LE INTERVISTE Intervista
al presidente onorario della Fiat
"Ma è mostruoso questo processo via Internet"
Agnelli
sul Sexgate
"Clinton resterà"
di EZIO MAURO
"Io
penso che Bill Clinton resterà al suo posto. Alla fine,
secondo me, l'impeachment non ci sarà, perché prevarrà
la ragione e la convenienza. Ma attenzione alla storia
che stiamo vivendo in questi giorni: perché l'America,
la sua politica, la sua leadership, rischiano di uscire
cambiate profondamente da una vicenda drammatica come
questa". Gianni Agnelli guarda all'America, come ha
fatto tante volte nella sua vita, in un momento di
confusione e disorientamento in cui la morale e la
democrazia si mescolano in uno scandalo sessuale che si
è ormai trasformato in un dramma politico. Cosa sta
capitando a Washington? Cosa pensa di questa crisi il
mondo della finanza internazionale? E quale dev'essere,
alla fine, il rapporto tra il potere, la libertà e la
verità? Ecco le risposte di Agnelli.
Avvocato,
cosa le dicono i suoi amici americani sul futuro di
Clinton?
"Vede, in Europa tutti ripetono che l'America è
sotto choc per questa storia di Clinton. Ma non mi sembra
l'immagine giusta. L'America è mortificata, tutte le
persone che sento mi trasmettono l'idea della
mortificazione. E la cosa riguarda anche noi, che pure
siamo lontani".
Perché
noi?
"È semplice. Perché Clinton è il leader del
mondo. Può piacerci oppure no, e probabilmente è un
male che ci sia oggi un leader solo per tutto il pianeta.
Ma le cose stanno così. E quel leader oggi è fatto a
pezzi da questo scandalo. Ecco il problema".
Ma non le
sembra assurdo che l'America distrugga la sua leadership
per uno scandalo sessuale, in un momento di forte
consenso per il presidente, con l'economia che va bene?
"In questo può contare l'ingenuità del Paese, nel
senso proprio del termine: un Paese che non è scaltro e
smaliziato, ma è schietto, spontaneo. Ma molto di più
contano gli errori del presidente".
Quali
errori?
"Uno soprattutto: aver ingannato l'America. Il Paese
si è sentito imbrogliato da quella prima dichiarazione
(che tra l'altro Clinton non era obbligato a fare, in
quel momento), così netta e decisa nel negare tutto.
Tutto ciò che poi ha dovuto ammettere, lasciando al
Paese la sensazione di un inganno malriuscito".
Cosa
doveva fare il presidente davanti ad un'accusa come
quella che gli muoveva Starr?
"Non lo so. So però quel che fece Jefferson, quando
mise tutti a tacere domandando: volete forse un eunuco
alla Casa Bianca? E so che comunque mentire è stato un
brutto errore. Badi bene: Clinton ha mentito a tutti,
compreso il suo staff, i suoi collaboratori più stretti,
che continuavano a negare tutto proprio perché credevano
alla sua versione. E questo non va bene, nemmeno dal
punto di vista di chi deve organizzare una difesa".
Ma
perché l'America ha perdonato a Kennedy ciò che non
perdona a Clinton?
"Non è il fatto in sé, la relazione con quella
ragazza. Ma il modo in cui tutto ciò è avvenuto, il
comportamento del presidente prima e dopo, quando ha
mentito. Cosa vuole, da un lato c'è l'aura dei Kennedy,
dove tutto si mescola - rafforzandola - alla leggenda di
John e Robert, di Jackie che sembrava un'immagine della
pop art, perfetta. E dall'altro lato c'è un presidente
venuto dal nulla, che si è fatto da solo e che finisce
maciullato nei verbali. Come capiterebbe a chiunque,
intendiamoci, se le sue cose intime finissero
squadernate, sezionate e amplificate da inquisitori,
verbali, giornali, televisioni e Internet".
Lei cosa
pensa di Clinton?
"L'ho incontrato poche volte. In mezzo a quella
gente che lo circonda, mi capitò di ripensare al
miracolo di Kennedy: come lui era dieci anni più giovane
di tutti, dieci centimetri più alto, dieci volte più
vigoroso e simpatico. Ho conosciuto meglio Hillary".
Come la
giudica?
"Formidabile. Una donna molto in gamba. Se davvero
Clinton non le ha detto nulla, spingendola a negare tutto
l'ha messa due volte in difficoltà, perché l'America è
convinta che lei non poteva non sapere".
Ma
Clinton è stato un buon presidente?
"Un ottimo presidente. Gli americani, e anche gli
inglesi, lo definiscono anzi un enorme talento politico.
E in effetti domina i vertici, conosce i dossier, è un
grande oratore, ha rilanciato l'economia. E oggi è
azzoppato, forse irrimediabilmente".
Comunque
finisca lo scandalo?
"Sì. Io penso che non ci sarà l'impeachment,
però...".
Lo pensa
o se lo augura?
"Lo penso: anche se so che Clinton è un buon
presidente, mentre Gore non è ancora stato messo alla
prova. Mi pare chiaro che oggi i repubblicani vogliano
tenerlo alla Casa Bianca azzoppato, indebolito in
politica estera e neutralizzato in politica interna;
mentre molti leader democratici, soprattutto quelli che
si giocano la rielezione, vogliono sbarazzarsene,
ritenendo che sia ormai un peso".
Perché
resterà azzoppato, se eviterà l'impeachment?
"Perché le giornate che ha appena vissuto e che sta
vivendo sono state per lui umilianti. Veramente
umilianti. E ci dovrebbero far riflettere, tutti".
A che
cosa pensa?
"Al momento in cui è stato reso pubblico il
rapporto Starr, più di quattrocento pagine in pasto alla
gente. Ero davanti alla Cnn, quella notte. Vedevo
scorrere brani di quel rapporto, sentivo avvocati che li
commentavano in diretta. Mi sono fermato a pensare a quel
che stava succedendo: un rapporto giudiziario e politico
finisce su Internet, rimbalza in diretta sulle
televisioni, si carica di opinioni e accuse, cento o
duecento milioni di persone guardano tutto questo e
premono sul Congresso con le loro emozioni prima e più
ancora che con le loro opinioni. Un circuito infernale.
Anzi, un cortocircuito tra democrazia, morale, politica,
assemblearismo, populismo".
Qualcosa
che serve ad emozionare la gente più che a informare i
cittadini?
"Sì, con l'aggravante che attraverso Internet e il
circuito mediatico tutto finisce per scaricarsi sul
Congresso, influenzandolo in diretta. È un meccanismo
più adatto - se ci pensa bene - a una dittatura che a
una democrazia. Ancora un passo, e si potrebbe far
assistere la gente ad un processo via Internet, per poi
farle decretare in diretta l'impiccagione, con sentenza
universale, sommaria e spaventosa".
Avvocato,
tutto ciò in Europa non succede. Siamo più saggi o più
ipocriti?
"Senza dubbio siamo diversi, anche se in Inghilterra
ci sono stati scandali politico-sessuali. Ma è vero, la
Francia non si è affatto scandalizzata per la figlia
naturale di Mitterrand. Ed è certo meglio così. Vede,
tutti dicono che Clinton aveva il dovere di comportarsi
diversamente, ed è vero, o almeno di essere più
prudente, ed è vero anche questo. Lui ne sta pagando il
prezzo, che è salato. Ma questa storia, attraverso
Clinton, ha mandato in pezzi per sempre il concetto di
privacy e questo riguarda tutti noi. Perché, alla fine,
dovremo farci una brutta domanda: che vita sarà mai,
questa nostra vita sorvegliata, controllata e
prudente?".
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Giovanni AGNELLI - Tra
secondo e terzo millennio. Gli scenari della
globalizzazione
. La globalità come
aspirazione dello spirito umano
"Globalizzazione" è parola moderna e molto in
voga. Ma l'ideale che esprime non è nuovo: appartiene
alla storia stessa dell'umanità.
Sta nell'aspirazione delle primordiali comunità ad
ampliare il proprio territorio alla ricerca di terre più
fertili da coltivare e di una più ricca selvaggina da
cacciare.
Sta nella spinta delle prime civiltà a estendere ad
altre le proprie regole di convivenza, la propria
cultura, la propria religione.
Al desiderio e all'ambizione di unificare il mondo
possiamo ricondurre molteplici vicende che hanno segnato
il corso dei secoli.
Vi appartengono, per esempio, i caratteri dell'espansione
romana, la propagazione del cristianesimo e, poi,
dell'islam, l'esperimento di unificazione dell'Europa di
Carlo Magno, la curiosità per l'ignoto che ha ispirato
le grandi esplorazioni, i valori civili propugnati dalla
rivoluzione francese, la formazione dei grandi imperi
coloniali, l'internazionalismo della lotta di classe
preconizzato da Karl Marx.
Nella tensione alla globalità che ha ispirato vicende
così diverse, c'è forse un'almeno parziale risposta
alla "domanda essenziale" con la quale Leone
Tolstoj chiudeva Guerra e Pace allorché si chiedeva
"qual è la forza che muove i popoli".
E, tuttavia, l'ideale della globalità, così connaturato
allo spirito dell'uomo, si è sempre manifestato - prima
e dopo la tragica esperienza napoleonica in Russia -
attraverso la logica della conquista e del predominio.
Conquista politica, economica, religiosa, ideologica.
Così è stato fino ad un recente passato. Fino a quando
i 57 milioni di morti della seconda guerra mondiale non
hanno cominciato a incrinare quella logica e i calcinacci
del muro di Berlino non l'hanno seppellita - speriamo per
sempre - nel 1989.
2. Globalizzazione:
dalla conquista alla cooperazione
Sono stati l'orrore per la guerra e la minaccia di nuove
armi ancora più distruttive a spianare la strada al
progressivo rigetto della logica di conquista e al
graduale affermarsi di una logica diversa. La logica
della cooperazione. Una cooperazione che ammette
leadership, ma non tollera egemonie.
Nel 1945, la nascita delle Nazioni Unite ha aperto questa
strada in una prospettiva globale.
Ma cooperare per difendere la pace non è stato cammino
facile e lineare.
La stessa azione dell'ONU è stata spesso indebolita dai
residui di concezione egemonica che presiedettero alla
sua creazione.
Nondimeno, gli avanzamenti compiuti in quegli anni hanno
indirizzato gli eventi dei decenni successivi.
A tale riguardo, credo vada fatta una considerazione.
Si sente dire spesso che la globalizzazione economica dei
giorni nostri non è poi un fenomeno così originale.
Ché anzi ha avuto un precedente assai simile, per
intensità e ampiezza, a cavallo tra Ottocento e
Novecento.
Si sente dire spesso che proprio quel precedente dovrebbe
metterci in guardia. Starebbe, infatti, a dimostrare
quanto perigliosi possano essere gli squilibri e le
tensioni che la globalizzazione innesca quando diventa -
come dicono alcuni suoi critici - "caotica",
"eccessiva", "selvaggia".
A parte la legittima curiosità di capire che cosa
significhino in concreto tali attributi, c'è una cosa da
dire.
Non si può dimenticare - e certamente non possono
dimenticarlo gli uomini della mia generazione - la grande
diversità dei fondamenti ideali e politici che stanno
alle radici dell'integrazione economica degli ultimi
cinquanta anni.
Questi fondamenti non sono più nella volontà di
predominio e prevaricazione.
Sono nell'idea, come ebbe a dire, in altri momenti, Paolo
VI, che "lo sviluppo è il nuovo nome della
pace". Sono nell'idea che niente può permettere di
difendere la convivenza tra i popoli più della loro
ampia partecipazione, attraverso gli scambi, alla
crescita economica e al progresso civile.
"Dove passano le merci non passano i soldati".
Con questo intendimento a Bretton Woods furono poste nel
'44 le basi delle nuove istituzioni economiche
internazionali (il Fondo monetario e la Banca mondiale);
gli Stati Uniti erogarono all'Europa, tra il '48 e il
'52, gli aiuti del piano Marshall; l'Accordo generale
sulle tariffe e sul commercio avviò nel '48 la
liberalizzazione dei commerci; l'Europa, a partire
dall'istituzione nel '51 della Comunità del carbone e
dell'acciaio, intraprese il suo cammino di unificazione.
Vi era, in tutto ciò, anche un auspicio. L'auspicio che
un maggior benessere, una maggiore domanda e offerta di
istruzione, una maggiore articolazione sociale, una
maggiore mobilità internazionale delle persone, un
maggior confronto tra le virtù istituzionali di diversi
Paesi, una maggiore solidità finanziaria, tutto questo
avrebbe reso più agevole l'affermarsi della democrazia.
3. I frutti della
globalizzazione
Trainato dalla formidabile crescita del commercio
internazionale, il reddito mondiale dal 1950 ad oggi è
aumentato di oltre 10 volte, mentre era cresciuto di
neppure quattro volte nei cinquant'anni precedenti.
L'incremento della ricchezza non è stato appannaggio di
pochi, ma ha interessato un numero crescente di Paesi.
Secondo i dati della Banca mondiale, il numero dei poveri
sulla popolazione mondiale è diminuito del 20% negli
ultimi dieci anni; e ciò benché la popolazione sia
cresciuta del 15%.
I progressi incessanti nelle tecnologie informatiche e di
telecomunicazione hanno ulteriormente accelerato i
processi di integrazione.
Non solo. Moltiplicando gli accessi alle fonti di
informazione, ne hanno reso vano quel controllo che è
fattore di sopravvivenza per le dittature.
L'incapacità di tenere il passo dello sviluppo e di
erigere barriere all'informazione e all'autonomo giudizio
dei cittadini ha portato al crollo del blocco comunista;
crollo sul quale, peraltro, ha avuto grande influenza
anche l'opera di Giovanni Paolo II, specie in Polonia.
Da allora, la globalizzazione è divenuta occasione e
opportunità di entrare nel gioco dell'espansione
economica anche per quella metà del mondo che ne era
stata forzatamente esclusa.
La forte ripresa dell'Europa dell'Est si è affiancata ai
progressi dell'America Latina e allo straordinario
sviluppo dell'Est asiatico.
Anche la democrazia ha conosciuto una nuova stagione di
vitalità.
In realtà, se in molti angoli del mondo la democrazia ha
faticato ad imporsi, ciò non è stata la conseguenza
della crescente integrazione economica. È stata la
conseguenza della frattura tra Est e Ovest; tra l'area
della dittatura e l'area della libertà.
Certo - ed è proprio la storia di molte esperienze
asiatiche a confermarlo -, tra sviluppo dell'economia e
affermazione della democrazia non è possibile stabilire
un legame di causa-effetto.
Ma sappiamo che, alla lunga, tra libertà politica e
prosperità economica si produce una stretta
correlazione.
Solo la libertà può dare alla prosperità stabilità e
certezza.
Tale consapevolezza non è mai stata radicata come oggi.
E mai come oggi la democrazia ha coinvolto un così vasto
numero di popoli.
4. Tra secondo e terzo
millennio: far tesoro dell'esperienza
Questi i frutti di una globalizzazione nata e costruita
sul principio di cooperazione. Tali frutti meritano
alcuni ulteriori commenti.
Il primo. Le spinte alla crescita e all'integrazione che
possono provenire dall'esterno, per quanto robuste, non
bastano a innescare processi di sviluppo solidi e
duraturi.
Esse devono essere fatte proprie dagli agenti interni di
un Paese, da soggetti politici ed economici che vogliano
e sappiano farsene carico.
Non fu il piano Marshall da solo ad attivare la
rapidissima espansione del benessere in Europa, i
"trent'anni gloriosi" di cui parlano i
francesi.
Il piano Marshall si incardinò nell'opera di
modernizzazione degli Stati europei. E trovò nel
contemporaneo maturare della scelta europeista - di cui
la CECA fu il primo mattone - un terreno fertilissimo di
progetto, iniziativa, sinergia.
È anche questa esperienza a suggerirmi un secondo
commento.
V'è chi obietta che la globalizzazione tenda a
impoverire i Paesi poveri.
La verità è, semmai, che si impoverisce chi
dall'integrazione economica e sociale si chiama fuori.
Cogliere i dividendi della globalizzazione non dipende
dalle decisioni di questa o quella istituzione
internazionale, di questo o quel Paese ricco, di questa o
quella multinazionale.
Dipende dai governi, dalla loro credibilità, dalla loro
intransigenza contro la corruzione, dalla loro volontà
di investire in acquedotti piuttosto che in armamenti.
Dipende dalla loro determinazione nel dare certezza al
diritto, autorità alle istituzioni, istruzione alle
persone, libertà d'iniziativa e di concorrenza agli
operatori economici.
Per chi offre queste garanzie non c'è problema di
risorse finanziarie.
Troppo spesso non c'è stato neppure per chi le garanzie
le ha solo promesse, dando luogo a esperienze imperfette,
precarie, sempre in bilico sulla crisi.
Va anche aggiunto che gestire i flussi di capitali
internazionali richiede una maturità politica e una
responsabilità fiscale che non sempre sono
sufficientemente radicate. E le conseguenze possono
essere molto pesanti.
Le drammatiche vicende dell'Argentina ne sono solo
l'esempio più recente.
Niente può superare le nostre preoccupazioni per le
sofferenze della popolazione di quel Paese così vicino a
noi italiani.
Ma certo, con il popolo argentino ha perso anche chi in
quel Paese ha creduto. Ha creduto nella sua voglia di
riforma, nella sua ritrovata stabilità politica, nella
sua fiducia nello sviluppo; e per questo vi ha portato
ingenti investimenti in tecnologie, organizzazione
industriale, formazione delle persone.
Ciò che è avvenuto in Argentina, in ogni caso, non fa
che ribadire quale grande capacità di gestione sia
richiesta dall'integrazione globale da parte dei singoli
Paesi e delle istituzioni internazionali.
Ferma restando la responsabilità dei singoli governi,
non c'è dubbio che la dimensione sovranazionale dei
problemi connessi alla globalizzazione esiga una sempre
più adeguata governance.
Una governance che
- si esprima, innanzitutto, attraverso un miglior
funzionamento e una più adeguata capacità di intervento
delle istituzioni finanziarie internazionali;
- indirizzi e faciliti i processi economici in modo da
dare una risposta rapida ed efficace al dramma della
povertà, che ancora oggi colpisce un quinto della
popolazione mondiale;
- affronti i problemi per i quali le soluzioni a livello
nazionale non appaiono più adeguate, dal capitolo oggi
decisivo della sicurezza interna fino alla salvaguardia
dell'ambiente;
- sappia rispondere alla richiesta di affermazione e di
effettiva tutela, in ogni angolo del mondo, dei diritti
dell'uomo.
5. Dopo l'11 settembre:
una ripresa della capacità di governance globale?
Della necessità di una rinnovata governance
internazionale si discute da tempo - e senza molto
costrutto, per la verità.
Credo che si possa dire, tuttavia, che tra gli effetti
inattesi e positivamente sorprendenti dei drammatici
eventi dell'11 settembre vi sono importanti segnali.
Segnali non di allentamento o arretramento, ma di
rafforzamento della volontà di perseguire l'integrazione
e di coordinarla più efficacemente.
Essi riguardano, da un lato, la gestione dell'economia e,
dall'altro, la politica internazionale.
All'indomani degli attentati terroristici negli Stati
Uniti, da più parti era stato espresso un timore. Il
timore che l'insicurezza generata da un mondo divenuto
improvvisamente ostile potesse invertire il processo di
integrazione pacifica che aveva segnato in particolare
gli anni Novanta.
Si è temuto che la comunità economica globale potesse
disperdersi e cadere vittima di una "sindrome
dell'eremita" intesa a ridurre ogni rischio o
impegno esterno.
In effetti, così è stato, ma non a lungo. E ciò per le
risposte che la politica economica ha saputo dare alla
crisi.
Per la prima volta abbiamo assistito all'attivazione
rapida, globale e coordinata delle grandi autorità
monetarie mondiali, Federal Reserve, Banca Centrale
Europea, Banca d'Inghilterra.
Anche le politiche di bilancio si sono mosse, certo non
con la stessa incisività, la stessa omogeneità, la
stessa rapidità.
Gli Stati Uniti hanno potuto far leva sui margini di
surplus di bilancio. L'Europa, che questo surplus non
l'ha, ha di fatto procrastinato l'avvicinamento al
pareggio di bilancio. Ciascun Paese ha sfruttato secondo
le sue necessità il limite massimo di deficit consentito
dal Patto di stabilità.
Nel loro complesso, le politiche economiche hanno
comunque arginato i timori di collasso di breve termine
delle economie.
Ancora non abbiamo certezze su quel che potrà avvenire
nei prossimi sei o nove mesi. Ma uno sguardo più
"lungo" non può non cogliere caratteri
incoraggianti.
Elementi di giudizio ancora più incoraggianti vengono da
un altro versante, quello della risposta politica agli
eventi dell'11 settembre.
È su questo terreno, soprattutto, che sono maturate
scelte che ci fanno parlare di un'inattesa ripresa della
capacità di governance mondiale.
Quel che è divenuto chiaro a tutti, dopo l'11 settembre,
è che non può esistere salvaguardia nazionale senza
cooperazione internazionale, in tutti i campi.
In questa prospettiva abbiamo visto, per esempio,
l'Amministrazione americana modificare radicalmente le
sue posizioni in materia di controllo sui mercati
finanziari e di contrasto ai paradisi fiscali.
Abbiamo visto chiudersi in tempi strettissimi la
trattativa di partnership strategica tra gli Stati Uniti
e il Pakistan, con accordi economici che sono ora materia
di negoziato anche con altri Paesi dell'area asiatica.
Abbiamo visto finalmente la Cina entrare
nell'Organizzazione mondiale del commercio.
Abbiamo visto compiere a Doha passi decisivi per
garantire l'apertura dei commerci globali e per stabilire
una rinnovata fiducia fra il Nord e il Sud del mondo.
I Paesi più ricchi si sono detti finalmente disponibili
ad abbassare le barriere protezionistiche, specie nel
tessile e nell'agricoltura, che costano ai Paesi in via
di sviluppo assai più di quanto ricevano in aiuti
internazionali.
Occorre superare l'ipocrisia di chi incoraggia i Paesi
poveri ad aprirsi e adeguarsi al libero commercio e, al
tempo stesso, nega gli accessi al proprio mercato
interno.
A Doha è stato anche riconosciuto il principio che la
tutela della salute pubblica prevale sulla tutela dei
brevetti, permettendo così ai Paesi in via di sviluppo
di beneficiare di farmaci indispensabili e finora
inaccessibili.
Sul piano delle relazioni internazionali, poi, i fatti
dell'11 settembre hanno mostrato per la prima volta che
Mosca, Washington e Pechino possono essere schierate
insieme dalla stessa parte. E non solo per
un'associazione oggi tattica, ma anche in vista di un
possibile nuovo ordine mondiale.
Il temuto scenario anti-globale di un Occidente
contrapposto al resto del mondo sembra svanito.
Certo, non si può trascurare che nella nuova alleanza
antiterroristica siano entrati Paesi - tra i quali lo
stesso Pakistan e la Turchia - la cui leadership appare
più vicina all'Occidente di quanto non sembri essere
l'opinione pubblica. Ma è un fatto che questi Paesi sono
stati la spina dorsale dell'azione militare occidentale.
Si tratta di un'accelerazione eccezionale, quella dei
livelli di cooperazione che vediamo maturare, dettata da
eventi eccezionali.
È auspicio di tutti che si torni alla normalità.
Ma la normalità è fatta spesso di dialettica aspra, di
interessi faticosamente conciliabili, di atteggiamenti
unilaterali, di trattative interminabili e anche di
conflitti regionali da comporre.
I rischi connessi alle tensioni tra India e Pakistan ci
ricordano che la guardia va sempre tenuta alta. E così
per quel che riguarda il Medio Oriente.
In ogni caso, i risultati che la cooperazione
internazionale ha già raggiunto, e quelli per i quali si
sono poste le condizioni, sono nell'interesse di tutti; e
dunque difficilmente reversibili.
Questa maggiore volontà di cooperazione sarà di grande
importanza di fronte alla grandi sfide che domineranno i
prossimi decenni.
Voglio riferirmi, per la loro particolare rilevanza, a
due di esse: quella legata all'evoluzione demografica del
pianeta e quella legata al confronto - per alcuni, allo
scontro - tra le culture.
6. Grandi sfide, grandi
opportunità: evoluzione demografica e globalizzazione
In effetti, si parla molto di globalizzazione economica.
Assai meno si parla di quella che potremmo chiamare
"globalizzazione demografica". Vale a dire la
progressiva estensione al resto del mondo dei ritmi di
natalità già propri dell'Occidente.
Secondo gli specialisti, due giorni fa, il 19 gennaio, la
popolazione mondiale ha varcato la soglia dei sei
miliardi e duecento milioni dì abitanti. Dalla caduta
del muro di Berlino a oggi la popolazione del pianeta è
cresciuta di oltre un miliardo di individui - quanto Nord
America, Europa e Russia messi insieme.
Sappiamo che l'incremento demografico sta rallentando
quasi ovunque.
Ma sappiamo anche che il pianeta è comunque destinato ad
accogliere, nel 2050, un numero compreso tra gli 8 e i 10
miliardi di abitanti, tra i 2 e i 4 miliardi di persone
in più di oggi.
Gran parte di esse sarà concentrata in quelle aree in
cui il rapporto tra popolazione e risorse è ancora
piuttosto degradato.
Tra le tante implicazioni di questa evoluzione
demografica, ve ne sono due che richiederanno al Nord del
mondo una particolarissima attenzione.
La prima riguarda le pressioni migratorie verso i Paesi
più ricchi. La seconda, forse ancor più importante per
le prospettive di lungo termine dello sviluppo economico
del pianeta, riguarda lo squilibrio geografico tra
giovani e anziani.
a. Immigrazione? Nessun catastrofismo
Quanto alle pressioni migratorie credo si possa dire
questo.
Il potenziale migratorio è senza dubbio destinato a
crescere almeno - stando a quanto ci dicono gli esperti -
sino al terzo decennio del secolo.
E, tuttavia, un conto è il potenziale, un conto è il
flusso effettivo.
Benché in molti credano diversamente, in realtà negli
ultimi decenni non c'è stata una consistente crescita
delle migrazioni. Né le migrazioni hanno coperto tutte
le aree del mondo.
In effetti, se c'è una globalizzazione che non è
avvenuta, questa è la "globalizzazione delle
migrazioni".
Come ha messo in rilievo uno studioso italiano, gli
immigrati in quel che corrisponde all'attuale Unione
Europea erano il 4% della popolazione totale settanta
anni fa, sono il 5% oggi. Una variazione minima.
Eppure, quel che dicono statistiche e studiosi non è
quel che dice l'opinione comune.
La ragione credo sia molto semplice Sta nel fatto che si
sono venute rafforzando, in simultanea, due tendenze
contrastanti.
Da un lato, vi è una maggiore convenienza
all'emigrazione, frutto della drastica caduta dei costi
di trasporto e dell'immagine delle società benestanti
diffusa dai media nei Paesi in via di sviluppo. Il che
genera legittime aspirazioni di maggior benessere.
Dall'altro lato, nei Paesi di destinazione, ci sono
crescenti resistenze all'immigrazione. Resistenze da
mettere in relazione con l'ampiezza e la generosità dei
servizi erogati dallo Stato sociale. I cittadini, specie
quelli europei, ben consapevoli del carico fiscale loro
richiesto per finanziare le politiche sociali, sono
comprensibilmente restii ad ampliare la platea dei
beneficiari.
Dalla contrapposizione di queste due tendenze - maggiore
convenienza della scelta di emigrare e diffusione di un
vasto consenso per politiche migratorie restrittive -
emerge il rischio di ulteriori fratture e incomprensioni
tra il Nord e il Sud del pianeta.
La questione migratoria è destinata a rimanere a lungo
iscritta nell'agenda dei problemi globali.
Ci chiediamo, dunque, come affrontarla.
Certo non con soluzioni semplicistiche, come l'apertura
indiscriminata delle frontiere o la loro chiusura
ermetica.
La naturale predisposizione alla mobilità delle persone
alla ricerca di lavoro e di benessere va gestita, non
impedita.
La mia convinzione è che investire nell'accoglienza e
nell'integrazione degli immigrati - tanto più per
l'Italia, uno dei Paesi a più bassa natalità e a più
alto invecchiamento - sia il più importante banco di
prova di una responsabile solidarietà.
La solidarietà è doverosa. È doverosa non solo per
cercare di contrastare il declino demografico e per
assicurare una migliore qualità dell'immigrazione
regolare, che è il più efficace antidoto alla quantità
dei flussi irregolari. È doverosa anche per permettere a
questo patrimonio di uomini e donne di contribuire allo
sviluppo delle nostre economie, di innalzare il loro
tenore di vita e, se lo ritengono, di tornare nei loro
Paesi d'origine e di portarvi una cultura sociale ed
economica più moderna. Come tanti nostri emigranti hanno
fatto con l'Italia.
b. La risorsa "giovani"? Sempre più nel Sud
del mondo
Vi è, però, anche un secondo aspetto da considerare.
Per quanto l'immigrazione potrà frenare l'invecchiamento
dei Paesi più sviluppati, e in particolare dell'Europa,
non è in questi Paesi che sta e starà la grandissima
maggioranza dei giovani.
I ragazzi che oggi hanno tra i 14 e i 26 anni sono circa
un miliardo e mezzo. Mai nella storia tante persone si
sono trovate contemporaneamente negli anni più fecondi
della vita. In questo miliardo e mezzo di giovani ci sono
enormi potenzialità di intelligenza e di creatività.
Ma, per buona parte, essi vivono nel Terzo o Quarto
Mondo. Per questo, le loro potenzialità rischiano di
andare sprecate, di non trasformarsi in maggiore
benessere e migliore qualità della vita per loro e per i
loro Paesi.
È una questione che ci tocca tutti, per ragioni che
vanno anche al di là delle mere considerazioni
economiche, sollevando grandi problemi di natura
politica; sociale ed etica.
È una questione che, per la sua dimensione, richiede un
grande sforzo internazionale di cooperazione e di
finanziamento di specifici progetti di sviluppo.
Progetti che puntino alla realizzazione delle
infrastrutture indispensabili per permettere alle
popolazioni del Sud del mondo l'accesso alla risorse di
base, cibo e acqua innanzitutto.
Progetti che garantiscano ai giovani adeguate
opportunità di formazione, il modo migliore per
contrastare il lavoro minorile.
Progetti che facilitino il credito per aiutare la nascita
e lo sviluppo di iniziative imprenditoriali.
A tutto ciò le istituzioni internazionali e i governi
dei Paesi più sviluppati dovranno dedicare maggiori
risorse di quanto non sia stato fatto finora. Risorse da
allocare, con grande trasparenza, laddove più forti sono
le garanzie di rispetto della legge e dei diritti umani.
Risorse il cui impiego deve poter essere sempre
controllato da quanti - in ultima istanza, i cittadini
dei Paesi più sviluppati - le mettono a disposizione.
7. Grandi sfide, grandi
opportunità: il dialogo fra le civiltà mondiali
Guardando al futuro, emerge anche un'altra grande sfida:
il dialogo fra le diverse civiltà mondiali.
Quel che le vicende terroristiche degli ultimi mesi hanno
reso ancor più evidente è che la globalizzazione
economica non è quel grande frullatore che omogeneizza
le culture e ne annulla le specificità.
Al contrario, esse si mantengono ben vive e capaci di
esercitare un forte senso di identità sul piano sociale
e politico.
C'è addirittura chi sostiene che stiamo assistendo ad
una rivincita delle culture tradizionali rispetto ad un
processo di occidentalizzazione e, di conseguenza, a una
crisi dell'egemonia occidentale sul piano etico,
culturale e politico.
Dopo il crollo delle ideologie, saremmo, insomma, al
"conflitto tra le civiltà".
E tuttavia, nessuna civiltà è un monolite. Nessuna
cultura è priva di un suo pluralismo interno.
Ognuna ha le sue correnti conservatrici che rifiutano
l'apertura alla modernità e si pongono in antagonismo
con le altre culture (giungendo, in certi casi, a
legittimare sul piano religioso forme di terrorismo
internazionale).
Ognuna ha le sue correnti più orientate al rinnovamento,
al confronto con gli altri, alla ricerca di convergenze
sul piano culturale e politico.
Ognuna, poi, vede rappresentare queste posizioni da una
molteplicità di attori: stati, organismi della società
civile, intellettuali.
Proprio perché esiste questo pluralismo interno, lo
scontro tra culture non è l'unica prospettiva.
Capiterà sempre che momenti e rapporti più conflittuali
si intreccino con momenti e rapporti più costruttivi.
Quel che c'è da fare è non perdere mai di vista la
necessità di sviluppare un dialogo costante, critico,
impegnato, positivo. Un dialogo che sappia promuovere la
convergenza su valori etici e politici condivisi da
tutti, funzionali a gestire i rapporti (e le
conflittualità) in quest'epoca di crescente
interdipendenza.
8. Quale ruolo per
l'Europa
In tal senso, l'Europa può svolgere un ruolo di primo
piano, un ruolo di cerniera tra le culture mondiali.
È un ruolo legittimato dal suo stesso patrimonio di
cultura e di sensibilità ai valori della tolleranza,
della giustizia, dell'equità.
Il nostro continente, ha scritto in un articolo di
qualche mese fa Piero Citati, ha sempre avuto un grande
dono: quello di "capire", di "comprendere
gli altri".
Negli ultimi cinquant'anni ha anche dimostrato di saper
costruire l'unità di popoli che per secoli si sono
combattuti.
L'Europa ha in sé le virtù per essere un elemento di
equilibrio nel mondo. A cominciare da ciò che può fare
per agevolare l'ingresso della Russia e dei Paesi
dell'Est nello spazio economico occidentale.
Ma per essere veramente fattore di equilibrio deve essere
più solida, più autorevole, più unita.
Deve proseguire nel cammino di integrazione, affermarsi
come soggetto unico, capace di parlare con una sola voce,
e con voce non flebile.
Esiste una forte dialettica sul modo di raggiungere
questo obiettivo, sulle molteplici opzioni degli assetti
politici futuri che verranno discussi nella Convenzione.
È già un fatto di straordinario rilievo, tuttavia, che
l'Europa si sia data, con un'unica moneta, anche un'unica
lingua per la sua economia.
Siamo arrivati a questo traguardo attraverso Maastricht.
Maastricht ci ha posto dei vincoli. Dobbiamo considerarli
come i tutori di una pianta giovane.
9. Quale ruolo per
l'Italia
E l'Italia? Questa Italia in cui troppo spesso il chiasso
delle dispute sembra lasciare in secondo piano
l'interesse comune e l'immagine del Paese?
L'Italia deve recuperare il dialogo costruttivo tra tutte
le sue componenti; e deve anche rimanere ben consapevole
che non può fare a meno dell'Europa.
Assumendo l'incarico di ministro degli Esteri, il
Presidente del Consiglio si è preso un impegno personale
forte in questa direzione.
L'impegno a mantenere il forte legame dell'Italia con
l'Europa è un fatto molto positivo, considerate le
importanti scadenze istituzionali che premono.
Già sul piano delle scelte per lo sviluppo economico del
Paese, il governo ha dimostrato in questi mesi di saper
mettere a frutto l'opportunità nuova, mai sperimentata
nel dopoguerra, di un ampio mandato elettorale a
governare stabilmente per l'intera legislatura.
Questa opportunità dovrà essere utilizzata al meglio
dal Presidente del Consiglio anche in riferimento alle
scelte europee.
Di certo, nel momento in cui in Europa si confrontano due
posizioni - l'una orientata ad una sempre maggiore
unificazione politica della Comunità, l'altra ad una
maggiore salvaguardia dell'autonomia dei singoli Stati -
il ruolo dell'Italia può diventare quello dell'ago della
bilancia.
Ne discende una responsabilità strategica.
Dalle scelte che il Paese farà dipenderà il futuro
continentale.
E ciò rende, se possibile, ancor più importante il
confronto e il dialogo fra tutte le persone di buona
volontà.
In pari tempo, l'Europa non può fare a meno del nostro
Paese, che è la sua principale finestra sul
Mediterraneo.
Un'attenta politica mediterranea è stata una costante
dì tutti i nostri governi, anche di quello attuale.
Certo, il concetto di "Mare nostrum" è ormai
confinato negli archivi della storia antica e meno
antica.
Ma il Mediterraneo resta un luogo cardine nell'incontro
tra civiltà.
L'Italia vi può svolgere un ruolo vitale, dimostrando di
saper affrontare con intelligenza e lungimiranza anche i
problemi della trasformazione sociale e demografica delle
sponde sud orientali e delle pressioni migratorie che
essa genera.
La nostra collocazione geografica resta quella di un
Paese di frontiera: non più tra Est e Ovest, ma tra Nord
e Sud.
Dobbiamo governarla, facendoci protagonisti di un impegno
alla graduale integrazione nella cultura e nella società
europea di Nord Africa, Medio Oriente, Balcani.
È in questa ampia prospettiva politica che siamo
chiamati per primi ad esercitare concretamente e
responsabilmente i principi della solidarietà.
10. Conclusione
Mai, nel corso della storia, si è data l'opportunità
così grande di crescere insieme sul terreno della
pacifica cooperazione.
Ne esistono tutte le condizioni.
La forte convergenza tra i soggetti politici
internazionali, grandi e piccoli, potenti o meno che
siano.
La continua diffusione dell'economia di mercato.
La mobilita delle persone e delle idee.
La facilità d'accesso alle tecnologie più avanzate,
soprattutto a quelle informatiche.
La consapevolezza della superiorità del metodo
democratico su altri metodi di governo.
Per secoli, gli uomini hanno pensato che un destino
diverso da quello altrui attendesse ogni comunità
nazionale.
E perché questo destino si avverasse non hanno esitato
ad utilizzare gli strumenti, anche i più cruenti, della
conquista e del predominio.
Oggi, la compagine mondiale ha fatto sua la convinzione
che si può percorrere un cammino comune, nel reciproco
rispetto e nella reciproca valorizzazione.
Ha fatto sua la convinzione che esiste un destino comune
nel conquistare insieme l'affrancamento da ogni genere di
povertà e privazione materiale e immateriale.
Questa è la grande opportunità della globalizzazione.
Questo è il traguardo per cui val bene spendere tutte le
nostre energie morali e intellettuali.
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