DA - REPUBBLICA

.Inferno di bombe su Bagdad
"E' cominciato l'A-Day"


B52 in azione anche a Bassora e nel nord a Mosul

BAGDAD - Il Pentagono lo chiama A-Day, a Bagdad possono chiamarlo in un solo modo, inferno. Il grande attacco, l'inizio vero e proprio delle operazioni su larga scala in Iraq incomincia mentre in Italia sono le 18. Le sirene dell'allarme aereo riprendono a suonare a Bagdad e il cielo si riempie di traccianti. Poi comincia tutto. Manca qualche minuto alle 19 italiane, le nove di sera a Bagdad. Cominciano a cadere le bombe. Comicia l'A-Day, il grande attacco, comincia l'inferno. Durerà una decina di minuti. Poi, puasa di un'ora e mezza e si ricomincia.

Le bombe cadono sui palazzi e nuvole di fumo si levano da quello che resta dopo il loro passaggio. Fuoco, nubi di polvere rosse che si alzano verso il cielo. Anche uno dei palazzi presidenziali è stato colpito dai missili ed è avvolto nelle fiamme.

Tra un bombardamento e l'altro, pochi secondi di calma irreale, poi riprende il sibilo dei missili e il frastuono diventa di nuovo assordante. La potenza di fuoco che si riversa sulla città è infinitamente superiore a quanto visto finora. Non c'è tregua e la notte è appena agli inizi.

Anche gli esperti cronisti della Cnn non riescono a ricordare nulla di simile. Mai nella storia della televisione si è visto dal vivo, in diretta e senza filtri, tale potenza devastante. Dopo dieci minuti, torna quella che definire calma è quasi un'offesa. Passa un'ora e mezza e una nuova ondata di bombe si abbatte sulla città.

In totale dall'inizio dei bombardamenti sono state tirati 320 ordigni tra bombe e missili, la maggior parte nell'attacco di questa sera su Bagdad e dintorni.

A colpire sarebbero i bombardieri americani B52H partiti dalla base della Raf britannica di Fairford, nel Gloucestershire. Come confermato da fonti del Pentagono, è l'A-Day, il debutto dell'operazione "colpisci e terrorizza". Questo significa che, secondo le previsioni, almeno 1.500 bombe saranno sganciate nelle prossime 24 ore.

Ma non è solo la capitale sotto le bombe. Un portavoce del governo del Kuwait dice che anche Bassora è sottoposta allo stesso trattamento da parte dei bombardieri. E raid aerei sono in corso sulla città di Mosul, nell'Iraq settentrionale, ha riferito il corrispondente di Al Jazeera che si trova sul posto. La contraerea, secondo alcuni testimoni, sarebbe entrata in azione anche sulla città di Kirkuk, città petrolifera nel nord del Paese.

(21 marzo 2003)

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Rumsfeld: "Saddam sta perdendo
il controllo dell'Iraq"


Blair: "L'offensiva procede bene, ma la fine non è immediata"

WASHINGTON - Sia Washington che Londra prospettano una guerra ancora "lunga e pericolosa", ma il segretario alla Difesa Usa Donald Rumsfeld assicura che tra i dirigenti iracheni la confusione "è crescente" e
che "la fine del regime è vicina". Invitando nuovamente i generali di Bagdad a non opporre resistenza e a non usare armi di distruzione di massa, il capo del Pentagono dice che Saddam "sta iniziando a perdere il controllo del paese". Nella conferenza stampa tenuta al Pentagono tre quarti d'ora dopo l'avvio del
massiccio bombardamento sulla capitale irachena, Rumsfeld spiega che la campagna militare angloamericana ha come obiettivo prioritario colpire con una forza tale da far capire al raìs e ai suoi uomini che ormai per loro è arrivata la fine, per arrivare allo scopo ultimo, "la liberazione dell'Iraq". Quindi il segretario alla Difesa dice esplicitamente che con l'attacco di stasera è iniziata la "guerra aerea" vera e propria.

"Non so" se Saddam controlli ancora il Paese, se sia ancora effettivamente in carica, ma bisogna comportarsi come se lo facesse, fin quando non si avrà certezza del contrario. "Ci sono segnali ma non sono sicuri", aggiunge il segretario alla Difesa americano. Che poi conferma l'esistenza di contatti per indurre alla resa i generali iracheni.

Ai giornalisti che azzardano paragoni tra i bombardamenti sull'Iraq e quelli della seconda guerra mondiale, Rumsfeld risponde sottolineando l'estrema precisione degli ordigni oggi dalle forze Usa rifiutando ogni similitudine con quello che accadde più di sessant'anni fa.

Nonostante tutto, da Washington e da Londra continuano ad arrivare inviti alla cautela: non sarà una guerra lampo, non finirà presto, non sarà così semplice. Il portavoce della Casa Bianca, Ari Fleischer, ricorda che le forze combattenti hanno "molti rischi" davanti a loro. "Penso - dice - che sia importante che gli americani ricordino che l'impegno in Iraq può essere lungo, faticoso e pericoloso". Il portavoce sembra volere contrastare l'impressione del conflitto senza ostacoli che s'è andata diffondendo con
l'avanzata delle truppe angloamericane nel Sud dell'Iraq.

Citando il presidente Bush, Fleischer aggiunge: "Questa è la fase d'apertura. Questa è una cosa vera, questa è una guerra vera, è pericolosa, è piena di rischi". Quasi a cercare di ridimensionare la percezione della guerra come evento mediatico con le immagini dell'avanzata dei soldati in diretta tv e le telefonate dei telespettatori che riconoscono sullo schermo i propri familiari in missione.

Quella della Casa Bianca è la stessa preoccupazione di Tony Blair. Il premier britannico dice che l'offensiva in Iraq "sembra procedere bene" ma non bisogna illudersi che possa finire "nell'immediato". Blair riferisce di diserzioni e scontri nel governo di Bagdad. "Ma devo avvertire - aggiunge - che le nostre forze dovranno affrontare resistenze e, ncessariamente, non raggiungerannno il loro obiettivo nell'immediato". E usa il termine "overnight", da un giorno all'altro, per indicare che non ci si può attendere una fine della guerra a brevissimo termine.

(21 marzo 2003)

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DA - REPUBBLICA.

Iraq, morti sul campo
due marine americani


E ci sono anche le 12 vittime dell'elicottero caduto
Otto sono inglesi, quattro americani. Forse un incidente

KUWAIT - Due soldati americani vittime della "linea del fuoco". Vale a dire in combattimento. Le due morti - avvenute in due differenti scontri, nella località di Umm Qasr - sono state confermate, entrambe, dal Comando centrale americano, che ha sede nella base di As Sayliyah (Qatar).

Il primo è un marine della Prima divisione, morto al mattino in un conflitto a fuoco; il secondo è stato ucciso vicino al porto di Umm Qasr, nel sud dell'Iraq.

Le due prime vittime sul terreno seguono i 12 soldati rimasti uccisi in quello che secondo le prime ricostruzioni è stato un drammatico incidente. Sono gli otto militari britannici e i quattro statunitensi che erano a bordo di un elicottero dei Marine precipitato in Kuwait, a circa sedici chilometri dal confine meridionale con l'Iraq.

Non è ancora chiara la dinamica dell'incidente che ha coinvolto il Chinook CH-45 "Sea Night", un elicottero adibito per il trasporto truppe. "Sono in corso le prime indagini, ma dalle prime notizie sembra che non si sia trattato di un fuoco nemico", ha detto Andersen.

In base alle prime ricostruzioni raccolte dalla Cnn, la causa della caduta andrebbe ricollegata a un malfunzionamento meccanico la cui natura non è stata ancora precisata. Tuttavia nessuna ipotesi viene ancora esclusa. Le informazioni disponibili sono estremamente scarse: l'elicottero sarebbe caduto mentre conduceva una missione collegata all'avanzata delle truppe in territorio iracheno.

Poco prima altri due elicotteri militari americani avevano compiuto "atterraggi duri", lungo il confine tra il Kuwait e l'Iraq. Uno, danneggiato seriamente, era stato distrutto per evitare che cadesse in mano nemica, l'altro aveva potuto rientrare alla base con i propri mezzi.

Il Ch-46 "Sea Knight" (cavaliere del mare) è un elicottero a due motori e a doppia pala della Marina Usa, un mezzo aereo d'assalto adatto al trasporto di truppe e materiali. Può essere anche utilizzato con funzioni di ricerca e soccorso o evacuazione di feriti in caso di emergenza.

(21 marzo 2003)

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DA - REPUBBLICA

Saddam compare in tv
Minacce agli invasori


Le immagini del leader iracheno
con il figlio e il ministro della Difesa

BAGDAD - Saddam Hussein sarebbe è vivo. Il leader è comparso alla tv irachena, ripreso durante un incontro con il figlio Qusay, che comanda la guardia repubblicana, e con il ministro della Difesa Hashem Hamad. Le immagini di questo colloquio potrebbero smentire le ipotesi sempre più insistenti secondo le quali il rais sarebbe stato ferito o addirittura morto già nel primo bombardamento su Bagdad, all'alba di ieri. Manca però qualsiasi certezza sul fatto che le immagini siano realmente di oggi.

Anche il Pentagono in serata diffonde la notizia che Saddam Hussein potrebbe esser rimasto ferito ieri nel primo raid su Bagdad. Le notizie del ferimento del raìs si sono moltiplicate per tutta la giornata, l'emittente americana Abcnews, citando fonti dell'intelligence americana, aveva riportato che testimoni oculari avevano visto il dittatore portato fuori in barella dalle macerie del bunker bombardato all'alba di ieri. Secondo i funzionari dell'intelligence citate dall'emittente americana, Saddam era su una "barella con una maschera di ossigeno sulla faccia".

Il ministro della Difesa britannico, Geoff Hoon, aveva invece ipotizzato la morte del raìs in un'intervista alla tv satellitare Sky News, ma subito smentita dalle autorità irachene. "Non è stato stabilito con assoluta certezza - ha detto Hoon - se Saddam Hussein sia ancora vivo o se sia rimasto ucciso durante il primo attacco contro Bagdad". E anche la Cia non si espone, malgrado gli esperti dell'intelligence americana abbiano appurato che la voce nel video trasmesso la sera del primo attacco dalla tv irachena è proprio quella di Saddam. Non è infatti chiaro se il nastro sia stato registrato in precedenza.

Ma Bagdad smentisce le fonti occidentali, e dà la sua versione della guerra. Con gli strumenti tradizionali, immagini di civili feriti, minacce contro gli "invasori". Ed è comunque pronta la replica del ministro dell'Informazione iracheno, Mohamed Said Al Sahaf: "Saddam Hussein è vivo, con i suoi familiari. Anche se hanno mirato alle loro case, sono salvi". Smentita sostenuta anche dall'ambasciatore iracheno a Mosca, Abbas Khalaf, che ha dichiarato: "Saddam sta bene al pari di tutti i suoi familiari e figli". Il diplomatico si è rifiutato di dire se il raìs si trovi a Bagdad o altrove: "Questa informazione è coperta dal segreto durante la guerra, ma il presidente non abbandonerebbe mai la patria nel momento del pericolo". Fra l'altro, come riferisce l'agenzia di stampa irachena Ina, Saddam avrebbe offerto denaro per ogni aereo "nemico" abbattuto e per ogni soldato americano ucciso o catturato.

Ed è toccato ancora al ministro dell'Informazione, Al Sahaf, mostrare le foto di civili feriti nei bombardamenti su Bagdad. Almeno 37 secondo l'agenzia di stampa irachena Ina: "Il nemico ha colpito uno degli edifici del ministero per la Pianificazione, oltre a un alro palazzo usato dall'amministrazione dello Stato". La nota evidenzia che "sono state prese di mira parecchie aree civili", e Al Sahaf è apparso in televisione mostrando alcune foto dei feriti: "Questi sono i veri bersagli", ha detto.

Nel corso di una conferenza stampa, Al Sahaf ha definito il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, "capo di una banda internazionale di bastardi", i funzionari americani "gangster al pari di Al Capone". Ed ha affermato che le forze anglo-americane che hanno invaso l'Iraq "non usciranno vive" dalla "palude" in cui si sono avventurate.

Anche il ministro degli Interni, Mahmud Diab Al Ahmed, ha convocato una conferenza stampa. Alla quale si è presentato in tuta da combattimento, armato di fucile, pugnale alla cintura, e ha dichiarato che "la vittoria per l'Iraq è garantita". "Non abbiamo intenzione di uccidere gli americani o gli inglesi, ma intanto ieri, con i dodici inceneriti, hanno avuto un primo assaggio di quello che li aspetta" ha detto il ministro, riferendosi alle dodici vittime dell'elicottero caduto, lasciando intendere che sia stato abbuttuto dalle forze irachene e non sia precipitato, come hanno riferito gli Stati Uniti, a causa di un guasto meccanico. "E Bagdad - ha concluso - sarà un inceneritore per le truppe degli invasori".

Un appello ad uccidere "tutti gli americani nel mondo, ovunque si trovino" è giunto da uno dei più importanti imam della moschea di Bagdad "Um Al Maarek" (che in arabo significa "madre di tutte le battaglie"): il lader religioso si è presentato alla preghiera del venerdì con un kalashnikov fra le braccia, e ha invitato arabi e musulmani nel mondo ad "uccidere gli invasori", dopo l'"aggressione barbara sferrata da uno dei Paesi più potenti del mondo".

(21 marzo 2003)

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DA - IL MANIFESTO

Fuoco


LUIGI PINTOR


Vincere la guerra sparando pochi missili e uccidendo Saddam il tiranno per invadere l'Iraq senza massacrare la popolazione. Forse era questa la scommessa di Bush il texano ma l'ha persa. Per lui sarebbe stato un trionfo e per chi odia e ripudia la guerra per la sofferenza delle popolazioni colpite, prima che per le sue finalità di dominio, sarebbe stato un sollievo. Ma non siamo ai tempi degli Orazi e Curiazi e quando saremo in edicola non sappiamo quante delle tremila bombe annunciate saranno piombate su città e villaggi e quanto sangue sarà stato versato. Lo scenario si ripresenta così come era stato annunciato e come paventavamo, la più grande potenza militare della storia contro un paese due volte disgraziato per il nemico che lo assale e per il regime che lo governa.

Il presidente americano non è apparso sicuro di sé nel suo ultimo appello televisivo alla nazione, ha parlato di una guerra forse più lunga e luttuosa del previsto, lacrime e sangue. Forse ha voluto mettere le mani avanti ma ieri abbiamo visto sugli schermi la ferocia scatenata della guerra. Una cosa ci sembra certa, che la durata e il costo di questa ferocia sono la grande incognita che grava non solo sul presente ma sul futuro.

Ogni giorno che passa crescerà l'avversione e l'opposizione nel mondo, non più per impedire la guerra che c'è ma per condannarla senza appello e fermarla come si può. Non solo l'avversione e l'opposizione pubblica ma l'ostilità dei governi e degli Stati che vedranno confermate le ragioni della loro contrarietà. E le conseguenze e i rimbalzi nell'area medio-orientale e sugli equilibri mondiali si moltiplicheranno. Il presidente Chirac ha detto di augurarsi che sia evitata una catastrofe umanitaria, ma qual è l'unità di misura di una catastrofe umanitaria? Questa lo è già e i vincitori possono uscirne sconfitti da se stessi.

Questo scenario di morte che ci sovrasta potrebbe ancora attenuarsi se la popolazione e il suo regime non vorranno o non potranno opporre resistenza, se sul campo giocherà una squadra sola. L'ultima immagine di Saddam lo mostrava sconvolto, forse non tanto per i missili sul bunker quanto perché a guidarli può essere stato quel complotto intestino su cui gli americani fanno ancora affidamento. Ma qualcuno dice (poiché la tragedia è sempre intrisa di inganno e menzogna), che si trattava di una controfigura maldestra.

Ma di che parliamo? Mentre noi scriviamo cadono a Baghdad le bombe invisibili, il cielo iracheno sputa morte, il resto del mondo è incollato alle televisioni e la gente manifesta per le strade. Manifestazioni negative, le chiama il proconsole che ci governa, e infatti lo sono perché negano e rinnegano questo orrore. Abbiamo visto crollare sui nostri schermi i primi palazzi, le torri newyorkesi moltiplicate a Baghdad non ad opera di quattro terroristi ma della leadership della civiltà occidentale. Ecco la catastrofe umanitaria che avanza e che dev'essere fermata. Questa guerra non può essere vinta da nessuno dei contendenti, può e deve essere vinta solo dalla pace.

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DA - IL CORREIRE DELLA SERA

Militari turchi entrano in Iraq

Il ministro degli esteri: «Dobbiamo controllare i rifugiati e prevenire il terrorismo». Powell si era detto contrario

ANKARA - Un migliaio di militari turchi hanno attraversato la frontiera con l’Iraq. Lo hanno comunicato fonti militari di Ankara. Il ministro degli esteri turco Abdullah Gul aveva preannunciato che Ankara avrebbe inviato truppe «per conterete il prevedibile afflusso di profughi dall’Iraq». Il segretario di Stato Usa Colin Powell aveva avvertito che gli Stati Uniti «non vedono alcuna necessità di una invasione turca nell’Iraq settentrionale».
La Turchia deve controllare i rifugiati nel nord iracheno per prevenire attività terroristiche, ha dichiarato il ministero degli esteri turco, aggiungendo che Ankara «non ha alcuna ambizione territoriale in nord Iraq» ma che agisce unicamente per scopi umanitari e di sicurezza. Ma Colin Powell è stato chiaro: «I turchi non dovrebbero andare in Nord Iraq. L'aiuto migliore che ci possono dare è non entrare in Iraq».

LA DECISIONE DEL GOVERNO TURCO - La decisione del governo turco è avvenuta «nell'interesse del Paese» ha detto il ministro della difesa Vecdi Gonul, dopo una serie di no che avevano creato molta tensione nei rapporti tra Ankara e Washington. Il governo di Ankara aveva in precedenza condizionato la concessione effettiva dello spazio aereo turco agli aerei americani ad un via libera di Washington all'ingresso di truppe turche in Nord Iraq. E aveva chiesto una rapida risposta di Washington. Ed è stato il segretario di stato americano Colin Powell a darla: «Le due questioni vanno tenute distinte e comunque i turchi non dovrebbero andare in Nord Iraq».

NEGOZIATO E TENSIONE - Il negoziato tra i due Paesi alleati aveva assunto caratteri persino parossistici. I turchi hanno detto: prima entriamo noi in Nord Iraq e poi vi diamo lo spazio aereo. Gli americani volevano una sequenza contraria. I turchi vogliono creare una fascia di sicurezza oltre il confine di 25 chilometri, gli americani vogliono concederla per soli 11 chilometri. Gli Usa si oppongono ad una presenza unilaterale turca in Nord Iraq, che provocherebbe aspre reazioni dei curdi nordiracheni. La situazione delle relazioni turco americane resta dunque tesa e la rottura diventerebbe insanabile se Ankara mandasse contro il parere degli americani le sue truppe al Nord.

21 marzo 2003

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DA - IL CORREIRE DELLA SERA

Quirinale: «Ciampi non può ricevere i pacifisti»

«Il capo dello Stato non può incontrare movimenti ma soltanto parlamentari e capigruppo di partito, per rispetto competenze»

ROMA - Dopo l'appello alle forze politiche perché si lavori per ridare credibilità all'Onu, il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha fatto sapere oggi di non poter incontrare i pacifisti. Un comunicato del Quirinale spiega che «nel doveroso rispetto delle proprie competenze, così come definite dalla Costituzione, il presidente Ciampi non ritiene di poter accogliere le richieste di incontro», avanzate da parlamentari e movimenti sulla posizione dell'Italia nel conflitto iracheno. Il Capo dello Stato, precisa la nota, è sempre pronto a ricevere capigruppo parlamentari e dirigenti di partito.

L'APPELLO - Il comunicato è arrivato dopo l'appello lanciato oggi da Ciampi in una cerimonia al Quirinale per il premio Saint Vincent, in riferimento al conflitto in Iraq: «Occorre adoperarsi affinchè le presenti vicende non intacchino il prestigio e la funzionalità dell'Onu, massima istituzione preposta all'ordinato svolgimento delle relazioni mondiali e non abbiano effetti dirompenti sull'alleanza transatlantica». «Su questi obiettivi - ha aggiunto - il Consiglio Europeo ha ritrovato ieri solidi elementi di coesione».

IRAQ - Sul conflitto contro l'Iraq «ormai in corso», Ciampi ha detto: «È un intervento militare al quale l'Italia ha deciso di non partecipare con una scelta politica compiuta da governo e Parlamento, nel rispetto della Costituzione, una scelta volta anche all'obiettivo della ricomposizione dell'unità europea e del rapporto transatlantico».

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DA - IL SOLE 24 ORE

La maledizione del Kurdistan si chiama "oro nero"

La maggior parte dei giacimenti petroliferi iracheni si trova in territorio curdo. I Paesi confinanti sono preoccupati sia per la costruzione di nuovi oleodotti, sia per il destino dell'altra preziosa risorsa locale: l'acqua.di Giulia Crivelli

Dietro alla complessa vicenda del popolo curdo, alle schermaglie diplomatiche sull'autodeterminazione dei popoli e su integrità territoriali, si nasconde anche una complessa rete di interessi politici ed economici che rendono un "Kurdistan indipendente" una seria minaccia per numerosi paesi mediorientali e occidentali.

Il Kurdistan, una nazione senza Stato

Su una superficie più grande dell'Italia vivono 30 milioni di persone, ma il

territorio è diviso in cinque Stati: Turchia, Iran, Irak, Siria ed ex-Urss.

Basti pensare che la più importante zona petrolifera irachena è situata proprio in una delle aree del "Kurdistan di fatto", nel nord dell'Iraq. Attualmente il petrolio e gli altri idrocarburi dei giacimenti del Mar Caspio possono essere esportati dalle repubbliche ex sovietiche dell'Asia centrale (Azerbaijdzhan in primo luogo) solo attraverso oleodotti e gasdotti costruiti ai tempi dell'Urss e oggi controllati dalla Russia.

La corsa a nuovi oleodotti
Negli ultimi mesi si è assistito a una vera e propria corsa alla costruzione di nuovi gasdotti: l'America appoggia l'ipotesi di una "pipeline" che da Baku (Azerbajdzhan) arrivi in Turchia, tagliando fuori Russia e Iran. Gli iraniani auspicano una linea più piccola che tagli direttamente a sud sul loro territorio.

Oltre all'oro nero, l'oro blu (l'acqua)
Al problema del petrolio, l'oro nero, si somma quello dell'acqua, l'oro blu: la Turchia sta infatti realizzando un imponente programma di costruzione di dighe e laghi artificiali proprio in zona curda, un progetto che rischia di sconvolgere il controllo delle acque e minaccia seriamente Siria e Iraq. È inoltre proprio attraverso il Kurdistan, nella zona di confine Turchia-Iraq, che passano gran parte dei rifornimenti di questi paesi e da tempo i guerriglieri impongono una tassa "rivoluzionaria". (Secondo fonti occidentali molti guerriglieri sono anche coinvolti, assieme alla Mafia locale, nell'organizzazione di una delle più importanti rotte della droga del Medio Oriente).

Le paure della Turchia e la posizione Usa
Il crescente potere degli indipendentisti curdi è, per la Turchia, un grande pericolo anche sul piano politico e la sta ostacolando non poco nell'obiettivo di espandere la propria influenza culturale, politica ed economica nei Paesi ex sovietici dell'Asia centrale e di rafforzare i suoi rapporti con l'Unione Europea, che l'ha più volte accusta - tra l'altro - di violazioni dei diritti umani in Kurdistan. Il ruolo della Turchia, tra l'altro, è di importanza vitale anche per gli Stati Uniti d'America, che le attribuiscono un ruolo cruciale per gli equilibri mediorientali e centroasiatici e l'hanno sempre considerato un baluardo contro l'Iraq di Saddam Hussein. Il recente rifiuto di Ankara (ufficiale dal 19 marzo scorso) di lasciar passare dal proprio territorio i soldati americani diretti in Iraq, si giustifica anche con la paura, da parte del governo turco, che il passaggio degli americani dia ai curdi l'occasione e l'opportunità per rafforzare la loro autonomia e fare un ulteriore passo verso il riconoscimento politico ufficiale.
Più in generale, un qualunque sconvolgimento politico nell'area dell'Kurdistan potrebbe influire pesantemente su gran parte dei paesi occidentali ed europei, che con la Turchia stanno instaurando rapporti economici sempre più fitti.

I Partiti Politici Curdi
La composita galassia politica curda comprende quasi una dozzina di movimenti; i partiti principali, quelli che raccolgono, nel loro complesso, la maggioranza del popolo curdo, sono però soltanto tre: il Partito democratico del Kurdistan (Kdp), l'Unione patriottica del Kurdistan (Puk) e il Partito curdo dei lavoratori (Pkk). I primi due si dividono il controllo del cosiddetto Kurdistan libero nell'Iraq meridionale, il terzo è attivo prevalentemente in Turchia.

PDK
Il Partito Democratico del Kurdistan (PDK o KDP), il più vecchio fra tutti i partiti curdi, fu fondato in Iraq nel 1946 da Mustafa Barzani (padre di Massud, attuale leader del partito), su immagine del Pdk d'Iran (il partito creato nel '45 da alcuni nazionalisti curdi di Mahabad, la regione iraniana dove, nel '46, venne proclamata la prima Repubblica Curda della storia). Il Pdk, che sin dalla nascita ha guidato l'opposizione armata ai vari regimi iracheni (nonostante periodi di intesa provvisoria con Baghdad), è un'organizzazione a base prevalentemente familiare e di clan, ma che può vantare anche molti intellettuali dalla sua parte. Il Pdk iracheno è rimasto unito fino al '75, quando, per contrasti `personali' con Barzani, il leader carismatico Jalal Talabani ha deciso di fondare l'Upk (Unione Patriottica del Kurdistan), che ha privato il Pdk dell'egemonia nell'area di Sulaimaniya, nel Kurdistan iracheno ai confini con l'Iran. Attualmente il partito di Barzani è comunque il movimento egemone nell'area irachena confinante con la Turchia. Dal dicembre `94 Pdk e Puk hanno cominciato a contendersi militarmente il dominio dell'area di sicurezza curda creata dall'Onu nel '91. Violento anche il contrasto tra il Pdk e il Pkk, che ha spinto Barzani a stringere anche alleanze tattiche con l'esercito di Ankara, ottenendo in cambio il controllo del contrabbando petrolifero sul confine turco-iracheno e dando il via a sanguinose reciproche rappresaglie a catena nei villaggi. Solo nel novembre '98 i due partiti si sono riavvicinati, grazie alla mediazione turca, impegnandosi a contrastare il Pkk.
Un ruolo assai minore è stato invece quello ricoperto dal Pdk d'Iran, almeno fino all'elezione a segretario, nel '71, di Aldul Rahaman Ghassemlu, che è riuscito a dare un nuovo impulso al movimento. Ghassemlu, ucciso nell'89 a Vienna, da emissari iraniani, ha combattuto a fianco di Khomeini, fino alla rivoluzione del 79. Tra anni dopo la sua morte, anche il suo successore, Sharafkandi è stato assassinato (a Berlino). Attualmente il Pdk iraniano è guidato da Abdullah Hassan Zadeh.

PUK
Nata dalla fusione di tre diversi movimenti politici curdi, promossa nel 1975 da Jalal Talabani, (un ex - collaboratore di Mustafa Barzani), l'Unione Patriottica Curda (Puk o Upk) è l'avversario storico del Pdk. Alla fine degli anni Sessanta Talabani, ancor oggi leader del partito, divenne consigliere del governo iracheno contro Barzani. A partire dal '94 il Puk si è scontrato militarmente per ottenere il predominio della regione curda d'Iraq e, attualmente, controlla il settore al confine con l'Iran (la Sulaimaniya). Il Puk è stato spesso sostenuto dal governo di Teheran, e, almeno fino a poco tempo fa, ha appoggiato il Pkk. L'11 novembre '98, in seguito a un incontro ad Ankara con Barzani e il premier turco, che riavvicina i due partiti iracheni, Talabani annuncia il suo impegno a "porre termine a ogni presenza del Pkk nel Kurdistan iracheno" e a rendere impermeabile il confine turco.

PKK
Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), fu fondato nel 1978 da Abdullah Ocalan (ancor oggi leader incontrastato del movimento): all'epoca era la più piccola delle organizzazioni in lotta per la causa curda, monopolizzata da PdK e Udk. I due movimenti storici erano però visti in Occidente come movimenti 'di destra', anti-marxisti, e non erano mai riusciti a portare alla ribalta la causa curda così come era avvenuto per altre lotte di liberazione nazionale (palestinese, irlandese, basca, ecc.). I leader dei due partiti, spesso scesi a patti con i governi "oppressori' di Iraq, Iran e Siria, hanno spesso finito per combattersi l'un l'altro, alienandosi molte simpatie della gente curda. Il Pkk, invece, man mano che il suo radicale messaggio maoista è andato ammorbidendosi in un 'socialismo democratico', aperto anche al profondo sentimento religioso della popolazione, è riuscito a conquistare l'egemonia sulla popolazione curda in Turchia. Un predominio che, secondo i suoi avversari, è stato reso possibile anche da una spietata strategia del terrore nei confronti degli oppositori. A tutt'oggi il Pkk arruola 7.500 uomini, ma i suoi simpatizzanti sono almeno 50 mila. Dal 1984, con alcuni momenti di tregua, il Pkk ha svolto una sanguinosa attività di guerriglia contro le forze armate turche ; fino a poco tempo fa il partito (unico tra i principali movimenti curdi) lottava per la creazione di uno Kurdistan indipendente e solo negli ultimi anni ha affermato di potersi "accontentare" di una forte autonomia all'interno dello stato turco. Secondo la Turchia il Pkk, con la sua guerriglia, ha causato la morte di 30 mila persone in 15 anni. (D'altra parte le forze turche sono accusate di avere distrutto ben 3.500 villaggi favorevoli al Pkk e deportato centinaia di migliaia di curdi).

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DA - IL MESSAGGERO

La pace? Un mezzo
Il fine assoluto
è la dignità umana

di SERGIO GIVONE
SONO in molti ormai, non meno fra i laici che fra i cattolici, a riconoscere al Papa una profondità di visione storica incomparabilmente superiore a quella di statisti e politici. Il Papa, che non decide nulla quanto alle sorti del mondo, vede molto più lontano di coloro che invece hanno il potere di decidere. E questa è la tragedia cui stiamo assistendo.
Ma che cosa ha visto il vecchio Pontefice, profeta disarmato e indomito? Ha visto per primo, come ha ricordato il card. Pio Laghi, che se la forza della legge viene sostituita dalla legge della forza, e, peggio ancora, se la forza, per il solo fatto di essere tale, si traveste da diritto, allora il fondamento della concordia fra i popoli è scosso nel profondo e forse in maniera irreparabile. D'ora in avanti a nessuno, neanche al più abietto dei dittatori, potrà essere rimproverato di far valere le sue ragioni, quali che siano, con la forza. Purché abbia la forza. E l'accortezza di usarla per autodifesa o in nome di qualsiasi pretesto lui vorrà. Solo il Papa ha osato chiedere che ne sarà dell'uomo in un mondo come quello verso il quale stiamo andando.
Ha visto anche dell'altro, il Papa. E cioè che in gioco è, né più ne meno, la scelta fra il bene e il male. Chi sceglie la pace sceglie il bene, chi sceglie la guerra sceglie il male. Non che la pace sia di per sé il bene. E viceversa. Infatti: «Sappiamo tutti che non è possibile dire pace ad ogni costo», e sono sempre parole del Papa. Ma il fatto è che la guerra, anche quando ha per obiettivo il bene, precipita inevitabilmente nell'abisso del male, se non altro perché ne adotta la logica e si appropria dei suoi metodi. E con ciò il Papa ha rovesciato la presunzione di chi scatena la guerra e nello stesso tempo la giustifica come lotta del bene contro il male. Il Papa non ha accusato nessuno. Ma non ha esitato a definire "satanica" l'identificazione del nemico con il Nemico, con il Male.
Qui il pensiero wojtyliano, tutto incentrato sul nesso di etica e pace e cioè sul "coraggio di combattere il male con il bene" (dove fra l'altro si vede con chiarezza che la pace è un mezzo piuttosto che un fine, perché fine assoluto è il rispetto della dignità umana), acquista una forte intonazione religiosa.
Di quale colpa costoro si macchiano secondo il Papa? In fondo fanno la guerra in nome dello stesso Dio, o no? Non basta a giustificarli la loro volontà di difendere l'Occidente e i valori cristiani? La risposta del Papa è inusualmente dura e severa. «Nell'intimo di ogni persona risuonano la voce di Dio e quella insidiosa del Maligno. Questa ultima cerca di ingannare l'uomo seducendolo con la prospettiva di falsi beni per distoglierlo dal bene che consiste proprio nel compiere la volontà divina».
E' alle radici della tradizione cristiana che il Papa guarda, profeticamente, e con una potenza visionaria che il mondo comprende a fatica. La figura in questione è quella dell'Anticristo. Il quale non ha il volto demoniaco dell'operatore di iniquità e nemmeno quello di un bieco tiranno. Al contrario, ha il volto benefico di chi dice di voler salvare il mondo. E magari lo pensa anche. Ma costui, come l'Apocalisse insegna, non è che un seduttore, uno che inganna autoingannandosi.

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DA - L'UNITA'

Gli Usa: «Espellete i diplomatici iracheni». Francia e Russia: «No». L'Italia: «Forse»
di red

Francia e Russia hanno già detto di no. E l'Italia? Ancora non ha risposto. Anche se «sta valutando la richiesta degli Stati Uniti di espellere alcuni diplomatici iracheni sospettati di attività incompatibili con il proprio status». Si usano le virgolette perché è questa l'affermazione fatta dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, che ha così - per la prima volta - confermato che Roma rientra fra la sessantina di capitali a cui gli Usa hanno inoltrato la richiesta di espulsione. Nell'ultima settimana molti Paesi hanno espulso diplomatici iracheni. Richiesta che, come detto, Francia e Russia hanno già respinto.

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DA - L'UNITA'

Ambasciatore iracheno: Annan ha aiutato gli Usa a scatenare la guerra.
di red

Il segretario generale dell'Onu Kofi Annan ha aiutato gli Stati Uniti a scatenare la guerra e ha dato il via all'attacco ritirando gli ispettori. L'accusa arriva dall'ambasciatore iracheno alle Nazioni Unite, Mohammed Aldouri. Secondo Aldouri, Annan avrebbe deciso di sospendere il programma 'Petrolio in cambio di cibo" e di ritirare la forza di pace in Kuwait su richiesta di Usa e Gran Bretagna. E non solo. Aldouri ha coontestato Annan anche per non «aver rilasciato alcun messaggio per deplorare l'attacco colonialistico e barbaro».

Dopo la spaccatura del Consiglio di sicurezza davanti alla crisi irachena, dunque, la crisi delle Nazioni Unite, come organo per la tutela della pace, potrebbe diventare ancora più profonda, anche se Aldouri non ha risposto a chi gli chiedeva se abbia intenzione di chiedere le dimissioni di Annan.

Intanto, la tv araba Al Jazeera ha detto che forze militari irachene avrebbero catturato «molti soldati» britannici, americani e australiani a Fao, una città del sud dell'Iraq.

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DA - L'UNITA'

Gli obiettivi della guerra secondo Donald Rumsfeld
di red

Scatta 'l'A-Day', la vera campagna aerea delle forze angloamericane e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld elenca gli otto obbietivi della guerra in Iraq.

1)«Mettere fine al regime di Saddam Hussein colpendolo con forza tale da rendere ben chiaro agli iracheni che lui e il suo regime sono finiti».

2)«Identificare, isolare e alla fine eliminare le armi di sterminio irachene, i loro vettori, i siti di produzione e le reti di distribuzione».

3)«Dare la caccia, catturare e condurre fuori dal Paese terroristi che hanno trovato un rifugio sicuro in Iraq».

4) «Raccogliere informazioni riservate che ci consentano di individuare reti terroristiche a loro collegate in Iraq e fuori».

5) «Raccogliere quante più informazioni possibile sulla rete globale coinvolta in attività riguardanti le armi di sterminio».

6) «Mettere fine alle sazioni e portare subito aiuto umanitario, cibo e medicinali agli sfollati e ai cittadini iracheni bisognosi».

7) «Proteggere i campi petroliferi e le risorse dell'Iraq, che appartengono al popolo iracheno, e di cui avranno bisogno per sviluppare il loro paese dopo decenni di incuria del regime».

8) «Aiutare il popolo iracheno a creare le condizioni per una transizione rapida verso un autogoverno rappresentativo che non sia una minaccia per i suoi vicini e che si impegni a garantire l'integrità territoriale del
paese».

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DA - LIBERAZIONE

Migliaia e migliaia nelle piazze e nelle strade di tutta Italia in una mobiltazione spontanea contro la guerra

In scena Il Grande No

Maria R. Calderoni

Il Grande No. E'esploso. In tutte le città, in tutti i paesi, in tutti i comuni. Al nord al centro al sud. Nei grandi centri come nei piccoli borghi. La prima bomba maledetta non ha colto nessuno di sorpresa. Con le bandiere, i cartelli, gli striscioni, i tamburi, l'emozione e l'ira dei giusti il fiume del no alla guerra ha cominciato a prendere corpo dalla notte tra mercoledì e giovedì. Strade piazze palazzi comunali diventati all'improvviso, senza bisogno di convocazioni o ordini scritti, il pulsante cuore di una manifestazione totale. Una tempesta, una pioggia, una miriade di iniziative; presenze, messaggi, blocchi, sit in, cortei. La valanga inarrestabile di un'inarrestabile protesta, i mille e mille rivoli di un moto che invade l'Italia e, da un capo all'altro, è un tutt'uno, una sola unica Presenza. Il Grande No.

Occhio e croce, dalle prime luci dell'alba a questo momento in cui scriviamo, intorno lle 17 di oggi (ieri, giovedì) sono centinaia di migliaia le persone scese per le strade, col loro no. Sommerso il nostro tavolo, il diluvio delle segnalazioni non smette un minuto. Anzi cresce, difficile per i ben noti "amici della guerra" trovare un posto dove nascondersi. E noi temiano di essere, nella circostanza, cronisti imperfetti, inadeguati per difetto, già ci sentiamo in colpa.

Dapperutto ragazzi, un esercito di ragazzi. Sono usciti dalle scuole, una grande giornata di movimento studentesco che si è materializzata come d'incanto. Con gli zaini e le bandiere, gli striscioni e i cartelli scritti col pennarello si sono riversati per le strade città per città, scuola per scuola. Sono tra i primi, tra i più decisi: il mondo salvato dai ragazzini? Una montagna di notizie studentesche in effetti ci sommerge.

Cominciamo pure da Roma. Tanti e tanti, li hanno visti tutti, i ragazzi della capitale; alle 9 già venivano giù almeno in 2000 dalla metro di S. Maria del Soccorso inondando una affollatissima Tiburtina, e poi seduti sui binari della omonima stazione Fs, mescolati col Social Forum e il corteo del IV e V municipio e poi giù in piazza del Campidoglio, dove c'è già una gran folla. Tutti i dipendenti comunali hanno infatti deciso uno sciopero per tutta la giornata, e tutti sono lì, studenti e vigili mescolati insieme. Ma è l'intera città a essere battuta. Il corteo degli studenti avanza verso l'ambasciata Usa in via Veneto; ci sono tutt le scuole, i licei storici - Mamiani, Tasso, Visconti - ma anche tutti gli istituti professionali, come non si vedeva da gran tempo. Maturi, educati, civili, "parlamentano" con la polizia che è lì davanti ai cancelli sbarrati della sede Usa, i ragazzi vorrebbero mettere una bandiera della pace al portone. No non si può, peccato. Nessun incidente, nessuna agitazione, si va verso il Parlamento; ondeggia insieme a loro il grande cartello di Greenpeace contro la Esso. Instancabili, eccoli nel pomeriggio coi loro cartelli e i loro striscioni al Campidoglio; un'immensa fiaccolata sta per avviarsi per le strade romane, insieme Rifondazione comunista, Verdi, Ds, Social Forum, operai delle fabbriche in sciopero. Alla Sapienza lezioni sospese in tutte le facoltà: e sono loro, gli studenti universitari a bloccare per più di un'ora l'intera stazione Termini, "No alla illegittima guerra del petrolio". Né si fermano qui, nel mirino dei ragazzi "che dicono no" gli accordi con l'Alenia e la Banca di Roma, una delle "banche armate" che finanziano produzioni belliche.

Nè taccioni i celebrati Castelli romani, dove tutte le scuole superiori, licei e istituti tecnici, hanno sospeso le lezioni, così il Foscolo ad Albano, il Vailati e il Pertini a Genzano, con i ragazzi che confluiscono nel presidio eretto in piazza Frasconi, mescolandosi ai dipendenti del Comune che manifestano con loro.

Pullulano i Castelli; e manifestazioni in tutto il Lazio, fiaccolate e sit in a Rieti (davanti alla prefettura), Viterbo, Bassano Romano, Rocca di Papa, Frosinone (dove è in corso una veglia). Già decisa una settimana intera di mobilitazione in tutta la regione; migliaia e migliaia sono in campo, insieme Prc, Ds, associazioni della pace, Social Forum, fabbriche, scuole, Giovani Comunisti. Un Lazio lanciatissimo.

Grandi notizie da Milano. Augusto Rocchi, il nostro segretario provinciale, che di solito pecca di asciuttezza nordica, oggi si lascia andare, l'aggettivo grande gli scappa più di una volta. Due cortei con tanta gente "come non avevo visto da un pezzo", dice; gli operai che hanno risposto in massa allo sciopero dei sindacati e tanti tanti studenti, insieme da largo Cairoli al consolato americano. E ancora nel pomeriggio il concentramento generale in piazza Duomo sotto lo striscione "Fermiano la guerra". Un giorno intero, tutta Milano risponde, un giorno forte. E domani si ricomincia, ponta un'altra grande manifestazione dei milanesi no war.

Non solo il capoluoogo, tutta la cintura è in fermento, Bresso, Garbagnate, Paderno Dugnano, Sesto, una catena di fiaccolate, sit in, asemblee, cortei, consigli comunali aperti. Il comune di Corbetta ha proclamato il lutto cittadino.

«Siamo seduti sui binari della Stazione», ci dicono da Bologna. Occupazione simbolica, tra un'ora ce ne andiamo: c'è un po' di tutto, dice allegramente il nostro interlocutore, operai, rifondatori, ferrovieri, no global, un mare di studenti. Due cortei, almeno 10mila persone; una piazza Maggiore stracolma; una città disseminata di bandiere arcobaleno; una marcia contro la Esso. E non è che l'inizio. Ieri era ieri e oggi infatti si ricomincia: nasce in piazza Maggiore la Tenda Permanente della Pace, richiamo fisso, appuntamento collettivo. E c'è anche un domani, con una manifestazione già programmata. Senza tregua.

Fronte del porto a Genova. 24 ore di sciopero proclamato volontariamente dai portuali, gli altri lavoratori li hanno seguiti, fermi gli altri porti, la Funzione Pubblica, i trasporti cittadini. Città bloccata, veglia in piazza De Ferrari, scuole vuote con migliaia di ragazzi in strada; e quattro cortei che dal polo universitario hanno coinvolto la stazione marittima, Sanpierdarena, Brignole. Occupata la stazione Principe, interrotta l'assemblea alla Regione; e oggi Comune e Provincia, su proposta di Rifondazione comunista, si riuniscono in assemblea straordinaria congiunta, aperta alla cittadinanza. Si, è emergenza.

Piccole, grandi, infinite notizie piovono giù. A Verona occupati due licei (il Galilei e il Fracastoro), sciopero e corteo a piazza Bra, manifestazione davanti alla sede del Comando delle Forze Alleate, e oggi incontro internaziomale "la Poesia e la pace"al Palazzo della Gran Guardia.

A Reggio Calabria studenti convocati in piazza via sms, presidio davanti alla questura, i ragazzi dell'Istituto d'arte dietro l'enorme bandiera della pace cucita da loro stessi a mano. E corteo nel pomeriggio: a piazza Camagna, dopo lo sciopero proclamato dai sindacati, tutte le sigle del pacifismo reggino, gli studenti, i metalmeccanici della Omeca, i tessili di San Gregorio, i centri sociali, Rifondazione, i Verdi, i ds.

A Como traffico bloccato e sit in davanti al Municipio, "signori della guerra non vi lasceremo in pace". Mattinata di mobilitazione a Imola, Reggio Emilia, Forlì, Cesena; nel pomeriggio è la volta di Modena, Ferrara, Ravenna, Piacenza, Parma. Rimini ha innalzato un presidio in piazza Cavour.

Firenze, per lunghi minuti suonano le lugubri sirene. Tra oggi e domani, qui dicono, saranno almeno 100 mila le persone coinvolte. Un corteo di almeno 20 mila in una Firenze letteralmente avvolta dalle bandiere iridate, bloccati i binari e alcune strade tra gli applausi della gente; e tanti anche qui gli studenti in piazza, quelli delle medie superiori e soprattutto gli universitari. Occupata Lettere e Filosofia, il Prc si mobilita davanti alle fabbriche e alle chiese, l'Unità di crisi è in funzione giorno e notte nella sede dell'Arci. Sì, è emergenza. Del resto in tutta la Toscana, la risposta è straordinaria; mobilitate Siena, Arezzo, Massa, Carrara; e i Disobbedienti continueranno anche domani, anche dopo, tutti i giorni. Due cortei a Pisa, sindacati studenti in piazza - almeno 10 mila -, occupato il Ponte di Mezzo e Tenda della pace in piazza del Comune.

Da Cagliari Walter Falgio ci invia un bel resoconto. «Un corteo spontaneo ha invaso la città dalle 10,30. Studenti, giovani e giovanissimi, prima di tutto. E poi universitari, lavoratori, sindacati, il mosaico delle associazioni e dei movimenti, pacifisti, antimilitaristi, antagonisti». E non un corteo, ma due, «dalle 17,30 hanno sfilato almeno 8000 persone, sino alla rappresentanza del Governo, "Berlusconi facci sognare, parti volontario e non tornare", e poi l'immancabile "A fora sa Nato da sa Sardigna". E ci sarà pure un presidio coi pescatori del Sulcis; e pure una pedalata della pace. Nessun limite alla provvidenza...

Sit in a Catanzaro, fiaccolata a Cosenza, sit in a Nuoro, dove 2000 bloccano il Tribunale; Bergamo registra la più grande manifestazione della Lombardia, (migliaia di studenti in piazza, bloccata l'autostrada e "accerchiato" il Comune.

Marche. Qui la Regione ha aderito ufficialmente alla manifestazione di protesta, approvando una propria mozione. In sciopero spontaneo i Cantieri Navali ad Ancona, con manifestazione e corteo di migliaia, tanti gli studenti e non mancano i blocchi stradali; mobilitate Pesaro, Fano, Senigallia, Macerata, Civitanova.

Umbria. Qui la Regione ha convocato un Consiglio straordinario. E a Perugia almeno 5000 studenti in corteo, presidio davanti alla prefettura, Tavolo della pace, occupata Lettere e Filosofia. E tutte le parrocchie mobilitate; lunedì sera in programma una immensa fiaccolata nella circoscrizione di S. Sisto. E il cardinale di Perugia, mons. Chiaretti sarà anch lui presenti, tra i fedeli, i Disobbedienti, i comunisti, i no global, i credenti e i non credenti di buona volontà. La terra di Capitini batte più di un colpo.

Qui Torino. Alle sette del mattino in piazza Castello è già sorto un Presidio Permanente contro la guerra; un corteo fortissimo, oltre 30 mila batte una città pavesata di bandiere arcobaleno; sotto l'enorme striscione "Disobbedire, sabotare" sfilano i Giovani Comunisti, la Rete studentesca, i Social Forum, le associazioni. Un missile di tre metri (di plastica, di plastica...) è "lanciato" contro la "banca armata" che di nome fa San Paolo; e un altro contro la facciata della Esso. Semplice dimostrazione, gli impiegati non si offendono... Università con le facoltà chiuse e binari occupati a Porta Susa, dopo lo sciopero, alle 17, arrivano gli operai delle fabbriche.

Qui Napoli. Corteo da piazza Matteotti a piazza Plebiscito, moltissimi gli studenti in corteo, docenti personale e ragazzi in assemblea al liceo Pansini, simbolici blocchi del traffico davanti alle sedi Enel, Napoletanagas, Sagit; domani corteo alla base Nato di Bagnoli. Qui Caserta, al corteo partecipa anche il vescovo mons. Nogaro. Qui Salerno, corteo in piazza Portanuova e bandiera della pace issata sul Palazzo di Città. Qui Eboli, il Muncipio inalbera la bandiera a mezz'asta e proclama una giornata di lutto. Qui Trieste, Venezia, Udine, Gorizia,
Qui Palermo, sit in spontaneo in piazza Politeama, Università mobilitata, cortei in tutti i centri della regione. E domenica tutto il no war siciliano si dà appuntamento davanti a Sigonella.

Cronaca di ieri. Una Giornata Particolare.