DA - LA REPUBBLICA

Scontri e bombe a sud di Bagdad
Decine di civili uccisi
Annientata una intera famiglia su un pick up: 15 morti

HILLA (IRAQ CENTRALE) - Decine di morti, tra cui otto bambini e un neonato. Corpi fatti a pezzi, feriti adagiati per terra negli ospedali perché nei letti non c'è più posto. "Un orrore", secondo le parole del portavoce della Croce rossa internazionale Roland Huguen-Benjamin. Trentatré vittime, circa 450 i feriti. Sono le vittime del bombardamento di Hilla, un centro di contadini nei pressi dell'antica Babilonia a circa 80 chilometri a sud di Bagdad. La nuova strage di civili è stata provocata da un missile che ha colpito una palazzina in un quartiere residenziale. Le immagini diffuse dal luogo del massacro mostrano uomini donne e bambini ammucchiati sui pavimenti, distesi sul selciato, pietosamente composti sul pianale di un camioncino. "Che razza di bombe hanno usato?", si è chiesto il responsabile della Croce rossa. Una prima risposta è arrivata da un corrispondente della France Presse giunto sul posto, che ha raccontato di avere visto sparse sul terreno decine di mine con piccoli paracadute, segno che nel raid sono state utilizzate bombe a grappolo.

Da aggiungere al conto dei morti ci sono poi i quindici membri di una stessa famiglia, rimasti uccisi ieri sera mentre erano in fuga dalla città. Il pick up su cui viaggiavano è stato centrato da un razzo lanciato da un elicottero Apache. A raccontarlo è stato l'unico sopravvissuto nel bombardamento, Razek al Kazem al Khafaj. Il gruppo stava scappando dalla città meridionale di Nassiriya, dove sono in corso durissimi scontri tra esercito iracheno e forze angloamericane, ed era in viaggio quando il veicolo è stato centrato dal missile. Khafaj ha mostrato a un fotografo dell'agenzia France Presse le quindici bare e ha spiegato che le vittime sono sua moglie, i loro sei figli, i suoi genitori e i tre fratelli con le rispettive mogli. "Su chi posso piangere?" urlava l'uomo. Cospargendosi il capo di sabbia "per non vedere più".

L'offensiva dal cielo, condotta con gli elicotteri d'attacco "Apache", rientra in quella serie di operazioni che, nelle intenzioni dei generali americani, deve servire ad ammorbidire la Guardia Repubblicana, che Saddam ha disposto nella zona circostante Bagdad in vista della battaglia per la conquista della città.

Dalla provincia di Babilonia, dove si trova la città di Hilla colpita oggi così pesantemente, si accede infatti direttamente alla capitale irachena. E si tratta dello stesso teatro che da ieri ha visto alcune incursioni dei soldati alleati, con lo scopo dichiarato di "saggiare" la resistenza delle truppe scelte di Saddam.

(1 aprile 2003)

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DA - LA REPUBBLICA

"Le Brigate Rosse
non sono terroristi"
"Nessuna rivendicazione o annuncio di azioni future"
Il legale: "Il trattamemto carcerario è abnorme"

ROMA - Dodici pagine per dire che gli atti delle Brigate rosse "non possono essere considerati atti di terrorismo". Nadia Lioce, la brigatista in carcere dopo l'omicidio dell'agente Petri, non parla con i giudici. Ma affida alla carta i suoi proclami. Un documento che, secondo quanto riferisce il legale Attilio Baccioli conterrebbe "un'analisi della strategia delle Br e delle attuali contraddizioni di classe e dell'attuale fase dell' imperialismo".

Nelle intenzioni della Lioce il documento avrebbe dovuto essere letto in aula nel corso dell'udienza davanti al Tribunale della libertà, ma il pm Giuseppe Nicolosi si è opposto ritenendolo "apologetico". Così le 12 pagine scritte a mano sono state acquisite agli atti dal collegio, che dovrà anche decidere sui ricorsi presentati dall'avvocato Baccioli contro i due ordini di custodia cautelare (uno relativo alla sparatoria sul treno e all'omicidio dell'agente Petri e l'altro per banda armata) spiccati dalla magistratura di Firenze. Il documento, che conterrebbe anche un riferimento specifico all'attentato alle Torri gemelle, conterrebbe "una rivendicazione globale di tutta l'attività delle Br, ma non come rivendicazione materiale o di partecipazione" spiega Baccioli. Dai fogli non arriverebbe nessun annuncio di future azioni terroristiche. In pratica, dice Baccioli, "un mero documento di analisi".

Il legale è poi tornato sul trattamento carcerario della Lioce. "E' assolutamente abnorme. E' in un isolamento totale. Pensate che della guerra non sapeva nulla. Lei dice: 'io vado a testa alta, sono una prigioniera, mi danno da mangiare, da bere e sto in una stanza pulita. Altri prigionieri vengono torturati, per fortuna a me non mi ha torturato nessuno".

Nell'udineza di oggi Baccioli ha ribadito il suo ricorso contro la contestazione dell' aggravante della finalità di terrorismo e di eversione dell'ordine democratico contenuta nel provvedimento del gip di Firenze, chiedendo la revoca dell'ordine di carcerazione e la trasmissione degli atti alla procura di Arezzo. Anche per la contestazione della banda armata, Baccioli ha chiesto la revoca del provvedimento cautelare.

Tesi a cui si è opposto il pm Giuseppe Nicolosi. Secondo la procura, sarebbero incontestabili le aggravanti di terrorismo ed eversione contestate alla brigatista in relazione alla sparatoria sul treno. La decisione del tribunale del riesame sarà resa nota nei prossimi giorni.

(1 aprile 2003)

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DA - LA REPUBBLICA

Polmonite, paura nel mondo
Un "forte sospetto" a Roma
Sei i morti in Canada, allarme in Australia e Spagna
In California quattro persone sotto osservazione

ROMA - Un caso sospetto a Milano, un altro "fortemente" sospetto a Roma. Non rientra, in Italia, l'allarme per la polmonite atipica. E cresce la paura anche nel resto del mondo. Con il primo caso sospetto in Australia, una vittima a Panama, sei morti in Canada, un uomo sotto osservazione in Spagna, quattro persone - che erano a bordo di un aereo proveniente dal Giappone - ricoverate a San José in California. Intanto, nel giorno in cui si celebrano i funerali di Carlo Urbani, il medico italiano ucciso dal virus, le autorità sanitarie rassicurano sul caso della Sicilia, così come a Firenze due pazienti "sospetti" sono tornati a casa e altri due sono stati dimessi questa sera. Ma il ministro della Salute, Girolamo Sirchia, avverte: "Meglio rimandare i viaggi in oriente".

"Non esiste certezza" ma è "molto probabile" che il paziente ricoverato all'ospedale Spallanzani di Roma sia affetto da Sars. A dichiararlo è stato il ministro Sirchia, secondo il quale "le caratteristiche cliniche del paziente ricoverato allo Spallanzani fanno sospettare fortemente che si tratti di polmonite atipica. Si tratta - ha spiegato il ministro - di un assistente di volo della Chatay Pacific, cinese, di 25 anni, arrivato da Hong Kong, che già stava male e che poi si è spostato in varie città italiane prima di essere ricoverato a Roma". Sirchia ha quindi assicurato che "le cure funzionano, è gia sfebbrato. E comunque è attualmente in corso un'accurata indagine epidemiologica per rintracciare tutte le persone che può avere contattato".

Un nuovo paziente è anche sotto osservazione da questa mattina nell'ospedale fiorentino di Careggi, un uomo di 39 anni rientrato dalla Cina il 22 marzo con sintomi influenzali. L'uomo è stato posto sotto controllo nel reparto malattie infettive "per motivi precauzionali", spiegano dal policlinico. Sempre a Firenze, sono tornati a casa ieri sera due coniugi fiorentini, rientrati da una decina di giorni da un viaggio in Oriente: avevano accusato sintomi influenzali, ma dopo i controlli sono stati dimessi.

Di fronte al rischio di contrarre la sindrome, "sarebbe meglio rimandare viaggi in Estremo Oriente - ha detto il ministro Sirchia -, se non di fronte a casi di necessità assoluta". "Nel nostro Paese - ha aggiunto -, la situazione è ancora tranquilla, speriamo che non ci siano altri casi. Ma servono grande cautela e precauzione". Sirchia ha spiegato che si tratta di "una malattia causata da un virus particolarmente aggressivo, con una incidenza altissima di mortalita", aggiungendo anche che "attualmente nel nostro Paese non c'è pericolo, né ragione di allarmarsi. Non bisogna fare cose inconsulte - ha detto il ministro - come tapparsi in casa o assumere antibiotici, che sono totalmente inutili. Sono le autorità sanitarie - ha concluso - a dover prendere le precauzioni necessarie, ed è quello che stiamo facendo''.

Intanto è rientrato l'allarme in Sicilia, dopo la pubblicazione, da parte di un quotidiano locale, della notizia di un caso sospetto all'ospedale Civico di Palermo mentre a Imperia un uomo di 64 anni, reduce da un viaggio in Thailandia, è stato ricoverato d'urgenza all'ospedale di Sanremo.

Altre due persone sono morte di polmonite atipica a Toronto, e sale così a sei il numero delle vittime della Sars in Canada. Spunta il primo caso sospetto in Australia. Si tratta di un paziente arrivato da Singapore il 12 febbraio, giunto in ospedale undici giorni dopo con i sintomi del virus, e dimesso dopo due settimane. Solo ora ci si è resi conto che potrebbe trattarsi di sindrome respiratoria acuta: il responsabile dell'Organizzazione sanitaria nazionale, Richard Smallwood, ha informato l'Organizzazione mondiale per la sanità ed è in attesa dei risultati delle analisi.

Sono invece stati messi in quarantena lo staff tecnico e quindici dei ventidue giocatori delle rappresentative maschile e femminile di rugby di Singapore, che hanno partecipato al torneo annuale di Hong Kong. Nessuno presenta sintomi, ma si tratta di una misura precauzionale. Al torneo "Hong Kong Seven" avrebbe dovuto partecipare anche l'Italia, che invece ha rinunciato proprio a causa dell'epidemia.

Allarme anche negli Stati Uniti. In serata un aereo proveniente dal Giappone con 200 persone a bordo è stato messo in quarantena all'aeroporto di San José, in California. Durante il volo proveniente da Tokyo, stando al portavoce dell'aerostazione Cathy Gaskell, due membri dell'equipaggio e due passeggeri hanno accusato sintomi che hanno fatto pensare alla sindrome respiratoria acuta grave. I quattro sono stati presi in cura dai medici mentre i passeggeri senza sintomi potranno tornare a casa ma con alcune importanti raccomandazioni tese a cogliere sul nascere qualsiasi manifestazione dell'infezione.

Una vittima si segnala a Panama: un uomo di 45 anni è morto dopo aver manifestato i sintomi della Sars. Il ministero locale della Sanità ha avviato un'inchiesta per determinare la natura della malattia. E un uomo che presentava i sintomi del contagio è stato ricoverato in Spagna, a Basurto; il paziente era rientrato di recente nel Paese dopo un viaggio in Cina. Fra alcuni giorni la diagnosi definitiva: se dovesse essere confermato, si trattarebbe del primo caso in Spagna.

(1 aprile 2003)

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DA - IL MANIFESTO

La notizia fa paura


ROBERTO ZANINI


«Il primo piano di guerra è fallito a causa della resistenza irachena, ora stanno cercando di scriverne un altro». Commento ragionevole, pacato, banale. E' di Peter Arnett intervistato dalla tv di stato irachena. La
Nbc l'ha giustamente licenziato, non si chiacchiera col nemico. La Casa Bianca è impazzita e questo l'ha scritto John Le Carré, i generali del Pentagono sono impazziti e questo l'ha suggerito il loro ministro Donald Rumsfeld, ora sono impazzite anche le televisioni. Dell'America che conosciamo resteranno gli hamburger - bisogna dire che le mucche sono impazzite per prime.

L'eroe televisivo di Desert Storm è fuori da Iraqi Freedom, che è un nome abominevole. La
Cnn lo aveva già licenziato quattro anni fa, aveva prestato la faccia a un servizio sull'uso dei gas nel Laos e il Pentagono l'aveva presa male. Si era scusato allora e si è scusato adesso ma ha sprecato la cenere e il capo. E poi è anche neozelandese e quindi immigrato, e in gioventù è stato certamente socialista.

I militari hanno perso la confortevole, feroce certezza della
blitzkrieg e la guerra gli si è sporcata tra le mani. Missili sulle case, bambini assetati, tank anglofoni bombardati, canali arabi che non cantano l'inno nazionale e persino fastidiosi kamikaze, roba dura da manipolare. E' una guerra della paura, shock and awe qualsiasi cosa voglia dire. Doveva essere un kolossal nel deserto ma sta diventando una serie a puntate, e l'horror non tiene la mezz'ora pomeridiana a orari fissi. Bush e Rumsfeld hanno bombardato la tv irachena e incorporato la propria nelle truppe perché la loro terrorizzante telepredicazione avesse un senso e un pubblico, ma questo a lungo termine è un rischio.

«Le immagini televisive sono lo strumento essenziale della gestione della paura» ha detto il filosofo francese Paul Virilio, che chiama il Pentagono «il ministero della paura». L'esercito ha vietato di riprendere i funerali dei soldati uccisi e sta spegnendo i cellulari di quelli sul campo. Paura va bene, ma madri e padri non devono essere depressi dalla liberazione dell'Iraq e più tardi del mondo intero.

I network degli Stati uniti, per ora compatti e patriottici, hanno subito lo stesso choc dei generali. Il Settimo Cavalleria e i giornalisti americani al seguito si erano preparati alla stessa guerra, un conflitto di plastica di breve durata e massimo risultato. Del resto
shoot vuol dire sparare un proiettile ma anche girare una ripresa e le divise dell'inviato speciale della Cnn e dell'ufficiale a cui è gemellato sembrano identiche, con la sola differenza che il primo porta il corpetto antiproiettile sopra la giubba e il secondo sotto - o non ce l'ha.

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DA - IL MANIFESTO

Strage di bambini


Undici bambini sono stati uccisi sabato notte da un missile che ha colpito la fattoria alla periferia di Baghdad in cui vivevano con le famiglie. L'ennesimo massacro, ma non l'ultimo in una città dove le vittime civili dei bombardamenti sono purtroppo sempre più numerose. «Questo non è terrorismo? - chiede la gente sconvolta indicando le macerie di una casa - Qui ci viveva una donna anziana con due figli orfani e una nipote. Una famiglia distrutta, e magari gli americani ci diranno che erano terroristi»


GIULIANA SGRENA
INVIATA A BAGHDAD


Ibombardamenti si accaniscono sulla capitale irachena, notte e giorno, come promesso dal segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld: Bassora è solo un assaggio di quello che sarà l'assedio di Baghdad. Lo stiamo vedendo, la notte scorsa non c'è stata tregua. Eppure la mattina la città era più popolata del solito, i negozi sono ancora quasi tutti chiusi, ma alcuni mercati hanno riaperto, la strada Jumuriya è tornata agli ingorghi abituali: sul marciapiede si vende di tutto: taniche di benzina, fornelli a gas, utensili vari, vettovaglie e vestiti. Perché tanto fermento dopo una settimana di paralisi totale e una notte d'inferno? «Evidentemente la gente si aspettava la pioggia di migliaia di bombe nei primi giorni di guerra come minacciato dagli Stati uniti, invece le cose stanno andando diversamente, i bombardamenti continuano ma le truppe non avanzano e poi bisogna fare rifornimenti, le scorte si esauriscono», ci dice Majid mentre compra la frutta. I prezzi sono aumentati? «Quelli dei pomodori sì, costavano 350 dinari al chilo, ora sono arrivati a 1.000 (circa mezzo euro), le arance anche sono aumentate, ma di poco». E ogni mattina ritroviamo gli effetti sanguinosi dei bombardamenti: un'altra strage di civili. Ieri secondo la tesimonianza diretta di un reporter dell'
Afp di Baghdad - ancora non confermate dal governo iracheno - abbiamo saputo che sabato notte venti persone, tra cui undici bambini, sono morte e dieci sono rimaste ferite in un bombardamento angloamericano su una fattoria nella zona sud della città. Sono stati i parenti delle vittime, gli unici a rimanere illesi nella strage, a raccontare che i bombardieri alleati hanno distrutto tre abitazioni del sobborgo di Al Janabiin sventrandole con un missile che ha colpito in pieno le case. Gli undici bambini, sette donne e due uomini morti nell'attacco appartenevano a cinque famiglie.

E anche ieri mattina abbiamo trovato gli effetti dei raid notturni: un nuovo centro di comunicazioni, quello di Bab al-Muhaddan, sventrato, colpito un altro palazzo presidenziale sulle rive del Tigri, sarebbe quello abitato dal figlio minore di Saddam, Qusay, che comanda la guardia repubblicana. E' stato nuovamente attaccato anche il ministero dell'informazione e il missile che l'ha colpito ha danneggiato le case vicine. I famosi danni «collaterali». Che cominciano ad essere numerosi.

Al-Adhamiya è un quartiere abitato dai veri baghdadini, i vecchi abitanti della città, che si vantano di esserlo. Dopo aver superato le nubi di fumo nero provocate dalle trincee di petrolio che ancora bruciano, ci addentriamo nel quartiere incontrando prima orti coltivati a verdure e vivai di fiori, poi la zona più commerciale e popolare. Quasi tutti i negozi sono ancora chiusi, ma non le bancarelle di frutta e verdura e le panetterie, che sono obbligate a restare aperte e a mantenere fisso il prezzo del pane. Svoltiamo in una strada sterrata della parte di al-Adhamiya che prende il nome di al-Kam, un cumulo di macerie sbarra la strada. E' quel che resta di una casa sventrata da un missile.

«Erano le 12 e 30, l'ora della preghiera di mezzogiorno, c'era chi pregava e le donne cucinavano, quando è arrivato un boato, la casa colpita è stata completamente distrutta, quella dietro solo parzialemente, sei i morti, compresa una bambina di 12 anni, e una ventina di feriti». Anche la casa di Husham, che ci racconta l'accaduto, e altre vicine sono state danneggiate. Intorno a noi si è affollato un gruppetto di persone, ci sono anche alcune donne, questo è un quartiere sunnita e le donne sono meno bardate delle sciite. Tutti comunque ci assalgono: «Questo non è terrorismo?! E magari gli americani vengono a dirci che qui abitavano terroristi, era una donna anziana con due figli orfani e la nipote che era venuta a trovarla, una famiglia distrutta». Husham, 26 anni, ingegnere agronomo, lavora al ministero dell'agricoltura, ma da quando c'è la guerra sono tutti a casa. Anche la moglie Suad, che è avvocata e lavora in tribunale. Il figlioletto Ibrahim, vuole una fotografia e subito alza le mani a V in segno di vittoria. Perché pensate che sia stata colpita questa casa? «Per vendetta, perché gli americani stanno subendo molte perdite nel sud», risponde una ragazza. Ma più che certezze, in loro c'è tanta rabbia, contro gli occidentali: che cosa fate per fermare Bush? Cerchiamo di spiegare che cosa fanno i pacifisti in occidente, ma non possiamo certo dire che le grandi mobilitazioni siano bastate a fermare la guerra e per loro è questo che conta. Parliamo anche della posizione dei governi, ma Husham taglia corto: «Solo dio è dalla nostra parte, questo ci basta». Gli facciamo notare che forse non basta. Lui che farà se arrivano gli americani? «Prenderò il fucile, tutti abbiamo il fucile pronto, siamo tutti mujahidin (combattenti
ndr)», conclude. Anche le donne? «Anche le donne», risponde.

Riattraversiamo la città passando accanto, sulla riva del Tigri, al palazzo presidenziale bombardato ma la gente non se ne preoccupa, superiamo il ponte, l'unico sopravvissuto intatto alla guerra del Golfo del 1991, perché, mi raccontano, era stato mimetizzato con le piante. Vediamo il centro di comunicazioni al-Mamun anch'esso sventrato mentre la torre Saddam che si trova accanto si è miracolosamente salvata, tranne i vetri. Poco lontano ci addentriamo nel quartiere residenziale di Qadissiya: villette recintate con giardino, un luogo tranquillo ma particolarmente pericoloso perché si trova nel mezzo di tanti possibili obiettivi, militari e civili. Proprio per questo gli abitanti di molte di queste case, dopo l'inizio della guerra, si sono trasferiti altrove. E così il missile che ha colpito il quartiere due giorni fa, alle 19 e 30, lasciando un cratere profondo sette metri, ha distrutto tre case (55 abitanti) ma non ha provocato vittime.

«I miei figli piangevano sempre sentendo i bombardamenti, così ci siamo trasferiti in campagna e lo stesso hanno fatto i vicini», racconta Mohammed Kamel Ismail, 50 anni, sette figli, mentre rovista tra quel che resta della sua biblioteca. Insegnante di scuola secondaria, teneva delle lezioni anche a casa, e ci mostra tra le macerie la stanza dove insegnava, si trova accanto alla cucina dove sul pavimento sono ancora sparse cipolle e patate. Mentre racconta arrivano alcuni suoi studenti a salutarlo. Si vede che lo stimano molto. «Mi rispettano molto perché io insegno loro anche quello che c'è dietro le cose, i retroscena delle cose che succedono, ma d'ora in poi insegnerò loro anche l'odio verso l'occidente», dice. E poi continuando con la sua aria dolce e sommessa, ci confessa: «Prima io non riuscivo a capire i martiri che si fanno saltare per aria, ora li capisco, non ho più niente da perdere e spero che dio mi riservi presto il martirio». Ma lei ha sette figli, che hanno bisogno di un padre, perché deve sperare nel martirio, ci sono altri modi di combattere gli americani, gli occidentali, non crede? contestiamo. «Il martirio è il nostro dovere, solo di questo hanno paura gli americani, perché non sanno come affrontarlo. Per quanto riguarda i figli, sono un padre premuroso, mi alzo di notte per coprirli, il sorriso dei bambini è uguale dappertutto, che diritto hanno di toglieceli? Ma cresceranno bene perché li ho educati nell'insegnamento del corano», afferma sicuro. Continua a frugare tra i libri che sono rimasti ammucchiati tra le macerie nella stanza in cui insegnava, trova finalmente il volume che cercava: un libro pregiato, un corano scritto in arabo con traduzione e commento in inglese. E me lo regala. Ma non aveva appena detto di odiare gli occidentali? Comunque non gli avevamo creduto. Poco lontano le bombe continuano a cadere, ci allontaniamo dalla costruzione ancora in bilico, meglio non rischiare.

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DA - IL MANIFESTO

Licenziato Peter Arnett


«Anti-Usa» Il popolare giornalista, inviato a Baghdad, cacciato dalla Nbc News dopo aver rilasciato un'intervista alla televisione irachena


GIULIA D'AGNOLO VALLAN
NEW YORK


Aumenta la tempesta scoppiata ormai da qualche giorno intorno al rapporto media Usa/guerra in Iraq e la Nbc News licenzia il noto giornalista Peter Arnett, uno dei pochi corrispondenti della TV americana a trasmettere da Baghdad. La Nbc ha annunciato ieri mattina il licenziamento di Arnett, grande e controverso protagonista del coverage da Baghdad durante la prima guerra del Golfo (fu accusato di essere pro Saddam), fino a ieri in Iraq per conto delle rete via cavo Msnbc (lavorava per il programma National Geographic Explorer) e, dopo che il suo corrispondente aveva lasciato Baghdad per ragioni di sicurezza, del tg nazionale della Nbc. Il motivo dell'allontanamento di Arnett è un'intervista che il premio Pulitzer dal Vietnam (per la Ap), ha concesso alla televisione di stato irachena. Nell'intervista, Arnett ha dichiarato che «il primo piano militare americano è fallito a causa della resistenza degli iracheni.......». Arnett ha detto anche che, negli Usa, «Bush sta fronteggiando dubbi rispetto all'andamento della guerra e opposizione alla guerra stessa». E, nella sua affermazione giudicata più «incendiaria», ha affermato che «i nostri pezzi sulle vittime civili, sulla resistenza delle forze irachene sono trasmessi negli Stati uniti....Aiutano coloro che si oppongono alla guerra a sviluppare i loro argomenti» e suggerito in modo un po' ambiguo che l'amministrazione Bush aveva sottovalutato i suoi reportage in cui si diceva che gli iracheni avrebbero risposto agguerritamente all'invasione (apparentemente, secondo quanto riportato anche sul New York Times, la Msnbc non avrebbe mandato in onda una sua intervista con Tariq Aziz realizzata due settimane fa, in cui si discuteva proprio di questo). Curiosamente, se si eccettuta quest'ultimo intervento più «personale», le dichiarazioni di Arnett eccheggiavano quelle rilasciate, a beneficio di tutti gli spettatori americani, da parecchi altri corrispondenti ed editorialisti Usa, durante lo scorso week-end - dopo il primo momento di adesione euforica, anche i media statunitensi, infatti, hanno cominciato a prendere con meno passività le voce del Pentagono. «Le operazioni militari in Iraq vanno come previsto, sono i media che danno segni di nervosismo», non a caso, ha detto acido Rumsfeld impegnato da giorni in un'operazione di damage control. Solo ieri, il governo Usa ha annunciate l'esplusione dall'Iraq di un altro corrispondente Usa, Geraldo Rivera perché avrebbe «rivelato segreti militari» ed è sotto attacco anche l'anchorman della Abc Peter Jennings perché il suo coverage sarebbe troppo antiamericano e «pessimista».

Ritrasmesse domenica sera dalle reti cavo rivali Fox-Tv e Cnn (i cui corrispondenti sono stati espulsi dalle autorita' irachene già da tempo) alcune delle battute di Arnett sono state immediatamente usate come «manifestazioni di antiamericanismo».

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DA - IL MANIFESTO

«Le bombe? Partite da qui»


Parlano alcuni dipendenti «civili» della base Usa di Sigonella


PATRIZIA ABBATE
SIGONELLA (Catania)


«La guerra? In realtà sono almeno tre, quattro mesi che qui c'è la guerra...». È difficile entrare a Sigonella, eppure ci sono almeno tremila civili che ci lavorano dentro, fianco a fianco coi militari, e che vedono quello che ai parlamentari in ispezione non è consentito vedere. Aerei che decollano strapieni di merci «
hazardous», pericolose. Diretti verso destinazioni «XXX», «unknown», sconosciute. Luca - il nome è inventato, l'identità preferisce non vederla pubblicata... - è uno di questi. Spiega come è difficile continuare a fare il proprio lavoro in questi giorni terribili in cui il conflitto vero, nutrito di bombe e morti e visto soprattutto in tv, si mescola a quello interiore, fatto di crisi personali rispetto a un'attività che «vuoi o non vuoi, è comunque di supporto alla guerra». E continua: «Il lavoro è aumentato notevolmente, non c'è dubbio. Basti pensare che se normalmente l'attività di atterraggi e decolli è contenuta quotidianamente in due pagine di "schede", adesso siamo a otto, nove pagine». Che in numeri di aerei significa esser passati dalla normale ventina «a sessanta, settanta voli al giorno». Ma non è cominciato ora, assicura Luca. «Sono almeno tre, quattro mesi che questo movimento è iniziato, segno che la guerra in Iraq è stata decisa ben prima del 20...». Marco è un altro dipendente di Sigonella, lavora anche lui nella «zona americana», e conferma: «Siamo diventando matti... Certo che c'è un incremento di voli, e di arrivi di persone: sono militari, familiari, gente comunque diretta al fronte di guerra o alle basi vicine; che andrà a fare da supporto di vario tipo...». E soldati? «Certo che ne abbiamo visti, e tanti: passano da qui, non si fermano a lungo...». I rapporti con i militari Usa restano cordiali. Solo un po' più di tensione in generale nella base, «i controlli sono aumentati, ma non rigidi come nei giorni successivi all'11 settembre...», ma la sensazione è quella di lavorare «al buio», «non sappiamo effettivamente cosa viene trasportato, ma certo che ci sono armi. In alcuni carichi c'è scritto esplicitamente, explosive material, con specificato anche il peso: ce n'è da un quintale; in altri, appunto, c'è scritto solo "pericoloso"». Le armi sono depositate in un arsenale che si trova fuori dalla base propriamente detta, anche se a pochi metri. È il Weapons department, il deposito esplosivi che «è controllato esclusivamente dagli americani». E le destinazioni dei velivoli? «Buona parte del traffico in questo momento è diretto ad Akrotiri, in Grecia, dove stazionano le portaerei Truman e Roosevelt, e anche nella base di Souda Bay, sempre in Grecia. Ma ci sono aerei diretti in Kuwait, Bahrein... e si fermano quasi sempre qui, per rifornimenti, i velivoli che arrivano dalle basi statunitensi...». Il tipo di aerei che fa scalo alla base è anch'esso vario, dagli elicotteri C2 ai Boeing, capaci di portare 170 mila pound di carico.

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Rumsfeld: «Distrutta la Divisione Medina»

Si tratta del reparto d'élite della Guardia repubblicana irachena: era stata disposta a difesa di Bagdad

WASHINGTON - «La divisione Medina della Guardia repubblicana irachena è stata distrutta oggi». Lo ha detto martedì il segretario alla Difesa Usa, Donald Rumsfeld, nel corso della conferenza stampa tenuta al Pentagono, assieme al presidente dei capi di Stato maggiore unificati, generale Richard Myers.
Almeno due divisioni della Guardia repubblicana hanno subito una riduzione delle capacità superiore al 50%, ha specifiato Myers. «La Guardia repubblicana mantiene un atteggiamento difensivo: non ha abbozzato una ritirata, ma sono state notate dispersioni di forze nei dintorni della capitale. Abbiamo anche visto arrivare rinforzi», ha detto il generale.

MEDINA - La divisione Medina (La splendente) disponeva originariamente di 10 mila uomini e 250 carri armati, circa 250 mezzi corazzati per il trasporto truppe, e forse di 60 pezzi di artiglieria, oltre a un numero imprecisato di missili terra aria SA-14 e SA-16, la versione russa degli «Stinger» americani. La forza è suddivisa in tre brigate corazzate e una di fanteria, secondo quanto spiega Kenneth Pollack, l'ex analista della Cia specializzato in questioni di difesa irachene. La divisione divenne famosa durante la guerra con l'Iran, quando guidò cinque offensive decisive per l'esito della guerra. Nel 1990 era stata una delle quattro divisioni della Guardia repubblicana a invadere il Kuwait, entrando a sopresa nell'emirato dal fianco occidentale. Il 27 febbraio 1991 avvenne lo scontro con una brigata della prima divisione corazzata dell'esercito americano. Le forze Usa distrussero circa 70 carri armati T-72 e T-55 e un numero elevato di altri veicoli corazzati. Gli americani allora persero un solo uomo. Dal 1997 è schierata in difesa di Bagdad. 1 aprile 2003


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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Saddam Hussein: «La jihad è un dovere»

Il vice-presidente agli alleati: «La vera lotta non è ancora cominciata, ci sono 6 mila volontari che si sono già uniti a noi»

BAGDAD - Saddam Hussein è tornato a chiamare gli iracheni alla guerra santa e a promettere loro che vinceranno la guerra contro gli invasori. Questa volta, il presidente non è apparso in televisione e ha affidato un suo messaggio al ministro dell'Informazione Mohammed Saed Sahaf. La guerra all'Iraq «è una aggressione contro la religione, contro la terra dell'Islam, per questo la jihad è un dovere e chiunque muore nello svolgimento del suo dovere religioso va in paradiso», ha affermato Saddam Hussein in un testo letto da al Sahaf, in cui ha inoltre esortato il suo popolo: «Cogliete l'occasione, o fratelli».

L'APPELLO DI RAMADAN - Il regime iracheno, per bocca del vicepresidente Taha Rassin Ramadan, ha attaccato i governi arabi che «sostengono l’invasione statunitense», attraverso «basi, il rifornimento di acqua o altri mezzi», invitando la popolazione araba a mobilitarsi contro le loro leadership. «I vostri fratelli in Iraq non hanno bisogno di cibo o medicine - ha detto Ramadan -, e sperano che questi soldi non vengano trasformati in aiuti dai vostri governi. Quello che serve è una lotta per l’escalation e la mobilitazione contro i regimi che stanno complottando e stanno aiutando gli aggressori, che stanno fornendo loro basi, rifornimenti e acqua».

VOLONTARI - Ramadan ha poi annunciato che «6.000 volontari del mondo arabo hanno raggiunto l’Iraq», dove «avranno l’onore di prendere parte alla battaglia finale». Agli «aggressori», il vice di Saddam ha voluto dire che «la vera lotta non è ancora cominciata". «La Guardia repubblicana e le forze scelte del presidente - ha aggiunto - posseggono armi sofisticate che rientrano nei limiti fissati dalle regole internazionali, e sono intenzionate a difendersi». «Dopo 13 giorni di combattimento - ha sottolineato Ramadan - gli alleati non possono nemmeno annunciare l’occupazione di un singolo villaggio. Usano questo pretesto, per accusare altri Paesi di fornirci armi (con riferimento alla Siria, ndr). E accusano una cattiva programmazione da parte del Pentagono. Non hanno preso in considerazione il fatto che la nostra popolazione voglia la libertà. Non sanno che la popolazione irachena crede nel suo leader».

NESSUNA ARMA PROIBITA - Il vicepresidente ha anche ribadito che l'Iraq non dispone di armi di distruzione di massa. «Dico a tutti che l'Iraq non ha alcuna arma di distruzione di massa ed è una vergogna che (gli americani) ripetano questa menzogna». Ha inoltre accusato «le forze degli invasori» di essere pronte a portare loro stesse in Iraq armi proibite «per poi poter dire: 'Guardate cosa abbiamo trovato'». 1 aprile 2003

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Dalla Ue il via libera alla fusione Stream-Telepiù

Il sì è condizionato a una serie di regole che News Corp, la società del tycoon dei media Rupert Murdoch, dovrà rispettare

BRUXELLES - Nasce un'unica pay tv in Italia. L'ultimo sì arriva dalla Commissione europea che ha informalmente dato un via libera condizionato alla fusione fra Stream e Telepiù, autorizzando di fatto la creazione di un polo unico della televisione a pagamento in Italia.

SI' CONDIZIONATO - La decisione - secondo quanto appreso dall'Ansa - è stata presa dai capi di gabinetto dell'esecutivo Ue, stabilendo che il dossier sia messo all'ordine del giorno della prossima riunione della Commissione europea come «punto A», ovvero come questione su cui non sono necessarie ulteriori discussioni. Il via libera di Bruxelles è condizionato al rispetto di numerose condizioni da parte di News Corp, la società del tycoon dei media Rupert Murdoch che possiede anche Stream. Fra queste non vi sono novità rilevanti rispetto a quanto anticipato nelle scorse settimane.31 marzo 2003

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DA - IL SOLE 24 ORE

Industria: parte in calo il 2003

La produzione in marzo: -0,4% il dato mensile, -0,8% quello tendenziale annuo, -1,4% la variazione corretta per i giorni lavorativi. E' pari a -0,9% il calo annuo stimato nel primo trimestre e a -0,7% quello congiunturale (-1,1% il dato annuo grezzo). L'indagine del Centro Studi Confindustria

Dopo il risultato negativo del 2001 (-0,8% la variazione media annua), con quattro trimestri consecutivi in flessione, l'industria italiana ha mostrato un profilo congiunturale praticamente piatto nel corso del 2002, mentre la variazione tendenziale negativa si è accentuata, essendo pari a -1,4% il consuntivo annuo ricalcolato secondo il nuovo indice Istat con base 2000=100. La produzione nel trimestre gennaio-marzo ha messo in evidenza un aumento di appena lo 0,6% rispetto all'ultimo quarto dell'anno precedente, quando il ciclo recessivo ha toccato il suo punto di minimo. Ma i dati del trimestre aprile-giugno indicano una situazione di nuovo stazionaria (+0,1%) nei confronti del periodo precedente. Il consuntivo per il trimestre luglio-settembre (+0,6%) e l'ultimo quarto dell'anno (-0,5%) segnalano, poi, un profilo di ulteriore ristagno dell'industria, con l'andamento della produzione che si conferma stazionario nella sua dinamica congiunturale mensile.

I dati ufficiali Istat sulla produzione industriale - resi noti con qualche ritardo rispetto ai periodi di riferimento - e le anticipazioni delle indagini congiunturali mensili dell’Isae e del Centro Studi Confindustria basati sui consumi elettrici, che arrivano pressoché in tempo reale, mostrano un andamento dell’attività produttiva nell'arco dei dodici mesi del 2002 sostanzialmente stagnante nei confronti del trimestre finale del 2001, secondo i dati destagionalizzati - il livello dell'indice continua a oscillare intorno a quota 97-98 - ma sempre in declino rispetto allo stesso periodo di un anno prima, sia nei dati grezzi (-1,4%) che nella media giornaliera (-1,3%). Le stime e i dati qualitativi (fiducia e aspettative) via via disponibili avevano, peraltro, indicato nel corso del primo trimestre la presenza di una svolta ciclica, che avrebbe portato a una fase di ripresa nell'ultima parte dell'anno. Ma i dati successivi hanno fatto segnare un'ulteriore battuta d'arresto nel ciclo della produzione industriale, per cui il consuntivo del 2002 registra una variazione marcatamente negativa nella media del periodo.

La ripresa produttiva ha avuto un netto ripiegamento a partire dal secondo trimestre del 2001; l’attività industriale è stata via via caratterizzata da un minor vigore e tra gli operatori si è registrato un prevalente atteggiamento di cautela, orientato al pessimismo. I valori raggiunti dall’indice destagionalizzato, in particolare, dopo essere stati i più elevati degli ultimi cinque anni, a conferma della consistenza del passato ciclo congiunturale positivo, si sono riportati ai livelli di inizio 2000. Le indicazioni delle inchieste Isae condotte presso un ampio campione di aziende manifatturiere, hanno mostrato infatti un ristagno della domanda, con il declino della componente estera, una tendenza all'accumulo delle scorte di magazzino e un clima di opinione in maggioranza sfavorevole, in una fase di progressiva decelerazione dell'attività industriale.

Nell’ambito dei grandi settori industriali le sole variazioni positive nella media del 2002 riguardano il legno e i prodotti in legno, gli alimentari, la chimica, le macchine e apparecchi meccanici per quanto concerne sia la produzione che le vendite e i nuovi ordini. In calo più o meno contenuto, sempre nella media dell'anno, sono i mobili, la metallurgia e i prodotti in metallo, la gomma e materie plastiche, le raffinerie di petrolio; la lavorazione dei minerali non metalliferi, la carta, stampa ed editoria sono rimaste pressoché invariate. Un andamento molto negativo ha caratterizzato, invece, l'elettrotecnica ed elettronica, i mezzi di trasporto, il tessile-abbigliamento, le pelli, cuoio e calzature, industrie molto sensibili al ciclo congiunturale (e alla forte competizione) internazionale.

Dal lato della domanda, le principali indicazioni vengono dall'andamento degli ordinativi affluiti alle imprese, tradizionalmente caratterizzati da ampie fluttuazioni cicliche sia nei valori grezzi che destagionalizzati. Essi sono, in particolare, un ottimo barometro che anticipa la dinamica della produzione industriale nel breve-medio periodo. La loro evoluzione è diventata, peraltro, piuttosto altalenante a partire dalla metà del 2000, e la passata tendenza positiva si è completamente ribaltata nei dati più recenti. Il volume dei nuovi ordini acquisiti dalle aziende è in flessione nel confronto tendenziale dal secondo trimestre del 2001, a causa dell'indebolimento della componente estera; ma ha, poi, ceduto anche la domanda interna. Segnali di recupero si registrano, infine, nell'ultimo scorcio del 2002.

Secondo le inchieste Isae degli ultimi mesi dello scorso anno, il
clima di fiducia delle imprese industriali ha via via perso quota rispetto agli elevati valori in precedenza raggiunti, mentre le attese a breve termine (tre-quattro mesi) sulle tendenze di domanda e produzione appaiono sfavorevoli, dopo aver mostrato qualche cenno di ripresa. La produzione industriale aveva fatto segnare nel corso del 2000 un incremento medio giornaliero di quasi il 5%, mentre il livello raggiunto dall'indice destagionalizzato si era collocato fino alle soglie della primavera 2001 sui valori più alti delle recenti fasi cicliche. Ma dall'aprile del 2001 la produzione, secondo i valori destagionalizzati, ha imboccato una nuova strada in progressiva discesa, che ha caratterizzato il ciclo congiunturale dell'ultimo biennio (-1,2% la media giornaliera 2001). L'intero 2002 ha confermato, in particolare, il quadro tendenzialmente recessivo del secondo semestre 2001.

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DA - IL MESSAGGERO

Spadolini il più esigente.Prodi il più compagnone.Amato amava la puntualità.
Bossi ordina Coca Cola. E Berlusconi?
Si scusa sempre per le nottate

di MARIO AJELLO

alle dieci. Se glielo portavi un minuto prima, lui fingeva di offendersi: "Quanta fretta...". Se glielo offrivi un minuto dopo, lui faceva amabilmente la vittima: "Mi avevate dimenticato?"».
E’ un fiume di ricordi, un diluvio di emozioni passate e presenti il commendator Di Peso. Potrebbe scrivere anche lui, come Andreotti, un libro intitolabile "Visti da vicino". Perché in 33 anni da «addetto all’anticamera del presidente del Consiglio», qui al primo piano di palazzo Chigi, Angelo Di Peso è vissuto a stretto contatto con i potenti e ha visto la Prima Repubblica e poi la Seconda, l’Italia degli "anni di piombo" e quella di Mani Pulite, il "vecchio", il "nuovo" e tutto il resto. Adesso, a 67 anni, il commendatore va in pensione e con lui trasloca un piccolo grande pezzo di storia istituzionale. Infatti, nell’ultima riunione del Consiglio dei ministri, gli hanno voluto fare una sorpresa: è stato chiamato nella sala, ed è partito un applauso di tutti in suo onore. «Devo ammettere che mi sono commosso un po’», confida. E racconta, nel suo stile minimalista: «Spadolini aveva sempre una richiesta da fare: mi porti l’acqua tonica? Potrei avere un po’ di whisky? Prodi il più compagnone e quando brindammo per l’ammissione dell’Italia nell’euro era lui che versava champagne a noi: ne vuole un altro goccio, signor Di Peso? Ciampi e Andreotti, che mi chiedeva spesso la novalgina per i suoi mal di testa, i più signorili. Berlusconi quello che si preoccupa di più quando, vuoi per la Finanziaria o vuoi per la guerra, si fanno le ore piccole: mi dispiace per l’orario...».
Ma soprattutto c’è il caffè. Il sottosegretario Bonaiuti, da quando lo ha assaggiato per la prima volta, non fa che ripetere a Di Peso: «Il suo espresso è squisito». E tratta il commendatore con il rispetto che si deve a un testimone della Repubblica. C’è addirittura chi sostiene che il caffè Di Peso è più gustoso di quello che si prepara al Quirinale. Ma lui smorza: «Non esiste alcuna rivalità fra tazzine istituzionali». C’era Rumor, nel ’70, quando Di Peso cominciò la sua lunga carriera "di governo". Base delle operazioni, la "bottega del caffè" allestita con tanto di macinino a due passi dallo studio dei vari premier e che adesso il commendatore divide con altri colleghi più giovani: Cammilluzzi, Ludovisi, Brandi e Moretti (che sono due: Renato e Giuseppe). Berlusconi, quando Mastella lo tradì, si sfogò: «Clemente, ti ho coccolato, ti ho riempito di pane, burro, marmellata e altre bonizie e tu ora mi fai questo?». «Io so solo una cosa», confessa Di Peso: «Mastella è paesano mio». Vengono entrambi da Benevento.
«Adesso — spiega questo simpatico coffee-man — il sistema funziona così. Nella sala del Consiglio dei ministri, ognuno di loro ha sul tavolo un pulsante con su scritto "commesso". Lo spinge, compare sul nostro computer il nome di chi ci sta chiamando e uno di noi si affaccia per chiedere che cosa serve. Durante la preparazione della Finanziaria, nottate su nottate, il caffè diventa un fiume. Solo Frattini non lo beve». E le birrette di Bossi? «Semmai, beve Coca-Cola». Chissà se Michele Serra, quando chiama quelli del Polo i "coca-colisti", per dire che sono filo-americani, si riferisce proprio alle lattine del senatùr. «Ai tempi della Prima Repubblica — spiega Di Peso — si bevevano alcolici. Adesso neppure li abbiamo più». In tempi di guerra, però, un cognacchino allenterebbe la tensione. «Non lo so. Ricordo che durante una crisi internazionale, forse quella di Sigonella, girava in una riunione un thermos di Jack Daniel’s».
Ancora: «Al sottosegretario Letta piace il caffè forte e senza zucchero». E dunque è uno statista diverso dal mitico Talleyrand, il quale amava ripetere: «Il caffè deve essere nero come la notte, caldo come l’inferno, dolce come l’amore». E la "ciofeca", quella sbroda di cui ride Totò nei "Due marescialli"? «Qui la ciofeca non s’è mai vista», sorride il commendatore. Semmai, nel Palazzo, la considerazione è tale che in molti sarebbero capaci di rivolgere a Di Peso le parole di Eduardo De Filippo nella commedia "I fantasmi di Roma": «Quando io morirò, portami il caffè. E vedrai che resuscito come Lazzaro».

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DA - IL MESSAGGERO

Rumsfeld pronto a cedere
alla strategia di Powell
con attacchi più massicci
Gli iracheni: uccisi 54 nemici

dal nostro corrispondente

STEFANO TRINCIA

NEW YORK - La Casa Bianca risponde con un’accelerazione ai dubbi ed alle polemiche sulla strategia di guerra irachena. E, sotto gli occhi vigili e nervosi di un George Bush che conferma la "piena fiducia" ai vertici militari, il Pentagono ordina per la prima volta alle proprie truppe di varcare la "linea rossa": il perimetro della morte intorno a Bagdad oltre il quale Saddam appare intenzionato a reagire con ogni mezzo all’offensiva dell’invasore, armi di distruzione di massa comprese. Unità militari delle forze speciali Usa, accompagnate da reparti della terza divisione di fanteria, sono penetrate senza problemi nella "zona rossa" per sondare le difese approntate dal raìs. Intanto, poco più a sud della capitale, a ridosso della cittadina di Hindiyah, i Marines hanno ingaggiato la prima vera battaglia con le Guardia Repubblicana guidata dal figlio di Saddam Qusay. In un inferno di fuoco le truppe angloamericane hanno tentato di chiudere la partita per il controllo di due snodi cruciali, Bassora a sud e di Nassirya al centro, ma la sfida con le forze irregolari ed i "feddayn" di Saddam è lungi dall’essere risolta.
Forte del massiccio appoggio dell’opinione pubblica che al dodicesimo giorno di guerra gli tributa tassi d’approvazione del 70 per cento, Bush ha dichiarato da Filadelfia: «Siamo sempre più vicini a Bagdad, sempre più vicini alla vittoria». Il Presidente Usa ha glissato sulle voci secondo cui la guerra lampo promossa dal Ministro della Difesa Rumsfeld starebbe lasciando il passo alla "dottrina Powell", che prevede l’attesa di rinforzi e la costruzione di un’architettura bellica massiccia prima di partire alla presa di Baghdad. Ed ha invece insistito sulla valenza epocale della guerra per la liberazione degli iracheni dal giogo della dittatura e sugli "splendidi successi" dei primi undici giorni di guerra. «Giorno dopo giorno ci avviciniamo alla vittoria», ha esclamato.
Secondo il Pentagono l’offensiva sta già dando infatti i suoi frutti in termini di destabilizzazione del regime. Decine di membri della Guardia Repubblicana risultano essere stati catturati dagli americani, il numero dei prigionieri ha superato ieri le 8000 unità. La portavoce del Ministero della Difesa, Victoria Clarke, ha inoltre affermato che le famiglie di molti membri della elite irachena, tra cui lo stesso Saddam, stanno abbandonando il paese. Nessun commento invece sui 54 morti angloamericani che secondo il regime sarebbero il bilancio della battaglia di Bassora e di scontri in altre località.
«Stiamo arrivando - ha proclamato dal quartier generale del Qatar il generale Vincent Brooks, uno dei vice del comandate Tommy Franks - dovunque ci siano presenze del regime, noi ci andremo». Un messaggio destinato a smentire nei fatti le polemiche su un presunto rallentamento delle operazioni, che è stato rafforzato dall’impatto devastante dei bombardamenti su Bagdad, sul fronte curdo a nord della capitale e soprattutto dal primo contatto con le truppe scelte di Saddam.
Due piccole località a circa 60 chilometri da Bagdad, Hindiyah e Imam Ayub, sono state teatro dello scontro a fuoco tra reparti della Terza Divisione di Fanteria e unità della Guardia Repubblicana. Dai soldati iracheni catturati nel corso dell’operazione, i Marines hanno appreso con sorpresa che molti di loro provenivano dalla Brigata Nabuccodonosor, una unità che fino a poco tempo fa risultava schierata a nord, a difesa di Tikrit, città natale di Saddam.
I combattimenti di Hindiyah per il controllo di un ponte sul fiume Eufrate, stanno sfiorando due luoghi estremamente delicati per le sensibilità islamiche: il primo è Karbala, città santa degli sciiti ricca di monumenti di culto. Una battaglia nelle sue strade potrebbe scatenare nuove ondate di antiamericanismo tra gli iracheni. L’altro snodo importante è l’area delle rovine di Babilonia, mitica capitale dell’antica Mesopotamia, di grande valore storico e archeologico.

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DA - L'UNITA'

La Chiesa e l'indifferenza
di Fabio Luppino

La Chiesa ha una lunga storia. E se assume un principio, un punto di vista, lo porta avanti sino in fondo. Così sta facendo il quotidiano del Vaticano sulla guerra. L’Osservatore romano annota e ci offre una bussola, condivisibile o non, di come Roma interagisce con Baghdad. Spesso intransigente con il governo, all’Osservatore romano ieri non è sfuggito il desolante panorama offerto dal nostro Parlamento. Si parlava di profughi, di carne e teste in grande sofferenza per una guerra che non hanno voluto. L’Ulivo, fuori e dentro l’aula, ha trovato altra materia per sfilacciarsi, inutilmente. La Destra ha offerto il peggio di sé: l’indifferenza. Si parlava di profughi e alla Camera rimbombava nel vuoto la voce degli oratori: ad ascoltarli erano in dodici. Il quotidiano della Santa Sede annota: «Nonostante l’importanza della materia e le accese discussioni che l’accompagnano, i documenti sono stati solo illustrati in un’aula deserta: una dozzina i deputati presenti (sette all’apertura della seduta». Annotate anche voi. Annotate il silenzio su migliaia di vite spezzate (iracheni e anche militari angloamericani) del nostro presidente del Consiglio. Che intanto sta al telefono con Bush.