Non essere partigiani di borghesie in guerra

  (Pubblicato sul n. 10 di "n+1, Rivista sul movimento reale che abolisce lo stato di cose presente").

  L'invasione americana del Medio Oriente e dell'Asia Centrale, iniziata con la Prima Guerra del Golfo, impegna ormai 500.000 uomini fra soldati, commando e spioni. Dal Mediterraneo ai confini della Cina, la nuova dottrina militare americana si realizza con lo scopo di rimodellare il mondo secondo i "principi del libero mercato". Come un iceberg, la "guerra infinita" rivela solo la sua parte emersa, ma nella parte invisibile, assai più complessa, incomincia a delinearsi un nemico ben diverso da quello che la propaganda individua come bersaglio immediato. Si va dicendo che questa è una "guerra per il petrolio", ma gli Stati Uniti sono i maggiori acquirenti di greggio e posseggono le maggiori aziende che lo commerciano e lavorano; com'era già successo negli anni '70, sono in grado di volgere a loro favore il flusso della materia prima. Più del petrolio li assilla il timore di veder intaccare il cardine della loro egemonia imperialistica, cioè il controllo sul flusso di capitali, non solo petroliferi. Una enorme massa di capitali, in continuo aumento per via del flusso incessante di valuta petrolifera, si sta fissando in un sistema chiamato Islamic Banking. Questi capitali, un tempo indirizzati in special modo verso Stati Uniti e Inghilterra e là depositati, investiti in buoni del tesoro o utilizzati per investimenti diretti, adesso rimangono nei paesi petroliferi o agiscono all'estero (i Sauditi per esempio hanno attività per 1.200 miliardi di dollari negli USA e vi controllano Citigroup, la maggiore banca americana), così la "finanza islamica" minaccia di diventare un potente attrattore finanziario in grado di accumulare non solo petroldollari ma anche euro e yen. Per gli Stati Uniti, la saldatura fra i capitali "islamici" e quelli dell'Europa e del Giappone, cioè dei paesi concorrenti sul piano industriale e finanziario, sarebbe una catastrofe. Oggi questi paesi pagano un pesante tributo alla rendita petrolifera, ma non beneficiano di capitali di ritorno come è successo finora a USA e Inghilterra. Il controllo dei flussi petroliferi è perciò un'arma potentissima contro i concorrenti. Gli Stati Uniti hanno dominato il mondo rendendoselo nemico e, se dovessero mostrare debolezze, sarebbero spazzati via. Non da una guerra diretta, che per ora nessuno può loro muovere, ma dalla semplice situazione politico-economica che sta maturando. Gli Stati Uniti sono dunque costretti ad attaccare per ragioni vitali. "Terrorismo" e "paesi canaglia" sono solo propaganda crociatista. Ecco perché scaturiscono teorie di guerra preventiva globale. I preparativi per la vasta campagna politico-militare, non solo contro l'Iraq, mirano a conservare l’odierno sistema di equilibri, a garantire alla borghesia americana il controllo del processo sempre più spinto di globalizzazione, e a subordinare all'interno di questo quadro, volenti o nolenti, gli altri paesi industriali. Vediamo di conseguenza uno schierarsi delle frazioni borghesi minori, che diventano utili partigiane di un campo o dell'altro. Il loro attivismo diplomatico suscita a sua volta il dibattito nel vasto mondo pacifista, missionario e anti-imperialista democratico. Alla parola d'ordine estrema: "se vuoi la pace prepara la guerra", fa eco il richiamo opposto del pacifismo universale. Eco nella eco, si affianca la voce del milieu sedicente rivoluzionario: trasformare la guerra imperialistica in rivoluzione!". Già, "l'ha detto Lenin", vero? Ma come realizzare oggi la grandiosa parola d'ordine? E con quali strumenti? Noi diciamo che occorre rifiutare il dibattito pacifista sulla guerra. Che è sbagliato farsi partigiani di uno schieramento statale o dell'altro. Che non serve a niente "condannare la prevaricazione imperialista" da un punto di vista morale. L'analisi di ogni guerra non può mai essere basata su categorie giuridiche e sfuggenti come "aggredito" e "aggressore". E la cosa più stupida di tutte sarebbe essere indifferenti di fronte agli esiti di qualunque guerra (fosse anche tra imperialismi nemici), che occorre invece sempre valutare in funzione degli effetti che può avere non sugli schieramenti nazionali ma su quelli di classe. La guerra medio-orientale che di fatto è in corso da anni, è in grado di coinvolgere, oltre ai belligeranti, tutto ciò che sta loro intorno: Israele, i Palestinesi, il petrolio, il Kurdistan, le alleanze in Medio Oriente, quelle tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, ecc. Anche il proletariato, ovviamente. Ma per ora non c'è un proletariato ben organizzato e combattivo sul piano di classe. Sarebbe già un grande risultato il rifiuto di combattere da parte dei soldati americani e iracheni, così come successe sul fronte interno americano durante la Guerra del Vietnam e sul campo di battaglia durante la Guerra del Golfo, dove i soldati iracheni rifiutarono di resistere alla mostruosa macchina bellica che li stava maciullando e preservarono le loro vite, utili alla futura battaglia per sé, come classe. In ogni caso qui la consegna è: non tradire. Occorre almeno lottare contro il coinvolgimento dei proletari in una partigianeria per l'uno o per l'altro fronte borghese, sia esso americano, europeo o islamico, e non illudersi che il pacifismo possa evitare la guerra.