DA - IL MANIFESTO

BERLUSCONI
Parole sue


Con una efficace ricostruzione, ieri Francesco Rutelli ha così riassunto nel corso del suo intervento in aula le ondivaghe dichiarazioni del premier Berlusconi sulla crisi del Golfo. Mosca, 16 ottobre: credo che in Iraq non ci siano ormai più armi di distruzione di massa perché c'è stato tempo per la loro eliminazione o riallocazione. Mosca, 16 ottobre: nessuno può porsi come obiettivo il travolgimento di un regime: il diritto internazionale non lo consente. Lisbona, 17 ottobre: non ho cambiato posizione, con Blair resto il più vicino alleato di Bush.

Roma, 7 novembre: sulla guerra non posso che nutrire gli stessi sentimenti di Chirac. Roma, 13 novembre: esprimo la personale soddisfazione perché sono stato unico tra i premier ad avere espresso il convincimento che Saddam Hussein avrebbe accettato la risoluzione dell'Onu.

Praga, 21 novembre: se si andrà ad una azione militare contro l'Iraq, si tratterà di un'azione comune, di un'azione multilaterale. Roma, 30 dicembre: gli Stati uniti hanno garantito che non daranno luogo a nessuna azione armata, se non nell'ambito delle Nazioni unite.

Roma, 19 gennaio (qui parla il ministro degli affari esteri): è necessario dare agli ispettori il tempo che loro stessi riterranno necessario per concludere il loro lavoro.

Roma, 23 gennaio: sappiamo che ci sono ulteriori prove certe, su cui siamo tenuti alla riservatezza, sulle armi di Saddam Hussein. Roma, 24 gennaio: ho convenuto con il Primo ministro spagnolo Aznar sull'assoluta inutilità di una riunione dei capi di stato e di governo europei (che si sarebbe tenuta con successo pochi giorni dopo).

Roma, 1o febbraio, in un'intervista a Milan Channel: nessuno ritiene che un'organizzazione così diffusa nel mondo come Al Qaeda possa riuscire ad essere così organizzata senza il supporto di uno stato; si ha ragione di ritenere che questo stato sia l'Iraq. Mosca, 3 febbraio: una seconda risoluzione delle Nazioni unite è non necessaria; tuttavia, anche per chi dovrà intervenire in guerra, sarebbe opportuna per dare legittimità all'azione.

Roma, 5 febbraio: un intervento militare in Iraq, per avere piena legittimità, richiederebbe una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu.

Ancora, Roma, 7 febbraio: se non ci sarà la seconda risoluzione, avremo, oltre al danno della guerra, tre danni ancora peggiori: l'Onu perderebbe la credibilità come istituzione capace di garantire la pace e la sicurezza nel mondo, avremo la sparizione di fatto dell'Onu, avremo un tracollo nella Nato tra l'Europa e gli Stati uniti, avremo una divisione all'interno della stessa Europa. Modena, 9 febbraio: se fossero solo gli Stati uniti ad aprire il conflitto con l'Iraq, ci sarebbero risultati catastrofici per l'Europa. Roma, 28 febbraio: l'azione militare di un paese al di fuori dell'Onu rappresenterebbe un fatto nefasto; non credo che nessuno si caricherà di una responsabilità così grave.

20 MARZO 2003.

DA - IL MANIFESTO

«Questa guerra è legittima»


Il premier, in parlamento, difende la scelta di Bush, fa approvare la concessione delle basi , ma specifica che «di lì non partiranno attacchi diretti». Poi attacca: «La sinistra è antioccidentale». Il Colle «prende atto»
ANDREA COLOMBO


ROMA
Parla per 33 minuti nell'aula di Montecitorio, e ripeterà poco dopo il medesimo discorso al senato, senza cambiare una virgola. Parla in un clima di scontro frontale tra eserciti compatti (non è del tutto sincero per quanto riguarda la Casa delle libertà), interrotto a ripetizione dalla sinistra ma anche dagli applausi di risposta dei suoi. Mai come stavolta, Silvio Berlusconi parla ai telespettatori, nonché agli alleati d'oltre Atlantico, prima e più che agli onorevoli colleghi. E mai come stavolta si trova alle prese con un compito difficile. Deve rassicurare gli americani, far capire chiaramente che sta dalla loro parte. Ma deve anche apparire come pacifico leader «non belligerante» di fronte agli elettori che minacciano di punirlo severamente. Il tutto mascherando quell'inconfondibile sapore da Italietta alla Alberto Sordi che di settimana in settimana ha sempre più segnato le sue scelte. La strategia era stata messa a punto nel vertice notturno a palazzo Chigi. Lì i centristi avevano ottenuto che venisse eliminato un passaggio che elogiava apertamente il vertice delle Azzorre, e che in compenso venissero inserite un paio di espressioni di rammarico nonché l'affermazione tonda per cui l'Italia è un paese «non belligerante». A insistere perché ci fosse anche un omaggio ipocrita al «santo padre» era stato invece Gianfranco Fini.

Ma sbrigate le incombenze di coalizione, agli Usa Berlusconi concede moltissimo. Afferma forte e chiaro che «l'uso della forza è legittimo». Giura che «il disarmo forzoso dell'Iraq è già stato legittimato dalle risoluzioni 678, 687 e 1441 dell'Onu»: una nuova risoluzione avrebbe solo potuto «fissare un termine certo» per portare a termine il disarmo. Nulla di più, e comunque la Francia ha fatto una scelta «legittima ma sbagliata» quando ha annunciato il suo veto.

Ma il capo della destra deve anche convincere gli italiani, ed è un obiettivo più arduo. Berlusconi attacca con varie strategie diverse. Prima si addentra in una dissertazione dottorale sul diritto internazionale, ricapitola i preceenti attacchi all'Iraq dopo la guerra del `91 (nel `93 e nel `98). Se erano legittimi quelli, come garantito dall'Onu in entrambe le occasioni, altrettanto legittima è la prossima guerra, dal momento che Saddam non si è uniformato all'obbligo di offrire immediata e piena collaborazione agli ispettori. Poi dalla cattedra passa al comiziaccio, si lancia contro la sinistra: «Sta dimostrando di non avere il senso della realtà né quello della democrazia». Quindi riporta tutto al genere che preferisce, la semplificazioe estrema, rozza, quella che spinge il deputato Buglio a sbottare in un salutare: «Ma è un imbroglione!». Non è questione di stare o no con la pace, afferma infatti, ma di schierarsi con le libere democrazie dell'occidente o con un sanguinario tiranno. Messe così le cose, chi mai potrebbe nutrire dubbi sull'opportunità di scaricare tonnellate di bombe sui sudditi del tiranno?

La carta risolutiva su cui punta il Cavaliere però è ancora un'altra. Concedere agli Usa la disponibilità delle basi e delle infrastrutture, prosegue, significa solo uniformarsi a quel che hanno già fatto i paesi che più hanno contrastato l'intervento, Francia e Germania. Comportarsi diversamente significherebbe denunciare l'alleanza atlantica. E' il leit-motiv che il grande comunicatore ripeterà più tardi, chiacchierando con i girnalisti: «L'amara realtà è che l'opposizione è antiamericana e antioccidentale».

Del resto, chiude in crescendo, dalle basi «non partiranno attacchi diretti», a conferma del carattere di sostegno non belligerante che l'Italia offre agli Usa. C'è più fumo che arrosto nell'annuncio, come faranno notare più tardi i deputati di Rifondazione comunista. L'autonomia dei bombardieri è limitata, un'ulteriore tappa prima di arrivare su Baghdad o Bassora sarebbe comunque obbligata. E tuttavia proprio su questo punto si è articolata la strategia della destra. Deciso nel vertice notturno di palazzo Chigi, il passaggio sull'«uso passivo» delle basi era stato controfirmato in mattinata, prima del dibattito, dal consiglio dei ministri. Di lì era passato direttamente al Quirinale, dove Ciampi aveva convocato il Connsiglio supremo di difesa. Ma nel suo comunicato finale, il Consiglio si limita a «prendere atto», sottolineando che la responsabilità delle scelte spetta a governo e parlamento. E la precisazione sembra indicare una scarsa convinzione di Ciampi nell'indirizzo scelto dal governo.

C'è un'omissione significativa nell'intervento del premier. Nemmeno una parola sul terrorismo, sulla minaccia di attentati. Berlusconi rimedierà più tardi, parlando con i giornalisti. «Non credo che ci siano rischi di attentati in Italia», assicura. Perché la minaccia terrorista è un elastico, la si può tirare a piacimento: agitare quando serve a scaldare gli animi, minimizzare quando pare più opportuno non spaventare i già dubbiosi elettori. Proprio come i sondaggi. Nessuno più del padrone Mediaset sa quanto sia facile produrre opinione mediante la diffusione di opinione. E dunque spara il suo bravo sondaggio. «Non è vero che gli italiani sono contro la guerra. Anzi, il 64% è con noi, e molti avrebbero preferito un intervento diretto». Parola sua. Per ora una maggioranza blindata ha approvato le sue comunicazioni (304 sì contro 246 no alla camera, 159 sì contro 124 no e un astenuto al senato). Convincere gli italiani, nonostante i sondaggi addomesticati, sarà meno facile.


 

DA - IL MANIFESTO

Pronti a occupare le piazze


Ieri pacifisti alla camera, al senato e all'ambasciata Usa. Cortei in tutta Italia quando inizieranno i bombardamenti
A. MAN.
ROMA
Bandiere arcobaleno e striscioni, dalle Donne in nero a Rifondazione e alla Rete Lilliput, cartelli «non in mio nome» e bandiere di Cobas, Cgil e Pdci. C'erano centinaia di persone ieri pomeriggio in piazza Montecitorio, fin dall'ora di pranzo e qualcuno anche dalla mattina. Signore di mezza età e giovanissimi, militanti di lungo corso e gente meno abituata alla piazza. Hanno ascoltato il dibattito parlamentare dagli altoparlanti, dietro le transenne montate dalla questura per evitare la prevista catena umana attorno alla camera dei deputati. Poi hanno gridato «vergogna vergogna», «assassini assassini», quando i parlamentari dell'opposizione sono usciti a raccontare l'esito delle votazioni, con la scontata maggioranza di «sì» alla guerra di George W. Bush. E a quel punto si sono spostati davanti al senato, dove iniziavano le dichiarazioni di voto dei gruppi. Un mini-corteo ha percorso fino a palazzo Madama le stradine del centro, blindatissime e transennate anche quelle, scandendo «pa-ce-pa-ce» e informando con il megafono dell'ennesimo scempio della Costituzione consumato dal parlamento italiano. E altri pacifisti si sono uniti lungo la strada, ragazzini che frequentano piazza del Pantheon e perfino qualche tifoso olandese dell'Ajax, in trasferta a Roma per la partita di Champions Ligue.

A tarda sera, mentre il mondo si interrogava sui tempi dell'ormai imminente attacco anglo-americano all'Iraq, il movimento è tornato a farsi sentire in via Veneto davanti all'ambasciata statunitense. Un'ultima fiaccolata, una veglia alla scadenza dell'ultimatum di Bush.

Per tutta la giornata è sembrato che gli americani aspetteranno almeno 24 ore prima di attaccare. E' il momento dell'angoscia e dell'attesa e anche per questo, ieri, le piazze non erano strapiene, senza contare che i settori più radicali del movimento non sembrano aver scommesso granché su appuntamenti legati al passaggio parlamentare sulla crisi irachena. L'attenzione del comitato «Fermiamo la guerra» che riunisce le varie anime del movimento (Arci, Lilliput, Cgil, Fiom, Disobbedienti, Cobas, Prc, Sinistra giovanile) si concentra su quanto dovrà accadere «il giorno dopo», quando cioè le bombe cominceranno a piovere su Baghdad. Come i sindacati: Cgil, Cisl e Uil hanno annunciato l'altroieri due ore di sciopero generale, dalle 15 alle 17, all'indomani dell'inizio delle ostilità, in concomitanza con le manifestazioni in programma in tutte le città d'Italia. Da un mese, ormai, quella è l'indicazione del comitato «Fermiamo la guerra».

A Roma, se i bombardamenti cominceranno subito allo scadere del diktat di Bush, nella mattinata si terranno manifestazioni in quasi tutti i quartieri. I primi a scendere in piazza saranno degli studenti delle superiori e delle università e c'è anche un appuntamento centrale a piazza Venezia lanciato dal Comitato unitario «Roma città aperta alla pace». E proprio da piazza Venezia, sempre in caso di guerra, partirà più tardi (concentramento alle 16) il corteo cittadino diretto a piazza Barberini, cioè nel luogo non vietato più vicino all'ambasciata di via Veneto. I pacifisti costruiranno simbolici «muri» per sbarrare alcune delle principali vie d'accesso alla sede diplomatica Usa, una forma pacifica di «sanzione» e «isolamento» nei confronti del governo della guerra preventiva. Il comitato «Fermiamo la guerra» ha invitato tutti a contribuire: oltre a camion e furgoncini saranno utilizzati cartoni e balle di fieno. Qualunque cosa andrà bene.

DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Vaticano: profondo dolore del Papa Firenze:

digiuno e recita del rosario. Belluno: campane a morto. Torino: veglia di preghiera. Frosinone: fiaccolata CITTÀ DEL VATICANO - La Santa Sede esprime «profondo dolore» per l'inizio della guerra all'Iraq e «deplora che si sia interrotta la via della trattativa», secondo il diritto internazionale. Lo ha detto il portavoce vaticano Joaquin Navarro Valls. Nella dichiarazione, diffusa poco prima delle 13 in sala stampa vaticana, Navarro Valls lamenta anche il fatto che «il governo iracheno non abbia accolto le risoluzioni delle Nazioni Unite e lo stesso appello del Papa, che chiedevano un disarmo del Paese».

BAGDAD: LA NUNZIATURA RESTA APERTA - «La Santa Sede - recita il testo integrale della dichiarazione - ha appreso con profondo dolore l'evolversi degli ultimi eventi in Iraq. Da una parte, lamenta che il governo iracheno non abbia accolto le risoluzioni delle Nazioni Unite e lo stesso appello del Papa, che chiedevano un disarmo del Paese. D'altra parte deplora che si sia interrotta la via della trattativa, secondo il diritto internazionale, per una soluzione pacifica del dramma iracheno. In tale situazione - prosegue la dichiarazione - si è appreso con soddisfazione che le varie istituzioni cattoliche in Iraq continuano a svolgere la loro attività di assistenza a quelle popolazioni. Per contribuire a quest'opera di solidarietà, anche la nunziatura apostolica, retta dall'arcivescovo mons. Fernando Filoni, rimarrà aperta in questo periodo, nella sua sede di Bagdad».

GUERRA DECISA PRIMA DI ISPEZIONI - Cardinale Roberto Tucci, il porporato della Radio Vaticana che per oltre dieci anni ha seguito il Papa in tutti i suoi viaggi all’estero: «Purtroppo la storia dimostrerà che tutto era già deciso ancora prima delle ispezioni».

FIRENZE: CAMPANE, ROSARIO E DIGIUNO - Digiuno, recita del rosario e campane di tutte le chiese di Firenze che suoneranno stasera alle 21: è l' invito che l'arcivescovo Ennio Antonelli ha rivolto questa mattina a tutti i fedeli e che è stato trasmesso in diretta da Radio Toscana Network. «L'invito innanzitutto per questa sera - ha detto l' Arcivescovo - è a digiunare, saltando la cena, e a radunarsi per recitare il rosario nelle chiese». Tutte le parrocchie della diocesi sono anche invitate a suonare le campane alle ore 21. Antonelli ha anche ribadito «l'invito, per tutto il tempo della durata della crisi, a digiunare e recitare il rosario insieme nelle chiese, e chi non può nelle famiglie, per invocare da Dio che siano alleviate le sofferenze delle popolazioni colpite e che i potenti si convertano a pensieri di pace».

BELLUNO: CAMPANE A MORTO - Il vescovo di Belluno, monsignor Vincenzo Savio, chiede a tutta la comunità ecclesiale di unirsi «nell'invocare da Dio nostra pace questo dono inestimabile». Per questo motivo il vescovo ha invitato i parroci a «suonare le campane a morto in tutte le chiese della diocesi alle 17 in unione a tutte le persone che nella stessa ora esprimeranno la loro preoccupazione davanti alla prefettura di Belluno» e la comunità ecclesiale a «recitare una preghiera per la pace in tutte le Messe per tutti i giorni del conflitto». Infine un gesto di carattere personale: «Il digiuno, nei tempi e nei modi che ognuno deciderà secondo le proprie condizioni individuali, da unire a gesti di solidarietà ai civili iracheni, il cui frutto si può far pervenire tramite la Caritas diocesana».

TORINO: VEGLIA DI PREGHIERA - L'arcivescovo di Torino, cardinale Severino Poletto, ha convocato la comunità cristiana alle 20,45 per una veglia di preghiera presso il Santuario della Consolata. «Sarà un momento di riflessione e di invocazione al Signore perché la guerra in Medio Oriente abbia termine quanto prima, limitando le sofferenze di tutti, e perché doni la Sua pace agli uomini di buona volontà», ha detto l'arcivescovo.

PALERMO: INCONTRO DI PREGHIERA
- Un incontro di preghiera «per invocare il dono della pace nella conversione dei cuori, soprattutto di quanti hanno responsabilità, nei confronti della violenza sia del terrorismo, sia della guerra» è stato promosso dal cardinale Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo, alle 19 in cattedrale.

FROSINONE: FIACCOLATA - Una fiaccolata della pace è in programma dalle 19 a Frosinone organizzata dai movimenti cattolici. Il corteo, guidato dal vescovo, monsignor Giovanni Boccaccio, si fermerà in piazza Sant'Antonio dove è prevista una veglia di preghiera.

SILENZIO NELLE RADIO CRISTIANE - «Un minuto di silenzio e di raccoglimento» per la pace è stato osservato alle 15 dal coordinamento delle 650 radio cristiane d'Europa, che si trova a Lione. Lo si è appreso nella città francese.20 marzo 2003

DA - IL CORRIERE DELLA SERA

La finta morte di Aziz era una trappola hi-tech

La falsa notizia ha portato allo scoperto il numero 2 del regime che ha condotto gli Usa al comando del rais, poi bombardato AL UDEI (QATAR) - Era una trappola. Per tentare di stanare Saddam e ucciderlo. I bombardamenti Usa di stamani su Baghdad erano diretti contro il Comando delle forze armate irachene: una sede di comando che era stato possibile scoprire grazie alla falsa notizia della morte di Tareq Aziz il numero due del regime iracheno. Lo hanno detto fonti della base militare Usa di Al Udeid, in Qatar, che hanno chiesto di restare anonime, secondo le quali la notizia della fuga del vice premier iracheno Tareq Aziz è stata intenzionalmente diffusa dai servizi segreti americani affinché lo stesso Aziz fosse indotto a tenere una conferenza stampa per smentirla di persona. Aziz sarebbe stato quindi seguito via satellite dal luogo dove ha tenuto la conferenza stampa via satellite sino al centro di comando delle forze armate irachene, lo stesso che sarebbe stato colpito questa mattina. Non si ha sinora conferma se Aziz e quanti altri alti ufficiali si trovassero sul luogo e se qualcuno sia rimasto colpito.20 marzo 2003

DA - IL MESSAGGERO

Israele, Sigonella, Libia: i grandi rifiuti

di ALESSANDRO POLITI

ROMA - La storia dell'uso delle basi Nato o Usa in Italia è complessa, talvolta controversa e richiede qualche precisazione. La distinzione se la base sia statunitense, nazionale o Nato è sostanzialmente assai meno importante del tipo di operazioni che si vogliono intraprendere e della loro liceità in rapporto alla legislazione internazionale ed agli accordi presi. In sostanza, un alleato può impiegare una base solo con l'accordo dell'Italia e se il suo uso è legalmente ammissibile.
Per esempio, la crisi di Sigonella dimostrò che, nel caso di un attentato terroristico, l'articolo 5 della Nato (invocato nel 2001 per gli eccidi New York e Washington) è valido solo se c'è un attacco armato e se può essere imputato ad uno stato. Un altro problema è che non tutti gli accordi Italia-Usa sono pubblici, questione che affiorò dolorosamente durante il disastro aereo del Cermis (1998, un aereo Usa causa 20 morti) ed in cui il governo s'impegnò politicamente a rivedere la materia.
Una sommaria cronologia della questione delle basi include le seguenti date:
- 1973, rifiuto dell'utilizzo delle basi italiane per il rifornimento d'Israele durante la guerra del Ramadan-Yom Kippur.
- 1982, concessione dell'uso delle basi in occasione della partecipazione italiana alla missione multinazionale in Libano. Tuttavia si sottolineò che non si sarebbero avallate operazioni multilaterali nel Golfo Persico, nel caso di un coinvolgimento della Nato in una crisi.
- 1985, l'Italia nega l'uso di Sigonella per la cattura di terroristi palestinesi.
- 1986 Craxi critica duramente le incursioni contro la Libia in marzo ed aprile, sottolineando come fossero fuori dal quadro Nato e come le basi non potessero essere un trampolino per operazioni al di fuori della Nato. Fu negato anche il sorvolo dello spazio aereo.
- 1991, prima guerra del Golfo, concessione dell'uso delle basi.
- 1995, guerra in Bosnia, concessione delle basi per gli attacchi aerei Nato.
- 1999, tutte le basi furono impegnate nella guerra del Kosovo.

DA - L'UNITA'

Tutto il mondo si rivolta alla guerra unilaterale. Cortei, fiaccolate da Sydney a Betlemme
di red

Cade la prima bomba e il mondo scende in piazza per protestare contro una guerra illegittima che nessuno vuole. I pacifisti invadono le strade di città grandi e piccole e prendono di mira soprattuto le ambasciate americane. Per dire agli Stati Uniti che sono soli con la loro guerra.

Si comincia dall’'Australia dove in 40.000 hanno sfilato per le strade di Melbourne, paralizzando l'intera città, contro l'intervento armato e la posizione del governo australiano che ha scelto di prendere parte direttamente alle operazioni militari. La capitale della pace è Berlino, dove 50.000 studenti sfilano in corteo dalla Alexanderplatz fino alla porta di Brandeburgo, passando di fronte all'ambasciata americana, sotto cartelli come «No alla guerra per il petrolio» e «George W. Hitler». Sorprende gli stessi leader pacifisti la reazione della Gran Bretagna, dove le proteste hanno avuto un'adesione immediata e spontanea. Blocchi stradali e cortei sono stati organizzati a Londra e in altre città: gli studenti sono usciti dalle scuole e molti hanno disertato il lavoro per uno sciopero indetto dalla coalizione 'Stop War'. Per sabato si prevede la più imponente organizzata nel Regno Unito dall'inizio della crisi irachena. E molti laburisti abbandonano Blar per partecipare alla manifestazione, mentre le Chiese di Inghilterra e Irlanda e il Consiglio musulmano del Regno Unito hanno diffuso una dichiarazione auspicandosi che il conflitto «finisca al più presto».

Sono 10.000 in Grecia, tra i 10 e i 15mila a Berna, alcune migliaia a Vienna, mentre sorgono manifestazioni spontanee persino in una ventina di centri. A Parigi, le organizzazioni contrarie alla guerra si danno appuntamento nel pomeriggio di fronte all'ambasciata americana e la circondano.

Ma non è solo l’Europa a scendere in piazza: si moltiplicano le manifestazioni di protesta in Pakistan a Karachi, in Siria a Damasco, a Betlemme in Cisgiordania, nel Qatar e negli Emirati, in Indonesia a Giacarta, Bandung, Yogyacarta e Makassar in Indonesia.

E anche gli americani scendono in piazza: a Washington, New York, Boston, Salt Lake City, Detroit, Chicago, Minneapolis e Cleveland, e in Delaware, Maryland, Wisconsin, Arkansas e Nevada.

DA - L'UNITA'

Appende la bandiera della pace in fabbrica: licenziato. Accade alla Fiat
di red

Durante la guerra può accadere anche questo. Un operaio della Fiat, esattamente dipendente dello stabilimento di Termoli, a due passi da Campobasso, è stato licenziato. La sua colpa? Aver attaccato una bandiera della pace sui cancelli della fabbrica, durante i giorni che hanno preceduto il conflitto in Iraq.

Il lavoratore si chiama Stefano Musacchio. A Termoli, come in tutte le fabbriche metalmeccaniche europee, il 14 marzo scorso era stato organizzato uno sciopero contro la guerra. E lui, così come faceva quasi tiutta l'Italia, aveva pensato di affiggere la bandiera della pace. Ne ha presa una e l'ha piantata sulla palizzata che circonda lo stabilimento dove lavora. Qualcuno l'ha visto e la direzione è intervenuta. Licenziato. Stefano Musacchio, ovviamente, ha annunciato che impugnerà il licenziamento. Ma la sua ovviamente non sarà solo una battaglia sindacale: venerdì mattina, Bertinotti ed altri dirigenti della sinistra, alle 11 alla Camera illustreranno le iniziative che intendono prendere per respingere questa gravissima violazione dei diritti sindacali.

DA - L'UNITA'

Scalfaro in Senato ricorda al premier l'articolo 11 della Costituzione
di red

«L'interesse nazionale primario è uno solo: no alla guerra, non si può calpestare l'articolo 11 della Costituzione. Occorre trarre le conseguenze di questo no, perchè questa guerra è to-tal-men-te illegittima. L'interesse nazionale primario è la pace, quella per la quale ognuno di noi vorrebbe poter collaborare, anche chi, come il sottoscritto, è alle ultime giornate della sua lunga vita». Lo ha sottolineato il presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, intervenendo al Senato nel dibattito sulle comunicazioni del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sulla crisi irachena.

L'ex capo dello Stato ha rivolto un appello al premier, ricollegandosi ad un colloquio avuto con lui questa mattina durante la commemorazione al Senato di Marco Biagi, durante il quale Berlusconi gli ha raccontato i colloqui con George Bush: «dal primo momento -ha detto Scalfaro riferendo le parole del capo dell'esecutivo- gli ho detto che essendo l'Italia un Repubblica parlamentare non c'era da pensare che ci fosse la possibilità che in qualche modo il Parlamento fosse favorevole ad una guerra. Ho avuto la sensazione di una volontà determinata, di una specie di compito messianico».

«Se queste cose, anche umane, del suo colloquio le avesse dette in Aula -ha spiegato Scalfaro- mi avrebbe trovato largamente consenziente. Ho la sensazione che nel momento in cui il presidente parla in aula sia più preoccupato che queste parole suonerebbero come incerta posizione di alleanza e quindi marca eccessivamente l'alleanza e questo dà la sensazione che poco alla volta, anche fuori dalla volontà, sia una condiscendenza».

«Sarà un giorno terribilmente infausto se questa notte prenderà la parola soltanto la voce delle armi. È il no all'uomo, alla ragione, alla stessa dignità della persona», continua Scalfaro. «Noi siamo estranei a questa guerra che vede travolgere le istituzioni internazionali, che vuole buttare all'aria quello che in 50 anni si è fatto. Sono gli uomini deboli che non hanno pensiero, che mancano di volontà, che mancano di cultura, che hanno bisogno di forze dall'esterno, a cominciare dalle armi». Un pensiero l'ex capo dello Stato lo ha rivolto anche al vertice delle Azzorre di domenica dove «i tre capi di Stato hanno parlato solo di guerra. Non è un momento fortunato - ha sottolineato Scalfaro - per il mondo se questi tre hanno
una particolare maggioranza e possibilità di decidere».

Stupore e terrore
di Furio Colombo

«Sono contrario a questa guerra perché è una guerra sbagliata. Non si può essere d’accordo con la decisione di Bush. Attaccare un Paese senza il consenso delle Nazioni Unite per me è inammissibile. È un fatto gravissimo. L’America è il Paese più forte e proprio per questo dovrebbe essere di esempio ed evitare il conflitto. Gli ispettori dell’Onu stavano facendo un buon lavoro. Perché attaccare l’Iraq?».

No, queste non sono parole ascoltate sulle piazze italiane e del mondo durante le migliaia di manifestazioni di pace avvenute dovunque. Non sono parole di ostilità e di antagonismo verso gli Stati Uniti. Queste sono parole del diplomatico americano Thomas Foglietta, che è stato ambasciatore a Roma quando era presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, quando quel Paese e quel governo si davano come progetto di «portare un po’ di pace in un mondo dilaniato dalla violenza e dalla diseguaglianza» (è una frase nell’ ultimo discorso di Clinton sullo «Stato dell’Unione»).

Sono parole dette ieri, a Roma, in una intervista pubblicata a pag. 38 de Il Messaggero.
Dimostrano quale immensa distanza, in un periodo precipitoso e breve, George W. Bush è riuscito a creare rispetto a tutta l’America che lo ha preceduto, e a quella parte dell’opinione pubblica del mondo che si è sempre sentita vicina all’America fino a pochissimo tempo fa.

Pensate a Jimmy Carter, che non ha mai pensato di scatenare una guerra mentre centinaia di americani erano stati catturati e tenuti in ostaggio per mesi in Iran. E confrontatelo con il piano di attacco che ci è stato svelato oggi. Mentre si alzano il fumo e le fiamme nel cielo notturno di Bagdad, coloro che lavorano a questa strana guerra di cui il mondo intero non ha capito il senso, ci dicono che l’operazione ha il nome terribile di «Stupore e terrore».

Vuol dire l’intenzione che si sappia bene che questo è un progetto senza scampo e che la sua capacità distruttiva dovrà essere esemplare, memorabile. Precisano alla Cnn alcune voci da Washington: «Ciò che sta per accadere è qualcosa che non si è mai visto, qualcosa che apparirà senza uguali».

È una intimazione difficile da capire, da interpretare. A confronto solo le parole del Papa, che parlano di un profondo dolore ed annunciano una ostinata volontà di rifiuto, sembrano adeguate. Infatti persino il più appassionato discorso politico, nel suo linguaggio tradizionale, sembra incapace di dire tutto il disorientamento, tutta la confusione, tutto lo spavento che l’annuncio, il nome e le prime immagini di questa guerra comunicano.

Perché tutta la forza del Paese più potente del mondo, e la sua più avanzata e avveniristica tecnologia, devono essere usate, con costi immensi di vite umane e ricchezze, per provocare «stupore e terrore» come in una maledizione biblica?
Dove, quando, come è avvenuta questa perdita di saggezza, che adesso consiglia di distruggere in modo stupefacente, per poi impiantare qualche forma di nuovo ordine che discenderà dal terrore che sta scatenando? Come si è formato un simile senso di solitudine cieca?

Certo, il trauma è stato immenso l’11 settembre. Ma ripagare l’orrore (moltiplicato per la tecnologia e la potenza) per andare a colpire a caso, senza sapere dove comincia e come si forma davvero il pericolo, impone all’America la condanna di vivere fra lutto e lutto, fra strage e strage.

In questo modo si costruisce la prigione di un incubo destinato a non finire, stretto nel cerchio del dolore subìto e del dolore provocato. Un incubo grande quanto la capacità tecnica e la volontà terribile di provocare «stupore e terrore» e una guerra mai vista.

Ecco perché Thomas Foglietta, che è stato fino a poco fa ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, ha concluso ieri la sua intervista con queste parole: «Sì, lo ammetto, anch’io ho paura».