Napoli reagisce immediatamente all'attacco Usa.

La città si indigna, vuole la pace e gli studenti occupano l'Orientale. Diario di una giornata colorata d'arcobaleno    
La protesta. I figli del Vesuvio contro la guerra
di Sergio Nazzaro

Napoli - La guerra l’altra notte è cominciata alle 3.35 del mattino. Alle 10.30 di ieri mattina scoppiava la protesta a Napoli. Un’intera città, spontaneamente, nelle sue mille anime, si raccoglieva e si organizzava per protestare la propria indignazione all’atto di aggressione degli Stati Uniti verso l’Iraq.

Mattina di sole primaverile, lo spiazzo antistante la sede centrale dell’Istituto universitario orientale, storicamente sempre il più reattivo, vede radunarsi un’enorme massa di studenti. Il Centro studi anarchici e il Collettivo orientale fanno subito girare la parola d’ordine: occupazione. Pacifica e in un clima di festa si prende possesso dell’edifico. Compaiono subito gli striscioni con slogan contro la guerra da tutte le finestre. Nessuno si oppone all’occupazione. Il sentimento della pace è pienamente condiviso da tutti: docenti, personale universitario, studenti, guardiani. Il passaparola continua.

Vengono indette assemblee, si stabilisce l’ora e il luogo per il corteo cittadino, che si svolgerà alle 15.00 a Piazza Matteotti e vedrà un enorme massa di persone partecipare. I lavoratori si uniscono agli studenti e comincia lo sciopero di due ore degli uffici e delle fabbriche. Le varie università napoletane in un attimo si coordinano, si decidono le manifestazioni da tenere. All’Orientale c’è anche Francesco Caruso, portavoce dei disobbedienti napoletani che dichiara: «E’ giunto il momento che venga pagato il prezzo politico più alto da parte della nostra classe politica. Una mobilitazione di massa può cambiare le cose realmente, non è un grido lanciato nel vuoto. Dobbiamo ricordarci di cosa ha potuto fare l’opposizione civile durante la guerra del Vietnam. E la nostra classe dirigente deve rendersi conto che c’è un altissimo numero di persone che dissentono completamente dalla linea di governo».

Presente è anche la rete No-Global partenopea che sta organizzando un grandissimo corteo per sabato 22 marzo, con partenza da Piazzale Tecchio, uno dei suoi rappresentanti ribadisce: «Solo una grande e compatta mobilitazione delle persone può cambiare il corso di questo momento storico così grave. Noi vogliamo rappresentare tutte le anime del dissenso alla guerra, creare una mobilitazione permanente». Medesima è l’intenzione delle università, occupare ad oltranza tutti gli edifici universitari, occuparli fintanto che dura la guerra, come risposta alla politica militarista del governo. Presso l’Orientale giungono anche gli studenti medi, sventolano bandiere della pace dovunque, dai balconi, dagli uffici privati e pubblici, sugli autobus. Dovunque ci sia spazio, lì sventolano le bandiere arcobaleno. Guardarsi intorno è emozionante: una folla enorme che dimostra come la violenza non sia mai la risposta alle controversie, ma che grida di gioia possono destare ancora una volta le coscienze.

All’interno dell’Orientale si discute. Un recente sondaggio americano metteva in risalto che pochi giovani statunitensi sapevano dove si trovasse l’Iraq. Qui a Napoli tutti sanno non solo l’esatta collocazione geografica, ma sanno argomentare con intelligenza il proprio no alla guerra. Qui dove c’è uno dei dipartimenti più importanti di studi islamici d’Italia e dove le lingue si mischiano ogni giorno, c’è coscienza piena delle proprie idee.

All’ora di pranzo sono ospite del signor Palumbo. Guardandomi mi dice: «Fanno la guerra perché non hanno il senso di cosa sia. Per due aerei caduti in America, hanno avuto bisogno degli psicologi. E a Napoli chi li ha mai visti durante la guerra? Essere bombardati significa dormire vestiti ed essere sempre pronti a scappare. Ogni notte. Sempre. All’epoca gli inglesi erano abbastanza corretti. Solo obbiettivi militari. Ma le loro bombe a volte non esplodevano. Poi vennero gli americani. E abbiamo conosciuto cosa è un bombardamento a tappeto. Una volta una bomba esplose fuori da una chiesa, mi sono salvato per miracolo, ma fuori ho visto una cosa che non dimenticherò mai: un piede sanguinante in una scarpa. E non era il solo, c’erano pezzi di persone dovunque. Questa è la guerra, questi sono i bombardamenti. Ma non lo vogliono mai ricordare».

Osservo questo anziano signore, vigoroso nel suo parlare, ha lasciato raffreddare il suo piatto. Ma non la memoria dell’atrocità della guerra.