DA - LA REPUBBLICA Saddam, appello agli
iracheni
"Colpiteli in nome di Dio"
Il
"rais" è parso in forma e ha fatto riferimenti
ai fatti di questi giorni elogiando le divisioni che
resistono
BAGDAD - Saddam
Hussein appare alla televisione di Stato irachena e
sprona il popolo alla guerra santa contro i nemici. In
tenuta militare, senza gli occhiali e apparentemente meno
provato rispetto all'ultima apparizione, dice
rivolgendosi agli iracheni: "Colpite come vi ha
ordinato il vostro dio, colpiteli con tutte la forza che
avete. Iracheni, colpite con la forza della jihad e
stancate il nemico, rendetelo impotente perché non possa
più andare avanti a commettere crimini contro la nostra
nazione e l'umanità. Colpite affinché il bene sia
stabilito e il male sia fermato".
Venti minuti di toni nazionalistici e citazioni coraniche
come la promessa del "paradiso" per i
"martiri" che moriranno nella gloria "del
nostro dio misericordioso". Ma anche riferimenti
alla situazione di queste ore che sembrano escludere -
almeno per il momento - che possa trattarsi di un
messaggio preregistrato. Saddam ricorda che il nemico ha
subito delle perdite per merito dei combattenti
mujaheddin. Poi ringrazia la divisione 11 della fanteria
e il battaglione 45 (che stanno resistendo all'avanzata
americana di Umm Qasr e altri soldati che "danno
orgoglio ad ogni iracheno". Il dittatore ringrazia
personalmente citandoli per nome i comandanti di quel
fronte. Così come ringrazia anche le tribù e gli uomini
della sicurezza nazionale che "hanno fatto il loro
dovere".
Saddam ricorda
anche il conflitto del '91 e le differenze rispetto a
quegli anni: "In questi giorni decisivi il nemico ha
portato le forze di terra per occuparci. Cercano di
evitare lo scontro diretto, non vogliono combattere ad
armi pari. Ma questa volta sono entrati nel territorio
della nostra nazione, nella nostra terra e si trovano di
fronte gli iracheni e il nostro popolo ha già dato prova
di resistenza".
I toni riservati agli americani sono imbevuti di termini
religiosi. Sono "gli amici del diavolo" ai
quali si rivolge chiedendo loro "avete trovato
quello che il diavolo vi ha promesso?". "Quando
il male arriva con la logica della distruzione, ci
troviamo costretti ad affrontarlo con la fede".
Mentre gli iracheni sono degli eroi che dio
"porterà alla vittoria contro i nemici di dio, una
grande vittoria definitiva". Infine, un richiamo
alla causa palestinese: "Viva la Palestina libera e
araba dal fiume al mare".
(24 marzo 2003)
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DA - LA
REPUBBLICA
Gli iracheni
catturano
un elicottero Usa
ROMA - La quinta
giornata di guerra in Iraq si apre con le immagini della
televisione araba Al Jazeera che mostra un elicottero
"Apache" dell'esercito Usa, abbattuto a Karbala
e circondato da iracheni festanti armati di kalashnikov.
Durante la notte e parte della mattinata sono proseguiti
i bombardamenti su Bagdad, mentre duri scontri si
registrano a Samawa e a Kirkuk. Il tutto mentre il rais
iracheno andava in televisione e invocava la "guerra
santa". Secondo il ministro
dell'informazione iracheno Mohammed Saeed al Sahaf ha
detto oggi che nelle ultime 24 ore 61 persone sono morte
e oltre 500 sono rimaste ferite in varie città
dell'Iraq.
Elicottero. Il grande elicottero è fermo in un prato a
Karbala, a cento chilometri a sud di Bagdad. Tutto
intorno gente che festeggia con i mitra in pugno. Fino a
poco prima a Karbala si era svolta una dura battaglia tra
elicotteri "Apache" Usa e postazioni della
guardia repubblicana del raìs. L'elicottero appare
intatto e non ci sono indicazioni sulla sorte dei due
membri dell'equipaggio. Per terra si vedono due caschi da
pilota. Il velivolo ha ancora tutti gli armamenti e i
missili ben visibili sui due lati. Ben visibili anche i
numeri di serie con la scritta 'Us'. "Abbiamo perso
un elicottero" dice il comando Usa. Mentre il
governo annuncia: "Abbiamo fatti prigionieri
militari americani e inglesi. Li tratteremo secondo la
convenzione di Ginevra".
Bagdad. E' notte
a Bagdad quando un potente boato squarcia il silenzio.
Senza alcun preavviso la capitale irachena viene
sottoposta ai bombardamenti più intensi dall'inizio
della guerra. Secondo alcuni testimoni i bombardamenti
sono parsi prendere di mira anche le aree a sud-est della
città. Alte colonne di fumo denso sono state viste
levarsi dai punti colpiti, insieme a vere e proprie
gigantesche palle di fuoco e di polvere. Una delle
esplosioni più forti appariva echeggiare dal luogo dove
si trova il quartier generale dell'Aeronautica militare
irachena. Le sirene, nella capitale irachena, tornano a
suonare in mattinata.
Kirkuk. Le forze americane hanno bombardato le posizioni
irachene lungo la linea che separa la città strategica
di Kirkuk da Chamchamal (Kurdistan). Poco prima delle 10
(ora locale, le 9 in Italia) una serie di potenti
esplosioni hanno squassato la catena montuosa controllata
dall'esercito iracheno.
Mossul. Raid aerei hanno preso di mira Mossul, la grande
città del nord dell'Iraq. Secondo quanto ha riferito il
corrispondente della tv satellitare del Qatar Al Jazeera,
gli attacchi sono stati tre, di cui l'ultimo intorno alle
07.20 locali (le 05.20 in Italia) e hanno sollevato nubi
di fumo nero. Mossul era già stata colpita da ondate di
attacchi aerei nella giornata di ieri. Situata sulla riva
destra del Tigri, davanti alle rovine dell'antica Ninive,
in una regione a maggioranza curda ma sotto il controllo
di Bagdad, Mossul conta circa due milioni di abitanti.
Samawa. Secondo la Reuters le forze americane stanno
incontrando una forte resistenza anche nella città di
Samawa, nel sud dell'Iraq. Samawa è a 270 km da Bagdad,
sul fiume Eufrate, più o meno a metà strada tra
Nassiriya e Najaf, altre città nelle quali l'avanzata
americana verso Bagdad sta incontrando una forte
resistenza da parte irachena.
Armi chimiche. Una fabbrica di armi chimiche sarebbe
stata trovata in Iraq. Secondo l'emittente britannica Sky
News e l'americana Abc, che citano fonti del Pentagono,
l'impianto sarebbe nei pressi della città di Nayaf e il
direttore del centro sarebbe stato catturato. Il deposito
definito "vasto", era ospitato all'interno di
un complesso di 40 ettari costituito da diverse baracche
e protetto da reti elettrificate.
Dispersi. Due militari britannici risultano dispersi,
riferisce la Bbc, a quanto riferisce la Bbc sul suo sito
online. La notizia è stata confermata anche dal
ministero della Difesa. I due soldati sono dispersi dopo
un attacco contro mezzi britannici nel sud dell'Iraq.
"Stiamo facendo ogni sforzo per ritrovarli"
dicono dallo stato maggiore britannico. Nessun notizia
sul grado e sul reggimento dei due militari.
Missile contro il Kuwait. Il ministro della Difesa
kuwaitiano ha annunciato che alcuni Patriot Usa hanno
intercettato un missile iracheno sparato contro il
territorio dell'Emirato. A Kuwait city, nella notte, sono
tornati a farsi sentire gli allarmi antiaerei.
Siriani. Cinque siriani sono morti ed altri dieci sono
rimasti feriti a Ratba, nell'Iraq occidentale, quando
l'autobus con il quale stavano tornando in patria è
stato colpito da un missile. L'autobus stava
attraversando la città, situata a 160 chilometri alla
frontiera con la Siria. Sull'autobus viaggiavano in
totale 37 cittadini siriani che tornavano in patria. I
feriti sono stati ricoverati nel centro ospedaliero di
Tanaf, (300 chilometri da Damasco) alla frontiera
siriana. I cadaveri sono stati portati nell'ospedale di
Duma, vicino a Duma.
(24 marzo 2003)
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DA - LA
REPUBBLICA
Le immagini
proibite
di
VITTORIO ZUCCONI
IL BIANCO degli
occhi enormi della sergente americana prigioniera
illumina la verità della guerra. Non un pilota di jet
abbattuto e tumefatto alla Cocciolone, ma una donna,
texana come Bush, un semplice meccanico in divisa a 24
mila euro lordi l'anno, è il primo volto che ha portato
lo shock and awe, lo sbigottimento e il terrore, nelle
case degli americani illusi dalle favole della
liberazione pulita e senza sangue. Tutto va bene sul
fronte orientale, ci rassicura Bush tornando dal suo week
end nello chalet di montagna, "la battaglia sarà
dura", ma il settimo cavalleria è nei sobborghi di
Bagdad e le bombe cadono puntuali sulla città.
Saddam è cotto, il piano avanza "lento ma
sicuro" e le armi di distruzione di massa, quelle
per le quali siamo andati a conquistare l'Iraq, saranno
presto e sicuramente trovate. Ma intanto la prima
domenica di guerra è una bloody sunday, una giornata
maledetta - e dunque per la prima volta onesta - di
sangue, di torture, di soldati impazziti, di cadaveri che
rompono lo show asettico e incruento. Bush avverte gli
iracheni: "Mi aspetto che i prigionieri siano
trattati con umanità, così come facciamo noi con i
prigionieri che abbiamo catturato. Altrimenti, chi
maltratterà i prigionieri sarà trattato da criminale di
guerra".
Per l'America in casa la guerra è cominciata ieri. Quel
video è la bomba di Saddam su Washington. Per questo è
visto pochissimo, qui sul fronte interno, poche immagini
censurate e subito ritirate. E solo dopo molte ore la Cnn
ha mostrato qualche breve spezzone. La maggior parte
delle sequenze grand guignol che gli iracheni hanno
filmato e che il network arabo Al Jazeera ha diffuso in
tutto il mondo non sono ancora passate. Bush ha detto di
non averle viste, perché lui ci racconta di non guardare
la guerra in tv, ma mente. I generali del Pentagono le
hanno seguite "con le mascelle serrate". Gli
anchor delle reti tv, invocando il dovere professionale,
le hanno avidamente osservate in privato, anche a costo
di "vomitare" come Paula Zahn di Cnn, signora
ingualcibile dei contenitori di fluff, aria fritta del
mattino.
Ma ai cittadini, ai contribuenti che pagano il soldo dei
12 disgraziati uccisi in un'imboscata, dei cinque genieri
meccanici del Terzo Fanteria caduti nelle mani degli
iracheni perché il sottotenente che li guidava "ha
sbagliato strada", non sono stati fatti vedere.
Soltanto chi possiede collegamenti Internet ad alta
velocità ha potuto guardarli, in uno dei siti sciacallo
che subito hanno messo on line il filmato. È stato fatto
per pudore dei parenti a casa, per rispettare quel minimo
di decenza che persino le televisioni occasionalmente
ancora hanno e perché un Donald Rumsfeld terreo ha
sfidato la luce dei riflettori al mattino della domenica
senza lo scudo del fondotinta per chiedere alle tv di non
mandare in onda quelle sequenze "ripugnanti" di
cadaveri in uniforme americana. Le tv, per ora, hanno
ubbidito, non hanno mostrato neppure l'interrogatorio dei
cinque fanti prigionieri e di quella donna con l'occhio
bianco e terrorizzato.
È pudore,
certamente, quel black out, ma è molto di più. È la
paura che, nel ribrezzo e nella rabbia suscitati dalle
sequenze dei morti e dei prigionieri, il pubblico
americano ritrovi il senso dell'orrore, riscopra il
prezzo di avere violato il tabù della guerra. È
rispetto per le famiglie dei parenti, ma è anche l'ansia
di perdere, nella battaglia finale per Bagdad che sta per
cominciare, il consenso di una generazione X allevata nel
mito delle nuove guerre playstation senza morti, come in
Kosovo. "Sembra che questa guerra vada avanti da
tanto tempo - diceva ieri sera Bush tradendo l'ansia di
farla finita presto - e invece è solo l'effetto di tutto
quello che vediamo alla televisione". Proprio lui,
che ci aveva appena detto di "non guardare la guerra
in tv". È umana delicatezza, ma è soprattutto
calcolo politico.
I sondaggi della vigilia dicevano che il vasto e sottile
sostegno all'invasione sarebbe crollato in proporzione
inversa al numero di morti: e i morti cominciano ad
arrivare. Bush e i suoi registi di politica interna, Karl
Rove e Andy Card, che guardano alle elezioni del 2004,
quelle per le quali il soldato Bush combatte, ricordano
come Clinton pagò l'umiliazione della Somalia, quando
l'elicottero Black Hawk fu abbattuto e i cadaveri dei
marines furono trascinati nella polvere di Mogadiscio.
Il morale, bisogna tenere alto il morale del fronte
interno, perché la sindrome del Vietnam si annida in
ogni body bag per i caduti. I generali Usa, che per bocca
del futuro viceré dell'Iraq liberato, il generale
Abizaid di origine araba, accusano al Jazeera di
"disgustosa insensibilità", rabbrividiscono
quando vedono il sergente Assan Akbar della 101esima
parà lanciare tre bombe a mano nella tenda dei
comandanti, uccidendone uno e ferendone 15.
Tutti gli ufficiali superiori di oggi hanno fatto il
Vietnam e ricordano il segreto terribile del fraggin',
quando gli uomini si ammutinavano e ammazzavano i loro
ufficiali a colpi di fragmentation bomb, di bombe a mano,
per non andare in battaglia. Gli anchor di tutte le reti
assumono la voce da cronache funebri, ora che la faccia
vera della guerra è apparsa e non è più soltanto il
comodo tiro al bersaglio sul dead man walking, il morto
che cammina Saddam. E c'è un'altra verità
impronunciabile e spaventosa, dietro lo shock and awe, lo
sgomento e il terrore che ha preso Bush, Rumsfeld, Cheney
l'Uomo Invisibile, alla vista del videotape e alle
notizie della sorprendente resistenza di questi iracheni.
È la paura che i colpi di coda del regime scatenino il
mostro latente dentro questa guerra: l'odio razziale per
gli arabi, che la favola bella della democrazia tipo
esportazione con aiuti umanitari dovrebbe nascondere. Le
torture ai prigionieri possono scatenare quell'odio anti
islamico, anti arabo che a fatica si è finto di
controllare dopo l'11 settembre. Era un musulmano nero,
il sergente che ha fragged i suoi comandanti. Sono
musulmani e arabi, quelli che hanno filmato e mostrato i
cadaveri e i prigionieri. "Adesso è diventato un
fatto personale", è scappato detto a un artigliere
della 101esima prima che la regia militare tagliasse il
collegamento.
Se i carcerieri e gli aguzzini dei prigionieri americani
riusciranno a far scattare la trappola della rabbia e
dell'odio razziale, quella, e non le introvabili bombe
chimiche, diventerebbe la vera arma di distruzione di
massa nella crociata tra l'Islam dei fanatici e la
Cristianità dei missili Cruise.
(24 marzo 2003)
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DA - LA
REPUBBLICA
Imi-Sir,
Previti in aula
"Sospendete il processo"
Alla
fine di gennaio la suprema Corte
aveva lasciato il dibattimento a Milano
MILANO -
"Sospendete il processo". Quando ormai siamo
alle battute finali, Cesare Previti rivolge ai giudici
del processo Imi-Sir-Lodo Mondadori l'ennesima richiesta
di rinvio. Con alcune dichiarazioni spontanee il
principale imputato chiede che il dibattimento sia
fermato fino a quando non saranno note le motivazioni con
le quali la Cassazione ha respinto l'istanza di
rimessione ad altra sede dei processi milanesi.
L'istanza era stata presentata dagli avvocati del
parlamentare di Forza Italia, per il quale il pm Ilda
Boccassini ha chiesto 13 anni di carcere, all'indomani
dell'entrata in vigore della legge Cirami sul legittimo
sospetto. Ma il 28 gennaio i giudici della suprema Corte
emettevano una sentenza con la quale, non riscontrando
sufficienti ragioni per spostare la sede del processo,
respingevano le richieste dei legali dell'imputato.
L'11 febbraio
successivo gli avvocati di Previti si vedevano respingere
un altra richiesta di sospensione, presentata stavolta
"in attesa che scadano i termini di una eventuale
impugnazione del verdetto della Cassazione". Poi, ma
ormai è storia di questi giorni, gli stessi avvocati si
producevano in una lunga arringa con cui si chiedeva
l'assoluzione del deputato azzurro per la parte che
riguarda la vicenda Imi-Sir ("Mancano gli indizi e
non ci sono prove") e, per ciò che riguarda l'affaire
Mondadori, la derubricazione del reato da corruzione
aggravata a corruzione semplice, in modo tale che con le
attenuanti generiche esso possa essere dichiarato
prescritto.
Ora la nuova richiesta di sospensione, fatta direttamente
in aula da Cesare Previti, che ha parlato di
"singolarità della procedura seguita dalla
Cassazione", che a suo parere avrebbero dovuto
emettere la loro sentenza con un provvedimento motivato.
"Il mio non è un atteggiamento dilatorio - giura
Previti - ma ritengo di esercitare il diritto
all'informazione, costituzionalmente tutelato in quanto
serve serve all'esercizio del diritto di difesa". E
conclude: "Devo sapere se siete competenti e devo
sapere per quali ragioni ho erroneamente dubitato della
vostra imparzialità".
In questo momento i giudici della quarta sezione del
tribunale di Milano sono riuniti in camera di consiglio
per decidere sulla nuova richiesta di sospensione. Alla
quale si è opposta il Pm Ilda Boccassini, che ha
definito le questioni poste "del tutto
sbagliate". Anche le parti civili si sono opposte e
hanno chiesto che oggi cominci, come era previsto,
l'intervento dell'avvocato Sammarco che concluderebbe le
arringhe difensive.
(24 marzo 2003)
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DA - IL CORRIERE
DELLA SERA
Frattini: «I
rapporti con l'Iraq non cambiano»
«L'ufficio di
rappresentanza continua a funzionare»
«Dopo l'11 settembre scoperte in Italia molte basi di Al
Qaeda»
ROMA - Non ci
sarà nessuna «modifica dei rapporti» tra l'Italia e
l'Iraq dopo l'espulsione dei quattro diplomatici
iracheni. Lo ha precisato il ministro degli Esteri,
Franco Frattini, parlando al programma «Domenica In».
Il titolare della Farnesina, ricordando come dopo l'11
settembre «abbiamo scoperto che in Italia c'erano, non
una, ma molte basi del terrorismo di Al Qaeda», ha
aggiunto che riferirà «in modo dettagliato» in
Parlamento sulla vicenda. Comunque, ha aggiunto, le
espulsioni riguardano solo singoli, l'ufficio di
rappresentanza irachena in Italia continua a funzionare.
Frattini ha confermato che c'è stato un «invito a
lasciare il paese per quattro persone, una parte di tutte
quelle che lavoravano nella rappresentanza d'affari
irachena a Roma, rappresentanza che rimarrà regolarmente
aperta».
«PROCEDURE NORMALI» - E ha precisato che si tratta di
«procedure che nelle relazioni diplomatiche sono
assolutamente normali e che riguardano singoli casi. Non
c'è nessuna alterazione - ha ribadito - nelle relazioni
che esistono, tanto è vero che l'ufficio di affari in
Italia dell'Iraq rimane aperto e funzionante». «Non ci
sarà - ha sottolineato Frattini - nessuna modifica dei
rapporti che esistevano fino a ieri. Il capo di questa
rappresentanza rimarrà in servizio. Altri impiegati
rimarranno ugualmente. Si è trattato di quattro
persone». «Ovviamente riferirò in modo più
dettagliato in Parlamento. Ma - ha concluso - noi ci
siamo comportati né più né meno come si sono
comportati nei giorni scorsi la Svezia, la Finlandia,
l'Austria, il Canada, la Germania».
SOLDATI ITALIANI - «L'Italia non è un paese
belligerante, non è un paese in guerra», ha poi
sottolineato il ministro. Frattini ha ricordato che
«l'Italia ha scelto volontariamente di non mandare
propri soldati in Iraq», aggiungendo che ci sono circa
novemila militari italiani in giro per il mondo «a
rischiare la propria vita per la pace».
PACIFISTI - «Ho grande rispetto per coloro che
manifestano per la pace, soprattutto per i giovani ma
l'importante è che questo non venga strumentalizzato»,
ha anche detto il ministro degli Esteri Frattini. «Molti
di quelli che in questi giorni sono scesi in piazza - ha
precisato Frattini - sono ragazzi molto giovani che hanno
tutto il diritto di manifestare per la pace. Ma è anche
vero che la maggior parte di loro non ha conosciuto
un'altra epoca, quando gli americani sono venuti in
Italia per liberarci dal nazismo». È per questo motivo
che il ministro Frattini non avrebbe voluto vedere in
piazza «bruciare bandiere americane». «Ho grande
rispetto - ha concluso Frattini - anche per le bandiere
della pace ma è fondamentale che questo non venga
strumentalizzato politicamente».
24 MARZO 2003
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DA - IL SOLE 24
ORE
LE BORSE AL
RIBASSO
Ore 10.30: Europa
in deciso ribassoFrancoforte cede il 2,5%, Parigi l'1,9%,
Londra l'1,5% e Milano lo 0,88 per cento.
Dopo più di
un'ora dall'inizio delle contrattazioni, le Borse europee
si presentano ancora in territorio negativo, anche se gli
indici viaggiano ora leggermente sopra i minimi di
seduta. I mercati del vecchio continente non si sono
lasciati intimorire dal discorso di Saddam Hussein, che
ha promesso una «vittoria rapida» dell'Iraq.
Francoforte cede il 2,5%, Parigi l'1,9%, Londra l'1,5% e
Milano lo 0,88 per cento.
(ore 10.30)
Hong Kong, finale
debole - Finale debole per la Borsa di Hong Kong, che
tuttavia ha vissuto una seduta estremamente volatile. Al
termine delle contrattazioni l'indice Hang Seng è
scivolato dello 0,77%, attestandosi a 9.108,45 punti,
penalizzato dai timori che la guerra in Irak risulti più
lunga e dura del previsto.
(ore 9.30)
Tokyo chiude in
forte rialzo - Chiusura in forte rialzo per la Borsa
nipponica. L'indice Nikkei 225 ha infatti registrato un
progresso del 2,93% attestandosi a 8.435,07 punti. Gli
investitori stanno scommettendo su un'imminente vittoria
delle forze alleate in Iraq, malgrado le notizie sulla
resistenza irachena. Sono state ben comprate le azioni
delle banche e delle case di auto, favorite dalla
debolezza dello yen che dovrebbe agevolare le loro
esportazioni.
(ore 9)
Asia pacifico
contrastata - Cedono terreno Seul (-1,08%) e Singapore
(-1,44%). L'irrigidirsi della resistenza irachena contro
gli alleati, dicono gli operatori, fa diminuire le
possibilità di una guerra lampo. A Sidney (-0,29%)
impegnata direttamente nel conflitto, ritraccia il
colosso dei media News Corp (-3,2%) dopo che nella scorsa
settimana era crescita del 10% sull'onda dell'attacco
all'Iraq.
Tra le altre piazze dell'area Asia-Pacifico, Taiwan ha
chiuso in calo dello 0,35%, Bangkok in progresso
frazionale dello 0,25%, Jakarta ha segnato +0,11% e Kuala
Lumpur in rialzo dello 0,11 per cento.
(ore 9)
(agenzia
Radiocor)
24 MARZO 2003
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DA - IL
MESSAGGERO
IL
PENTAGONO IN TILT
di
ALESSANDRO POLITI
di ALESSANDRO
POLITI
QUANDO le cose vanno male, la differenza tra i guerrieri
da videogame ed i professionisti del duro mestiere delle
armi sta in pochi tratti essenziali: sangue freddo,
prudenza e rispetto dell'avversario. A livello strategico
la giornata si è svolta su tre livelli ascendenti,
ognuno con un suo peso specifico: quello mediatico,
quello operativo e quello politico.
Il primo, ha gelato le ultime speranze di una passeggiata
militare, già appassite da troppe notizie di tenaci
sacche di resistenza. L'elemento cruciale si chiama
morale dell'avversario sia a livello di leadership che a
livello di truppe. È un imponderabile da secoli ed è
una variabile abbastanza svincolata dalla tecnologia e
dalla logistica dei contendenti.
È il momento di riesaminare con estrema cura gli
elementi di valutazione su punti forti e deboli del
morale avversario. Primo, anche i soldati regolari
combattono per il proprio territorio patrio e questo
permette di chiudere un occhio anche su un regime temuto
e disprezzato. I ragazzi di Salò e quelli della
Wehrmacht non fecero altrimenti. Secondo, i soldati arabi
hanno perfettamente chiaro il concetto di onore: sarà
mal diretto, ma non si può ignorare.
Terzo, i continui annunci pubblici di trattative ad alto
livello non hanno fatto che rinsaldare l'apparato di
sorveglianza del raìs intorno agli alti papaveri, senza
produrre una furia paranoica del dittatore,
ipoteticamente roso dai sospetti, contro i suoi
fedelissimi. Cinquantotto anni fa i contatti con i
comandanti nazisti in Italia durante l'operazione di resa
concordata, chiamata Sunrise, venivano condotti nel
silenzio più assoluto. Sunrise ebbe successo.
Quarto, sono tanti i beneficati del regime di Saddam
Hussein e costoro sanno benissimo che il primo atto
"democratico" sarebbe una loro esecuzione per
strada per le mani di folle inferocite.
Il livello operativo dovrà rivedere i calcoli non solo
sulla velocità dell'avanzata lungo l'Eufrate in
direzione di An Najaf e Karbala (le due città sante
sciite), ma soprattutto quelli che prevedevano una
sorpresa strategico-operativa con truppe paracadutate nel
nord dell'Iraq e con formazioni aeromobili nei pressi di
Bagdad. Decisioni altrettanto spinose vanno prese su come
gestire la campagna aerea: quanto bombardare l'élite e
quanto dedicare a supporto tattico ravvicinato per le
truppe?
È questo il momento dove si comincia a sentire
crudelmente la mancanza di una divisione di fanteria
meccanizzata che avrebbe dovuto arrivare dalla Turchia,
non solo perché avrebbe diviso le forze irachene, ma
perché avrebbe permesso un controllo sui pozzi che è
ancora tenue.
Infine a livello politico ci sono sviluppi imprevisti su
due questioni estremamente sensibili. Il presidente
statunitense George Bush ha ringraziato gli iracheni per
non aver usato sinora armi chimiche o biologiche. È un
messaggio difficilmente sottovalutabile, che è stato
prontamente registrato in silenzio a Bagdad e nelle altre
capitali arabe.
La Casa Bianca avrebbe potuto tranquillamente ricordare
quali sono le ritorsioni prevedibili in caso di attacco
iracheno, ben sapendo che, come la deterrenza funzionò
per Hitler (che inventò i nervini moderni) e per Saddam
durante la scorsa guerra, essa agisce anche oggi.
Eppure ha voluto, non si sa quanto involontariamente,
segnalare un'attenzione per il mancato sfruttamento
iracheno di una vulnerabilità politica di Washington. Un
Blitzkrieg con troppi morti ed all'ombra di una nuvola
chimica rischia seriamente di rovinare la posizione
politica di questa presidenza.
Il secondo sviluppo viene da parte dei governi europei.
Capofila Belgio e Germania, tra i paesi più tenacemente
avversi nella Nato e fuori a questa guerra, è partito un
altolà netto ad Ankara sui possibili piani di un
ingresso nell'area curda. La minaccia è pesante: rinvio
dell'ingresso nell'Unione Europea e ritiro
dell'assistenza Nato.
Questo significa che si sta creando rapidamente un fronte
transatlantico, non sappiamo quanto solido in futuro, per
evitare l'annunciata catastrofe di una lotta turco-curda
intorno ai pozzi di petrolio di Mosul e Kirkuk, nonché
sul futuro dell'autonomia curda.
24 MARZO 2003
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DA - IL
MESSAGGERO
LA
TRAPPOLA SI RIPETE
di
YOUNIS TAWFIK
di YOUNIS TAWFIK
*
ERA già previsto. Il regime di Saddam Hussein conosce
molto bene le debolezze dellOccidente e punta su
due obiettivi ben precisi: i danni provocati
dallattacco americano sulla popolazione civile e
lafflizione delle perdite il più possibile pesante
alle truppe anglo-americane. Nella battaglia di terra del
1991, in seguito alla disfatta delle truppe irachene in
ritirata dal Kuwait, Saddam fece cadere in una analoga
trappola le colonne dei carri armati diretti a Bagdad,
proprio vicino alla città di Nassiria, e i tank della
Guardia repubblicana in quella zona strinsero in una
morsa ben architettata i carri armati del generale
Schwarzkopf. La mattina presto il presidente George Bush
padre apparve in televisione per dichiarare che le
operazioni erano finite, anche perché era stato
raggiunto lobiettivo, cioè la liberazione del
Kuwait.
Nella tenda di Safwan, sul confine a Sud dellIraq
con il Kuwait, i capi dello Stato Maggiore iracheno
firmarono la dichiarazione di resa. In cambio ottennero
la licenza di poter usare elicotteri, mezzi di trasporto
militari, cannoni e missili fino a 150 chilometri di
gittata. Ovviamente gli iracheni dovevano evitare una
carneficina che poteva mettere in crisi
lamministrazione americana. Saddam Hussein in
cambio del favore resterà ancora per ben tredici anni al
potere, e subito dopo la firma dellaccordo scatenò
la sua Guardia repubblicana vittoriosa e libera di agire
contro i civili rivoltosi nel marzo del 1991. Fu un vero
massacro nel quale persero la vita migliaia di cittadini
inermi in circa quattordici capoluoghi dei sedici di
tutto lIraq. La carneficina contro donne, uomini e
bambini, ma soprattutto sugli sciiti e sui curdi, fu
compiuta in ogni dove. Principalmente in zone proibite,
dove si erano rifugiati i rivoltosi, come le moschee.
I mezzi di informazione e lopinione pubblica allora
costrinsero gli americani a dichiarare una "no fly
zone" per poter mettere in salvo le popolazioni
civili nel Nord dellIraq, i curdi, e nel Sud, gli
sciiti. Ma ormai era già troppo tardi. E chiaro
che lesperienza non insegna e neanche la
sofisticatissima tecnologia è servita per impedire gli
errori come quelli che stanno accadendo in questi giorni
di assurda guerra scatenata dalla rabbia e affrettata,
nonché di precario consenso mondiale. Ci saranno di
sicuro altre sorprese che il raìs di Bagdad tiene in
serbo per arrivare a una vittoria politica e per uscire
da questo conflitto, anche da morto, come un eroe
nazionale e un simbolo per tutti gli offesi ed i
frustrati di tutto il mondo arabo.
Ci si chiede ora di chi sarà la vera vittoria alla fine.
Della dittatura, o della democrazia che ha infranto
lequilibrio della giustizia mondiale? Se ci fosse
stata più prudenza e più ampia coalizione, forse questo
non sarebbe accaduto.
* Scrittore iracheno
24 MARZO 2003.
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DA - IL
MESSAGGERO
Virus
killer:
i morti sono 13
In Austria
un altro caso
ROMA- Il virus
della polmonite atipica continua a fare le sue vittime.
Un uomo di 80 anni è morto a Hong Kong, si tratta
dell'ottava vittima, la tredicesima nel mondo stroncata
dalla misteriosa epidemia.
Nell'ex colonia britannica le persone contagiate sono
ormai 242 (25 in più), mentre sono complessivamente 411
i casi sospetti, distribuiti in 13 Paesi del mondo.
Mentre in Europa il virus è arrivato anche in Austria.
Il primo presunto paziente è ricoverato
dallaltroieri all'ospedale regionale di Gmunden,
sul confine con la Repubblica Ceca.
Si tratta di un uomo di 42 anni, che alcuni giorni dopo
il rientro da un viaggio in Cina ha mostrato i sintomi
tipici della Sars (dalle iniziali in inglese di Sindrome
acuta respiratoria grave) come febbre alta, tosse,
difficoltà respiratoria.
L'ostacolo principale, ha detto il primario dell'ospedale
di Gmunden, Johann Ecker, è la mancanza di un test che
indichi con certezza la malattia. Per questo vengono
fatte tutte le analisi possibili per escludere che si
tratti di qualcosa di diverso, come una grave infezione
influenzale, per esempio.
L'ospedale, secondo Ecker, ha già preso misure di
sicurezza: il paziente è in isolamento, il personale
medico deve usare particolari disinfettanti, nessuno
estraneo ha accesso al malato, che nel frattempo sembra
avere fatto alcuni miglioramenti, ma le cui condizioni
non permettono ancora di sciogliere la prognosi.
A Londra invece un uomo è stato ricoverato in isolamento
in un ospedale della città con il sospetto che si tratti
un caso di polmonite atipica, salirebbero così a tre i
casi di Sars registrati nel Regno Unito.
24 MARZO 2003
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Una cerimonia
per la pace, la notte degli Oscar
di
red
"Vergogna,
vergogna, vergogna, sono contrario a questa guerra e a un
uomo (leggi Bush) che ci manda in una guerra fittizia per
una realtà fittizia". Così Michael Moore ha
commentato il premio da lui ricevuto per Bowling
a Columbine (miglior documentario)
tra gli applausi della platea. "Noi siamo -ha
gridato il cineasta- contro la guerra", che è
"una forma inaccettabile di risoluzione dei
conflitti".
Parole che
rappresentano una notte degli Oscar in tono minore, molto
sottotono nella quale la presenza della guerra è
fortissima mentre fuori ci sono i manifestanti.
Gli Oscar,
comunque, sono stati consegnati. Migliori attori
protagonisti Nicole Kidman per The
Hours e Adrien Brody per Il
Pianista. Nowhere
in Africa miglior film straniero.
Premio alla carriera a Peter O'Toole. Miglior
documentario a Michael Moore che ha fatto un duro
intervento contro la guerra. Miglior film Chicago,
che in tutto ha ottenuto 6 statuette, miglior regia a
Roman Polanski per Il Pianista.
Questi i più importanti premi degli Oscar 2003.
Tutti hanno
parlato della guerra. Ha cominciato Chris Cooper,
ricevendo l'Oscar come miglior attore non protagonista,
per 'Il ladro di orchidee": "Auguro a tutti la
pace", ha detto. "Perche' si va a ricevere
l'Oscar in un periodo di tale sconvolgimento?'. E' Nicole
Kidman a porsi questa domanda mentre riceve commossa il
suo primo Oscar. ''Il motivo e' - spiega l'attrice -
perche' l'arte e' importante e bisogna credere in quello
che si fa. Allo steso tempo ci sono tanti problemi nel
mondo e dopo l'11 settembre tanta gente ha sofferto e ora
con questa guerra accadra ancora: Dio li benedica''. Un
accorato appello della pace è arrivato da Adrien Brody,
che ha parlato ben oltre il tempo a sua diposizione.
"Non so se si chiami Dio o Allah, ma che ci protegga
e possa trovare una soluzione pacifica - ha detto
l'attore - Ho un amico soldato in Iraq e mi auguro che
ritorni presto".
A tutti quelli
che sono per la pace, ha dedicato il suo premio anche
Pedro Almodovar.
Dagli
organizzatori, un unico accenno ai fatti dell'Iraq.
Incaricato di presentare la cerimonia di consegna degli
Oscar 2003 tenendo alto il morale di un pubblico per
molti versi traumatizzato dalle notizie provenienti dal
fronte in Iraq, e al tempo stesso di non ignorare troppo
ostentatamente quello che sta succedendo nel mondo
esterno, Steve Martin si è concesso un'unica battuta
allusiva e moderatamente polemica sulla guerra:
"Come avrete probabilmente notato", ha
affermato il popolare comico, rivolto al pubblico in
platea, "là fuori non c'è alcun tappeto rosso di
lusso. Questo manderà loro un segnale", ha
aggiunto, alludendo al governo di George W. Bushn.
Questi i premi
minori : Chris Cooper ha ottenuto il riconoscimento come
miglior attore non protagonista per Il
ladro di orchidee. L'Oscar per la
miglior scenografia è andato a John Myrhe e Gordon Sim
per Chicago, il
musical diretto da Rob Marshall che ha conquistato anche
l'Oscar per la migliore attrice non protagonista andato a
Catherine Zeta Johns e per i costumi firmati da Colleen
Atwood . Miglior Fotografia per Era
mio padre, miglior montaggio per
Chicago, miglior costume per Chicago,
miglior canzone originale, Eminem per 8
Mile, migliore Scenografia per Chicago,
migliori Effetti Speciali per Le due
torri, miglior documentario breve
per Twin Towers,
miglior film animato per Spirited
Away, miglior sonoro per Chicago,
miglior montaggio effetti sonori per Le
due torri, miglior sceneggiatura
originale a Pedro Almodovar per Parla
con lei, miglior sceneggiatura non
originale per Il pianista[/i],
miglior colonna sonora per Frida[/i].
24 MARZO 2003
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DA - L'UNITA'
È morta Laura
Lombardo Radice, scelse di essere la moglie di Ingrao
di
Piero Sansonetti
Laura Ingrao era
una donna che aveva tre doti e due difetti. Le doti erano
la sua intelligenza, la sua generosità, e il suo
anticonformismo. I difetti erano la poca diplomazia e
leccesso di sincerità. Delle doti sono sicuro. Dei
difetti anche, ma non sono sicuro che fossero difetti.
È morta ieri,
quasi a novantanni, dopo un buon numero di malattie
che lavevano stremata. Lultima era stata una
malattia cardiaca. Ha resistito qualche mese, poi se
nè andata. Chi lha conosciuta, e ha
riflettuto un po su di lei, ha capito perfettamente
almeno un pezzettino della questione femminile. Si è
posto questa domanda: perché una donna di enorme
intelligenza, di grande spirito, di intuizione veloce e
mai banale, una donna con incredibili capacità di
relazioni umane e sociali, una donna coltissima, perché
a un certo punto della sua vita ha deciso che la parte
più grande di se stessa la dedicava interamente alla
famiglia, ai figli, al marito, alla scuola, agli alunni,
alla causa, al partito, a un «interesse superiore»?
Laura ha fatto così - come moltissime altre donne - e la
sua grandiosità, morale e di intelletto, lha
tenuta per pochi. Non so se dobbiamo ringraziarla per
questo, per questa sua riservatezza, questa sua
generosità, o se gliele dobbiamo rimproverare...
Era nata a Fiume
nel settembre del 1913, quindi sotto limpero
austro-ungarico. Però lei aveva molto poco di austriaco.
Laura aveva un carattere meridionale. Quello del padre,
probabilmente, che era un grande intellettuale siciliano,
di Catania, Giuseppe Lombardo Radice.
Il padre di Laura
è stato uno di primi pedagoghi italiani, è uno di
quelli che ha scritto la riforma della scuola che poi si
è chiamata riforma Gentile. Il professor Lombardo Radice
era stato amico del filosofo (e ministro) Gentile, fino
al 25, cioè alle leggi speciali del fascismo, poi
aveva rotto, indignato, e si era ritirato a vita privata.
Chissà se a Laura hanno mai pesato tutti quegli uomini
importanti che aveva intorno: il padre, poi il fratello
Lucio, che è stato il più originale degli intellettuali
comunisti (e che è uno dei padri nobili del pacifismo
italiano moderno), e infine suo marito Pietro Ingrao, con
il quale ha vissuto per sessantanni. Forse no,
forse non gli hanno pesato. Comunque non ne è mai stata
intimidita, né il suo modo di pensare è mai stato
subalterno. La grandezza di Laura è stata questa:
neppure per un minuto ha rinunciato a pensare con la
testa sua. Per la «ragion di stato» ( o di partito)
aveva rinunciato alla vita pubblica, non al suo pensiero.
Laura da giovane
ha fatto la Resistenza a Roma. Era iscritta al Pci, come
suo fratello e sua sorella Giuseppina. Credo che abbia
conosciuto Pietro in quei giorni, nella cospirazione.
Carla Capponi - una delle gappiste di Via Rasella -
racconta delle manifestazioni dopo che i tedeschi avevano
ucciso Teresa Gullace, e di Laura che andò a San Pietro
a tirare i volantini, mentre parlava il papa, e per poco
i tedeschi non la beccavano e non la portavano a via
Tasso.
Poi nel
dopoguerra si è sposata con Pietro e ha iniziato a fare
figli. La prima è nata un mese dopo la Liberazione,
lultimo, il quinto, nel 58. E mentre faceva i
figli, e faceva la mamma, andava anche a scuola a
insegnare. Ha insegnato in tante scuole e aveva una
passione incredibile per il suo lavoro. Gli ultimi
ventanni li ha fatti allOriani, una
magistrale a Roma, e coi suoi alunni aveva un rapporto
incredibile, totale, fatto di cose che insegnava - di
cultura - certo, ma fatto anche di relazione umana, di
sentimenti, di passioni, di parole, di affetto.
E infatti, quando
è andata in pensione, a settantanni, invece di
ritirarsi si è messa nel volontariato ed è andata a
lavorare a Rebibbia. Ha lavorato anche lì con la stessa
intelligenza «totalizzante» che metteva nella scuola.
Laura era anche
una donna spiritosa, simpatica, gran conversatrice. Non
era un tipo che faceva i complimenti, casomai era un
po ruvida, però era una persona molto dolce. Era
forte, fortissima, capace di tenere testa a qualsiasi
situazione, a qualunque tensione, a ogni problema: ma se
la vedevi sorridere capivi che era anche una donna
fragile, tenerissima. Sono convinto che se Pietro Ingrao
è stato il personaggio «integerrimo per antonomasia»,
nella politica italiana del dopoguerra, se è stato, ed
è, quel monumento alla moralità della politica che
conosciamo tutti, e che amiamo, è anche - molto - per
merito di Laura: per avere dovuto sempre sottoporre la
sua vita e le sue scelte al vaglio critico di lei.
24 MARZO 2003
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DA - L'UNITA'
La guerra
cambia tutto, anche per noi
di
Alfredo Reichlin
La guerra
acutizza allestremo il problema dellItalia:
un grande paese privo di un governo che abbia il senso
delle sue responsabilità nel momento in cui ciò che
viene in discussione è quel fondamentale sistema di
garanzia dei suoi interessi di lungo periodo che dipende
da una chiara collocazione strategica. Per difendere la
pace e la sicurezza bisogna essere padroni del proprio
destino. Io leggo su questo sfondo i problemi
dellUlivo e il rischio che si indebolisca la
necessaria alleanza tra le forze democratiche del centro
e della sinistra. Che succede alla democrazia italiana se
le domande e le angosce che assillano la gente non
trovano una credibile risposta politica? Parlo di un
soggetto politico forte capace di garantire al paese una
nuova guida. Da sole, non bastano le preghiere ma nemmeno
le marce di proteste a riempire un vuoto così
pericoloso. Questo è, dopotutto, il problema politico
cruciale che la guerra di Bush impone allUlivo. Ed
è un problema che interroga tutti, non solo i gruppi
che, a sinistra come a destra, coltivano altri disegni.
Spetta prima di tutto al nucleo fondamentale
dellUlivo fare un salto di qualità.
Il quale dovrebbe consistere - a me pare - nel
ridefinirne la missione a fronte di qualcosa che non è
solo il fatto che il governo Berlusconi sta naufragando
per l'evidente incapacità di gestire l'economia come di
garantire il rispetto delle regole e delle istituzioni
democratiche. Il problema di cui, forse, non ci siamo
ancora resi ben conto è cosa comporta la scelta di Bush
di imporre, anche attraverso la guerra, un nuovo ordine
mondiale di tipo imperiale. È un passaggio epocale
paragonabile al crollo del muro di Berlino. Tutto il
sistema delle relazioni internazionali, compresa la sorte
dell'ONU e della costruzione europea (per non parlare
della coesistenza di culture e civiltà diverse) è
rimesso in discussione. Ma per ciò che riguarda
l'Italia, forse non si è capito ancora che la guerra di
Bush colpisce le fondamentali ipotesi su cui questo paese
profondamente europeo, ma immerso nel Mediterraneo e
vicino di casa del mondo arabo, aveva costruito la sua
sicurezza e la sua collocazione geo-politica, i suoi
interessi di lungo periodo, e quindi il suo orizzonte
come media potenza. Insomma, di fatto si è riaperto il
più grande degli interrogativi sul futuro degli italiani
che in qualche modo rende incerto ogni progetto, ogni
impresa e ogni scommessa personale: noi chi siamo? dove
ci collochiamo? come evitiamo di fare la fine di una
provincia periferica, e periferica sia rispetto
all'Europa che agli Stati Uniti?
Mi sembra questo il problema cruciale su cui l'Ulivo non
può non ridefinire la sua necessità e la sua funzione.
Perché non lo diciamo con questa chiarezza? Ritroveremmo
così anche una passione politica vera e non dovremmo
inseguire i signori dei veti. E, d'altra parte, qual'è
l'alternativa? Non può essere questo infinito tira e
molla sulle regole e sui posti perché così, alla fine,
l'Ulivo entra in crisi e verrà avanti, inevitabilmente,
l'altra soluzione del problema politico italiano, che sta
da sempre nella pancia del paese e che consiste nel
ritorno al trasformismo di cui certe voglie neo-centriste
sono un chiaro sintomo.
Dopotutto, che cos'è l'Ulivo? Non è una astratta
formula politica, non vive se non si misura con i grandi
mutamenti e la natura nuova dei conflitti. È vero: si
tratta di un luogo nato per consentire a forze e culture
realmente espressive della storia e della società
italiana, di incontrarsi. Ma non per amore, bensì per la
convinzione che nessuna di esse, da sola, è in grado di
affrontare i problemi nuovi e di fondo del paese (per gli
altri problemi -candidature, accordi, sindaci- essendo
sufficienti le alleanze elettorali). Ricordiamoci, del
resto, come l'Ulivo nacque. Io vedo ancora la passione
unitaria e perfino la tensione etica di uomini come
Prodi, Ciampi, D'Alema, Andreatta, Veltroni. Era chiaro
che si trattava di salvare il paese dalla bancarotta, di
strappare il governo dalle mani di un avventuriero e dei
suoi avvocati d'affari (Previti ministro) e di portare
l'Italia a tutti i costi in Europa. Tanti anche allora
non erano d'accordo ma non avevano la forza per porre
veti. Perché erano gli uomini dell'Ulivo che parlavano
al paese. Erano essi che avevano in testa una
"missione": e quindi erano in grado di
suscitare un impegno collettivo. Avevano un popolo.
È la guerra che oggi ripropone a un livello ancora più
alto, lo stesso problema. Perciò io dico che l'Ulivo
supererà le sue divisioni nella misura in cui
ridefinirà le ragioni di una nuova grande alleanza
democratica in quanto risposta al nuovo interrogativo di
fondo: qual è il futuro dell'Italia in un mondo che non
sarà più quello di prima? È su questo che si fa anche
l'unità perché su questo terreno nessuno sacrifica i
suoi valori, anzi li esalta e li mette alla prova. E
questo vale soprattutto per i Ds. Anche per essi ciò che
emerge dopo tante confuse dispute è la semplice verità
che costruisce una sinistra riformista non significa fare
piccole cose ma misurarsi con il fatto che è venuta allo
scoperto quel concentrato della politica che è la
questione della leadership del mondo nell'era della
globalizzazione. Dico concentrato dalla politica per
ricordare che da ciò dipendono tutte le altre questioni:
quelle della giustizia come della libertà e della
democrazia, del progresso sociale come della
sostenibilità dello sviluppo. Tutto dipende da questa
scelta: se la mondializzazione deve essere governata
dalla Superpotenza in nome di un Dio ascoso che
ispirerebbe la sua missione imperiale, oppure se occorre
dar vita a nuove istituzioni democratiche capaci di
rappresentare le infinite voci e i differenti interessi
dei popoli.
Temo anch'io un'ondata di antiamericanismo e penso che
sarebbe una sciagura se la sinistra cedesse a una visione
infantile e manichea. Intanto perché l'America non è
solo Bush. Poi perché è del tutto velleitario pensare
di costruire un diverso ordine mondiale senza o contro
quell'immenso deposito di energie democratiche, di
risorse economiche e di culture moderne che sta in quel
grande paese posto tra il Pacifico e l'Atlantico. Ma
proprio se vogliamo un mondo multilaterale noi dobbiamo
puntare su una straordinaria accellerazione della
integrazione economico-politico-militare della Ue. Oggi
questo sembra fuori dalla realtà ma io credo che noi
sottovalutiamo l'importanza e il peso che avrebbe un
soggetto politico europeo che facesse con chiarezza la
scelta riformista accennata. Stiamo attenti perché
questo è anche il solo modo non per fare la guerra
all'America ma per interloquire in modo fecondo e
costruttivo con quella parte del mondo americano che si
chiede se la dottrina Bush non possa avere il solo
effetto di aumentare la vulnerabilità degli Usa e di
mettere a rischio la prosperità economica e le libertà
repubblicane. Questo è il grande dubbio e qui sta la
grande paura della coscienza americana a fronte del
profilarsi di un nuovo Impero. Nata dalla lotta contro
l'impero inglese e dal sostegno a tutte le cause di
liberazione la coscienza civile dell'America non può non
chiedere che cosa resta dell'egemonia culturale e
spirituale degli Stati Uniti se essi si trasformano in un
poliziotto del mondo costretto a mantenere in armi più
di un milione di uomini e donne nei quattro continenti, a
scrutare con i satelliti ogni angolo del pianeta, a
pattugliare giorno e notte gli oceani con flotte di navi
da battaglia sempre pronte a sparare.
Nello scrivere queste righe penso al segretario e al
presidente dei Ds e alla loro estenuante fatica per
tenere insieme i troppi capi e capetti del
centro-sinistra. Non ho consigli da dare. Penso però che
a questo punto l'unità non si fa cercando solo il
"minimo comun denominatore". È meglio puntare
sulle nuove grandi ragioni che possono unire in Europa e
nel mondo le forze vere del progresso. Perché il bello
della mondializzazione è questo: che non si governa solo
dall'alto. Il fatto che ciò che viene messo in
discussione non sono solo i beni materiali ma il senso
stesso della vita umana, l'essere esclusi o meno da cose
come i diritti di libertà e di democrazia e di restare
padroni del proprio destino, cose per cui vengono avanti
nuovi bisogni di partecipazione e di identità culturale
dovrebbe far capire non solo perché i movimenti hanno
bisogno dei partiti ma perché anche i partiti hanno
bisogno di questo tipo di movimenti.
24 MARZO 2003
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DA - L'UNITA'
America cosa
stai facendo?
di
Robert Byrd
Oggi piango per il mio Paese. Ho visto il volgersi degli
eventi in questi ultimi mesi con il cuore, il cuore
pesante. Limmagine dellAmerica non è più
quella di un forte eppur benevolo mediatore di pace.
Limmagine dellAmerica è cambiata. In tutto
il pianeta i nostri amici non si fidano di noi, la nostra
parola è messa in dubbio e le nostre intenzioni
sollevano obiezioni.
Invece di ragionare con coloro con cui siamo in
disaccordo, noi esigiamo obbedienza o minacciamo
recriminazioni. Invece di isolare Saddam Hussein,
isoliamo noi stessi. Proclamiamo una nuova dottrina di
prelazione che è compresa da pochi e temuta da molti.
Dichiariamo che gli Stati Uniti hanno il diritto di
muovere, nella guerra al terrorismo, la loro potenza
militare su qualsiasi angolo del pianeta che possa essere
sospetto. Noi asseriamo questo diritto senza alcuna
approvazione da parte di organismi internazionali. Di
conseguenza, il mondo è diventato un posto molto più
pericoloso.
Sventoliamo la nostra superpotenza con arroganza.
Trattiamo i membri del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite come degli ingrati che offendono la nostra
dignità di sovrani comportandoci come se dovessimo
aprire loro gli occhi. Importanti alleanze si sono
spaccate. Quando la guerra sarà finita, gli Stati Uniti
dovranno ricostruire non solo la nazione irachena, ma
anche l'immagine dell'America davanti a tutto il mondo.
Le argomentazioni che questa amministrazione cerca di
produrre per giustificare le sua fissazione per la guerra
sono macchiate da accuse di documenti falsi e prove
indiziarie. Noi non possiamo convincere il mondo della
necessità di questa guerra per una sola semplice
ragione. Questa guerra è frutto di una scelta.
Non c'è nessuna informazione credibile che colleghi
Saddam Hussein all'11 settembre. Le Torri gemelle sono
crollate a causa di un'organizzazione terrorista
mondiale, Al Queda, con cellule in oltre 60 Paesi, che ha
colpito la nostra ricchezza e la nostra influenza
trasformando i nostri stessi aerei in missili, uno dei
quali si sarebbe con ogni evidenza scagliato contro la
cupola della sede del Congresso se non fosse stato per il
coraggio e il sacrificio dei passeggeri a bordo.
La brutalità sperimentata durante l'undici settembre e
durante altri attacchi terroristici in giro per il mondo
dei quali siamo testimoni, costituisce il tentativo
disperato e violento da parte di estremisti di bloccare
la quotidiana invasione dei valori occidentali nelle loro
culture. Noi combattiamo una forza non delimitata da
confini, ma un'entità oscura fatta di molti volti, molti
nomi e altrettanti indirizzi.
Tuttavia, questa amministrazione ha diretto tutta la sua
rabbia, paura e dolore che emergono dalle ceneri delle
Twin Towers e dal metallo torto del Pentagono, contro un
mascalzone ben definito, una persona visibile che
possiamo odiare e attaccare. Saddam è una canaglia, ma
è quella sbagliata. E questa è una guerra sbagliata. Se
attacchiamo Saddam Hussein, probabilmente gli toglieremo
il potere ma l'entusiasmo dei nostri amici nell'assistere
alla nostra guerra globale contro il terrorismo ci avrà
già lasciato.
L'inquietudine generale che aleggia su questa guerra non
è soltanto dovuta all' "allarme arancione".
C'è un sentimento dilagante di fretta e rischio e di
troppe domande senza una risposta. Per quanto tempo
resteremo in Iraq? Quale sarà il prezzo? Quale la
missione finale? Di quale entità il pericolo per le
nostre case?
Un drappo nero è sceso sulla Camera del Senato. Evitiamo
il nostro solenne dovere di discutere l'unico argomento
nella bocca di tutti gli americani, anche quando migliaia
dei nostri i figli e figlie in fede fanno il loro dovere
in Iraq.
Cosa sta succedendo a questo Paese? Quando ci siamo
trasformati in una nazione che ignora e rimprovera i suoi
amici? Quando abbiamo deciso di rischiare, minare le
disposizioni internazionali adottando un approccio
radicale e dottrinario nell'uso massiccio e pauroso della
potenza militare? Come possiamo abbandonare ogni sforzo
diplomatico quando lo scompiglio mondiale sta chiedendo a
gran voce una soluzione diplomatica?
Perché questo Presidente sembra non rendersi conto che
il vero potere americano poggia non in una volontà
intimidatoria, ma in una abilità ispiratrice?
Traduzione di Chiara Nano
Robert C. Byrd
è un senatore democratico West Virginia
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