DA - L'UNITA'

«Non è vero che se non vince Bush, vince Saddam»

ROMA «Sono iscritto al sindacato pensionati della Cgil, membro del comitato direttivo Ds, socio di tante associazioni scientifiche e lavoro per "Aprile". Non mi sono mai posto il problema della doppia, tripla o quadrupla lealtà. Credo che nessuno mi abbia rimproverato finora di tenere i piedi in tante staffe...». Giovanni Berlinguer risponde alle polemiche di questi giorni. L’assemblea dell’Ergife, ripete, non ha partorito un nuovo partito. «Noi non andremo via dai Ds - afferma - Non vogliamo promuovere liste Cofferati in vista delle elezioni europee». La Quercia dovrà agire su molti piani. «Far politica, oggi, non significa solo appartenere a un partito e seguirne le direttive applicandone le decisioni. Se ci limitassimo a questo diventeremmo una setta isolata e autoreferenziale. Dobbiamo interloquire, invece, con quello che avviene fuori, nella società. Tutto questo non va visto in contrasto con lealtà organizzative o con discipline imposte. Guai se questo avvenisse». Il «contrasto», nei fatti, c’è. Sulla guerra, ad esempio. Come si risolve, alla fine, il problema delle posizioni diverse emerse in queste ore tra maggioranza e minoranza Ds? All’Ergife Cofferati ha detto cose precise, Fassino ha sostenuto altre posizioni. Berlinguer inizia il suo ragionamento parlando della «guerra ingiusta decisa fuori e contro l’Onu». Il conflitto, spiega, «sta diventando sanguinoso e lungo, per questo va fermato al più presto». Anche l’Italia, quindi, deve chiedere che «la guerra venga sospesa» e «tutto il centrosinistra deve fare un passo unitario in Parlamento» per raggiungere questo obiettivo.


Onorevole Berlinguer, qual è la differenza tra le sue posizioni e quelle «ciniche» - per dirla con Cofferati - di chi auspica una guerra breve?


Io non vorrei tornare sulle polemiche dei giorni scorsi. Sul fatto, cioè, che sia io che Cofferati non saremmo né con Bush, né con Saddam. Questo è assolutamente falso. Saddam è un tiranno sanguinario, dal quale auspichiamo che gli iracheni si liberino. Consideriamo Bush il presidente di un grande Paese che ha guidato gli Usa ad aggredire un altro Paese, senza giustificati motivi...


Ma è vero o no che lei non auspica una vittoria rapida degli angloamericani?


Io auspico la sospensione di questa guerra che sta producendo morti e catastrofi. E non è vero che se non vince Bush vince Saddam. Gran parte delle guerre che si sono combattute negli ultimi cinquanta anni non si sono concluse con la vittoria dell’uno o dell’altro. Quella tra Iran e Iraq, ad esempio, ha portato prima all’armistizio e poi alla pace.


Dove sta la differenza tra quello che auspica lei e quello che auspica Fassino?


Io condivido le iniziative assunte dal segretario dei Ds. La mozione che è stata votata unitariamente dall’Ulivo e da Rifondazione ha rappresentato un fatto positivo. Mi auguro, adesso, che si arrivi ad un secondo documento unitario che chieda al governo italiano di adoperarsi presso l’Onu perché si giunga a una sospensione delle ostilità. L’unico punto controverso è se la mozione del centrosinistra debba richiedere la cacciata di Saddam. Io mi auguro che il dittatore iracheno se ne vada, ma lo statuto dell’Onu non prevede che questo possa essere l’effetto di una intromissione illecita negli affari di un altro Paese. Questo elemento costituirebbe un ostacolo per la definizione di una mozione unitaria. La democrazia non si esporta con i carri armati e con i bombardamenti.


Il problema Saddam divide nettamente il centrosinistra. La mozione unitaria sembra lontana, non crede?


Io mi auguro che si giunga ad un accordo. L’Onu deve tornare ad avere un ruolo facendo sospendere questa guerra. Le Nazioni unite, poi, dovranno impedire che un eventuale vittoria degli anglo-americani si traduca nell’imposizione di un governo militare, di un’occupazione stabile, di una forma di oppressione che si sostituisca a quella che il popolo iracheno ha subito sotto la tirannia di Saddam.


Anche Blair è d’accordo...


Si, ma non bisogna essere ingenui. Bush, infatti, ha già risposto che non se ne parla. Ha spiegato che gli Usa vogliono decidere sulle risorse dell’Iraq e sull’amministrazione del suo territorio. Dietro i propositi di liberazione ci sono evidenti intenti di sfruttamento di quella zona. Nella coscienza del mondo e, in particolare, delle giovani generazioni, tutto questo è sempre più chiaro. Si teme che il pianeta venga precipitato in una guerra continua compiuta sotto il dominio di un solo paese. Le nuove generazioni - che hanno seguito modelli neoliberisti di vita e di consumo non più sostenibili - oggi si interrogano, prendono coscienza. Questo rappresenta una grande speranza per tutti e, in particolare, per la politica. La politica e i partiti sono troppo rinchiusi nei propri recinti, nelle proprie formule, nelle proprie regole.


Caldarola vi accusa di voler ridisegnare i rapporti di forza dentro l’Ulivo: Aprile, diretta da Cofferati, che diventa cerniera tra verdi, Pdci e correntone per controbilanciare "i riformisti"...


Per sei mesi molti giornali e molti esponenti riformisti doc hanno detto che Cofferati deve scegliere, partecipare alla vita politica, non chiamarsi fuori. Bene, adesso Sergio ha deciso e trovo paradossale certa irrequietezza e certa preoccupazione. Lo temono e trovo insensato tutto questo timore. Dovrebbero rallegrarsi e, infatti, Vannino Chiti ha ripetuto che Cofferati è una risorsa per la sinistra...


Ha anche detto: attenzione alle confederazioni mascherate...


Ha parlato di unità pluralista, del riconoscimento di doveri comuni, della necessità di una convivenza positiva tra orientamenti diversi dentro il partito. Mi auguro che questa linea venga seguita da tutti. Il resto è ciarpame. Regolarmente, ogni due o tre mesi, viene fuori l’idea che noi vogliamo una scissione. Posizioni smentite dai fatti. Il direttore del Riformista ci spinge ad andar via. Dice, "è meglio separarsi piuttosto che mantenere questa confusione". Desidero ripetere per l’ennesima volta che non desideriamo separarci, che l’unico modo per separarci è quello di cacciarci via. Non abbiamo alcuna intenzione di fare un cartello a tre, una piccola trinità con verdi e comunisti italiani. Non vogliamo scompaginare. Vogliamo accrescere la compagine, semmai. Aumentare l’influenza dei Ds e, nel contempo, sollecitare l’Ulivo ad aprirsi. L’Ulivo deve essere più dei sette segretari che si riuniscono. Fassino insiste su questo, trovando purtroppo molti ostacoli.


Molti commentatori sostengono che sarà Cofferati il vero leader di Aprile. Non si sente un po’ sotto tutela?


Cofferati mi ha detto che accettava la copresidenza perché io sono un professore e avrei avuto bisogno di un assistente. Sa come gli ho risposto? Che sarei stato io il suo assistente. Questa presidenza a due sarà il primo nucleo di un gruppo dirigente. Abbiamo preferito agire per gradi. Mi sembra che questa formula rappresenti bene il carattere composito dell’Associazione e, al tempo stesso, la sua volontà di unità.


Non si parla più di gestione unitaria dei Ds. Un’ipotesi tramontata?


Il termine gestione ricorda un cda che pensa a ripartire gli utili. Preferirei parlare di guida unitaria. Questa non è dietro l’angolo, anche perché dobbiamo difenderci continuamente dall’accusa di voler dividere. Dobbiamo procedere per gradi, a partire dalla Conferenza programmatica. Se riuscissimo ad avere un consenso sui punti fondamentali del documento Trentin, faremmo un notevole passo avanti. Noto però che una parte del partito - l’area Morando e numerosi sostenitori della mozione Fassino - ha approvato un contro documento. Se si mettono travi tra le ruote della maggiore unità dei Ds, diventa più difficile poi corrispondere alla richiesta di unità che viene dal nostro popolo.

DA - IL MANIFESTO

INTERVISTA


«Il governo sfugge al parlamento»


Brutti: «Sulla guerra, la maggioranza ha scelto un indirizzo di massima reticenza»
A. CO.
ROMA
Massimo Brutti, senatore diessino, fa parte del comitato parlamentare di controllo sui servizi. Ieri in quella sede, l'opposizione aveva chiesto la convocazione del ministro degli Esteri Frattini, per conoscere i dettagli della vicenda che ha portato all'espulsione di quattro diplomaici iracheni.

Perché la richiesta di convocare il ministro Frattini è stata bocciata?

I parlamentari della maggioranza hanno ritenuto inopportuno convocare il ministro così presto e al di fuori della programmazione prevista.

Tornerete a chiedere l'audizione di Frattini?

L'audzione speciale, che si sarebbe dovuta tenere entro pochi giorni, non ci sarà. Quindi dovremo rispettare il calendario fissato. Quando verrà il sottosegretario con delega ai servizi Letta, cosa che sinora ha fatto una volta sola, riproporremo la questione.

Cosa volevate chiedere a Frattini?

Volevamo sapere se sugli espulsi c'erano state valutazioni autonome dell'intelligence italiana oppure se c'è stata solo una richiesta imperiosa da parte dell'amministrazione americana. Il comitato di controllo poteva essere la sede adatta per chiarire la vicenda. Dirimere i dubbi, dimostrare che le espulsioni sono state motivate da ragioni di sicurezza, o anche solo da fondati sospetti, dovrebbe essere nell'interesse del governo stesso.

Come spieghi questa reticenza?

Direi che c'è un indirizzo politico preciso. Di fronte a una guerra drammatica e che colpisce fortemente l'opinione pubblica, la linea del governo è conforme a un vecchio detto siciliano: «Piegati giunco che passa la piena». Non enfatizzare, discutere il meno possibile, evitare dibattiti parlamentari, confidando che a Bassora e Bagdad le cose si risolvano presto.

Cosa potrebbe fare il governo, una volta appurato che non intende contrastare l'iniziativa anglo-americana?

Tra la linea dell'opposizione, che chiede al governo di adoperarsi perché cessi subito la guerra e per una nuova iniziativa dell'Onu, e quella che il governo sta adottando, di adesione politica e attesa, ci sono delle vie di mezzo. Ci sarebbe bisogno di un autonomo impegno dell'Italia sui problemi che si stanno aprendo. A Bassora cresce il numero di civili tragicamente coinvolti nel conflitto. C'è il rischio di una catastrofe umanitaria, denunciato dal segretario dell'Onu Annan. Il governo dovrebbe affrontare nelle sedi internazionali questi problemi. Invece non fa nulla.

Si è più parlato della questione delle basi in parlamento?

Anche in questo caso il governo tende alla massima reticenza. Domani (oggi per chi legge n.d.r.) risponderà alle interrogazioni sulle basi il ministro dei Rapporti con il parlamento Giovanardi, che presumibilmente non ne sa nulla, che leggerà carte preparate da altri e non potrà rispondee a domande specifiche. Vorremmo ad esempio sapere se dai porti di Gaeta e della Maddalena partano navi per azioni di guerra. Ci chiediamo come fa il governo a essere certo che le truppe che partono dalle basi italiane non siano direttamente coinvolte nella guerra. Verificarlo non è affatto facile. Quindi si pone un problema di garanzie e di controllo da parte del parlamento. Quella del non coinvolgimento diretto è una regola che si è dato il govereno stesso, autonomamente, sulla base della riunione del Consiglio supremo di difesa.

Cosa sai delle denunce secondo cui truppe scelte Usa dirette in Iraq partirebbero o sarebbero partite dalla caserma Ederle, a Vicenza...

Non ho elementi di conoscenza diretta. Rilevo solo l'assoluto silenzio in materia del governo. E questo mi fa pensare che ci sia davvero qualcosa che non va.

Tu hai criticato molto duramente la posizione assunta dal ministro della Difesa Martino sull'ingresso di truppe turche in Iraq. Perché?

Ci sono notizie su una penetrazione turca nell'Iraq del nord. Questo, come è ovvio, rischia di creare una guerra nella guerra. Dal governo belga e da ambienti governativi tedesco sono venuti commenti molto duri. Martino ha invece mostrato di condividere e assecondare le decisioni della Turchia. Ci sono truppe della Nato, e ritengo anche italiane, in Turchia, con compiti di difesa. Ma la situazione cambia parecchio se invece è la Turchia a entrare in Iraq.

Secondo il governo turco, la penetrazione in Iraq è dovuta alla necessità di controllare l'ondata di profughi...

Il discorso non cambia. E' un compito che va aldilà degli impegni Nato. Se poi si trattasse di bloccare i profughi, andrebbe anche aldilà dei più elementari princìpi di umanità.

Ancora il ministro Martino ha negato che gli alpini in Afghanistan abbiano sostituito contingenti destinati a combattere in Iraq...

Martino ha detto che gli americani in Afghanistan erano e sono ancora 8mila. Però non ha detto niente sui contingenti inglesi. Le voci in circolazione hanno sempre parlato della sostituzione di militari inglesi. Non so se sia vero. Sarei lieto se il governo smentisse, ma per ora non lo ha fatto.

Tutti gli elementi di cui abbiamo discusso, autorizzano a mettere in dubbio l'estraneità dell'Italia alla guerra?

La situazione è molto chiara. Dal punto di vista politico non c'è alcuna estraneità. Il governo italiano ritiene la guerra legittima e giusta. Dal punto di vista militare non mandiamo soldati, perché non siamo in grado di farlo.

Sì, ma gli episodi in questione non mettono in forse anche l'estraneità dal punto di vita militare?

Non voglio aprire processi sulla base di sospetti. Chiedo però che il parlamento venga puntualmente e tempestivamente informato. Al contrario, le nostre richieste non ottengono alcuna risposta.

------------------------------------

DA - IL MESSAGGERO

Intervista allo scrittore, e inviato, Eric Laurent


«Le armi biologiche del raìs?
Provengono da laboratori americani»

di RICCARDO DE PALO

ROMA - «Perché gli americani sono così sicuri che Saddam possiede armi di distruzione di massa? Probabilmente, proprio perché gliele hanno fornite loro». A parlare è Eric Laurent, inviato speciale e autore del libro "La guerra dei Bush, i segreti incoffessabili di un conflitto" (Fandango libri, 16,50 euro) che mette in luce tutte le ragioni meno note e più "scomode" dell’intervento in Iraq.


Nel libro lei ricorda che Saddam è stato per anni fedele alleato degli Usa. Poi, cosa è successo?


«Probabilmente a un certo punto Saddam è andato troppo lontano. E questo è dovuto alla cecità dell’Amministrazione americana. Inizialmente gli Usa avevano dei buoni motivi per sostenere l’Iraq. C’era la paura dell’espansionismo islamico iraniano e l’America aveva bisogno dell’Iraq come scudo. Ma nessuno ha capito i rischi che questo sostegno poteva comportare».


Chi ha sbagliato, a Washington?


«L’atteggiamento americano è stato di un cinismo pazzesco. Nel 1983, quando c’era ancora Ronald Reagan, è stato spedito in Iraq, su consiglio di Bush padre, un inviato per riaffermare il sostegno a Saddam Hussein. Lo sa chi era quest’inviato? Donald Rumsfeld, l’attuale ministro della Difesa. Per anni gli Usa hanno concesso prestiti totalmente illegali al regime di Saddam (le cui insolvenze sono state pagate dai contribuenti americani), sono state fornite delle armi e tutto il necessario per gassare i curdi. E quindi Saddam aveva un senso di totale impunità. Alla fine degli anni Ottanta, quando l’Iraq era in una situazione finanziaria disastrosa - non c’erano più riserve - Saddam si accorse di avere accanto un Paese molto ricco come il Kuwait. Così, ha pensato di andare a servirsi di persona».


Saddam è stato rifornito anche di armi di distruzione di massa dagli Usa?


«Su questo c’è stata un’inchiesta del Congresso americano. Il rapporto degli ispettori dell’Onu del 1992 dimostrava che i ceppi delle armi biologiche irachene provenivano da laboratori americani. È difficile pensare che la Casa Bianca fosse all’oscuro di tutto. Ora, queste armi potrebbero essere usate contro gli americani per difendere Bagdad».


Quali sono le ragioni di questa guerra?


«Non penso a una vendetta personale di Bush. E neppure al petrolio. Non ci sono problemi di approvigionamento di greggio, per gli americani. Credo che dietro la guerra ci sia piuttosto un progetto politico. Gli uomini di Bush vogliono inoculare in Iraq il virus del modello americano di democrazia e modificare così i rapporti di forza nel mondo. Sono fermamente convinti che da questa situazione in Iraq possa scaturire una sorta di effetto domino di contagio, e che i Paesi circostanti verranno sedotti dal modello americano».


E ora?


«L’approccio Usa è arrogante e pericoloso. Possiamo aspettarci solo nuove tragedie. Non dimentichiamoci come è nata questa guerra: in modo unilaterale. Il concetto di guerra preventiva creerà il caos nelle relazioni internazionali, perché chiunque può sentirsi minacciato dal vicino e quindi legittimarsi ad agire in modo preventivo. È un modo di mandare all’aria tutte le norme internazionali che erano state stabilite dopo la seconda guerra mondiale».

-----------------------------------------------

DA - L'UNITA'

"Per la ricostruzione gli Usa hanno bisogno della Ue"

PARMA - Non se ne può fare a meno: si parla tanto della guerra, ma i rischi del dopoguerra sono ancora peggiori. È l'analisi di Filippo Andreatta, docente di relazioni internazionali all'Università di Parma. Soldi e affari, prima di tutto.


Gli Stati Uniti stanno «liberando» l'Iraq con un retropensiero economico? Petrolio, ricostruzione...


«Le guerre scoppiano per una serie di complicazioni. Bisogna resistere alla tentazione di banalizzare le risposte. C’erano guerre prima del petrolio e dell'economia capitalista. Anche qualche anno fa nella disgregazione dell'ex Jugoslavia non dominavano i motivi economici. L'Iraq potrebbe produrre 3 milioni di barili di petrolio al giorno. Adesso ne pompa 400, concessioni di cibo contro greggio. Tre milioni di barili vogliono dire un miliardo di barili l'anno. Al prezzo di stamattina (ieri mattina, ndr), 25 dollari, fanno 25 miliardi. Bush ha chiesto ieri al Congresso un anticipo di 75 miliardi solo per il primo mese di guerra e aiuti umanitari. Tre volte tanto. Non sembra che il gioco iracheno valga la candela economica. Le vere cause restano di natura psicologica: timore della vulnerabilità dopo l'11 settembre e intolleranza verso ogni minaccia potenziale, anche se il vero pericolo può venire da Al Qaeda. È comprensibile che la paura raccolga simpatie per una guerra che si propone di allontanare il terrorismo. Attenzione, però. La paura è pericolosa perché non induce a calcoli razionali».


La mediazione politica perde il suo ruolo?


«Non va in soffitta per varie ragioni. Prima di tutto i costi della guerra in un momento in cui gli Usa sono già in difficoltà economica. Prima o poi Washington cercherà accordi o compromessi con altri paesi, soprattutto Ue, per dividere il peso della ricostruzione. Tutti dovranno contribuire. La guerra di Bush padre nel '91 è costata 70 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti ne hanno pagati 7. Mentre Arabia Saudita, Paesi Arabi, Unione Europea e Giappone hanno coperto gli altri 63. L'altro argomento complicato è la legittimazione dell'Onu ancora più importante nel dopoguerra. C'è differenza tra esercito di occupazione ed esercito di liberazione. L'occupazione unilaterale potrebbe aggravare i problemi economici. I Paesi Arabi siedono alle Nazioni Unite e attraverso l'Onu parteciperebbero alla ricostruzione decidendo assieme agli Usa, e a tutti gli altri. L'unilateralità del dopo, rischia di suscitare gravi problemi. I costi, prima di tutto, e c'è un'altra ragione: la presenza in Iraq. Se gli Stati Uniti faranno sapere che l'attacco al di fuori dell'Onu, è stata un'eccezione e d'essere pronti a tornare alle regole, la situazione internazionale può tornare tranquilla. Ma la piega diventa preoccupante se questo è il primo di una serie di interventi, modello nuovo e unilaterale».


Cosa intende per modello nuovo?


«Decidere da soli nelle operazioni di alta intensità, non come in America Latina che è sempre bassa intensità. Nella seconda guerra mondiale, o in Corea, in Bosnia, nel Kuwait, gli americani hanno chiesto un appoggio multilaterale. Non in questa marcia irachena. Senza l'Onu, sebbene non contro l'Onu: resta un'anomalia nella politica estera di Washington»


Anomalia o svolta?


«Se tornano all'ovile, anomalia. Se continuano da soli in Corea del Nord oppure in Iran, ci troviamo di fronte ad una situazione nuova nel rapporto tra forza e diritto. Da una parte gli Stati Uniti con la forza senza il diritto; dall'altra le Nazioni Unite col diritto ma senza forza. Vorrebbe dire un ordine internazionale debolissimo: danneggerebbe tutti. Divisioni non solo fra stato e stato ma anche all'interno dei singoli paesi, guelfi contro ghibellini. Torniamo al medioevo. Non succedeva da secoli che un governo diverso scegliesse una posizione tanto diversa».


L'Italia come si è comportata?


«Barcamenandosi a lungo tra Stati Uniti e Onu. E quando il momento è diventato decisivo non è stata in grado di uscire dall'incertezza».


A dire la verità Berlusconi ha ripetuto: saremo sempre con gli Stati Uniti...


«Nel 1991, Andreotti, non sospettabile di filo americanismo, ha mandato dieci navi e una squadra di tornado a sostenere la tesi di un intervento giusto e legittimo. Oggi il supporto dell'Italia è fantasma. Il governo dà l'impressione di nascondersi».


* * *
Filippo Andreatta è docente di Relazioni Internazionali

--------------------------------------------

"È antiamericano il Patto Atlantico?"



ROMA - «Se un consiglio posso dare agli americani è di guardare lontano. Sia indietro che avanti». Giulio Andreotti si colloca - come ha tenuto a sottolineare nell’ultimo dibattito sulla crisi irachena al Senato - tra quanti hanno «passato una vita nella costruzione di una politica di attiva solidarietà con gli Stati Uniti». In effetti, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Alcide De Gasperi, capo del governo egli stesso per 7 volte, e ministro della Difesa o degli Esteri negli intervalli, il senatore a vita ha tutti i titoli per «respingere con forza l’idea rude di un censimento tra amici e non amici degli americani». Andreotti oppone la «linea di fondo» della politica estera italia: «Mi auguro - dice, con la consapevolezza della gravità della divaricazione in Parlamento - che non sia troncata».


È più di un rischio, ormai. Come si sarebbe potuto, e si dovrebbe, evitare?


«L’ancoraggio era e resta al valore programmatico dell’articolo 11 della nostra Costituzione. Ma anche dell’articolo 1 del Trattato Atlantico. Che suona così: "Le parti si impegnano, come stabilito nello Statuto delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in modo che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non vengano messe in pericolo, e ad astenersi, nei loro rapporti internazionali, dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza, assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite". Chiaro?».


Chiarissimo. Ma il premier Berlusconi ha richiamato in Parlamento il vincolo politico che da quel patto discende. Lei, che ha firmato una risoluzione e votato contro, lo nega?


«Al contrario. Ho ricordato a palazzo Madama che già nel 1949, al momento della ratifica del Trattato della Nato, il Senato americano tenne a dichiarare: "Nel caso in cui si verificasse un attacco armato contro uno dei Paesi partecipanti, noi potremo decidere legalmente, moralmente e costituzionalmente quale debba essere il nostro comportamento". E il nostro ministro degli Esteri, Carlo Sforza, nel presentare il Trattato al voto delle Camere, ribadì l’esclusione dell’automatismo e la necessità di rispettare sempre le prerogative dei Parlamenti. È su queste basi che ho ritenuto giusto che il nostro Parlamento si pronunciasse per l’esclusione di qualunque partecipazione o collaborazione dell’Italia alla guerra contro l’Iraq».


Andreotti è stato descritto, volta a volta, come più filo arabo che filo americano, più portavoce del Vaticano che dell’Alleanza atlantica, non proprio antiamericano ma neppure anticomunista. Provi a definirsi lei?


«Un democratico che non è così superbo da ritenere di avere sempre ragione, ma nemmeno così umile da pensare il contrario».


Nel suo libro «Visti da vicino» dell’89 aveva descritto gli Usa come una «realtà estremamente varia e dagli aspetti talvolta contradditori». E visti da lontano: nel tempo, dal potere?


«Confermo l’impressione circa un pluralismo straordinario di ambienti e di impulsi. È un po’ quel che accade quando si dice: il Vaticano. Si va da un sampietrino a Sua Santità».


Ha voluto indicare una sorta di peccato originale con quel richiamo, al Senato, al bombardamento dell’abbazia di Montecassino nel ’44, giustificato dagli americani con la presenza di armi e truppe naziste senza mai fornirne le prove?


«È stata una risposta occasionale al senatore che aveva parlato prima di me: per richiamare tutti alla prudenza circa le prove di un fatto o di un misfatto».


Allora americani come «liberatori» dal nazifascismo o «occupanti» di un paese sconfitto?


«Che nella liberazione gli americani abbiano avuto un ruolo determinante è fuor di dubbio. Basta pensare ai cimiteri di guerra. Qualche volta ci vado, a pregare per la pace».


Come interagirono la scelta di campo occidentale della Dc e l’interesse americano ad assicurarsi la fedeltà di un paese di confine tra i due blocchi, che portarono alla rottura dell’unità nazionale dopo il primo viaggio di De Gasperi negli Usa con l’estromissione della sinistra dal governo?


«Il legame dei comunisti con i partiti fratelli, sotto la guida del Pcus, era fuori di dubbio. La pubblicazione del documento costitutivo del Cominform li inchiodò. Per di più Togliatti scese in campo in prima persona definendo cretini gli americani. Non lo erano. Erano quelli del Piano Marshall e del Patto Atlantico, punti fermi della rinascita italiana».


Ma i rapporti degli americani con il Vaticano proprio idilliaci non erano...


«Gli americani erano determinanti per la difesa dell’Europa in chiave di scoraggiamento (di deterrenza, come la si è poi definita) da attacchi dall’Est. Da soli non credo che ce l’avremmo fatta; e, nel caso, sacrificando ogni investimento di sviluppo. Il Vaticano c’entra poco...».


Non c’entra neppure con le tensioni nella stessa Dc, a giudicare dai voti contrari di Bartesaghi e Melloni all’adesione all’Alleanza atlantica? O li si deve ritenere espressione di un filone anti americano latente nello scudocrociato?


«C’è, nella tradizione cristiano-sociale, un filone storico ostile ai patti militari come tali. Il Patto di acciaio e l’Asse Roma-Berlino-Tokyo avevano rafforzato questa allergia. Il pericolo sovietico però esisteva, e la necessità di una deterrenza si imponeva. A spiegarlo a Pio XII andò l’ambasciatore italiano a Washington Alberto Tarchiani, laicissimo personaggio del Partito d’Azione. La direttiva del Pontefice fu determinante nel far superare le obiezioni. I casi di dissenso furono rarissimi. E la storia ci ha dato ragione».


Perché quell’opposizione, pure striminzita, non poteva convivere nella Dc, e si dovette arrivare all’espulsione dei due dissidenti?


«Forse la segreteria della Dc di Amintore Fanfani avrebbe potuto comprendere di più sul piano umano la crisi di Bartesaghi. Melloni si schierò al suo fianco, come dire, romanticamente...».


Lei era amico stretto di Melloni, diventato il Fortebraccio de «l’Unità» una volta passato al Pci...


«Rammento che qualche anno prima Melloni non fu nominato presidente della Rai perché Sandro Pertini era venuto a dire a De Gasperi che Mario era comunista. Grande sorpresa ma... in dubio libertas e libertas in dubio, la candidatura cadde. Più tardi Melloni tornò ai suoi amori politici giovanili di estrema sinistra e divenne Fortebraccio. Però, sul piano personale, la nostra amicizia non ne risentì mai».


Fino a che punto si spinse il «processo di decantazione» coltivato da De Gasperi per il «riavvicinamento delle due Italie»?


«La linea di fondo di politica estera era essenziale e non poteva consentire deroghe. Ma, forse, il sistema proporzionale ed anche la qualità dei contrapposti leader lasciava spazio a dialoghi essenziali».


Tanto da attirare su De Gasperi l’accusa di «tiepidezza anticomunista»?


«Ci fu una dichiarazione dell’ambasciatrice Luce, secondo la quale con Pella si era avuto al governo un "uomo forte". De Gasperi ne fu rammaricato. E però nell’agosto 1954 l’ambasciatrice, che era in vacanza, venne a Roma per il funerale del presidente».


Quali ostacoli incontrò l’apertura al centro-sinistra?


«Guardi che a Washington non furono ostili al centro-sinistra: è vero il contrario. C’è un libro, "Gli Usa e il centrosinistra", reso possibile dall’apertura degli archivi, che rivela come l’ingresso dei socialisti al governo era visto come argine ai comunisti».


E quando i comunisti entrarono nella maggioranza dei governi di solidarietà nazionale da lei presieduti?


«Diciamo che i tempi tecnici dei vari comparti non marciarono in sintonia cronometrica...».


Un modo aulico per dire: interferenze?


«Vi furono incomprensioni: agli inizi, verso la tregua del 1976. Io mi recai a Washington a chiarire le cose, e tutto andò liscio. Tra l’altro, la "condizione", se così la si può definire, era costituita dal riconoscimento della Nato, che Enrico Berlinguer e i comunisti rispettarono nel novembre ’77».


Erano gli anni del terrorismo delle Brigata rosse, che dell’unità nazionale uccisero l’uomo-simbolo: Aldo Moro. Si può confrontare la prova che l’Italia dovette affrontare con quella a cui stanno facendo fronte gli Usa dopo l’11 settembre?


«Il terrorismo nostrano era un fenomeno interno, forse (e sottolineo forse) con qualche aiuto esterno. Sullo sfondo dell’11 settembre, invece, c’è l’incognita di una rete internazionale».


Tale da giustificare la «guerra preventiva»?


«Se fosse stata dimostrata la connessione tra il regime iracheno e la nefasta attività di Bin Laden e della sua setta, si sarebbe anche potuto considerare automatico il proseguimento della campagna dell’Afghanistan. Ma non mi pare sia su questa piattaforma che si è impostata la guerra all’Iraq».


Sospetta che l’obbiettivo sia il petrolio?


«È sbagliato dare alla crisi una lettura esclusivamente petrolifera, ma è impossibile non tener conto che sullo sfondo i problemi energetici ci sono, eccome».


In un’area particolarmente calda. Ripensando al caso di Sigonella, che rischiò di mettere a repentaglio i rapporti tra l’Italia e l’America, si può dire che già si scontravano diverse visioni della questione mediorientale?


«Francamente, non esagererei la valenza di Sigonella. È vero, dovemmo bloccare una prepotenza intollerabile da parte americana. Ma il dissenso durò pochi giorni. E il caso si chiuse quando Ronald Reagan si scusò con Bettino Craxi».


E il rifiuto di autorizzare l’uso delle basi italiane per le «ritorsioni» americane alla Libia?


«Il bombardamento della Libia fu un errore. E una ingiustizia. Non potevano certo attendersi un appoggio italiano».


L’attenzione dell’Italia al mondo arabo era un modo per riequilibrare l’Alleanza atlantica?


«Era il modo di dare sostanza alla linea di La Pira. Ripensare a quella strategia di grande respiro mi rende triste, perché temo che le vicende attuali ci mettano fuori da un ruolo storico importante».


Non «velleitario», come dice Francesco Cossiga, che nemmeno nasconde il suo «imbarazzo» per certi accordi segreti con i palestinesi?


«L’attenzione per i palestinesi, fermi restando i diritti e la sicurezza in Israele, era doverosa. Non si dimentichi che l’Italia ha collaborato al processo di pace nel Medio Oriente, tramite la Comunità europea, con la "Dichiarazione" di Venezia del 1980 di cui furono artefici Genscher e Colombo».


Quanto pesa la mancata soluzione alla crisi palestinese sulla vicenda internazionale di oggi?


«La "non pace" in Palestina pesa moltissimo. Quel che è accaduto ora al vertice dei palestinesi apre una possibilità, ma Sharon ha già detto che non basta. Si accetta o no lo Stato palestinese, ferma restando la difesa degli israeliani? Purtroppo, tutti sono convinti che si debba arrivare alla convivenza, ma di fatto si batte il passo. E la gente continua a morire e a odiarsi».


E quanto incide la divisione dell’Europa in quelle che lei ha definito «parocchiette» e «direttòri»?


«C’è una contraddizione penosa tra il lavoro della Convenzione, teso anche ad elevare ad obbligo costituzionale la politica estera e di sicurezza comune sancita a Maastricht, e i tremendi passi indietro della stessa unità di azione dell’Unione europea. Purtroppo, nel bilancio negativo della crisi irachena, dobbiamo comprendere anche questa lacerante disgregazione, persino tra i paesi candidati alla nuova Europa».


Perché ha detto di non considerare Saddam «il solo peccatore in un mondo di figli di Maria», quando nel ’91, da capo del governo, proprio lei schierò l’Italia nella prima guerra contro l’Iraq?


«La guerra del Golfo era legittima perche Saddam Hussein aveva occupato il Kuwait. Dovevano battersi il petto quanti, in odio a Khomeini, avevano considerato un benemerito Saddam che aveva aggredito l’Iran».


Quindi, la differenza tra ieri e oggi è data dalla legittimità. Ma chi dovrebbe sancirla?


«L’Onu dovrebbe essere conditio sine qua non delle iniziative internazionali militari. Non è perfetta, ma per il momento è quanto di meglio offre la vita internazionale».

---------------------------

DA - L'UNITA'

«Shadan, un mese di vita, vittima delle bombe a grappolo»

«Cosa sta succedendo in Iraq? Ve lo dico subito». Non aspettatevi un resoconto su strategie militari o grafici per capire come funzionino le bombe «intelligenti» sganciata su Baghdad o su Hillah. Teresa Strada, presidente di Emergency, non ha nessuna intenzione di usare di addolcire la pillola irachena. Che è amarissima. «Che succede? Succede che martedì scorso, in uno dei nostri quattro centri nell’Iraq settentrionale, i volontari di Emergency hanno curato la vittima più giovane che avessero mai assistito: Shadan, una bambina di 30 giorni. Ecco cosa sta succedendo in Iraq». L’associazione che Teresa Strada presiede, guidata insieme al marito Gino, è presente nel Kurdistan iracheno dal 1995. Le bombe piovute dai B-52 in questi ultimi giorni hanno aggravato il lavoro dei volontari di Emergency.


Come associazione, avete due centri specializzati nell’inserimento di protesi nel Nord dell’Iraq e due ospedali, uno a Erbil e l’altro a Sulaimaniya. È in quest’ultimo che è arrivata Shadan?


«Sì, è la vittima più piccola che abbiamo mai curato. È uno scandalo. Shadan è arrivata insieme ad altri dieci feriti, tra cui due guerriglieri curdi. Sono stati vittime di uno scontro a fuoco tra i partigiani e l’esercito regolare iracheno di Saddam Hussein, nei pressi del villaggio di Kifri a sud di Sulaimaniya. La situazione di Shadan è apparsa subito grave, visto che era stata colpita alla schiena da un frammento di razzo. Per fortuna, la piccola non ha subito lesioni alla colonna vertebrale. Se non bastasse, nel reparto maschile del nostro ospedale di Sulaimaniya è ricoverato suo padre, in quello femminile, sua nonna».


Con il lancio delle bombe a grappolo da parte dell’esercito Usa, siamo tornati a discutere di queste micidiali armi proibite. Quali riscontri avete nei vostri ospedali in Iraq?


«Queste cluster bomb, le bombe a grappolo, delle bestie. E devono essere considerate come vere e proprie mine anti-uomo. Per di più, sono i bambini i più colpiti perché svolgono, agli occhi di qualsiasi militare, attività "belliche" come portare le bestie al pascolo o giocare nei campi. Solo nelle ultime ore, sempre a Sulaimaniya, sono state ricoverata sette persone, ferite per lo scoppio di mine anti-uomo. Un numero enorme rispetto alla media di un ricovero al giorno. Ciò vuol dire che la fuga della popolazione passa attraverso i vecchi campi minati oppure che qualche esercito ha disseminato la zona curda con nuove mine. Queste ultime vittime ci ricordano che le bombe a grappolo funzionano come le mine anti-uomo: rimangono inesplose per anni e sono pronte a esplodere in qualsiasi momento. Non si disinnescano quando una guerra finisce ma rimangono lì, come un’ombra di un qualche esercito oppressore».


Anche in Afghanistan, Emergency continua il suo lavoro, sia per curare i feriti di una guerra strisciante che quelli causati dalle mine. Che similitudini vedi tra quel che sta succedendo in Iraq e quello che succedeva a Kabul?


«C’è una relazione strettissima tra queste due guerre. Ancora ricordo le tante testimonianze di bambini afghani colpiti dall’esplosione di quelle "lampadine gialle", tanto simili ai pacchi umanitari sganciati dagli Usa. Anche allora, erano le cluster bomb. Ma guardando le immagini del bombardamento di ieri (mercoledì, ndr) sul reparto maternità vicino Baghdad, le sensazioni di rabbia sono fortissime. In momenti come questi, il nostro lavoro non si può fermare: stiamo per inaugurare un centro maternità nel Panshir, in Afghanistan».


Quali sono, adesso, le priorità umanitarie di Emergency?


«Abbiamo già predisposto due enormi cargo pronti ad arrivare a Baghdad, appena sarà possibile. Per adesso, sono stazionati ad Amman, in Giordania. Ma vogliamo fare di più. E abbiamo bisogno di tutto. Basta chiamarci o visitare il nostro sito web www.emergency.it <http://www.emergency.it per darci una mano o fare un versamento (c/c postale 28426203). Non è il momento di fermarsi».

* presidente di Emergency

----------------------------------------

DA - L'UNITA'

«Ma l’Onu non è solo il Consiglio di Sicurezza»

La guerra in Iraq, il futuro delle Nazioni Unite, le ricadute sullo scenario mediorientale e il rischio di un rafforzamento dei gruppi dell’Islam radicale. Ne discutiamo con Staffan de Mistura, rappresentante personale in Sud Libano del segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan.


C’è chi sostiene che la prima «vittima» politica della guerra angloamericana sia stata l’Onu. Nello stesso tempo, però. almeno uno dei due protagonisti di questa azione, il premier britannico Tony Blair, ha ripetuto negli ultimi giorni che le Nazioni Unite debbano avere una centralità nella ricostruzione, non solo economica, dell’Iraq «liberato». Come valuta queste due affermazioni così opposte tra loro?


«Quando c’è una guerra, purtroppo, ci sono sempre molte vittime. E certamente un’organizzazione, quale l’Onu, che è stata creata per favorire la pace ne subisce il contraccolpo. Del resto il segretario generale lo ha riconosciuto quando si è avviato il conflitto. Non è né la prima e, temo, non sarà l’ultima volta che l’Onu viene in qualche maniera bypassata in un conflitto. Resta il fatto che nell’utilizzazione di tutte le sue risorse per interventi umanitari e in quelle che possono essere altre funzioni che l’Onu può offrire, l’organizzazione è sempre stata rivalutata. In altri termini, a volte si può bypassare l’Onu, ma ignorarla è impossibile. La storia lo ha dimostrato. Spetterà al Consiglio di Sicurezza decidere quale ruolo voler dare all’Onu. Certamente in questo momento in termini operativi, il ruolo che le compete e che le compete per mandato, è quello di fare di tutto, ed essere aiutata a fare di tutto, perché un sostegno umanitario non venga interrotto ma venga invece rilanciato verso la popolazione civile».


Il protrarsi del conflitto può innescare una catastrofe umanitaria e l’Onu è in condizione di farvi fronte?


«Sì, sono molto preoccupato per la potenziale crisi umanitaria. Il programma "Oil for food", di cui sono stato nel 1997 il primo coordinatore, provvedeva a nutrire 26 milioni di iracheni, di cui circa 16 milioni totalmente dipendenti dalle razioni alimentari delle Nazioni Unite. La distribuzione che è stata fatta prima del conflitto dovrebbe bastare per ancora tre settimane, di conseguenza è di vitale importanza che i canali umanitari siano riattivati in maniera tale che la distribuzione possa ripartire ovunque la popolazione irachena sia presente e prima di quella data-limite. Il maggiore interprete di questa componente nella famiglia delle Nazioni Unite è il Programma alimentare mondiale, che ha la sua base a Roma. Si tratta di un’organizzazione che ha già in passato dato ottima prova di sé in zone di guerra».


L’Onu non è dunque condannato ad un ruolo di spettatore passivo di questo drammatico conflitto?


«Ciò che ho appena detto sul Pam è un’ulteriore dimostrazione di come l’Onu non sia soltanto identificabile con il Consiglio di Sicurezza, ma deve esserlo anche con le agenzie operative delle Nazioni Unite, come il Programma alimentare mondiale e l’Unicef. Ciò significa che anche quando il Consiglio di Sicurezza è in stallo, l’Onu opera e può contribuire, con le sue componenti umanitarie, a rendere le crisi meno gravi».


La guerra all’Iraq vista da una delle frontiere più «calde» del Medio Oriente: quella israelo-libanese. C’è il rischio che il conflitto possa estendersi dall’Iraq all’intera regione?


«Se c’è una zona potenzialmente esplosiva sul piano militare in Medio Oriente oggi, questa è proprio la frontiera siriana-libanese-israeliana, la cosiddetta "linea blu". E quindi c’è una terribile, particolare attenzione da parte di noi tutti, e delle Nazioni Unite in particolare, affinché questa frontiera rimanga "blu" e non diventi invece "rossa" durante un potenziale pericolo di conflitto regionale. Debbo dire con soddisfazione che, almeno fino ad oggi, si è riusciti ad evitare, con la collaborazione del governo libanese e delle stesse autorità israeliane, che nulla di teso e di particolare sia avvenuto lungo la frontiera. E questo perché abbiamo innanzitutto aumentato enormemente il pattugliamento, e poi perché c’è evidentemente la percezione da parte di tutti che non è nell’interesse di nessuno regionalizzare il conflitto iracheno, e infine perché in effetti la questione della frontiera libanese non è mai stata di fatto strumentalizzata in termini iracheni da parte di nessuno. Ora, l’unico vero pericolo, sul quale teniamo gli occhi bene aperti, riguarda gruppuscoli di eventuali personaggi che possano, stimolati da chissà chi, in qualche maniera voler creare un incidente lungo la frontiera».


In che modo potrebbero creare problemi?


«In passato si è temuto che gruppi di persone possano lanciare una salve di razzi katiuscia dal Sud Libano all’Alta Galilea, in modo tale da attirare una risposta israeliane e tramite questo regionalizzare il conflitto. Ma dato che noi sappiamo che le autorità libanesi sono totalmente contrarie a questo, che finora gli Hezbollah si sono mantenuti calmissimi, e che da parte israeliana c’è stata una grande calma, se avvenisse un incidente del genere dovremmo essere in condizioni di isolarlo e di analizzarlo per quello che è, vale a dire una provocazione voluta per tirare in ballo il Libano, Israele o la Siria, quando in effetti non c’è intenzione di nessuno, o almeno questo è ciò che a noi risulta, che ciò avvenga. Per quanto ci riguarda, continuiamo a lavorare e ci aspettiamo che la frontiera rimanga calma anche se è potenzialmente incandescente».


Saddam Hussein ha lanciato un appello alla Jihad globale contro i «nuovi crociati». È un appello che cadrà nel vuoto, oppure, come in molti temono, questa guerra finirà per rafforzare i gruppi integralisti, e tra essi gli Hezbollah libanesi?


«Posso rispondere partendo dalla percezione locale, avendo vissuto per due qui in Libano, ed avendo contatti con tutti e dunque anche con gli Hezbollah, presenti nel Sud Libano. L’impressione che si ha è che è che gli Hezbollah non si faranno attrarre da un appello che viene da qualcuno, come Saddam Hussein, che in passato ha massacrato molti sciiti nel sud dell’Iraq. In poche parole, le scelte di Hezbollah , in termini fondamentalisti o meno, saranno fatte sulla base delle loro valutazioni piuttosto che di un appello di un raìs che all’improvviso si aggrappa alla religione pur di mantenersi al potere e far esplodere l’intero Medio Oriente. Detto questo, le guerre che si fanno in nome della religione sono purtroppo frequenti, ma la fortuna è che non tutti cadono in questo tipo di appelli».


Nel Libano è anche molto forte la presenza dei palestinesi, in particolare nei sovraffollati campi profughi del Sud. Un altro argomento sollevato da Saddam per infiammare il mondo arabo è quello della «liberazione della Palestina». In che modo, partendo dalla sua esperienza diretta, i palestinesi recepiscono gli appelli di Saddam e vivono questa guerra?


«Finora, da quello che si è notato sia nei campi profughi che in quella che viene chiamata "la strada araba", non si è notato niente di più o di diverso da ciò che si è notato in altre piazze arabe o in altri luoghi del mondo dove si è manifestato contro la guerra. A livello operativo, per fortuna, non ci è stata un’iniziativa di voler coinvolgersi da parte palestinese in quello che è un conflitto che non li riguarda direttamente. Anzi, il timore dei palestinesi è che il conflitto in qualche maniera offuscasse e facesse dimenticare quello che è il loro vero problema, e cioè la ricerca di una soluzione equa e duratura del conflitto israelo-palestinese».