoghi, Mirafiori, il Lingotto, come Pomigliano, come Melfi, alcune domande senza risposta restano: il prezzo di tutto questo, quanto è costata l’Italia alla Fiat.

«Cari lavoratori, la festa è finita», mezzo secolo di rapporti con i sindacati
di Bruno Ugolini

Sentimenti tristi, ricordi di tante battaglie, sentimenti di rispetto. La scomparsa di Gianni Agnelli non può non suscitare un’intensa emozione. Anche nel mondo del lavoro. È come se, per molti, se ne andasse un pezzo della propria storia personale, delle lotte di una vita.

Parliamo dei lavoratori Fiat, di operai e di tecnici. Parliamo dei tanti militanti sindacali, quelli delle sue fabbriche automobilistiche, oggi quasi moribonde, o perlomeno in grave pericolo. Sono entrati per anni, all’alba, o nel cuore della notte, spesso col «barachin» del pranzo, attraverso le «porte» dell’immensa città di Mirafiori. Parliamo di coloro che in tutta Italia hanno visto in quella fabbrica e in quel «padrone» così distinto, appunto un simbolo, spesso detestabile. Gente che magari partiva da altre città, da Brescia, da Firenze, come successe nell’autunno del 1980, per andare a quelle «porte» ad aiutare i «picchetti» sindacali.

Oggi anche costoro, crediamo, abbasseranno le proprie bandiere, magari un po’ logore, in segno di cordoglio. Perché scompare, appunto, un avversario degno di rispetto, con un suo carisma. Qualità che oggi, spesso, non sono riconosciute, ad esempio, all’attuale presidente della Confindustria e ad altri sommi imprenditori, magari a capo del governo. Hanno scioperato innumerevoli volte contro le scelte sindacali e produttive dell’Avvocato, emblema della fabbrica, il «padrone», il simbolo dei licenziamenti di rappresaglia o delle casse integrazioni.

Hanno innalzato spesso e volentieri la sua effigie nei cortei degli autunni caldi, per fischiarlo duramente. Lo hanno però sempre rispettato, come si rispetta, appunto, un «avversario di classe». Magari non unicamente nel significato tradizionale, ispirato da un linguaggio non più di moda, ma riferito all’autorevolezza che lo distingueva, nel bene e nel male.

Il ricordo non va solo, dunque, a quello slogan ossessivo, gridato nei lunghi cortei degli anni Sessanta-Settanta - «Agnelli-Pirelli, ladri gemelli» - ma anche ai dialoghi, ai confronti, agli accordi tra il principale imprenditore italiano e il mondo del lavoro.

Il rispetto, del resto, era reciproco. Come non rammentare la grande stima che Gianni Agnelli nutriva nei confronti di Luciano Lama? E’ rimasta nella storia dei rapporti sindacali, l’intesa sul cosiddetto «punto unico di contingenza», identificata, nel 1975, con la denominazione , come se soltanto loro due fossero stati gli autori, rimuovendo l’esistenza di altre organizzazioni e di altri protagonisti. Un’intesa che suscitò un mare di polemiche, provocando, tra l’altro, le ire di Ugo La Malfa, perché additata come un incentivo ai processi inflazionistici, ad un nocivo appiattimento salariale, incapace di riconoscere e premiare le professionalità.

Erano gli anni del cosiddetto «egualitarismo» e anche gli anni del cosiddetto compromesso storico, teorizzato da Enrico Berlinguer, con la possibile alleanza tra mondo cattolico e mondo comunista, ben vista da Aldo Moro. Quell’accordo Lama-Agnelli fu interpretato da alcuni, in qualche modo, come un semaforo verde, la levatrice d’altri equilibri politici. Anche perché accompagnata da successive sortite dell’Avvocato che si era messo a discutere di «lotta alla rendita».

Nella sinistra nascevano, così, speranze e illusioni su un possibile «patto tra i produttori» che avrebbe rinnovato l’Italia. Magari dimenticando che in quella lotta alla rendita c’era una complicazione derivante dal fatto che per la stessa Fiat, i confini tra giusto profitto e rendita erano spesso invisibili.

Polemiche del passato. Resta il fatto che l’Avvocato, quello che Fortebraccio sulle colonne di questo giornale amava dileggiare, chiamandolo col nome del commissario Basettoni, era rispettato dai comunisti dell’epoca anche perché lui rispettava i comunisti. Non avrebbe mai ipotizzato, come si fa qualche volta ora, un tentativo di tagliare fuori dei negoziati la Cgil nazionale. Anche se, negli anni Cinquanta, nelle fabbriche torinesi i suoi kapò avevano inventato i reparti confino riservati a donne e uomini con tessera Fiom. Erano i lavori sporchi lasciati fare ai vari Valletta prima e Romiti poi, assunti proprio per questi compiti.

L’Avvocato, invece, sui palcoscenici pubblici, anche attraverso gli apprezzamenti nei confronti prima di Lama, poi di Trentin e infine di Cofferati, costruiva la fama di un liberale moderato. Il suo principale impegno «politico» si manifestò durante il biennio di presidenza alla Confindustria, dal 1974 al 1976. Una designazione giunta dopo uno scontro non facile con Eugenio Cefis, l’uomo della Montedison, appoggiato dai democristiani fanfaniani dell’epoca. Era lo scontro tra chi voleva un rinnovamento, una dose di riformismo, diremmo ora, e chi voleva il ritorno al pugno di ferro nei confronti del mondo del lavoro, dopo le ancora cocenti sconfitte dell’autunno caldo. I primi volevano candidare Bruno Visentini, un repubblicano assai animoso, ma «laico», mal visto dalla Dc. Cefis aveva posto il veto e così si era affermato l’Avvocato. Erano tempi in cui un periodico come «L’Europeo» titolava: «La Confindustria si sposta verso i socialisti». Nascevano i primi centrosinistra e prendeva le sue mosse il terrorismo.

L’ascesa dell’Avvocato alla presidenza della Confindustria coincise col rapimento Sossi e Genova e con la terribile strage di Brescia. Con un governo Rumor in rapida crisi. Un imprenditore, dunque, che in fabbrica faceva usare più il bastone che la carota, ma che inseguiva con tenacia la strada della trattativa, della mediazione. Aveva detto nel suo discorso inaugurale, il 30 maggio del 1974: «Pur nella diversità delle posizioni, i sindacati degli imprenditori e i sindacati dei lavoratori hanno un terreno d’incontro sul quale misurare dissensi di partenza per arrivare a soluzioni che ricompongano gli interessi rispettivi, in un quadro d’interesse generale».

Era anche un comunicatore, capace di messaggi incisivi, magari banali, ma in grado di suggerire un titolo a tutti i giornali. Come quando disse «La festa è finita», annunciando una fase critica per l’economia bisognosa di sacrifici per tutti, soprattutto per i suoi dipendenti. Oppure quando, più recentemente, si lasciò scappare una battuta sull’eventualità dell’avvento di una «Repubblica delle banane». Una profezia azzeccata, subito da lui stesso smentita perché, come aveva detto uno dei suoi avi: «Gli industriali sono sempre ministeriali». Stanno sempre con Pantalone, con lo Stato, con il governo in carica.

 

DA – MILANO FINANZA

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