DA - LA REPUBBLICA

Parla il leader carismatico del movimento
"La sinistra si deve battere fino in fondo"
Ingrao scende in piazza
"Più uniti per la pace"

"E adesso io, non cattolico, dico grazie al Papa"
di GOFFREDO DE MARCHIS

ROMA - "La sinistra italiana ha trovato una posizione comune in queste ore ed è una buona cosa. Spero che l'unità si rafforzi. Ma in Parlamento, l'altro giorno, è stata ancora debole. Bisogna difendere la pace più arditamente e più tenacemente". Pietro Ingrao torna in piazza contro la guerra. Chiede maggiore impegno, una "mobilitazione globale che deve durare a lungo e deve saper incidere sui palazzi del potere".

Lei teme anche un'estensione del conflitto?


"Penso che avrà un'enorme influenza in tutto il mondo. Penso che creerà dei disastri in tutto il mondo islamico. Con questa guerra l'Occidente si gioca la faccia. È una sfida più grande di quella vissuta dalla mia generazione che nel '36 si trovò di fronte alla Seconda guerra mondiale, I giovani non devono vivere le tragedie che ho vissuto io nel pieno della giovinezza. Ma il pericolo c'è. Bush l'ha confessato pubblicamente. Non è tanto l'Iraq, non è il petrolio, non è l'assetto del Medio oriente. Il presidente americano vuole una nuova sistemazione del mondo. La conquista di Bagdad è solo il puntino di un disegno molto più vasto".

L'Onu è finito?


"Gli è stato inferto un colpo che spero non sia un colpo mortale. La guerra è scoppiata mentre alle Nazioni unite c'era un confronto aperto, confronto che è stato interrotto dai missili e dalle bombe. Questo è un altro aspetto sconcertante e gravissimo del conflitto in corso. Ma l'Onu è vacillante, in difficoltà da molto tempo".

Sul fronte della pace, in Italia si ritrovano i giovani del movimento e i vecchi leader democristiani. Come giudica questo segnale?


"È il segnale che il movimento pacifista italiano è uno dei più grandi del mondo. Ma è importante anche ciò che avviene in altre parti del mondo. In Inghilterra per esempio. Dove sono in tanti a scendere in piazza, dove si assiste a una rivolta nel partito di Blair".

Il Papa non si rassegna all'idea della guerra.


"Io non sono credente. E in generale non sono uno dei più devoti al fascino di Giovanni Paolo II. Ma dal pontefice sono venute parole alte e di grande coraggio in questa tragica occasione. Ha messo in movimento delle forze nuove. Ma questo movimento non nasce oggi. Coinvolge le nuove generazioni in Italia e non solo in Italia. Ho la fortuna di partecipare alla stupenda manifestazione di Firenze. Sono ragazzi che discutono, che pensano, che si confrontano. Non sono solo giovani che vanno a gridare nelle piazze".

Perché dice che la sinistra deve fare di più?


"Perché qui si vedrà il suo valore, qui si decide l'avvenire della sinistra, dal modo in cui risponde a questo evento tragico. Bisogna difendere con più forza la Costituzione. È scoppiata una guerra canaglia, cioè una guerra preventiva e mi ha molto colpito che una maggioranza parlamentare abbia stracciato la Costituzione italiana, l'articolo 11. È un problema generale di tutela della pace e di difesa della Carta. Dobbiamo continuare nella resistenza".

Le piace lo slogan: contro la guerra senza se e senza ma?


"Lo condivido in pieno, dobbiamo essere per la pace senza se e senza ma. Ma a questo slogan è necessario dare un carattere generale, non limitarsi all'attacco all'Iraq. La posta in palio è l'assetto del mondo e del ruolo che avranno in futuro le armi".

DA - IL MESSAGGERO

Clô: per il greggio avremo grande instabilità
I prezzi sono scesi per motivi speculativi. Dopo conteranno due fattori: la durata della guerra e i danni agli impianti

di BARBARA CORRAO

ROMA — La guerra si avvicina e il petrolio torna sotto i 30 dollari. Abbiamo dunque scampato il pericolo di un’impennata dei prezzi a livelli cervellotici e con esiti catastrofici per l’economia mondiale?
Alberto Clô, consigliere d’amministrazione dell’Eni e uno dei massimi esperti di energia in Italia, risponde in sostanza che è meglio non trarre conclusioni affrettate. Se il Brent inglese martedì è sceso ai livelli più bassi dal 2001, e se a New York l’oro nero ieri ha aperto a 31,5 dollari al barile contro i quasi 40 di pochi giorni fa, la ragione per ora è soprattutto tecnica. «Gli aumenti che si sono registrati nei giorni scorsi sono stati in gran parte di natura speculativa — spiega Clô — e chi ha molto guadagnato nell’ultimo periodo è andato all’incasso. Ha preferito cioè incamerare i guadagni piuttosto che rischiare un ulteriore diminuzione».


Possiamo fare affidamento su questo livello di prezzi anche a guerra dichiarata? L’Opec si è detto pronto a ridurre l’output per evitare eccessi di ribasso...


«La risposta a questa domanda è legata ad una doppia considerazione: perché i prezzi mantengano questo livello o, meglio ancora, lo riducano, è necessario che la guerra sia molto breve e che le forniture irachene riprendano al termine della guerra».


E si verificheranno entrambe le cose?


«La prima condizione è verosimile che si realizzi, se si guarda ai rapporti di forza tra i due schieramenti. E’ evidente la differenza delle forze in campo, non c’è confronto».


E la seconda condizione?


«Rispondere è molto più problematico. Bisognerà vedere infatti se e quanto saranno danneggiati gli impianti produttivi. Quando nel ’91 l’Iraq si ritirò dal Kuweit incendiò 700 pozzi che bruciarono per nove mesi circa. Spegnere questi incendi è estremamente complesso dal punto di vista tecnico, sia per problemi di avvicinamento sia per la quantità d’acqua necessaria. Il risultato fu che i pozzi rimasero inattivi per un anno e mezzo. In Iraq la situazione è molto più complessa: i giacimenti sono più grandi, più numerosi e difficili da raggiungere. Se dovessero essserci danni seri o se Saddam Hussein utilizzasse le armi di distruzione di massa che è accusato di possedere, allora le forniture di greggio potrebbero venire a mancare. Ed è chiaro che lo scenario sarebbe completamente diverso».


Il mondo non ha alcun «paracadute» per superare la crisi?


«Certamente. Ci sono riserve molto copiose a cui i governi possono attingere. Solo gli Usa hanno scorte strategiche, direttamente controllate dal governo, valutabili in circa 600 milioni di barili al 13 marzo 2003, cioè pochi giorni fa. Si tratterebbe di circa 4 milioni di barili al giorno per circa 90 giorni: è un buon ammortizzatore se consideriamo che la produzione irachena attuale è di 2 barili al giorno. Ma questi calcoli a tavolino non vengono scontati dal mercato che si muove su input più irrazionali. Non dimentichiamo che il clima negativo dei giorni scorsi ha spinto il greggio quasi a 40 dollari, e in asenza di guerra».


La conclusione?


«La conclusione è che andiamo verso un periodo di forte instabilità dei prezzi prima di un loro assestamento. Il mercato ha risposto con oscillazioni su una banda alta, 35 poi 33 poi 39 dollari, alle informazioni che via via ha ricevuto. L’elemento cruciale per i prossimi scenari è la durata del conflitto e il danneggiamento o meno degli impianti. Nell’ipotesi peggiore, guerra lunga e pozzi incendiati, il prezzo potrebbe certamente superare i 40 dollari».


Un prezzo pesante da pagare per l’economia...


«Si calcola che un aumento di 10 dollari al barile riduca la crescita mondiale dell’1 per cento. Dai 24-25 dollari della media 2002 siamo già passati ai circa 30 dollari del primo trimestre 2003. L’economia dunque ha già pagato un costo altissimo. Ma è difficile fare previsioni, dobbiamo vivere giorno per giorno».

da - l'unita'

"Rotto il monopolio. Stavolta in campo anche le tv arabe"

A Samir Al Qaryouti, giornalista palestinese, esperto di politica internazionale e di questioni arabe, laureato a Bologna in Scienze Politiche con specializzazione all’Iai di Roma, collaboratore della Rai, opinionista di Al Jazira e corrispondente della tv palestinese e di alcune emittenti di Dubai, abbiamo chiesto quale sarà il ruolo dei media nella guerra, ormai arrivata all’ora zero. Ma prima di entrare nel merito risponde all’inviato de La Repubblica in Kuwait che, durante una recente puntata di «Porta a Porta», rivolgendosi a D’Alema ha detto: «Presidente, se fosse qui le sue parole non avrebbero ascolto perché i paesi arabi sono tutti favorevoli alla guerra».
«Il ragionamento di D’Alema è stato limpido sul ruolo dell’Onu, sulla differenza tra questa guerra e quella del Kosovo - spiega Al Qaryouti - e sui timori per il prevedibile moltiplicarsi dei fenomeni terroristici, non vi è nulla di più mistificante dell’affermare che tutti i paesi arabi sono favorevoli alla guerra. La verità è che i governi arabi, con la loro fallimentare politica, non riescono a pronunciarsi chiaramente perché temono una possibile rivolta dei loro popoli e di perdere le poltrone. Si pensi solo che nello stesso Kuwait esiste un importante movimento di opinione pubblica contro la guerra, nonostante tutto quello che ha fatto Saddam ai kuwaitiani. Figuriamoci nel resto del mondo arabo».


Un’opinione pubblica araba, dunque, presente e matura?


«Uno stereotipo diffuso è che gli arabi non abbiano un’opinione pubblica. Invece c’è ed è compatta e consapevole, nonostante tutte le società arabe, nessuna esclusa, subiscano l’oppressione dei loro regimi».


Come si spiega mancanza di democrazia e ciò che sostiene D’Alema: un’opinione pubblica consapevole che gli obiettivi della guerra vanno oltre Saddam e le armi di distruzione?


«Nel crescere delle manifestazioni, nella partecipazione alle iniziative contro la guerra e a quelle che contribuiscono alla costruzione della democrazia e della libertà. Basta vedere quante persone dei vari paesi partecipano ai dibattiti televisivi in diretta sulla guerra. Tutti gli arabi sanno che questo conflitto ha obiettivi diversi da quelli dichiarati e che gli scopi, oltre al petrolio, sono di ridisegnare l’assetto geopolitico dell’intera regione del Medio Oriente, imporre il modello Sharon per risolvere i problemi, cioè colpire duro, imporre realtà de facto, distruggere l’Iraq per lanciare l’appalto più sanguinoso del terzo millennio, per affidare a ditte vicine a gruppi di integralisti dell’amministrazione Bush la ricostruzione del paese. Così come scrive la stampa americana e di tutto il mondo. I popoli arabi, con i palestinesi che vengono massacrati, non possono accettare l’invasione di un altro paese arabo. Tutti sanno che Saddam non è una minaccia anche perché 12 anni di embargo l’hanno sfinito. Nel ‘91 molti erano a fianco del Kuwait perché, giustamente, l’invasione di Saddam era considerata folle. Ma ora? Non ha aggredito nessuno e sta collaborando con gli ispettori».


Che ruolo giocheranno i media oggi anche rispetto al ‘91?


«Di certo questa volta il conflitto non ci giungerà soltanto tramite la Cnn, né tramite i briefing e le conferenze preconfezionate del Pentagono, né tramite le Radio installate in fretta e furia con varie denominazioni ridicole. Oggi ci sono molte emittenti che vanno direttamente nel luogo dell’avvenimento per raccontare in diretta. Oltre ad Al Jazira vi sono l’egiziana Al Neel, la libanese Lbc, la saudita Mbc, per non parlare di quelle europee e internazionali. Rispetto alla guerra del ‘91 vi sarà un’informazione completamente diversa. Basti pensare che i servizi saranno trasmessi nel mondo arabo in diretta e in lingua araba e non in lingua inglese tradotta. Questa è la prima differenza. La seconda è che Al Jazira, presente a Baghdad ma anche nel nord curdo e in altre città, con i suoi 18 inviati e forte di due esperienze passate: quella del ‘98 durante "Volpe del Deserto", proprio a Bagdad, dove ha superato la concorrente americana, e quella della Intifada palestinese, in cui ha fatto entrare in milioni di case le immagini minuto per minuto, persino delle dichiarazioni di prigionieri palestinesi mentre venivano buttati dentro i camion israeliani, sarà determinante».


Cos’è che ha fatto di Al Jazira una Tv di così grande rilievo?


«Questa tv di news e di inchieste, non di minigonne e balletti, è credibile perché la maggior parte del suo lavoro va in diretta. Sono molti i programmi di opinione liberi e audaci e non imbrigliati o camuffati. È una novità assoluta per il mondo arabo che subisce politiche arcaiche e limitazioni incredibili di libertà, la sua presenza è essenziale per la libertà di opinione e per la democrazia nel mondo arabo; fa conoscere agli arabi e ai musulmani le altre realtà del mondo, le altre culture, le altre civiltà. Basta guardare i dibattiti, ascoltare le telefonate in diretta, sentire la lettura dei messaggi mail o dei fax per capire l’importanza di questa ma anche delle altre emittenti che stanno nascendo come funghi sulla sua scia. I programmi di Al Jazira, sempre in diretta, fanno conoscere varie realtà: ce n’è uno,ad esempio, settimanale di un’ora e mezza sulla politica americana. Da poco sono iniziati: "Dall’Europa" e "Rete dei corrispondenti". Un altro di analisi religiosa che non parla solo di Islam ma anche di cristianesimo e di altre religioni».


Però Al Jazira viene anche accusata di essere strumento di Al Qaeda.


«Nessuna emittente né giornale al mondo avrebbe rifiutato uno scoop come lo erano i video di Bin Laden. Se Al Jazira fosse una copertura per Al Qaeda, Ramsfield, Powell e altri ancora non si farebbero intervistare per più di un’ora. Di certo Condoleeza Rice, venerdì scorso, non sarebbe andata alle 18,30, con un largo sorriso, negli studi di Al Jazira a Washington, per rilasciare quelle dichiarazioni esclusive per ben 45 minuti. Da notare che non è stata intervistata da uno stormo di direttori arrivati con un aereo speciale.»


Per concludere, che riflessi avrà questa guerra sulla questione palestinese?


«Temo che darà il via alla realizzazione del sogno di Sharon: deportare la maggior parte del popolo palestinese trasferendolo, sotto il potere del nuovo governatore militare di Baghdad, nel deserto iracheno al confine con la Giordania. Ipotesi prospettata anche da molti giornalisti israeliani. Bush, nel suo ultimo discorso, ha detto di voler consegnare il tracciato del piano di pace dopo la nomina del primo ministro palestinese. Non è quantomeno strano che nel ‘90-’91 Bush padre proibì qualsiasi nesso tra Iraq, Kuwait e Palestina e oggi Bush figlio, dopo un anno di silenzio, e dopo la crisi dell’Iraq pensi allo Stato palestinese?».

DA - L'UNITA'

"Kuwait invece di Turchia, tempi più lunghi per l'attacco"

«Il no del Parlamento turco alle richieste americane rende più complicata l’azione militare ma non dovrebbe renderla impossibile». A sostenerlo è il professor Stefano Silvestri, direttore dell’Istituto Affari Internazionali (Iai). «È grazie alle pressioni militari - sottolinea il professor Silvestri - che Saddam Hussein ha iniziato a collaborare con gli ispettori dell’Onu. Ma queste pressioni non possono durare in eterno. Il costo economico diverrebbe insostenibile per gli Stati Uniti. L’intervento armato può essere scongiurato solo se si delinea, in tempi rapidi, una soluzione alternativa che non facesse passare gli americani come degli sconfitti. La soluzione ottimale, e non solo per Washington, sarebbe la scelta dell’esilio da parte di Saddam Hussein o, quanto meno, una significativa accelerazione del disarmo da parte di Baghdad. Ma non mi pare che ciò sia all’ordine del giorno».


Che ricadute può avere sul piano militare il «no» del Parlamento turco alle richieste americane?


«Quel "no" rende indubbiamente più complicata l’azione militare ma non sino al punto di renderla impossibile».


Secondo il quotidiano inglese «The Indipendent», il «no» turco potrebbe far slittare di un mese l’inizio della guerra. Condivide questa valutazione?


«È una previsione realistica perché in effetti il dispiegamento delle truppe diviene più complicato. Bisogna spedirle altrove e questo naturalmente rende più complessa l’intera operazione. Occorre inviare più truppe di terra nel Golfo, impegnare più forze aviotrasportate, il che comporta una maggiore complicazione logistica. Complicazioni commisurate all’obiettivo dell’azione militare, che è quello, almeno per Washington e Londra, di disarmare totalmente l’Iraq e abbattere il regime di Saddam Hussein. E tutto ciò non può essere raggiunto solo con massicci bombardamenti aerei. Stavolta occorrerà giungere sino a Baghdad e occupare militarmente l’intero Paese. E per far questo sono decisive le forze di terra».


Dopo il «no» turco, da dove si scatenerebbe l’offensiva terrestre?


«Essenzialmente dal Kuwait. Il Golfo Persico tornerebbe ad essere, come e più della prima guerra all’Iraq del 1991, il centro operativo di tutta l’operazione. Non va dimenticato che il Kuwait è stato invaso dall’Iraq ed è abbastanza naturale che faccia una politica più esplicitamente favorevole agli americani. L’Arabia Saudita, a sua volta, vorrebbe dare una sorta di appoggio "invisibile". Riyad teme contraccolpi interni ma non è detto alla fine gli stessi sauditi non prendano una posizione più positiva per gli Usa».


Sul piano politico come va letto il «no» della Turchia?


«Come una delle difficoltà incontrate dagli Stati Uniti nel momento in cui cercano di forzare la mano scavalcando le Nazioni Unite. In questo senso, il "no" turco non può considerarsi un fatto isolato. Altri Paesi che si erano dichiarati disponibili a supportare un’azione militare contro l’Iraq, hanno difficoltà politiche a proseguire su questa strada se non c’è l’appoggio dell’Onu».


Come valuta la decisione irachena di avviare la distruzione di missili Al-Salmoud 2?


«Quella presa, "obtorto collo", dal regime iracheno è una decisione positiva. Non è ancora sufficiente, ma non si può dire che non sia un fatto importante, frutto essenzialmente delle pressioni militari esercitate su Baghdad. L’Iraq non è che si sia dimostrato un Paese particolarmente disponibile a rispettare le risoluzioni Onu. In passato ciò non è mai avvenuto. Certamente la pressione militare è la ragione per cui Saddam collabora, anche se ancora troppo poco. Il dittatore iracheno sembra "scoprire" oggi di essere in possesso di armi chimiche e batteriologiche, il che è francamente risibile e, per altri versi, provocatorio».


Saddam sta cercando di prendere tempo?


«Certamente nella sua condotta c’è questo elemento, la volontà cioè di prendere tempo, ma c’è anche qualcosa di più. C’è un problema di rapporto costo-efficacia. Saddam sta obbligando gli Stati Uniti a spendere una quantità enorme di denaro. Francamente, la fanno troppo facile coloro che invocano pressioni militari a lungo periodo. O Saddam si arrende, o comunque decide un disarmo totale in tempi brevi, o la guerra diventa inevitabile perché il costo delle pressioni - mantenere nell’area 300mila soldati e un massiccio dispositivo militare - diverrebbe insopportabile».


La determinazione alla guerra degli Usa è spiegabile solo con il petrolio?


«No, assolutamente. La posizione americana è spiegata da una serie di fattori e in primo piano metterei l’effettivo timore di un altro, devastante attacco con armi di distruzione di massa. Non dobbiamo sottovalutare il fatto che l’11 settembre sia stato vissuto dagli americani come una sorta di nuova Pearl Harbor. E questa percezione estrema dell’evento spiega anche in buona parte la durezza delle reazioni Usa».


Date per politicamente «defunte», le Nazioni Unite sembrano aver riconquistato una loro centralità politica.


«L’Onu è tornata in prima fila. E ciò è bene. Ma se le cose dovessero precipitare, e gli Usa decidessero di agire comunque, le Nazioni Unite vedrebbero cancellata la propria autorità».


Può essere impartito il «rompete le righe» ad una armata di 300mila uomini già schierata sul campo?


«È sempre possibile tornare indietro, ma per farlo occorre che si determini una soluzione accettabile e rapida per chi ha dispiegato quelle forze. Saddam dovrebbe imboccare la via dell’esilio e l’Iraq dovrebbe avviare e chiudere in tempi rapidi un effettivo e totale disarmo. Ma non mi pare che questa prospettiva si affacci all’orizzonte».

DA - L'UNITA'

"Finchè l'Europa è divisa decideranno sempre gli Usa"

ROMA «Da Berlusconi francamente non mi aspetto nulla di buono». Massimo Cacciari risponde alle sprezzanti parole del presidente del Consiglio, che dalle manifestazioni pacifiste si aspetta «solo cose negative». L’ex sindaco di Venezia, preside della Facoltà di Filosofia dell’Ateneo di Cesano Maderno, fuori Milano, accusa l’inconsitenza dell’Europa e la fine del ruolo dell’Onu.


Berlusconi disprezza i pacifisti, ma è convinto di avere il 64 per cento delle persone dalla sua parte. Che ne pensa?


«A parlare di Berlusconi mi cade la lingua... Già di fronte a una tragedia simile vedere un leader politico che si appella ai sondaggi, cosa che non fa neppure Bush, mi fa cadere le braccia».


Cosa rivela l’insofferenza verso l’espressione democratica?


«Berlusconi è stato il primo a fare manifestazioni, quando era all’opposizione. Il suo è un evidente tatticismo strumentale. Non è certo la destra in doppiopetto, né il Lord inglese, il vecchio ministro Tory insofferente alle piazze. È un populista, un demagogo nell’animo. Ma sta ben attento alle manifestazioni di piazza, eccome».


Un atteggiamento di paura?


«È un modo per esorcizzare il timore che questa guerra gli costi parecchio elettoralmente».


Per il governo la guerra è legittima. Che ne pensa?


«Che questa guerra non è legittima lo sanno tutti, è contro tutte le norme scritte, come la Costituzione. Bush usa toni messianici dell’intervento per il bene, Powell ha cercato di leggittimarla senza riuscirci, infatti parlano di guerra "giusta"».


Berlusconi si è barcamenato con la soluzione «siamo un paese non belligerante».


«Ma sì, si barcamenano tutti. Trovo più grave che lo facciano i vari Buttiglione e Follini...».


Si aspettava che votassero contro la maggioranza?


«Ma figurati...Neppure se bombardassero Napoli lo farebbero».


Il Polo però ha dei problemi.


«Quelli scoppieranno più per le elezioni in Friuli-Venezia Giulia che per l’Iraq.».


La sinistra invece è stata unita.


«Non hanno trovato il modo di dividersi, questa volta...».


Quanto ha contribuito Berlusconi nella spaccatura europea?


«Lo ha fatto anche Aznar, con la differenza che è più coerente, ha detto: condivido in toto la guerra, la faccio. E ha mandato una barchetta... E Blair? Ha mille difficoltà in più di Berlusconi ma è stato il primo a parlare di guerra preventiva contro Saddam. Berlusconi avrebbe dovuto fare come loro, per essere coerente. Ma lo spettacolo europeo è penoso da dieci anni. Certo il presidente del Consiglio fa di tutto per peggiorare la situazione, ma non applaudo neanche a Chirac o a Schroeder».


Perché?


«Perché finché non costruiamo un’Europa con una voce unica, non possiamo piagnucolare contro la superpotenza americana. Stiamo andando verso un disastro epocale. Tutti i paesi occidentali devono capire che gli equilibri politici usciti dalla Seconda guerra mondiale sono tramontati per sempre. Questo comporta una riforma radicale dell’Onu: ha avuto un ruolo, alquanto scarso, finché si reggevano i due pilastri vincitori. Insomma, se non consideriamo il "fattarello" che c’è stata una Terza Guerra Mondiale siamo degli illusi irrealisti».


Terza Guerra Mondiale?


«Quella che ha fatto fuori l’Unione Sovietica, no? Allora, o l’Unione Europea riesce a darsi una politica estera, di sicurezza, di difesa oppure non potrà essere mai l’interlocutore efficace della potenza americana. Se non vogliamo un unico ordine monocratico, occorre che gli europei, in primis, si diano una voce, una politica e una forza».


Una situazione esplosiva, ora che la guerra è iniziata?


«Speriamo che non travolga la costruzione europea, sennò dovremmo arrenderci all’ordine imperiale monocratico. Un "Enduring disastro", terrorismo infiniti, perché gli Usa non hanno una "auctoritas imperiale", Magari nel il nostro destino ci fosse l’Impero Romano...»


Qual è lo scopo del conflitto?


«Ridisegnare il potere totale in quell’area strategica, dove tutto dev’essere sotto controllo, costi quel che costi. E dare un segnale preciso a Siria Iran e Arabia Saudita: devono obbedire, i conti si fanno con l’impero».

DA - L'UNITA'

"Il Medio Oriente pagherà caro il nuovo conflitto"

«Chi fa i conti ogni giorno con la sofferenza di un popolo, quello palestinese, sottoposto ad un'occupazione militare asfissiante, e al contempo riflette sulla condizione di un altro popolo, quello israeliano, che dalla forza militare ha tratto solo insicurezza, sa bene che la guerra è comunque un male, che dalla guerra non può scaturire nulla di confortante. La guerra uccide la speranza e produce nuova violenza e destabilizzazione. Per questo mi rivolgo al presidente degli Stati Uniti affinché torni a meditare, ad ascoltare la sua coscienza e le voci autorevoli levatisi in ogni parte del mondo contro la guerra. Arrestare la potente macchina bellica, puntare sulle pressioni diplomatiche, dare fiducia agli ispettori Onu, negoziare senza umiliare l'avversario, tutto ciò non sarebbe prova di debolezza bensì un atto di lungimiranza da parte del presidente Bush». A sostenerlo è il patriarca latino di Gerusalemme, monsignor Michel Sabbah. Per una volta almeno, le considerazioni di monsignor Sabbah trovano eco nelle preoccupazioni che animano scrittori e intellettuali israeliani di primo piano, come Amos Oz: «Una guerra all'Iraq - afferma Oz - specie se condotta senza l'avallo delle Nazioni Unite, rischia di alimentare il fanatismo e l'odio verso l'Occidente, gli Stati Uniti, Israele, nell'intero mondo arabo e musulmano». Sulla stessa lunghezza d'onda si muove la riflessione di un altro grande scrittore israeliano, Abraham Bet Yehoshua: «La potenza militare messa in campo dagli Stati Uniti - sostiene Yehoshua - non va smantellata ma messa al servizio dell'azione degli ispettori Onu. Che siano i soldati americani ad "accompagnare" e sostenere le ispezioni su tutto il territorio iracheno allaricerca e alla distruzione degli armamenti del dittatore iracheno».


Monsignor Sabbah, il Medio Oriente è ormai alla vigilia di un nuovo conflitto bellico.


«Se ciò avverrà sarebbe una tragedia dalle incalcolabili conseguenze. Il Medio Oriente, questa martoriata terra, ha bisogno di pace e non di un'ennesima guerra. Da uomo di fede mi rivolgo la presidente Bush per chiedergli di riflettere in modo approfondito e saggio sulla grave decisione che sta per assumere. Da uomo di fede non intendo fare processi alle intenzioni sulle ragioni vere che spingono alla guerra in Iraq. Da uomo di fede dico che l'azione militare accrescerà ulteriormente le sofferenze di un popolo già duramente colpito dalla guerra del 1991 e dagli anni terribili dell'embargo. Di nuovo, come sempre, sarà la popolazione civile a pagare il più alto tributo di sangue a questa avventura militare. Ma al presidente Bush vorrei anche dire che qualora scatenasse una guerra contro l'Iraq, l'Amministrazione Usa commetterebbe un passo sbagliato anche contro se stessa, contro il popolo americano e contro l'umanità. Perché questa guerra verrebbe percepita, soprattutto nel mondo arabo e musulmano, come l'ennesima ingiustizia perpetrata contro un popolo arabo, a fronte dell'assoluta inerzia dimostrata dalla comunità internazionale, e dagli Stati Uniti in particolare, nei confronti di Israele e della sua politica di occupazione dei territori palestinesi».


C'è chi sostiene che la guerra possa invece portare liberazione e benessere per il popolo iracheno finalmente liberato da una feroce dittatura, e che dalla eliminazione di Saddam Hussein possa nascere una nuova stagione di pace e di democrazia in Medio Oriente.


«La storia del Medio Oriente insegna che mai da una guerra è scaturita una pace giusta, duratura, fondata sulla cooperazione e il rispetto della dignità di tutti i popoli della regione. Non è con la forza delle armi che s'impone la propria concezione della democrazia. Le parole pronunciate da Giovanni Paolo II sono in questo senso profetiche e al contempo riflessive sulla storia dell'umanità. Occorre mettere al bando ogni tipo di guerra e comprendere, agendo di conseguenza, che i conflitti possono essere risolti nell'ambito dei principi contenuti nella Carta dell'Onu e solo attraverso il dialogo e l'ascolto delle ragioni dell'altro da sé».


In questa situazione così drammatica è emerso qualche segnale di speranza?


«Sono rimasto molto colpito e commosso dalle grandi manifestazioni per la pace svoltesi in tutto il mondo. Il popolo della pace è portatore di un nuovo umanesimo che rompe con ogni logica di appartenenza politica, religiosa, etnica. Il popolo della pace non è un popolo di sconfitti, ma esprime la consapevolezza, tutt'altro che illusoria, che solo il dialogo può portare alla ricomposizione dei conflitti».


È una considerazione che vale anche per la martoriata Terra Santa?


«Certamente. In questi anni abbiamo assistito ad una costante escalation militare d'Israele nei Territori. Ebbene, questa escalation non ha portato solo patimenti e umiliazioni per la popolazione palestinese ma non è servita ad accrescere la sicurezza della popolazione israeliana. Sicurezza, pace e giustizia sono tra loro strettamente intrecciate. E la sicurezza d'Israele non può che nascere dalla fine dell'occupazione dei Territori e dal riconoscimento del diritto dei palestinesi a vivere da donne e uomini liberi, e in pace con Israele, in un loro Stato indipendente».