DA - LA REPUBBLICA

Saddam, appello agli iracheni
"Colpiteli in nome di Dio"
Il "rais" è parso in forma e ha fatto riferimenti
ai fatti di questi giorni elogiando le divisioni che resistono

BAGDAD - Saddam Hussein appare alla televisione di Stato irachena e sprona il popolo alla guerra santa contro i nemici. In tenuta militare, senza gli occhiali e apparentemente meno provato rispetto all'ultima apparizione, dice rivolgendosi agli iracheni: "Colpite come vi ha ordinato il vostro dio, colpiteli con tutte la forza che avete. Iracheni, colpite con la forza della jihad e stancate il nemico, rendetelo impotente perché non possa più andare avanti a commettere crimini contro la nostra nazione e l'umanità. Colpite affinché il bene sia stabilito e il male sia fermato".

Venti minuti di toni nazionalistici e citazioni coraniche come la promessa del "paradiso" per i "martiri" che moriranno nella gloria "del nostro dio misericordioso". Ma anche riferimenti alla situazione di queste ore che sembrano escludere - almeno per il momento - che possa trattarsi di un messaggio preregistrato. Saddam ricorda che il nemico ha subito delle perdite per merito dei combattenti mujaheddin. Poi ringrazia la divisione 11 della fanteria e il battaglione 45 (che stanno resistendo all'avanzata americana di Umm Qasr e altri soldati che "danno orgoglio ad ogni iracheno". Il dittatore ringrazia personalmente citandoli per nome i comandanti di quel fronte. Così come ringrazia anche le tribù e gli uomini della sicurezza nazionale che "hanno fatto il loro dovere".

Saddam ricorda anche il conflitto del '91 e le differenze rispetto a quegli anni: "In questi giorni decisivi il nemico ha portato le forze di terra per occuparci. Cercano di evitare lo scontro diretto, non vogliono combattere ad armi pari. Ma questa volta sono entrati nel territorio della nostra nazione, nella nostra terra e si trovano di fronte gli iracheni e il nostro popolo ha già dato prova di resistenza".

I toni riservati agli americani sono imbevuti di termini religiosi. Sono "gli amici del diavolo" ai quali si rivolge chiedendo loro "avete trovato quello che il diavolo vi ha promesso?". "Quando il male arriva con la logica della distruzione, ci troviamo costretti ad affrontarlo con la fede".

Mentre gli iracheni sono degli eroi che dio "porterà alla vittoria contro i nemici di dio, una grande vittoria definitiva". Infine, un richiamo alla causa palestinese: "Viva la Palestina libera e araba dal fiume al mare".

(24 marzo 2003)

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DA - LA REPUBBLICA

Gli iracheni catturano
un elicottero Usa

ROMA - La quinta giornata di guerra in Iraq si apre con le immagini della televisione araba Al Jazeera che mostra un elicottero "Apache" dell'esercito Usa, abbattuto a Karbala e circondato da iracheni festanti armati di kalashnikov. Durante la notte e parte della mattinata sono proseguiti i bombardamenti su Bagdad, mentre duri scontri si registrano a Samawa e a Kirkuk. Il tutto mentre il rais iracheno andava in televisione e invocava la "guerra santa". Secondo il ministro dell'informazione iracheno Mohammed Saeed al Sahaf ha detto oggi che nelle ultime 24 ore 61 persone sono morte e oltre 500 sono rimaste ferite in varie città dell'Iraq.

Elicottero. Il grande elicottero è fermo in un prato a Karbala, a cento chilometri a sud di Bagdad. Tutto intorno gente che festeggia con i mitra in pugno. Fino a poco prima a Karbala si era svolta una dura battaglia tra elicotteri "Apache" Usa e postazioni della guardia repubblicana del raìs. L'elicottero appare intatto e non ci sono indicazioni sulla sorte dei due membri dell'equipaggio. Per terra si vedono due caschi da pilota. Il velivolo ha ancora tutti gli armamenti e i missili ben visibili sui due lati. Ben visibili anche i numeri di serie con la scritta 'Us'. "Abbiamo perso un elicottero" dice il comando Usa. Mentre il governo annuncia: "Abbiamo fatti prigionieri militari americani e inglesi. Li tratteremo secondo la convenzione di Ginevra".

Bagdad. E' notte a Bagdad quando un potente boato squarcia il silenzio. Senza alcun preavviso la capitale irachena viene sottoposta ai bombardamenti più intensi dall'inizio della guerra. Secondo alcuni testimoni i bombardamenti sono parsi prendere di mira anche le aree a sud-est della città. Alte colonne di fumo denso sono state viste levarsi dai punti colpiti, insieme a vere e proprie gigantesche palle di fuoco e di polvere. Una delle esplosioni più forti appariva echeggiare dal luogo dove si trova il quartier generale dell'Aeronautica militare irachena. Le sirene, nella capitale irachena, tornano a suonare in mattinata.

Kirkuk. Le forze americane hanno bombardato le posizioni irachene lungo la linea che separa la città strategica di Kirkuk da Chamchamal (Kurdistan). Poco prima delle 10 (ora locale, le 9 in Italia) una serie di potenti esplosioni hanno squassato la catena montuosa controllata dall'esercito iracheno.

Mossul. Raid aerei hanno preso di mira Mossul, la grande città del nord dell'Iraq. Secondo quanto ha riferito il corrispondente della tv satellitare del Qatar Al Jazeera, gli attacchi sono stati tre, di cui l'ultimo intorno alle 07.20 locali (le 05.20 in Italia) e hanno sollevato nubi di fumo nero. Mossul era già stata colpita da ondate di attacchi aerei nella giornata di ieri. Situata sulla riva destra del Tigri, davanti alle rovine dell'antica Ninive, in una regione a maggioranza curda ma sotto il controllo di Bagdad, Mossul conta circa due milioni di abitanti.

Samawa. Secondo la Reuters le forze americane stanno incontrando una forte resistenza anche nella città di Samawa, nel sud dell'Iraq. Samawa è a 270 km da Bagdad, sul fiume Eufrate, più o meno a metà strada tra Nassiriya e Najaf, altre città nelle quali l'avanzata americana verso Bagdad sta incontrando una forte resistenza da parte irachena.

Armi chimiche. Una fabbrica di armi chimiche sarebbe stata trovata in Iraq. Secondo l'emittente britannica Sky News e l'americana Abc, che citano fonti del Pentagono, l'impianto sarebbe nei pressi della città di Nayaf e il direttore del centro sarebbe stato catturato. Il deposito definito "vasto", era ospitato all'interno di un complesso di 40 ettari costituito da diverse baracche e protetto da reti elettrificate.

Dispersi. Due militari britannici risultano dispersi, riferisce la Bbc, a quanto riferisce la Bbc sul suo sito online. La notizia è stata confermata anche dal ministero della Difesa. I due soldati sono dispersi dopo un attacco contro mezzi britannici nel sud dell'Iraq. "Stiamo facendo ogni sforzo per ritrovarli" dicono dallo stato maggiore britannico. Nessun notizia sul grado e sul reggimento dei due militari.

Missile contro il Kuwait. Il ministro della Difesa kuwaitiano ha annunciato che alcuni Patriot Usa hanno intercettato un missile iracheno sparato contro il territorio dell'Emirato. A Kuwait city, nella notte, sono tornati a farsi sentire gli allarmi antiaerei.

Siriani. Cinque siriani sono morti ed altri dieci sono rimasti feriti a Ratba, nell'Iraq occidentale, quando l'autobus con il quale stavano tornando in patria è stato colpito da un missile. L'autobus stava attraversando la città, situata a 160 chilometri alla frontiera con la Siria. Sull'autobus viaggiavano in totale 37 cittadini siriani che tornavano in patria. I feriti sono stati ricoverati nel centro ospedaliero di Tanaf, (300 chilometri da Damasco) alla frontiera siriana. I cadaveri sono stati portati nell'ospedale di Duma, vicino a Duma.

(24 marzo 2003)

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DA - LA REPUBBLICA

Le immagini
proibite
di VITTORIO ZUCCONI

IL BIANCO degli occhi enormi della sergente americana prigioniera illumina la verità della guerra. Non un pilota di jet abbattuto e tumefatto alla Cocciolone, ma una donna, texana come Bush, un semplice meccanico in divisa a 24 mila euro lordi l'anno, è il primo volto che ha portato lo shock and awe, lo sbigottimento e il terrore, nelle case degli americani illusi dalle favole della liberazione pulita e senza sangue. Tutto va bene sul fronte orientale, ci rassicura Bush tornando dal suo week end nello chalet di montagna, "la battaglia sarà dura", ma il settimo cavalleria è nei sobborghi di Bagdad e le bombe cadono puntuali sulla città.

Saddam è cotto, il piano avanza "lento ma sicuro" e le armi di distruzione di massa, quelle per le quali siamo andati a conquistare l'Iraq, saranno presto e sicuramente trovate. Ma intanto la prima domenica di guerra è una bloody sunday, una giornata maledetta - e dunque per la prima volta onesta - di sangue, di torture, di soldati impazziti, di cadaveri che rompono lo show asettico e incruento. Bush avverte gli iracheni: "Mi aspetto che i prigionieri siano trattati con umanità, così come facciamo noi con i prigionieri che abbiamo catturato. Altrimenti, chi maltratterà i prigionieri sarà trattato da criminale di guerra".

Per l'America in casa la guerra è cominciata ieri. Quel video è la bomba di Saddam su Washington. Per questo è visto pochissimo, qui sul fronte interno, poche immagini censurate e subito ritirate. E solo dopo molte ore la Cnn ha mostrato qualche breve spezzone. La maggior parte delle sequenze grand guignol che gli iracheni hanno filmato e che il network arabo Al Jazeera ha diffuso in tutto il mondo non sono ancora passate. Bush ha detto di non averle viste, perché lui ci racconta di non guardare la guerra in tv, ma mente. I generali del Pentagono le hanno seguite "con le mascelle serrate". Gli anchor delle reti tv, invocando il dovere professionale, le hanno avidamente osservate in privato, anche a costo di "vomitare" come Paula Zahn di Cnn, signora ingualcibile dei contenitori di fluff, aria fritta del mattino.

Ma ai cittadini, ai contribuenti che pagano il soldo dei 12 disgraziati uccisi in un'imboscata, dei cinque genieri meccanici del Terzo Fanteria caduti nelle mani degli iracheni perché il sottotenente che li guidava "ha sbagliato strada", non sono stati fatti vedere. Soltanto chi possiede collegamenti Internet ad alta velocità ha potuto guardarli, in uno dei siti sciacallo che subito hanno messo on line il filmato. È stato fatto per pudore dei parenti a casa, per rispettare quel minimo di decenza che persino le televisioni occasionalmente ancora hanno e perché un Donald Rumsfeld terreo ha sfidato la luce dei riflettori al mattino della domenica senza lo scudo del fondotinta per chiedere alle tv di non mandare in onda quelle sequenze "ripugnanti" di cadaveri in uniforme americana. Le tv, per ora, hanno ubbidito, non hanno mostrato neppure l'interrogatorio dei cinque fanti prigionieri e di quella donna con l'occhio bianco e terrorizzato.

È pudore, certamente, quel black out, ma è molto di più. È la paura che, nel ribrezzo e nella rabbia suscitati dalle sequenze dei morti e dei prigionieri, il pubblico americano ritrovi il senso dell'orrore, riscopra il prezzo di avere violato il tabù della guerra. È rispetto per le famiglie dei parenti, ma è anche l'ansia di perdere, nella battaglia finale per Bagdad che sta per cominciare, il consenso di una generazione X allevata nel mito delle nuove guerre playstation senza morti, come in Kosovo. "Sembra che questa guerra vada avanti da tanto tempo - diceva ieri sera Bush tradendo l'ansia di farla finita presto - e invece è solo l'effetto di tutto quello che vediamo alla televisione". Proprio lui, che ci aveva appena detto di "non guardare la guerra in tv". È umana delicatezza, ma è soprattutto calcolo politico.

I sondaggi della vigilia dicevano che il vasto e sottile sostegno all'invasione sarebbe crollato in proporzione inversa al numero di morti: e i morti cominciano ad arrivare. Bush e i suoi registi di politica interna, Karl Rove e Andy Card, che guardano alle elezioni del 2004, quelle per le quali il soldato Bush combatte, ricordano come Clinton pagò l'umiliazione della Somalia, quando l'elicottero Black Hawk fu abbattuto e i cadaveri dei marines furono trascinati nella polvere di Mogadiscio.

Il morale, bisogna tenere alto il morale del fronte interno, perché la sindrome del Vietnam si annida in ogni body bag per i caduti. I generali Usa, che per bocca del futuro viceré dell'Iraq liberato, il generale Abizaid di origine araba, accusano al Jazeera di "disgustosa insensibilità", rabbrividiscono quando vedono il sergente Assan Akbar della 101esima parà lanciare tre bombe a mano nella tenda dei comandanti, uccidendone uno e ferendone 15.

Tutti gli ufficiali superiori di oggi hanno fatto il Vietnam e ricordano il segreto terribile del fraggin', quando gli uomini si ammutinavano e ammazzavano i loro ufficiali a colpi di fragmentation bomb, di bombe a mano, per non andare in battaglia. Gli anchor di tutte le reti assumono la voce da cronache funebri, ora che la faccia vera della guerra è apparsa e non è più soltanto il comodo tiro al bersaglio sul dead man walking, il morto che cammina Saddam. E c'è un'altra verità impronunciabile e spaventosa, dietro lo shock and awe, lo sgomento e il terrore che ha preso Bush, Rumsfeld, Cheney l'Uomo Invisibile, alla vista del videotape e alle notizie della sorprendente resistenza di questi iracheni.

È la paura che i colpi di coda del regime scatenino il mostro latente dentro questa guerra: l'odio razziale per gli arabi, che la favola bella della democrazia tipo esportazione con aiuti umanitari dovrebbe nascondere. Le torture ai prigionieri possono scatenare quell'odio anti islamico, anti arabo che a fatica si è finto di controllare dopo l'11 settembre. Era un musulmano nero, il sergente che ha fragged i suoi comandanti. Sono musulmani e arabi, quelli che hanno filmato e mostrato i cadaveri e i prigionieri. "Adesso è diventato un fatto personale", è scappato detto a un artigliere della 101esima prima che la regia militare tagliasse il collegamento.

Se i carcerieri e gli aguzzini dei prigionieri americani riusciranno a far scattare la trappola della rabbia e dell'odio razziale, quella, e non le introvabili bombe chimiche, diventerebbe la vera arma di distruzione di massa nella crociata tra l'Islam dei fanatici e la Cristianità dei missili Cruise.

(24 marzo 2003)

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DA - LA REPUBBLICA

Imi-Sir, Previti in aula
"Sospendete il processo"
Alla fine di gennaio la suprema Corte
aveva lasciato il dibattimento a Milano

MILANO - "Sospendete il processo". Quando ormai siamo alle battute finali, Cesare Previti rivolge ai giudici del processo Imi-Sir-Lodo Mondadori l'ennesima richiesta di rinvio. Con alcune dichiarazioni spontanee il principale imputato chiede che il dibattimento sia fermato fino a quando non saranno note le motivazioni con le quali la Cassazione ha respinto l'istanza di rimessione ad altra sede dei processi milanesi.

L'istanza era stata presentata dagli avvocati del parlamentare di Forza Italia, per il quale il pm Ilda Boccassini ha chiesto 13 anni di carcere, all'indomani dell'entrata in vigore della legge Cirami sul legittimo sospetto. Ma il 28 gennaio i giudici della suprema Corte emettevano una sentenza con la quale, non riscontrando sufficienti ragioni per spostare la sede del processo, respingevano le richieste dei legali dell'imputato.

L'11 febbraio successivo gli avvocati di Previti si vedevano respingere un altra richiesta di sospensione, presentata stavolta "in attesa che scadano i termini di una eventuale impugnazione del verdetto della Cassazione". Poi, ma ormai è storia di questi giorni, gli stessi avvocati si producevano in una lunga arringa con cui si chiedeva l'assoluzione del deputato azzurro per la parte che riguarda la vicenda Imi-Sir ("Mancano gli indizi e non ci sono prove") e, per ciò che riguarda l'affaire Mondadori, la derubricazione del reato da corruzione aggravata a corruzione semplice, in modo tale che con le attenuanti generiche esso possa essere dichiarato prescritto.

Ora la nuova richiesta di sospensione, fatta direttamente in aula da Cesare Previti, che ha parlato di "singolarità della procedura seguita dalla Cassazione", che a suo parere avrebbero dovuto emettere la loro sentenza con un provvedimento motivato. "Il mio non è un atteggiamento dilatorio - giura Previti - ma ritengo di esercitare il diritto all'informazione, costituzionalmente tutelato in quanto serve serve all'esercizio del diritto di difesa". E conclude: "Devo sapere se siete competenti e devo sapere per quali ragioni ho erroneamente dubitato della vostra imparzialità".

In questo momento i giudici della quarta sezione del tribunale di Milano sono riuniti in camera di consiglio per decidere sulla nuova richiesta di sospensione. Alla quale si è opposta il Pm Ilda Boccassini, che ha definito le questioni poste "del tutto sbagliate". Anche le parti civili si sono opposte e hanno chiesto che oggi cominci, come era previsto, l'intervento dell'avvocato Sammarco che concluderebbe le arringhe difensive.

(24 marzo 2003)

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Frattini: «I rapporti con l'Iraq non cambiano»

«L'ufficio di rappresentanza continua a funzionare»
«Dopo l'11 settembre scoperte in Italia molte basi di Al Qaeda»

ROMA - Non ci sarà nessuna «modifica dei rapporti» tra l'Italia e l'Iraq dopo l'espulsione dei quattro diplomatici iracheni. Lo ha precisato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, parlando al programma «Domenica In». Il titolare della Farnesina, ricordando come dopo l'11 settembre «abbiamo scoperto che in Italia c'erano, non una, ma molte basi del terrorismo di Al Qaeda», ha aggiunto che riferirà «in modo dettagliato» in Parlamento sulla vicenda. Comunque, ha aggiunto, le espulsioni riguardano solo singoli, l'ufficio di rappresentanza irachena in Italia continua a funzionare. Frattini ha confermato che c'è stato un «invito a lasciare il paese per quattro persone, una parte di tutte quelle che lavoravano nella rappresentanza d'affari irachena a Roma, rappresentanza che rimarrà regolarmente aperta».

«PROCEDURE NORMALI» - E ha precisato che si tratta di «procedure che nelle relazioni diplomatiche sono assolutamente normali e che riguardano singoli casi. Non c'è nessuna alterazione - ha ribadito - nelle relazioni che esistono, tanto è vero che l'ufficio di affari in Italia dell'Iraq rimane aperto e funzionante». «Non ci sarà - ha sottolineato Frattini - nessuna modifica dei rapporti che esistevano fino a ieri. Il capo di questa rappresentanza rimarrà in servizio. Altri impiegati rimarranno ugualmente. Si è trattato di quattro persone». «Ovviamente riferirò in modo più dettagliato in Parlamento. Ma - ha concluso - noi ci siamo comportati né più né meno come si sono comportati nei giorni scorsi la Svezia, la Finlandia, l'Austria, il Canada, la Germania».

SOLDATI ITALIANI - «L'Italia non è un paese belligerante, non è un paese in guerra», ha poi sottolineato il ministro. Frattini ha ricordato che «l'Italia ha scelto volontariamente di non mandare propri soldati in Iraq», aggiungendo che ci sono circa novemila militari italiani in giro per il mondo «a rischiare la propria vita per la pace».

PACIFISTI - «Ho grande rispetto per coloro che manifestano per la pace, soprattutto per i giovani ma l'importante è che questo non venga strumentalizzato», ha anche detto il ministro degli Esteri Frattini. «Molti di quelli che in questi giorni sono scesi in piazza - ha precisato Frattini - sono ragazzi molto giovani che hanno tutto il diritto di manifestare per la pace. Ma è anche vero che la maggior parte di loro non ha conosciuto un'altra epoca, quando gli americani sono venuti in Italia per liberarci dal nazismo». È per questo motivo che il ministro Frattini non avrebbe voluto vedere in piazza «bruciare bandiere americane». «Ho grande rispetto - ha concluso Frattini - anche per le bandiere della pace ma è fondamentale che questo non venga strumentalizzato politicamente».

24 MARZO 2003

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DA - IL SOLE 24 ORE

LE BORSE AL RIBASSO

Ore 10.30: Europa in deciso ribassoFrancoforte cede il 2,5%, Parigi l'1,9%, Londra l'1,5% e Milano lo 0,88 per cento.

Dopo più di un'ora dall'inizio delle contrattazioni, le Borse europee si presentano ancora in territorio negativo, anche se gli indici viaggiano ora leggermente sopra i minimi di seduta. I mercati del vecchio continente non si sono lasciati intimorire dal discorso di Saddam Hussein, che ha promesso una «vittoria rapida» dell'Iraq. Francoforte cede il 2,5%, Parigi l'1,9%, Londra l'1,5% e Milano lo 0,88 per cento.
(ore 10.30)

Hong Kong, finale debole - Finale debole per la Borsa di Hong Kong, che tuttavia ha vissuto una seduta estremamente volatile. Al termine delle contrattazioni l'indice Hang Seng è scivolato dello 0,77%, attestandosi a 9.108,45 punti, penalizzato dai timori che la guerra in Irak risulti più lunga e dura del previsto.
(ore 9.30)

Tokyo chiude in forte rialzo - Chiusura in forte rialzo per la Borsa nipponica. L'indice Nikkei 225 ha infatti registrato un progresso del 2,93% attestandosi a 8.435,07 punti. Gli investitori stanno scommettendo su un'imminente vittoria delle forze alleate in Iraq, malgrado le notizie sulla resistenza irachena. Sono state ben comprate le azioni delle banche e delle case di auto, favorite dalla debolezza dello yen che dovrebbe agevolare le loro esportazioni.
(ore 9)

Asia pacifico contrastata - Cedono terreno Seul (-1,08%) e Singapore (-1,44%). L'irrigidirsi della resistenza irachena contro gli alleati, dicono gli operatori, fa diminuire le possibilità di una guerra lampo. A Sidney (-0,29%) impegnata direttamente nel conflitto, ritraccia il colosso dei media News Corp (-3,2%) dopo che nella scorsa settimana era crescita del 10% sull'onda dell'attacco all'Iraq.
Tra le altre piazze dell'area Asia-Pacifico, Taiwan ha chiuso in calo dello 0,35%, Bangkok in progresso frazionale dello 0,25%, Jakarta ha segnato +0,11% e Kuala Lumpur in rialzo dello 0,11 per cento.
(ore 9)

(agenzia Radiocor)

24 MARZO 2003

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DA - IL MESSAGGERO

IL PENTAGONO IN TILT
di ALESSANDRO POLITI

di ALESSANDRO POLITI
QUANDO le cose vanno male, la differenza tra i guerrieri da videogame ed i professionisti del duro mestiere delle armi sta in pochi tratti essenziali: sangue freddo, prudenza e rispetto dell'avversario. A livello strategico la giornata si è svolta su tre livelli ascendenti, ognuno con un suo peso specifico: quello mediatico, quello operativo e quello politico.
Il primo, ha gelato le ultime speranze di una passeggiata militare, già appassite da troppe notizie di tenaci sacche di resistenza. L'elemento cruciale si chiama morale dell'avversario sia a livello di leadership che a livello di truppe. È un imponderabile da secoli ed è una variabile abbastanza svincolata dalla tecnologia e dalla logistica dei contendenti.
È il momento di riesaminare con estrema cura gli elementi di valutazione su punti forti e deboli del morale avversario. Primo, anche i soldati regolari combattono per il proprio territorio patrio e questo permette di chiudere un occhio anche su un regime temuto e disprezzato. I ragazzi di Salò e quelli della Wehrmacht non fecero altrimenti. Secondo, i soldati arabi hanno perfettamente chiaro il concetto di onore: sarà mal diretto, ma non si può ignorare.
Terzo, i continui annunci pubblici di trattative ad alto livello non hanno fatto che rinsaldare l'apparato di sorveglianza del raìs intorno agli alti papaveri, senza produrre una furia paranoica del dittatore, ipoteticamente roso dai sospetti, contro i suoi fedelissimi. Cinquantotto anni fa i contatti con i comandanti nazisti in Italia durante l'operazione di resa concordata, chiamata Sunrise, venivano condotti nel silenzio più assoluto. Sunrise ebbe successo.
Quarto, sono tanti i beneficati del regime di Saddam Hussein e costoro sanno benissimo che il primo atto "democratico" sarebbe una loro esecuzione per strada per le mani di folle inferocite.
Il livello operativo dovrà rivedere i calcoli non solo sulla velocità dell'avanzata lungo l'Eufrate in direzione di An Najaf e Karbala (le due città sante sciite), ma soprattutto quelli che prevedevano una sorpresa strategico-operativa con truppe paracadutate nel nord dell'Iraq e con formazioni aeromobili nei pressi di Bagdad. Decisioni altrettanto spinose vanno prese su come gestire la campagna aerea: quanto bombardare l'élite e quanto dedicare a supporto tattico ravvicinato per le truppe?
È questo il momento dove si comincia a sentire crudelmente la mancanza di una divisione di fanteria meccanizzata che avrebbe dovuto arrivare dalla Turchia, non solo perché avrebbe diviso le forze irachene, ma perché avrebbe permesso un controllo sui pozzi che è ancora tenue.
Infine a livello politico ci sono sviluppi imprevisti su due questioni estremamente sensibili. Il presidente statunitense George Bush ha ringraziato gli iracheni per non aver usato sinora armi chimiche o biologiche. È un messaggio difficilmente sottovalutabile, che è stato prontamente registrato in silenzio a Bagdad e nelle altre capitali arabe.
La Casa Bianca avrebbe potuto tranquillamente ricordare quali sono le ritorsioni prevedibili in caso di attacco iracheno, ben sapendo che, come la deterrenza funzionò per Hitler (che inventò i nervini moderni) e per Saddam durante la scorsa guerra, essa agisce anche oggi.
Eppure ha voluto, non si sa quanto involontariamente, segnalare un'attenzione per il mancato sfruttamento iracheno di una vulnerabilità politica di Washington. Un Blitzkrieg con troppi morti ed all'ombra di una nuvola chimica rischia seriamente di rovinare la posizione politica di questa presidenza.
Il secondo sviluppo viene da parte dei governi europei. Capofila Belgio e Germania, tra i paesi più tenacemente avversi nella Nato e fuori a questa guerra, è partito un altolà netto ad Ankara sui possibili piani di un ingresso nell'area curda. La minaccia è pesante: rinvio dell'ingresso nell'Unione Europea e ritiro dell'assistenza Nato.
Questo significa che si sta creando rapidamente un fronte transatlantico, non sappiamo quanto solido in futuro, per evitare l'annunciata catastrofe di una lotta turco-curda intorno ai pozzi di petrolio di Mosul e Kirkuk, nonché sul futuro dell'autonomia curda.

24 MARZO 2003

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DA - IL MESSAGGERO

LA TRAPPOLA SI RIPETE
di YOUNIS TAWFIK

di YOUNIS TAWFIK *
ERA già previsto. Il regime di Saddam Hussein conosce molto bene le debolezze dell’Occidente e punta su due obiettivi ben precisi: i danni provocati dall’attacco americano sulla popolazione civile e l’afflizione delle perdite il più possibile pesante alle truppe anglo-americane. Nella battaglia di terra del 1991, in seguito alla disfatta delle truppe irachene in ritirata dal Kuwait, Saddam fece cadere in una analoga trappola le colonne dei carri armati diretti a Bagdad, proprio vicino alla città di Nassiria, e i tank della Guardia repubblicana in quella zona strinsero in una morsa ben architettata i carri armati del generale Schwarzkopf. La mattina presto il presidente George Bush padre apparve in televisione per dichiarare che le operazioni erano finite, anche perché era stato raggiunto l’obiettivo, cioè la liberazione del Kuwait.
Nella tenda di Safwan, sul confine a Sud dell’Iraq con il Kuwait, i capi dello Stato Maggiore iracheno firmarono la dichiarazione di resa. In cambio ottennero la licenza di poter usare elicotteri, mezzi di trasporto militari, cannoni e missili fino a 150 chilometri di gittata. Ovviamente gli iracheni dovevano evitare una carneficina che poteva mettere in crisi l’amministrazione americana. Saddam Hussein in cambio del favore resterà ancora per ben tredici anni al potere, e subito dopo la firma dell’accordo scatenò la sua Guardia repubblicana vittoriosa e libera di agire contro i civili rivoltosi nel marzo del 1991. Fu un vero massacro nel quale persero la vita migliaia di cittadini inermi in circa quattordici capoluoghi dei sedici di tutto l’Iraq. La carneficina contro donne, uomini e bambini, ma soprattutto sugli sciiti e sui curdi, fu compiuta in ogni dove. Principalmente in zone proibite, dove si erano rifugiati i rivoltosi, come le moschee.
I mezzi di informazione e l’opinione pubblica allora costrinsero gli americani a dichiarare una "no fly zone" per poter mettere in salvo le popolazioni civili nel Nord dell’Iraq, i curdi, e nel Sud, gli sciiti. Ma ormai era già troppo tardi. E’ chiaro che l’esperienza non insegna e neanche la sofisticatissima tecnologia è servita per impedire gli errori come quelli che stanno accadendo in questi giorni di assurda guerra scatenata dalla rabbia e affrettata, nonché di precario consenso mondiale. Ci saranno di sicuro altre sorprese che il raìs di Bagdad tiene in serbo per arrivare a una vittoria politica e per uscire da questo conflitto, anche da morto, come un eroe nazionale e un simbolo per tutti gli offesi ed i frustrati di tutto il mondo arabo.
Ci si chiede ora di chi sarà la vera vittoria alla fine. Della dittatura, o della democrazia che ha infranto l’equilibrio della giustizia mondiale? Se ci fosse stata più prudenza e più ampia coalizione, forse questo non sarebbe accaduto.
* Scrittore iracheno

24 MARZO 2003.

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DA - IL MESSAGGERO

Virus killer:
i morti sono 13
In Austria
un altro caso

ROMA- Il virus della polmonite atipica continua a fare le sue vittime. Un uomo di 80 anni è morto a Hong Kong, si tratta dell'ottava vittima, la tredicesima nel mondo stroncata dalla misteriosa epidemia.
Nell'ex colonia britannica le persone contagiate sono ormai 242 (25 in più), mentre sono complessivamente 411 i casi sospetti, distribuiti in 13 Paesi del mondo. Mentre in Europa il virus è arrivato anche in Austria. Il primo presunto paziente è ricoverato dall’altroieri all'ospedale regionale di Gmunden, sul confine con la Repubblica Ceca.
Si tratta di un uomo di 42 anni, che alcuni giorni dopo il rientro da un viaggio in Cina ha mostrato i sintomi tipici della Sars (dalle iniziali in inglese di Sindrome acuta respiratoria grave) come febbre alta, tosse, difficoltà respiratoria.
L'ostacolo principale, ha detto il primario dell'ospedale di Gmunden, Johann Ecker, è la mancanza di un test che indichi con certezza la malattia. Per questo vengono fatte tutte le analisi possibili per escludere che si tratti di qualcosa di diverso, come una grave infezione influenzale, per esempio.
L'ospedale, secondo Ecker, ha già preso misure di sicurezza: il paziente è in isolamento, il personale medico deve usare particolari disinfettanti, nessuno estraneo ha accesso al malato, che nel frattempo sembra avere fatto alcuni miglioramenti, ma le cui condizioni non permettono ancora di sciogliere la prognosi.
A Londra invece un uomo è stato ricoverato in isolamento in un ospedale della città con il sospetto che si tratti un caso di polmonite atipica, salirebbero così a tre i casi di Sars registrati nel Regno Unito.

24 MARZO 2003

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Una cerimonia per la pace, la notte degli Oscar
di red

"Vergogna, vergogna, vergogna, sono contrario a questa guerra e a un uomo (leggi Bush) che ci manda in una guerra fittizia per una realtà fittizia". Così Michael Moore ha commentato il premio da lui ricevuto per Bowling a Columbine (miglior documentario) tra gli applausi della platea. "Noi siamo -ha gridato il cineasta- contro la guerra", che è "una forma inaccettabile di risoluzione dei conflitti".

Parole che rappresentano una notte degli Oscar in tono minore, molto sottotono nella quale la presenza della guerra è fortissima mentre fuori ci sono i manifestanti.

Gli Oscar, comunque, sono stati consegnati. Migliori attori protagonisti Nicole Kidman per The Hours e Adrien Brody per Il Pianista. Nowhere in Africa miglior film straniero. Premio alla carriera a Peter O'Toole. Miglior documentario a Michael Moore che ha fatto un duro intervento contro la guerra. Miglior film Chicago, che in tutto ha ottenuto 6 statuette, miglior regia a Roman Polanski per Il Pianista. Questi i più importanti premi degli Oscar 2003.

Tutti hanno parlato della guerra. Ha cominciato Chris Cooper, ricevendo l'Oscar come miglior attore non protagonista, per 'Il ladro di orchidee": "Auguro a tutti la pace", ha detto. "Perche' si va a ricevere l'Oscar in un periodo di tale sconvolgimento?'. E' Nicole Kidman a porsi questa domanda mentre riceve commossa il suo primo Oscar. ''Il motivo e' - spiega l'attrice - perche' l'arte e' importante e bisogna credere in quello che si fa. Allo steso tempo ci sono tanti problemi nel mondo e dopo l'11 settembre tanta gente ha sofferto e ora con questa guerra accadra ancora: Dio li benedica''. Un accorato appello della pace è arrivato da Adrien Brody, che ha parlato ben oltre il tempo a sua diposizione.
"Non so se si chiami Dio o Allah, ma che ci protegga e possa trovare una soluzione pacifica - ha detto l'attore - Ho un amico soldato in Iraq e mi auguro che ritorni presto".

A tutti quelli che sono per la pace, ha dedicato il suo premio anche Pedro Almodovar.

Dagli organizzatori, un unico accenno ai fatti dell'Iraq. Incaricato di presentare la cerimonia di consegna degli Oscar 2003 tenendo alto il morale di un pubblico per molti versi traumatizzato dalle notizie provenienti dal fronte in Iraq, e al tempo stesso di non ignorare troppo ostentatamente quello che sta succedendo nel mondo esterno, Steve Martin si è concesso un'unica battuta allusiva e moderatamente polemica sulla guerra: "Come avrete probabilmente notato", ha affermato il popolare comico, rivolto al pubblico in platea, "là fuori non c'è alcun tappeto rosso di lusso. Questo manderà loro un segnale", ha aggiunto, alludendo al governo di George W. Bushn.

Questi i premi minori : Chris Cooper ha ottenuto il riconoscimento come miglior attore non protagonista per Il ladro di orchidee. L'Oscar per la miglior scenografia è andato a John Myrhe e Gordon Sim per Chicago, il musical diretto da Rob Marshall che ha conquistato anche l'Oscar per la migliore attrice non protagonista andato a Catherine Zeta Johns e per i costumi firmati da Colleen Atwood . Miglior Fotografia per Era mio padre, miglior montaggio per Chicago, miglior costume per Chicago, miglior canzone originale, Eminem per 8 Mile, migliore Scenografia per Chicago, migliori Effetti Speciali per Le due torri, miglior documentario breve per Twin Towers, miglior film animato per Spirited Away, miglior sonoro per Chicago,
miglior montaggio effetti sonori per
Le due torri, miglior sceneggiatura originale a Pedro Almodovar per Parla con lei, miglior sceneggiatura non originale per Il pianista[/i], miglior colonna sonora per Frida[/i].

24 MARZO 2003

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DA - L'UNITA'

È morta Laura Lombardo Radice, scelse di essere la moglie di Ingrao
di Piero Sansonetti

Laura Ingrao era una donna che aveva tre doti e due difetti. Le doti erano la sua intelligenza, la sua generosità, e il suo anticonformismo. I difetti erano la poca diplomazia e l’eccesso di sincerità. Delle doti sono sicuro. Dei difetti anche, ma non sono sicuro che fossero difetti.

È morta ieri, quasi a novant’anni, dopo un buon numero di malattie che l’avevano stremata. L’ultima era stata una malattia cardiaca. Ha resistito qualche mese, poi se n’è andata. Chi l’ha conosciuta, e ha riflettuto un po’ su di lei, ha capito perfettamente almeno un pezzettino della questione femminile. Si è posto questa domanda: perché una donna di enorme intelligenza, di grande spirito, di intuizione veloce e mai banale, una donna con incredibili capacità di relazioni umane e sociali, una donna coltissima, perché a un certo punto della sua vita ha deciso che la parte più grande di se stessa la dedicava interamente alla famiglia, ai figli, al marito, alla scuola, agli alunni, alla causa, al partito, a un «interesse superiore»? Laura ha fatto così - come moltissime altre donne - e la sua grandiosità, morale e di intelletto, l’ha tenuta per pochi. Non so se dobbiamo ringraziarla per questo, per questa sua riservatezza, questa sua generosità, o se gliele dobbiamo rimproverare...

Era nata a Fiume nel settembre del 1913, quindi sotto l’impero austro-ungarico. Però lei aveva molto poco di austriaco. Laura aveva un carattere meridionale. Quello del padre, probabilmente, che era un grande intellettuale siciliano, di Catania, Giuseppe Lombardo Radice.

Il padre di Laura è stato uno di primi pedagoghi italiani, è uno di quelli che ha scritto la riforma della scuola che poi si è chiamata riforma Gentile. Il professor Lombardo Radice era stato amico del filosofo (e ministro) Gentile, fino al ’25, cioè alle leggi speciali del fascismo, poi aveva rotto, indignato, e si era ritirato a vita privata. Chissà se a Laura hanno mai pesato tutti quegli uomini importanti che aveva intorno: il padre, poi il fratello Lucio, che è stato il più originale degli intellettuali comunisti (e che è uno dei padri nobili del pacifismo italiano moderno), e infine suo marito Pietro Ingrao, con il quale ha vissuto per sessant’anni. Forse no, forse non gli hanno pesato. Comunque non ne è mai stata intimidita, né il suo modo di pensare è mai stato subalterno. La grandezza di Laura è stata questa: neppure per un minuto ha rinunciato a pensare con la testa sua. Per la «ragion di stato» ( o di partito) aveva rinunciato alla vita pubblica, non al suo pensiero.

Laura da giovane ha fatto la Resistenza a Roma. Era iscritta al Pci, come suo fratello e sua sorella Giuseppina. Credo che abbia conosciuto Pietro in quei giorni, nella cospirazione. Carla Capponi - una delle gappiste di Via Rasella - racconta delle manifestazioni dopo che i tedeschi avevano ucciso Teresa Gullace, e di Laura che andò a San Pietro a tirare i volantini, mentre parlava il papa, e per poco i tedeschi non la beccavano e non la portavano a via Tasso.

Poi nel dopoguerra si è sposata con Pietro e ha iniziato a fare figli. La prima è nata un mese dopo la Liberazione, l’ultimo, il quinto, nel ’58. E mentre faceva i figli, e faceva la mamma, andava anche a scuola a insegnare. Ha insegnato in tante scuole e aveva una passione incredibile per il suo lavoro. Gli ultimi vent’anni li ha fatti all’Oriani, una magistrale a Roma, e coi suoi alunni aveva un rapporto incredibile, totale, fatto di cose che insegnava - di cultura - certo, ma fatto anche di relazione umana, di sentimenti, di passioni, di parole, di affetto.

E infatti, quando è andata in pensione, a settant’anni, invece di ritirarsi si è messa nel volontariato ed è andata a lavorare a Rebibbia. Ha lavorato anche lì con la stessa intelligenza «totalizzante» che metteva nella scuola.

Laura era anche una donna spiritosa, simpatica, gran conversatrice. Non era un tipo che faceva i complimenti, casomai era un po’ ruvida, però era una persona molto dolce. Era forte, fortissima, capace di tenere testa a qualsiasi situazione, a qualunque tensione, a ogni problema: ma se la vedevi sorridere capivi che era anche una donna fragile, tenerissima. Sono convinto che se Pietro Ingrao è stato il personaggio «integerrimo per antonomasia», nella politica italiana del dopoguerra, se è stato, ed è, quel monumento alla moralità della politica che conosciamo tutti, e che amiamo, è anche - molto - per merito di Laura: per avere dovuto sempre sottoporre la sua vita e le sue scelte al vaglio critico di lei.

24 MARZO 2003

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DA - L'UNITA'

La guerra cambia tutto, anche per noi
di Alfredo Reichlin

La guerra acutizza all’estremo il problema dell’Italia: un grande paese privo di un governo che abbia il senso delle sue responsabilità nel momento in cui ciò che viene in discussione è quel fondamentale sistema di garanzia dei suoi interessi di lungo periodo che dipende da una chiara collocazione strategica. Per difendere la pace e la sicurezza bisogna essere padroni del proprio destino. Io leggo su questo sfondo i problemi dell’Ulivo e il rischio che si indebolisca la necessaria alleanza tra le forze democratiche del centro e della sinistra. Che succede alla democrazia italiana se le domande e le angosce che assillano la gente non trovano una credibile risposta politica? Parlo di un soggetto politico forte capace di garantire al paese una nuova guida. Da sole, non bastano le preghiere ma nemmeno le marce di proteste a riempire un vuoto così pericoloso. Questo è, dopotutto, il problema politico cruciale che la guerra di Bush impone all’Ulivo. Ed è un problema che interroga tutti, non solo i gruppi che, a sinistra come a destra, coltivano altri disegni. Spetta prima di tutto al nucleo fondamentale dell’Ulivo fare un salto di qualità.
Il quale dovrebbe consistere - a me pare - nel ridefinirne la missione a fronte di qualcosa che non è solo il fatto che il governo Berlusconi sta naufragando per l'evidente incapacità di gestire l'economia come di garantire il rispetto delle regole e delle istituzioni democratiche. Il problema di cui, forse, non ci siamo ancora resi ben conto è cosa comporta la scelta di Bush di imporre, anche attraverso la guerra, un nuovo ordine mondiale di tipo imperiale. È un passaggio epocale paragonabile al crollo del muro di Berlino. Tutto il sistema delle relazioni internazionali, compresa la sorte dell'ONU e della costruzione europea (per non parlare della coesistenza di culture e civiltà diverse) è rimesso in discussione. Ma per ciò che riguarda l'Italia, forse non si è capito ancora che la guerra di Bush colpisce le fondamentali ipotesi su cui questo paese profondamente europeo, ma immerso nel Mediterraneo e vicino di casa del mondo arabo, aveva costruito la sua sicurezza e la sua collocazione geo-politica, i suoi interessi di lungo periodo, e quindi il suo orizzonte come media potenza. Insomma, di fatto si è riaperto il più grande degli interrogativi sul futuro degli italiani che in qualche modo rende incerto ogni progetto, ogni impresa e ogni scommessa personale: noi chi siamo? dove ci collochiamo? come evitiamo di fare la fine di una provincia periferica, e periferica sia rispetto all'Europa che agli Stati Uniti?
Mi sembra questo il problema cruciale su cui l'Ulivo non può non ridefinire la sua necessità e la sua funzione. Perché non lo diciamo con questa chiarezza? Ritroveremmo così anche una passione politica vera e non dovremmo inseguire i signori dei veti. E, d'altra parte, qual'è l'alternativa? Non può essere questo infinito tira e molla sulle regole e sui posti perché così, alla fine, l'Ulivo entra in crisi e verrà avanti, inevitabilmente, l'altra soluzione del problema politico italiano, che sta da sempre nella pancia del paese e che consiste nel ritorno al trasformismo di cui certe voglie neo-centriste sono un chiaro sintomo.
Dopotutto, che cos'è l'Ulivo? Non è una astratta formula politica, non vive se non si misura con i grandi mutamenti e la natura nuova dei conflitti. È vero: si tratta di un luogo nato per consentire a forze e culture realmente espressive della storia e della società italiana, di incontrarsi. Ma non per amore, bensì per la convinzione che nessuna di esse, da sola, è in grado di affrontare i problemi nuovi e di fondo del paese (per gli altri problemi -candidature, accordi, sindaci- essendo sufficienti le alleanze elettorali). Ricordiamoci, del resto, come l'Ulivo nacque. Io vedo ancora la passione unitaria e perfino la tensione etica di uomini come Prodi, Ciampi, D'Alema, Andreatta, Veltroni. Era chiaro che si trattava di salvare il paese dalla bancarotta, di strappare il governo dalle mani di un avventuriero e dei suoi avvocati d'affari (Previti ministro) e di portare l'Italia a tutti i costi in Europa. Tanti anche allora non erano d'accordo ma non avevano la forza per porre veti. Perché erano gli uomini dell'Ulivo che parlavano al paese. Erano essi che avevano in testa una "missione": e quindi erano in grado di suscitare un impegno collettivo. Avevano un popolo.
È la guerra che oggi ripropone a un livello ancora più alto, lo stesso problema. Perciò io dico che l'Ulivo supererà le sue divisioni nella misura in cui ridefinirà le ragioni di una nuova grande alleanza democratica in quanto risposta al nuovo interrogativo di fondo: qual è il futuro dell'Italia in un mondo che non sarà più quello di prima? È su questo che si fa anche l'unità perché su questo terreno nessuno sacrifica i suoi valori, anzi li esalta e li mette alla prova. E questo vale soprattutto per i Ds. Anche per essi ciò che emerge dopo tante confuse dispute è la semplice verità che costruisce una sinistra riformista non significa fare piccole cose ma misurarsi con il fatto che è venuta allo scoperto quel concentrato della politica che è la questione della leadership del mondo nell'era della globalizzazione. Dico concentrato dalla politica per ricordare che da ciò dipendono tutte le altre questioni: quelle della giustizia come della libertà e della democrazia, del progresso sociale come della sostenibilità dello sviluppo. Tutto dipende da questa scelta: se la mondializzazione deve essere governata dalla Superpotenza in nome di un Dio ascoso che ispirerebbe la sua missione imperiale, oppure se occorre dar vita a nuove istituzioni democratiche capaci di rappresentare le infinite voci e i differenti interessi dei popoli.
Temo anch'io un'ondata di antiamericanismo e penso che sarebbe una sciagura se la sinistra cedesse a una visione infantile e manichea. Intanto perché l'America non è solo Bush. Poi perché è del tutto velleitario pensare di costruire un diverso ordine mondiale senza o contro quell'immenso deposito di energie democratiche, di risorse economiche e di culture moderne che sta in quel grande paese posto tra il Pacifico e l'Atlantico. Ma proprio se vogliamo un mondo multilaterale noi dobbiamo puntare su una straordinaria accellerazione della integrazione economico-politico-militare della Ue. Oggi questo sembra fuori dalla realtà ma io credo che noi sottovalutiamo l'importanza e il peso che avrebbe un soggetto politico europeo che facesse con chiarezza la scelta riformista accennata. Stiamo attenti perché questo è anche il solo modo non per fare la guerra all'America ma per interloquire in modo fecondo e costruttivo con quella parte del mondo americano che si chiede se la dottrina Bush non possa avere il solo effetto di aumentare la vulnerabilità degli Usa e di mettere a rischio la prosperità economica e le libertà repubblicane. Questo è il grande dubbio e qui sta la grande paura della coscienza americana a fronte del profilarsi di un nuovo Impero. Nata dalla lotta contro l'impero inglese e dal sostegno a tutte le cause di liberazione la coscienza civile dell'America non può non chiedere che cosa resta dell'egemonia culturale e spirituale degli Stati Uniti se essi si trasformano in un poliziotto del mondo costretto a mantenere in armi più di un milione di uomini e donne nei quattro continenti, a scrutare con i satelliti ogni angolo del pianeta, a pattugliare giorno e notte gli oceani con flotte di navi da battaglia sempre pronte a sparare.
Nello scrivere queste righe penso al segretario e al presidente dei Ds e alla loro estenuante fatica per tenere insieme i troppi capi e capetti del centro-sinistra. Non ho consigli da dare. Penso però che a questo punto l'unità non si fa cercando solo il "minimo comun denominatore". È meglio puntare sulle nuove grandi ragioni che possono unire in Europa e nel mondo le forze vere del progresso. Perché il bello della mondializzazione è questo: che non si governa solo dall'alto. Il fatto che ciò che viene messo in discussione non sono solo i beni materiali ma il senso stesso della vita umana, l'essere esclusi o meno da cose come i diritti di libertà e di democrazia e di restare padroni del proprio destino, cose per cui vengono avanti nuovi bisogni di partecipazione e di identità culturale dovrebbe far capire non solo perché i movimenti hanno bisogno dei partiti ma perché anche i partiti hanno bisogno di questo tipo di movimenti.

24 MARZO 2003

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DA - L'UNITA'

America cosa stai facendo?
di Robert Byrd



Oggi piango per il mio Paese. Ho visto il volgersi degli eventi in questi ultimi mesi con il cuore, il cuore pesante. L’immagine dell’America non è più quella di un forte eppur benevolo mediatore di pace. L’immagine dell’America è cambiata. In tutto il pianeta i nostri amici non si fidano di noi, la nostra parola è messa in dubbio e le nostre intenzioni sollevano obiezioni.
Invece di ragionare con coloro con cui siamo in disaccordo, noi esigiamo obbedienza o minacciamo recriminazioni. Invece di isolare Saddam Hussein, isoliamo noi stessi. Proclamiamo una nuova dottrina di prelazione che è compresa da pochi e temuta da molti.
Dichiariamo che gli Stati Uniti hanno il diritto di muovere, nella guerra al terrorismo, la loro potenza militare su qualsiasi angolo del pianeta che possa essere sospetto. Noi asseriamo questo diritto senza alcuna approvazione da parte di organismi internazionali. Di conseguenza, il mondo è diventato un posto molto più pericoloso.
Sventoliamo la nostra superpotenza con arroganza. Trattiamo i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come degli ingrati che offendono la nostra dignità di sovrani comportandoci come se dovessimo aprire loro gli occhi. Importanti alleanze si sono spaccate. Quando la guerra sarà finita, gli Stati Uniti dovranno ricostruire non solo la nazione irachena, ma anche l'immagine dell'America davanti a tutto il mondo.
Le argomentazioni che questa amministrazione cerca di produrre per giustificare le sua fissazione per la guerra sono macchiate da accuse di documenti falsi e prove indiziarie. Noi non possiamo convincere il mondo della necessità di questa guerra per una sola semplice ragione. Questa guerra è frutto di una scelta.
Non c'è nessuna informazione credibile che colleghi Saddam Hussein all'11 settembre. Le Torri gemelle sono crollate a causa di un'organizzazione terrorista mondiale, Al Queda, con cellule in oltre 60 Paesi, che ha colpito la nostra ricchezza e la nostra influenza trasformando i nostri stessi aerei in missili, uno dei quali si sarebbe con ogni evidenza scagliato contro la cupola della sede del Congresso se non fosse stato per il coraggio e il sacrificio dei passeggeri a bordo.
La brutalità sperimentata durante l'undici settembre e durante altri attacchi terroristici in giro per il mondo dei quali siamo testimoni, costituisce il tentativo disperato e violento da parte di estremisti di bloccare la quotidiana invasione dei valori occidentali nelle loro culture. Noi combattiamo una forza non delimitata da confini, ma un'entità oscura fatta di molti volti, molti nomi e altrettanti indirizzi.
Tuttavia, questa amministrazione ha diretto tutta la sua rabbia, paura e dolore che emergono dalle ceneri delle Twin Towers e dal metallo torto del Pentagono, contro un mascalzone ben definito, una persona visibile che possiamo odiare e attaccare. Saddam è una canaglia, ma è quella sbagliata. E questa è una guerra sbagliata. Se attacchiamo Saddam Hussein, probabilmente gli toglieremo il potere ma l'entusiasmo dei nostri amici nell'assistere alla nostra guerra globale contro il terrorismo ci avrà già lasciato.
L'inquietudine generale che aleggia su questa guerra non è soltanto dovuta all' "allarme arancione". C'è un sentimento dilagante di fretta e rischio e di troppe domande senza una risposta. Per quanto tempo resteremo in Iraq? Quale sarà il prezzo? Quale la missione finale? Di quale entità il pericolo per le nostre case?
Un drappo nero è sceso sulla Camera del Senato. Evitiamo il nostro solenne dovere di discutere l'unico argomento nella bocca di tutti gli americani, anche quando migliaia dei nostri i figli e figlie in fede fanno il loro dovere in Iraq.
Cosa sta succedendo a questo Paese? Quando ci siamo trasformati in una nazione che ignora e rimprovera i suoi amici? Quando abbiamo deciso di rischiare, minare le disposizioni internazionali adottando un approccio radicale e dottrinario nell'uso massiccio e pauroso della potenza militare? Come possiamo abbandonare ogni sforzo diplomatico quando lo scompiglio mondiale sta chiedendo a gran voce una soluzione diplomatica?
Perché questo Presidente sembra non rendersi conto che il vero potere americano poggia non in una volontà intimidatoria, ma in una abilità ispiratrice?
Traduzione di Chiara Nano

Robert C. Byrd è un senatore democratico West Virginia

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