DA - L'UNITA' «Non
è vero che se non vince Bush, vince Saddam»
ROMA «Sono iscritto al sindacato pensionati della
Cgil, membro del comitato direttivo Ds, socio di tante
associazioni scientifiche e lavoro per
"Aprile". Non mi sono mai posto il problema
della doppia, tripla o quadrupla lealtà. Credo che
nessuno mi abbia rimproverato finora di tenere i piedi in
tante staffe...». Giovanni Berlinguer risponde alle
polemiche di questi giorni. Lassemblea
dellErgife, ripete, non ha partorito un nuovo
partito. «Noi non andremo via dai Ds - afferma - Non
vogliamo promuovere liste Cofferati in vista delle
elezioni europee». La Quercia dovrà agire su molti
piani. «Far politica, oggi, non significa solo
appartenere a un partito e seguirne le direttive
applicandone le decisioni. Se ci limitassimo a questo
diventeremmo una setta isolata e autoreferenziale.
Dobbiamo interloquire, invece, con quello che avviene
fuori, nella società. Tutto questo non va visto in
contrasto con lealtà organizzative o con discipline
imposte. Guai se questo avvenisse». Il «contrasto»,
nei fatti, cè. Sulla guerra, ad esempio. Come si
risolve, alla fine, il problema delle posizioni diverse
emerse in queste ore tra maggioranza e minoranza Ds?
AllErgife Cofferati ha detto cose precise, Fassino
ha sostenuto altre posizioni. Berlinguer inizia il suo
ragionamento parlando della «guerra ingiusta decisa
fuori e contro lOnu». Il conflitto, spiega, «sta
diventando sanguinoso e lungo, per questo va fermato al
più presto». Anche lItalia, quindi, deve chiedere
che «la guerra venga sospesa» e «tutto il
centrosinistra deve fare un passo unitario in
Parlamento» per raggiungere questo obiettivo.
Onorevole Berlinguer, qual è la
differenza tra le sue posizioni e quelle «ciniche» -
per dirla con Cofferati - di chi auspica una guerra
breve?
Io non vorrei tornare sulle polemiche dei giorni scorsi.
Sul fatto, cioè, che sia io che Cofferati non saremmo
né con Bush, né con Saddam. Questo è assolutamente
falso. Saddam è un tiranno sanguinario, dal quale
auspichiamo che gli iracheni si liberino. Consideriamo
Bush il presidente di un grande Paese che ha guidato gli
Usa ad aggredire un altro Paese, senza giustificati
motivi...
Ma è vero o no che lei non auspica una
vittoria rapida degli angloamericani?
Io auspico la sospensione di questa guerra che sta
producendo morti e catastrofi. E non è vero che se non
vince Bush vince Saddam. Gran parte delle guerre che si
sono combattute negli ultimi cinquanta anni non si sono
concluse con la vittoria delluno o dellaltro.
Quella tra Iran e Iraq, ad esempio, ha portato prima
allarmistizio e poi alla pace.
Dove sta la differenza tra quello che
auspica lei e quello che auspica Fassino?
Io condivido le iniziative assunte dal segretario dei Ds.
La mozione che è stata votata unitariamente
dallUlivo e da Rifondazione ha rappresentato un
fatto positivo. Mi auguro, adesso, che si arrivi ad un
secondo documento unitario che chieda al governo italiano
di adoperarsi presso lOnu perché si giunga a una
sospensione delle ostilità. Lunico punto
controverso è se la mozione del centrosinistra debba
richiedere la cacciata di Saddam. Io mi auguro che il
dittatore iracheno se ne vada, ma lo statuto
dellOnu non prevede che questo possa essere
leffetto di una intromissione illecita negli affari
di un altro Paese. Questo elemento costituirebbe un
ostacolo per la definizione di una mozione unitaria. La
democrazia non si esporta con i carri armati e con i
bombardamenti.
Il problema Saddam divide nettamente il
centrosinistra. La mozione unitaria sembra lontana, non
crede?
Io mi auguro che si giunga ad un accordo. LOnu deve
tornare ad avere un ruolo facendo sospendere questa
guerra. Le Nazioni unite, poi, dovranno impedire che un
eventuale vittoria degli anglo-americani si traduca
nellimposizione di un governo militare, di
unoccupazione stabile, di una forma di oppressione
che si sostituisca a quella che il popolo iracheno ha
subito sotto la tirannia di Saddam.
Anche Blair è daccordo...
Si, ma non bisogna essere ingenui. Bush, infatti, ha già
risposto che non se ne parla. Ha spiegato che gli Usa
vogliono decidere sulle risorse dellIraq e
sullamministrazione del suo territorio. Dietro i
propositi di liberazione ci sono evidenti intenti di
sfruttamento di quella zona. Nella coscienza del mondo e,
in particolare, delle giovani generazioni, tutto questo
è sempre più chiaro. Si teme che il pianeta venga
precipitato in una guerra continua compiuta sotto il
dominio di un solo paese. Le nuove generazioni - che
hanno seguito modelli neoliberisti di vita e di consumo
non più sostenibili - oggi si interrogano, prendono
coscienza. Questo rappresenta una grande speranza per
tutti e, in particolare, per la politica. La politica e i
partiti sono troppo rinchiusi nei propri recinti, nelle
proprie formule, nelle proprie regole.
Caldarola vi accusa di voler
ridisegnare i rapporti di forza dentro lUlivo:
Aprile, diretta da Cofferati, che diventa cerniera tra
verdi, Pdci e correntone per controbilanciare "i
riformisti"...
Per sei mesi molti giornali e molti esponenti riformisti
doc hanno detto che Cofferati deve scegliere, partecipare
alla vita politica, non chiamarsi fuori. Bene, adesso
Sergio ha deciso e trovo paradossale certa irrequietezza
e certa preoccupazione. Lo temono e trovo insensato tutto
questo timore. Dovrebbero rallegrarsi e, infatti, Vannino
Chiti ha ripetuto che Cofferati è una risorsa per la
sinistra...
Ha anche detto: attenzione alle
confederazioni mascherate...
Ha parlato di unità pluralista, del riconoscimento di
doveri comuni, della necessità di una convivenza
positiva tra orientamenti diversi dentro il partito. Mi
auguro che questa linea venga seguita da tutti. Il resto
è ciarpame. Regolarmente, ogni due o tre mesi, viene
fuori lidea che noi vogliamo una scissione.
Posizioni smentite dai fatti. Il direttore del Riformista
ci spinge ad andar via. Dice, "è meglio separarsi
piuttosto che mantenere questa confusione". Desidero
ripetere per lennesima volta che non desideriamo
separarci, che lunico modo per separarci è quello
di cacciarci via. Non abbiamo alcuna intenzione di fare
un cartello a tre, una piccola trinità con verdi e
comunisti italiani. Non vogliamo scompaginare. Vogliamo
accrescere la compagine, semmai. Aumentare
linfluenza dei Ds e, nel contempo, sollecitare
lUlivo ad aprirsi. LUlivo deve essere più
dei sette segretari che si riuniscono. Fassino insiste su
questo, trovando purtroppo molti ostacoli.
Molti commentatori sostengono che sarà
Cofferati il vero leader di Aprile. Non si sente un
po sotto tutela?
Cofferati mi ha detto che accettava la copresidenza
perché io sono un professore e avrei avuto bisogno di un
assistente. Sa come gli ho risposto? Che sarei stato io
il suo assistente. Questa presidenza a due sarà il primo
nucleo di un gruppo dirigente. Abbiamo preferito agire
per gradi. Mi sembra che questa formula rappresenti bene
il carattere composito dellAssociazione e, al tempo
stesso, la sua volontà di unità.
Non si parla più di gestione unitaria
dei Ds. Unipotesi tramontata?
Il termine gestione ricorda un cda che pensa a ripartire
gli utili. Preferirei parlare di guida unitaria. Questa
non è dietro langolo, anche perché dobbiamo
difenderci continuamente dallaccusa di voler
dividere. Dobbiamo procedere per gradi, a partire dalla
Conferenza programmatica. Se riuscissimo ad avere un
consenso sui punti fondamentali del documento Trentin,
faremmo un notevole passo avanti. Noto però che una
parte del partito - larea Morando e numerosi
sostenitori della mozione Fassino - ha approvato un
contro documento. Se si mettono travi tra le ruote della
maggiore unità dei Ds, diventa più difficile poi
corrispondere alla richiesta di unità che viene dal
nostro popolo.
DA - IL MANIFESTO
INTERVISTA
«Il governo
sfugge al parlamento»
Brutti: «Sulla guerra, la maggioranza ha scelto un
indirizzo di massima reticenza»
A. CO.
ROMA
Massimo Brutti, senatore
diessino, fa parte del comitato parlamentare di controllo
sui servizi. Ieri in quella sede, l'opposizione aveva
chiesto la convocazione del ministro degli Esteri
Frattini, per conoscere i dettagli della vicenda che ha
portato all'espulsione di quattro diplomaici iracheni.
Perché la richiesta di convocare il
ministro Frattini è stata bocciata?
I parlamentari della maggioranza hanno ritenuto
inopportuno convocare il ministro così presto e al di
fuori della programmazione prevista.
Tornerete a chiedere l'audizione di
Frattini?
L'audzione speciale, che si sarebbe dovuta tenere entro
pochi giorni, non ci sarà. Quindi dovremo rispettare il
calendario fissato. Quando verrà il sottosegretario con
delega ai servizi Letta, cosa che sinora ha fatto una
volta sola, riproporremo la questione.
Cosa volevate chiedere a Frattini?
Volevamo sapere se sugli espulsi c'erano state
valutazioni autonome dell'intelligence italiana oppure se
c'è stata solo una richiesta imperiosa da parte
dell'amministrazione americana. Il comitato di controllo
poteva essere la sede adatta per chiarire la vicenda.
Dirimere i dubbi, dimostrare che le espulsioni sono state
motivate da ragioni di sicurezza, o anche solo da fondati
sospetti, dovrebbe essere nell'interesse del governo
stesso.
Come spieghi questa reticenza?
Direi che c'è un indirizzo politico preciso. Di fronte a
una guerra drammatica e che colpisce fortemente
l'opinione pubblica, la linea del governo è conforme a
un vecchio detto siciliano: «Piegati giunco che passa la
piena». Non enfatizzare, discutere il meno possibile,
evitare dibattiti parlamentari, confidando che a Bassora
e Bagdad le cose si risolvano presto.
Cosa potrebbe fare il governo, una
volta appurato che non intende contrastare l'iniziativa
anglo-americana?
Tra la linea dell'opposizione, che chiede al governo di
adoperarsi perché cessi subito la guerra e per una nuova
iniziativa dell'Onu, e quella che il governo sta
adottando, di adesione politica e attesa, ci sono delle
vie di mezzo. Ci sarebbe bisogno di un autonomo impegno
dell'Italia sui problemi che si stanno aprendo. A Bassora
cresce il numero di civili tragicamente coinvolti nel
conflitto. C'è il rischio di una catastrofe umanitaria,
denunciato dal segretario dell'Onu Annan. Il governo
dovrebbe affrontare nelle sedi internazionali questi
problemi. Invece non fa nulla.
Si è più parlato della questione
delle basi in parlamento?
Anche in questo caso il governo tende alla massima
reticenza. Domani (oggi per chi legge n.d.r.)
risponderà alle interrogazioni sulle basi il ministro
dei Rapporti con il parlamento Giovanardi, che
presumibilmente non ne sa nulla, che leggerà carte
preparate da altri e non potrà rispondee a domande
specifiche. Vorremmo ad esempio sapere se dai porti di
Gaeta e della Maddalena partano navi per azioni di
guerra. Ci chiediamo come fa il governo a essere certo
che le truppe che partono dalle basi italiane non siano
direttamente coinvolte nella guerra. Verificarlo non è
affatto facile. Quindi si pone un problema di garanzie e
di controllo da parte del parlamento. Quella del non
coinvolgimento diretto è una regola che si è dato il
govereno stesso, autonomamente, sulla base della riunione
del Consiglio supremo di difesa.
Cosa sai delle denunce secondo cui
truppe scelte Usa dirette in Iraq partirebbero o
sarebbero partite dalla caserma Ederle, a Vicenza...
Non ho elementi di conoscenza diretta. Rilevo solo
l'assoluto silenzio in materia del governo. E questo mi
fa pensare che ci sia davvero qualcosa che non va.
Tu hai criticato molto duramente la
posizione assunta dal ministro della Difesa Martino
sull'ingresso di truppe turche in Iraq. Perché?
Ci sono notizie su una penetrazione turca nell'Iraq del
nord. Questo, come è ovvio, rischia di creare una guerra
nella guerra. Dal governo belga e da ambienti governativi
tedesco sono venuti commenti molto duri. Martino ha
invece mostrato di condividere e assecondare le decisioni
della Turchia. Ci sono truppe della Nato, e ritengo anche
italiane, in Turchia, con compiti di difesa. Ma la
situazione cambia parecchio se invece è la Turchia a
entrare in Iraq.
Secondo il governo turco, la
penetrazione in Iraq è dovuta alla necessità di
controllare l'ondata di profughi...
Il discorso non cambia. E' un compito che va aldilà
degli impegni Nato. Se poi si trattasse di bloccare i
profughi, andrebbe anche aldilà dei più elementari
princìpi di umanità.
Ancora il ministro Martino ha negato
che gli alpini in Afghanistan abbiano sostituito
contingenti destinati a combattere in Iraq...
Martino ha detto che gli americani in Afghanistan
erano e sono ancora 8mila. Però non ha detto niente sui
contingenti inglesi. Le voci in circolazione hanno sempre
parlato della sostituzione di militari inglesi. Non so se
sia vero. Sarei lieto se il governo smentisse, ma per ora
non lo ha fatto.
Tutti gli elementi di cui abbiamo
discusso, autorizzano a mettere in dubbio l'estraneità
dell'Italia alla guerra?
La situazione è molto chiara. Dal punto di vista
politico non c'è alcuna estraneità. Il governo italiano
ritiene la guerra legittima e giusta. Dal punto di vista
militare non mandiamo soldati, perché non siamo in grado
di farlo.
Sì, ma gli episodi in questione non
mettono in forse anche l'estraneità dal punto di vita
militare?
Non voglio aprire processi sulla base di sospetti. Chiedo
però che il parlamento venga puntualmente e
tempestivamente informato. Al contrario, le nostre
richieste non ottengono alcuna risposta.
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DA - IL MESSAGGERO
Intervista
allo scrittore, e inviato, Eric Laurent
«Le armi
biologiche del raìs?
Provengono da laboratori americani»
di RICCARDO DE PALO
ROMA - «Perché gli americani sono così sicuri che
Saddam possiede armi di distruzione di massa?
Probabilmente, proprio perché gliele hanno fornite
loro». A parlare è Eric Laurent, inviato speciale e
autore del libro "La guerra dei Bush, i segreti
incoffessabili di un conflitto" (Fandango libri,
16,50 euro) che mette in luce tutte le ragioni meno note
e più "scomode" dellintervento in Iraq.
Nel libro lei
ricorda che Saddam è stato per anni fedele alleato degli
Usa. Poi, cosa è successo?
«Probabilmente a un certo punto Saddam è andato troppo
lontano. E questo è dovuto alla cecità
dellAmministrazione americana. Inizialmente gli Usa
avevano dei buoni motivi per sostenere lIraq.
Cera la paura dellespansionismo islamico
iraniano e lAmerica aveva bisogno dellIraq
come scudo. Ma nessuno ha capito i rischi che questo
sostegno poteva comportare».
Chi ha sbagliato, a
Washington?
«Latteggiamento americano è stato di un
cinismo pazzesco. Nel 1983, quando cera ancora
Ronald Reagan, è stato spedito in Iraq, su consiglio di
Bush padre, un inviato per riaffermare il sostegno a
Saddam Hussein. Lo sa chi era questinviato? Donald
Rumsfeld, lattuale ministro della Difesa. Per anni
gli Usa hanno concesso prestiti totalmente illegali al
regime di Saddam (le cui insolvenze sono state pagate dai
contribuenti americani), sono state fornite delle armi e
tutto il necessario per gassare i curdi. E quindi Saddam
aveva un senso di totale impunità. Alla fine degli anni
Ottanta, quando lIraq era in una situazione
finanziaria disastrosa - non cerano più riserve -
Saddam si accorse di avere accanto un Paese molto ricco
come il Kuwait. Così, ha pensato di andare a servirsi di
persona».
Saddam è stato
rifornito anche di armi di distruzione di massa dagli
Usa?
«Su questo cè stata uninchiesta del
Congresso americano. Il rapporto degli ispettori
dellOnu del 1992 dimostrava che i ceppi delle armi
biologiche irachene provenivano da laboratori americani.
È difficile pensare che la Casa Bianca fosse
alloscuro di tutto. Ora, queste armi potrebbero
essere usate contro gli americani per difendere Bagdad».
Quali sono le
ragioni di questa guerra?
«Non penso a una vendetta personale di Bush. E neppure
al petrolio. Non ci sono problemi di approvigionamento di
greggio, per gli americani. Credo che dietro la guerra ci
sia piuttosto un progetto politico. Gli uomini di Bush
vogliono inoculare in Iraq il virus del modello americano
di democrazia e modificare così i rapporti di forza nel
mondo. Sono fermamente convinti che da questa situazione
in Iraq possa scaturire una sorta di effetto domino di
contagio, e che i Paesi circostanti verranno sedotti dal
modello americano».
E ora?
«Lapproccio Usa è arrogante e pericoloso.
Possiamo aspettarci solo nuove tragedie. Non
dimentichiamoci come è nata questa guerra: in modo
unilaterale. Il concetto di guerra preventiva creerà il
caos nelle relazioni internazionali, perché chiunque
può sentirsi minacciato dal vicino e quindi legittimarsi
ad agire in modo preventivo. È un modo di mandare
allaria tutte le norme internazionali che erano
state stabilite dopo la seconda guerra mondiale».
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DA - L'UNITA'
"Per la
ricostruzione gli Usa hanno bisogno della Ue"
PARMA - Non se ne può fare a meno: si parla tanto della
guerra, ma i rischi del dopoguerra sono ancora peggiori.
È l'analisi di Filippo
Andreatta, docente di relazioni
internazionali all'Università di Parma. Soldi e affari,
prima di tutto.
Gli Stati Uniti stanno «liberando»
l'Iraq con un retropensiero economico? Petrolio,
ricostruzione...
«Le guerre scoppiano per una serie di complicazioni.
Bisogna resistere alla tentazione di banalizzare le
risposte. Cerano guerre prima del petrolio e
dell'economia capitalista. Anche qualche anno fa nella
disgregazione dell'ex Jugoslavia non dominavano i motivi
economici. L'Iraq potrebbe produrre 3 milioni di barili
di petrolio al giorno. Adesso ne pompa 400, concessioni
di cibo contro greggio. Tre milioni di barili vogliono
dire un miliardo di barili l'anno. Al prezzo di
stamattina (ieri mattina, ndr), 25 dollari, fanno 25
miliardi. Bush ha chiesto ieri al Congresso un anticipo
di 75 miliardi solo per il primo mese di guerra e aiuti
umanitari. Tre volte tanto. Non sembra che il gioco
iracheno valga la candela economica. Le vere cause
restano di natura psicologica: timore della
vulnerabilità dopo l'11 settembre e intolleranza verso
ogni minaccia potenziale, anche se il vero pericolo può
venire da Al Qaeda. È comprensibile che la paura
raccolga simpatie per una guerra che si propone di
allontanare il terrorismo. Attenzione, però. La paura è
pericolosa perché non induce a calcoli razionali».
La mediazione politica perde il suo
ruolo?
«Non va in soffitta per varie ragioni. Prima di
tutto i costi della guerra in un momento in cui gli Usa
sono già in difficoltà economica. Prima o poi
Washington cercherà accordi o compromessi con altri
paesi, soprattutto Ue, per dividere il peso della
ricostruzione. Tutti dovranno contribuire. La guerra di
Bush padre nel '91 è costata 70 miliardi di dollari. Gli
Stati Uniti ne hanno pagati 7. Mentre Arabia Saudita,
Paesi Arabi, Unione Europea e Giappone hanno coperto gli
altri 63. L'altro argomento complicato è la
legittimazione dell'Onu ancora più importante nel
dopoguerra. C'è differenza tra esercito di occupazione
ed esercito di liberazione. L'occupazione unilaterale
potrebbe aggravare i problemi economici. I Paesi Arabi
siedono alle Nazioni Unite e attraverso l'Onu
parteciperebbero alla ricostruzione decidendo assieme
agli Usa, e a tutti gli altri. L'unilateralità del dopo,
rischia di suscitare gravi problemi. I costi, prima di
tutto, e c'è un'altra ragione: la presenza in Iraq. Se
gli Stati Uniti faranno sapere che l'attacco al di fuori
dell'Onu, è stata un'eccezione e d'essere pronti a
tornare alle regole, la situazione internazionale può
tornare tranquilla. Ma la piega diventa preoccupante se
questo è il primo di una serie di interventi, modello
nuovo e unilaterale».
Cosa intende per modello nuovo?
«Decidere da soli nelle operazioni di alta
intensità, non come in America Latina che è sempre
bassa intensità. Nella seconda guerra mondiale, o in
Corea, in Bosnia, nel Kuwait, gli americani hanno chiesto
un appoggio multilaterale. Non in questa marcia irachena.
Senza l'Onu, sebbene non contro l'Onu: resta un'anomalia
nella politica estera di Washington»
Anomalia o svolta?
«Se tornano all'ovile, anomalia. Se continuano da
soli in Corea del Nord oppure in Iran, ci troviamo di
fronte ad una situazione nuova nel rapporto tra forza e
diritto. Da una parte gli Stati Uniti con la forza senza
il diritto; dall'altra le Nazioni Unite col diritto ma
senza forza. Vorrebbe dire un ordine internazionale
debolissimo: danneggerebbe tutti. Divisioni non solo fra
stato e stato ma anche all'interno dei singoli paesi,
guelfi contro ghibellini. Torniamo al medioevo. Non
succedeva da secoli che un governo diverso scegliesse una
posizione tanto diversa».
L'Italia come si è comportata?
«Barcamenandosi a lungo tra Stati Uniti e Onu. E
quando il momento è diventato decisivo non è stata in
grado di uscire dall'incertezza».
A dire la verità Berlusconi ha
ripetuto: saremo sempre con gli Stati Uniti...
«Nel 1991, Andreotti, non sospettabile di filo
americanismo, ha mandato dieci navi e una squadra di
tornado a sostenere la tesi di un intervento giusto e
legittimo. Oggi il supporto dell'Italia è fantasma. Il
governo dà l'impressione di nascondersi».
* * *
Filippo Andreatta è docente di Relazioni Internazionali
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"È
antiamericano il Patto Atlantico?"
ROMA - «Se un consiglio posso dare agli americani è di
guardare lontano. Sia indietro che avanti». Giulio Andreotti si
colloca - come ha tenuto a sottolineare nellultimo
dibattito sulla crisi irachena al Senato - tra quanti
hanno «passato una vita nella costruzione di una
politica di attiva solidarietà con gli Stati Uniti». In
effetti, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio
con Alcide De Gasperi, capo del governo egli stesso per 7
volte, e ministro della Difesa o degli Esteri negli
intervalli, il senatore a vita ha tutti i titoli per
«respingere con forza lidea rude di un censimento
tra amici e non amici degli americani». Andreotti oppone
la «linea di fondo» della politica estera italia: «Mi
auguro - dice, con la consapevolezza della gravità della
divaricazione in Parlamento - che non sia troncata».
È più di un rischio, ormai. Come si
sarebbe potuto, e si dovrebbe, evitare?
«Lancoraggio era e resta al valore
programmatico dellarticolo 11 della nostra
Costituzione. Ma anche dellarticolo 1 del Trattato
Atlantico. Che suona così: "Le parti si impegnano,
come stabilito nello Statuto delle Nazioni Unite, a
comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia
internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in
modo che la pace, la sicurezza internazionale e la
giustizia non vengano messe in pericolo, e ad astenersi,
nei loro rapporti internazionali, dal ricorrere alla
minaccia o alluso della forza, assolutamente
incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite".
Chiaro?».
Chiarissimo. Ma il premier Berlusconi
ha richiamato in Parlamento il vincolo politico che da
quel patto discende. Lei, che ha firmato una risoluzione
e votato contro, lo nega?
«Al contrario. Ho ricordato a palazzo Madama che
già nel 1949, al momento della ratifica del Trattato
della Nato, il Senato americano tenne a dichiarare:
"Nel caso in cui si verificasse un attacco armato
contro uno dei Paesi partecipanti, noi potremo decidere
legalmente, moralmente e costituzionalmente quale debba
essere il nostro comportamento". E il nostro
ministro degli Esteri, Carlo Sforza, nel presentare il
Trattato al voto delle Camere, ribadì lesclusione
dellautomatismo e la necessità di rispettare
sempre le prerogative dei Parlamenti. È su queste basi
che ho ritenuto giusto che il nostro Parlamento si
pronunciasse per lesclusione di qualunque
partecipazione o collaborazione dellItalia alla
guerra contro lIraq».
Andreotti è stato descritto, volta a
volta, come più filo arabo che filo americano, più
portavoce del Vaticano che dellAlleanza atlantica,
non proprio antiamericano ma neppure anticomunista. Provi
a definirsi lei?
«Un democratico che non è così superbo da ritenere
di avere sempre ragione, ma nemmeno così umile da
pensare il contrario».
Nel suo libro «Visti da vicino»
dell89 aveva descritto gli Usa come una «realtà
estremamente varia e dagli aspetti talvolta
contradditori». E visti da lontano: nel tempo, dal
potere?
«Confermo limpressione circa un pluralismo
straordinario di ambienti e di impulsi. È un po
quel che accade quando si dice: il Vaticano. Si va da un
sampietrino a Sua Santità».
Ha voluto indicare una sorta di peccato
originale con quel richiamo, al Senato, al bombardamento
dellabbazia di Montecassino nel 44,
giustificato dagli americani con la presenza di armi e
truppe naziste senza mai fornirne le prove?
«È stata una risposta occasionale al senatore che
aveva parlato prima di me: per richiamare tutti alla
prudenza circa le prove di un fatto o di un misfatto».
Allora americani come «liberatori»
dal nazifascismo o «occupanti» di un paese sconfitto?
«Che nella liberazione gli americani abbiano avuto
un ruolo determinante è fuor di dubbio. Basta pensare ai
cimiteri di guerra. Qualche volta ci vado, a pregare per
la pace».
Come interagirono la scelta di campo
occidentale della Dc e linteresse americano ad
assicurarsi la fedeltà di un paese di confine tra i due
blocchi, che portarono alla rottura dellunità
nazionale dopo il primo viaggio di De Gasperi negli Usa
con lestromissione della sinistra dal governo?
«Il legame dei comunisti con i partiti fratelli,
sotto la guida del Pcus, era fuori di dubbio. La
pubblicazione del documento costitutivo del Cominform li
inchiodò. Per di più Togliatti scese in campo in prima
persona definendo cretini gli americani. Non lo erano.
Erano quelli del Piano Marshall e del Patto Atlantico,
punti fermi della rinascita italiana».
Ma i rapporti degli americani con il
Vaticano proprio idilliaci non erano...
«Gli americani erano determinanti per la difesa
dellEuropa in chiave di scoraggiamento (di
deterrenza, come la si è poi definita) da attacchi
dallEst. Da soli non credo che ce lavremmo
fatta; e, nel caso, sacrificando ogni investimento di
sviluppo. Il Vaticano centra poco...».
Non centra neppure con le
tensioni nella stessa Dc, a giudicare dai voti contrari
di Bartesaghi e Melloni alladesione
allAlleanza atlantica? O li si deve ritenere
espressione di un filone anti americano latente nello
scudocrociato?
«Cè, nella tradizione cristiano-sociale, un
filone storico ostile ai patti militari come tali. Il
Patto di acciaio e lAsse Roma-Berlino-Tokyo avevano
rafforzato questa allergia. Il pericolo sovietico però
esisteva, e la necessità di una deterrenza si imponeva.
A spiegarlo a Pio XII andò lambasciatore italiano
a Washington Alberto Tarchiani, laicissimo personaggio
del Partito dAzione. La direttiva del Pontefice fu
determinante nel far superare le obiezioni. I casi di
dissenso furono rarissimi. E la storia ci ha dato
ragione».
Perché quellopposizione, pure
striminzita, non poteva convivere nella Dc, e si dovette
arrivare allespulsione dei due dissidenti?
«Forse la segreteria della Dc di Amintore Fanfani
avrebbe potuto comprendere di più sul piano umano la
crisi di Bartesaghi. Melloni si schierò al suo fianco,
come dire, romanticamente...».
Lei era amico stretto di Melloni,
diventato il Fortebraccio de «lUnità» una volta
passato al Pci...
«Rammento che qualche anno prima Melloni non fu
nominato presidente della Rai perché Sandro Pertini era
venuto a dire a De Gasperi che Mario era comunista.
Grande sorpresa ma... in dubio libertas e libertas in
dubio, la candidatura cadde. Più tardi Melloni tornò ai
suoi amori politici giovanili di estrema sinistra e
divenne Fortebraccio. Però, sul piano personale, la
nostra amicizia non ne risentì mai».
Fino a che punto si spinse il
«processo di decantazione» coltivato da De Gasperi per
il «riavvicinamento delle due Italie»?
«La linea di fondo di politica estera era essenziale
e non poteva consentire deroghe. Ma, forse, il sistema
proporzionale ed anche la qualità dei contrapposti
leader lasciava spazio a dialoghi essenziali».
Tanto da attirare su De Gasperi
laccusa di «tiepidezza anticomunista»?
«Ci fu una dichiarazione dellambasciatrice
Luce, secondo la quale con Pella si era avuto al governo
un "uomo forte". De Gasperi ne fu rammaricato.
E però nellagosto 1954 lambasciatrice, che
era in vacanza, venne a Roma per il funerale del
presidente».
Quali ostacoli incontrò
lapertura al centro-sinistra?
«Guardi che a Washington non furono ostili al
centro-sinistra: è vero il contrario. Cè un
libro, "Gli Usa e il centrosinistra", reso
possibile dallapertura degli archivi, che rivela
come lingresso dei socialisti al governo era visto
come argine ai comunisti».
E quando i comunisti entrarono nella
maggioranza dei governi di solidarietà nazionale da lei
presieduti?
«Diciamo che i tempi tecnici dei vari comparti non
marciarono in sintonia cronometrica...».
Un modo aulico per dire: interferenze?
«Vi furono incomprensioni: agli inizi, verso la
tregua del 1976. Io mi recai a Washington a chiarire le
cose, e tutto andò liscio. Tra laltro, la
"condizione", se così la si può definire, era
costituita dal riconoscimento della Nato, che Enrico
Berlinguer e i comunisti rispettarono nel novembre
77».
Erano gli anni del terrorismo delle
Brigata rosse, che dellunità nazionale uccisero
luomo-simbolo: Aldo Moro. Si può confrontare la
prova che lItalia dovette affrontare con quella a
cui stanno facendo fronte gli Usa dopo l11
settembre?
«Il terrorismo nostrano era un fenomeno interno,
forse (e sottolineo forse) con qualche aiuto esterno.
Sullo sfondo dell11 settembre, invece, cè
lincognita di una rete internazionale».
Tale da giustificare la «guerra
preventiva»?
«Se fosse stata dimostrata la connessione tra il
regime iracheno e la nefasta attività di Bin Laden e
della sua setta, si sarebbe anche potuto considerare
automatico il proseguimento della campagna
dellAfghanistan. Ma non mi pare sia su questa
piattaforma che si è impostata la guerra
allIraq».
Sospetta che lobbiettivo sia il
petrolio?
«È sbagliato dare alla crisi una lettura
esclusivamente petrolifera, ma è impossibile non tener
conto che sullo sfondo i problemi energetici ci sono,
eccome».
In unarea particolarmente calda.
Ripensando al caso di Sigonella, che rischiò di mettere
a repentaglio i rapporti tra lItalia e
lAmerica, si può dire che già si scontravano
diverse visioni della questione mediorientale?
«Francamente, non esagererei la valenza di
Sigonella. È vero, dovemmo bloccare una prepotenza
intollerabile da parte americana. Ma il dissenso durò
pochi giorni. E il caso si chiuse quando Ronald Reagan si
scusò con Bettino Craxi».
E il rifiuto di autorizzare luso
delle basi italiane per le «ritorsioni» americane alla
Libia?
«Il bombardamento della Libia fu un errore. E una
ingiustizia. Non potevano certo attendersi un appoggio
italiano».
Lattenzione dellItalia al
mondo arabo era un modo per riequilibrare lAlleanza
atlantica?
«Era il modo di dare sostanza alla linea di La Pira.
Ripensare a quella strategia di grande respiro mi rende
triste, perché temo che le vicende attuali ci mettano
fuori da un ruolo storico importante».
Non «velleitario», come dice
Francesco Cossiga, che nemmeno nasconde il suo
«imbarazzo» per certi accordi segreti con i
palestinesi?
«Lattenzione per i palestinesi, fermi restando
i diritti e la sicurezza in Israele, era doverosa. Non si
dimentichi che lItalia ha collaborato al processo
di pace nel Medio Oriente, tramite la Comunità europea,
con la "Dichiarazione" di Venezia del 1980 di
cui furono artefici Genscher e Colombo».
Quanto pesa la mancata soluzione alla
crisi palestinese sulla vicenda internazionale di oggi?
«La "non pace" in Palestina pesa
moltissimo. Quel che è accaduto ora al vertice dei
palestinesi apre una possibilità, ma Sharon ha già
detto che non basta. Si accetta o no lo Stato
palestinese, ferma restando la difesa degli israeliani?
Purtroppo, tutti sono convinti che si debba arrivare alla
convivenza, ma di fatto si batte il passo. E la gente
continua a morire e a odiarsi».
E quanto incide la divisione
dellEuropa in quelle che lei ha definito
«parocchiette» e «direttòri»?
«Cè una contraddizione penosa tra il lavoro
della Convenzione, teso anche ad elevare ad obbligo
costituzionale la politica estera e di sicurezza comune
sancita a Maastricht, e i tremendi passi indietro della
stessa unità di azione dellUnione europea.
Purtroppo, nel bilancio negativo della crisi irachena,
dobbiamo comprendere anche questa lacerante
disgregazione, persino tra i paesi candidati alla nuova
Europa».
Perché ha detto di non considerare
Saddam «il solo peccatore in un mondo di figli di
Maria», quando nel 91, da capo del governo,
proprio lei schierò lItalia nella prima guerra
contro lIraq?
«La guerra del Golfo era legittima perche Saddam
Hussein aveva occupato il Kuwait. Dovevano battersi il
petto quanti, in odio a Khomeini, avevano considerato un
benemerito Saddam che aveva aggredito lIran».
Quindi, la differenza tra ieri e oggi
è data dalla legittimità. Ma chi dovrebbe sancirla?
«LOnu dovrebbe essere conditio sine qua non
delle iniziative internazionali militari. Non è
perfetta, ma per il momento è quanto di meglio offre la
vita internazionale».
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DA - L'UNITA'
«Shadan, un
mese di vita, vittima delle bombe a grappolo»
«Cosa sta succedendo in Iraq? Ve lo dico subito». Non
aspettatevi un resoconto su strategie militari o grafici
per capire come funzionino le bombe «intelligenti»
sganciata su Baghdad o su Hillah. Teresa Strada,
presidente di Emergency, non ha nessuna intenzione di
usare di addolcire la pillola irachena. Che è
amarissima. «Che succede? Succede che martedì scorso,
in uno dei nostri quattro centri nellIraq
settentrionale, i volontari di Emergency hanno curato la
vittima più giovane che avessero mai assistito: Shadan,
una bambina di 30 giorni. Ecco cosa sta succedendo in
Iraq». Lassociazione che Teresa Strada presiede,
guidata insieme al marito Gino, è presente nel Kurdistan
iracheno dal 1995. Le bombe piovute dai B-52 in questi
ultimi giorni hanno aggravato il lavoro dei volontari di
Emergency.
Come associazione, avete due centri
specializzati nellinserimento di protesi nel Nord
dellIraq e due ospedali, uno a Erbil e laltro
a Sulaimaniya. È in questultimo che è arrivata
Shadan?
«Sì, è la vittima più piccola che abbiamo mai curato.
È uno scandalo. Shadan è arrivata insieme ad altri
dieci feriti, tra cui due guerriglieri curdi. Sono stati
vittime di uno scontro a fuoco tra i partigiani e
lesercito regolare iracheno di Saddam Hussein, nei
pressi del villaggio di Kifri a sud di Sulaimaniya. La
situazione di Shadan è apparsa subito grave, visto che
era stata colpita alla schiena da un frammento di razzo.
Per fortuna, la piccola non ha subito lesioni alla
colonna vertebrale. Se non bastasse, nel reparto maschile
del nostro ospedale di Sulaimaniya è ricoverato suo
padre, in quello femminile, sua nonna».
Con il lancio delle bombe a grappolo da
parte dellesercito Usa, siamo tornati a discutere
di queste micidiali armi proibite. Quali riscontri avete
nei vostri ospedali in Iraq?
«Queste cluster bomb, le bombe a grappolo, delle bestie.
E devono essere considerate come vere e proprie mine
anti-uomo. Per di più, sono i bambini i più colpiti
perché svolgono, agli occhi di qualsiasi militare,
attività "belliche" come portare le bestie al
pascolo o giocare nei campi. Solo nelle ultime ore,
sempre a Sulaimaniya, sono state ricoverata sette
persone, ferite per lo scoppio di mine anti-uomo. Un
numero enorme rispetto alla media di un ricovero al
giorno. Ciò vuol dire che la fuga della popolazione
passa attraverso i vecchi campi minati oppure che qualche
esercito ha disseminato la zona curda con nuove mine.
Queste ultime vittime ci ricordano che le bombe a
grappolo funzionano come le mine anti-uomo: rimangono
inesplose per anni e sono pronte a esplodere in qualsiasi
momento. Non si disinnescano quando una guerra finisce ma
rimangono lì, come unombra di un qualche esercito
oppressore».
Anche in Afghanistan, Emergency
continua il suo lavoro, sia per curare i feriti di una
guerra strisciante che quelli causati dalle mine. Che
similitudini vedi tra quel che sta succedendo in Iraq e
quello che succedeva a Kabul?
«Cè una relazione strettissima tra queste due
guerre. Ancora ricordo le tante testimonianze di bambini
afghani colpiti dallesplosione di quelle
"lampadine gialle", tanto simili ai pacchi
umanitari sganciati dagli Usa. Anche allora, erano le
cluster bomb. Ma guardando le immagini del bombardamento
di ieri (mercoledì, ndr) sul reparto maternità vicino
Baghdad, le sensazioni di rabbia sono fortissime. In
momenti come questi, il nostro lavoro non si può
fermare: stiamo per inaugurare un centro maternità nel
Panshir, in Afghanistan».
Quali sono, adesso, le priorità
umanitarie di Emergency?
«Abbiamo già predisposto due enormi cargo pronti ad
arrivare a Baghdad, appena sarà possibile. Per adesso,
sono stazionati ad Amman, in Giordania. Ma vogliamo fare
di più. E abbiamo bisogno di tutto. Basta chiamarci o
visitare il nostro sito web www.emergency.it
<http://www.emergency.it per darci una mano
o fare un versamento (c/c postale 28426203). Non è il
momento di fermarsi».
* presidente di Emergency
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DA - L'UNITA'
«Ma lOnu
non è solo il Consiglio di Sicurezza»
La guerra in Iraq, il futuro delle Nazioni Unite, le
ricadute sullo scenario mediorientale e il rischio di un
rafforzamento dei gruppi dellIslam radicale. Ne
discutiamo con Staffan de Mistura, rappresentante
personale in Sud Libano del segretario generale delle
Nazioni Unite Kofi Annan.
Cè chi sostiene che la prima
«vittima» politica della guerra angloamericana sia
stata lOnu. Nello stesso tempo, però. almeno uno
dei due protagonisti di questa azione, il premier
britannico Tony Blair, ha ripetuto negli ultimi giorni
che le Nazioni Unite debbano avere una centralità nella
ricostruzione, non solo economica, dellIraq
«liberato». Come valuta queste due affermazioni così
opposte tra loro?
«Quando cè una guerra, purtroppo, ci sono sempre
molte vittime. E certamente unorganizzazione, quale
lOnu, che è stata creata per favorire la pace ne
subisce il contraccolpo. Del resto il segretario generale
lo ha riconosciuto quando si è avviato il conflitto. Non
è né la prima e, temo, non sarà lultima volta
che lOnu viene in qualche maniera bypassata in un
conflitto. Resta il fatto che nellutilizzazione di
tutte le sue risorse per interventi umanitari e in quelle
che possono essere altre funzioni che lOnu può
offrire, lorganizzazione è sempre stata
rivalutata. In altri termini, a volte si può bypassare
lOnu, ma ignorarla è impossibile. La storia lo ha
dimostrato. Spetterà al Consiglio di Sicurezza decidere
quale ruolo voler dare allOnu. Certamente in questo
momento in termini operativi, il ruolo che le compete e
che le compete per mandato, è quello di fare di tutto,
ed essere aiutata a fare di tutto, perché un sostegno
umanitario non venga interrotto ma venga invece
rilanciato verso la popolazione civile».
Il protrarsi del conflitto può
innescare una catastrofe umanitaria e lOnu è in
condizione di farvi fronte?
«Sì, sono molto preoccupato per la potenziale crisi
umanitaria. Il programma "Oil for food", di cui
sono stato nel 1997 il primo coordinatore, provvedeva a
nutrire 26 milioni di iracheni, di cui circa 16 milioni
totalmente dipendenti dalle razioni alimentari delle
Nazioni Unite. La distribuzione che è stata fatta prima
del conflitto dovrebbe bastare per ancora tre settimane,
di conseguenza è di vitale importanza che i canali
umanitari siano riattivati in maniera tale che la
distribuzione possa ripartire ovunque la popolazione
irachena sia presente e prima di quella data-limite. Il
maggiore interprete di questa componente nella famiglia
delle Nazioni Unite è il Programma alimentare mondiale,
che ha la sua base a Roma. Si tratta di
unorganizzazione che ha già in passato dato ottima
prova di sé in zone di guerra».
LOnu non è dunque condannato ad
un ruolo di spettatore passivo di questo drammatico
conflitto?
«Ciò che ho appena detto sul Pam è unulteriore
dimostrazione di come lOnu non sia soltanto
identificabile con il Consiglio di Sicurezza, ma deve
esserlo anche con le agenzie operative delle Nazioni
Unite, come il Programma alimentare mondiale e
lUnicef. Ciò significa che anche quando il
Consiglio di Sicurezza è in stallo, lOnu opera e
può contribuire, con le sue componenti umanitarie, a
rendere le crisi meno gravi».
La guerra allIraq vista da una
delle frontiere più «calde» del Medio Oriente: quella
israelo-libanese. Cè il rischio che il conflitto
possa estendersi dallIraq allintera regione?
«Se cè una zona potenzialmente esplosiva sul
piano militare in Medio Oriente oggi, questa è proprio
la frontiera siriana-libanese-israeliana, la cosiddetta
"linea blu". E quindi cè una terribile,
particolare attenzione da parte di noi tutti, e delle
Nazioni Unite in particolare, affinché questa frontiera
rimanga "blu" e non diventi invece
"rossa" durante un potenziale pericolo di
conflitto regionale. Debbo dire con soddisfazione che,
almeno fino ad oggi, si è riusciti ad evitare, con la
collaborazione del governo libanese e delle stesse
autorità israeliane, che nulla di teso e di particolare
sia avvenuto lungo la frontiera. E questo perché abbiamo
innanzitutto aumentato enormemente il pattugliamento, e
poi perché cè evidentemente la percezione da
parte di tutti che non è nellinteresse di nessuno
regionalizzare il conflitto iracheno, e infine perché in
effetti la questione della frontiera libanese non è mai
stata di fatto strumentalizzata in termini iracheni da
parte di nessuno. Ora, lunico vero pericolo, sul
quale teniamo gli occhi bene aperti, riguarda gruppuscoli
di eventuali personaggi che possano, stimolati da chissà
chi, in qualche maniera voler creare un incidente lungo
la frontiera».
In che modo potrebbero creare problemi?
«In passato si è temuto che gruppi di persone possano
lanciare una salve di razzi katiuscia dal Sud Libano
allAlta Galilea, in modo tale da attirare una
risposta israeliane e tramite questo regionalizzare il
conflitto. Ma dato che noi sappiamo che le autorità
libanesi sono totalmente contrarie a questo, che finora
gli Hezbollah si sono mantenuti calmissimi, e che da
parte israeliana cè stata una grande calma, se
avvenisse un incidente del genere dovremmo essere in
condizioni di isolarlo e di analizzarlo per quello che
è, vale a dire una provocazione voluta per tirare in
ballo il Libano, Israele o la Siria, quando in effetti
non cè intenzione di nessuno, o almeno questo è
ciò che a noi risulta, che ciò avvenga. Per quanto ci
riguarda, continuiamo a lavorare e ci aspettiamo che la
frontiera rimanga calma anche se è potenzialmente
incandescente».
Saddam Hussein ha lanciato un appello
alla Jihad globale contro i «nuovi crociati». È un
appello che cadrà nel vuoto, oppure, come in molti
temono, questa guerra finirà per rafforzare i gruppi
integralisti, e tra essi gli Hezbollah libanesi?
«Posso rispondere partendo dalla percezione locale,
avendo vissuto per due qui in Libano, ed avendo contatti
con tutti e dunque anche con gli Hezbollah, presenti nel
Sud Libano. Limpressione che si ha è che è che
gli Hezbollah non si faranno attrarre da un appello che
viene da qualcuno, come Saddam Hussein, che in passato ha
massacrato molti sciiti nel sud dellIraq. In poche
parole, le scelte di Hezbollah , in termini
fondamentalisti o meno, saranno fatte sulla base delle
loro valutazioni piuttosto che di un appello di un raìs
che allimprovviso si aggrappa alla religione pur di
mantenersi al potere e far esplodere lintero Medio
Oriente. Detto questo, le guerre che si fanno in nome
della religione sono purtroppo frequenti, ma la fortuna
è che non tutti cadono in questo tipo di appelli».
Nel Libano è anche molto forte la
presenza dei palestinesi, in particolare nei
sovraffollati campi profughi del Sud. Un altro argomento
sollevato da Saddam per infiammare il mondo arabo è
quello della «liberazione della Palestina». In che
modo, partendo dalla sua esperienza diretta, i
palestinesi recepiscono gli appelli di Saddam e vivono
questa guerra?
«Finora, da quello che si è notato sia nei campi
profughi che in quella che viene chiamata "la strada
araba", non si è notato niente di più o di diverso
da ciò che si è notato in altre piazze arabe o in altri
luoghi del mondo dove si è manifestato contro la guerra.
A livello operativo, per fortuna, non ci è stata
uniniziativa di voler coinvolgersi da parte
palestinese in quello che è un conflitto che non li
riguarda direttamente. Anzi, il timore dei palestinesi è
che il conflitto in qualche maniera offuscasse e facesse
dimenticare quello che è il loro vero problema, e cioè
la ricerca di una soluzione equa e duratura del conflitto
israelo-palestinese».
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