Parà partiti
da Vicenza
gli Usa smentiscono il governo
Sulla questione si discuterà in
Parlamento
Ds e Margherita: "L'Italia è diventato un Paese
belligerante"
ROMA - Mille parà americani della
173 Brigata aerotrasportata di stanza a Ederle, una base
vicino Vicenza, sbarcano
nel nord dell'Iraq e nel
mondo politico italiano scoppia la bufera. Da una parte
l'opposizione vuole spiegazioni su quella che ritiene una
violazione degli impegni presi dal governo, ovvero nessun
uso delle basi in Italia per attacchi diretti all'Iraq.
Dall'altro Palazzo Chigi e gli stati Uniti dicono cose
diverse. Silvio Berlusconi ha scritto al presidente della
Camera Pier Ferdinando Casini ribadendo la posizione
ufficiale dell'esecutivo: quei parà non parteciperanno
ad attacchi diretti contro obiettivi iracheni. Ma il
generale di brigata Vincent Brooks dal quartier generale
del Comando centrale in Qatar smentisce Palazzo Chigi:
"Si tratta di una forza che può essere usata anche
in attacco, se decideremo in tale senso". E
aggiunge: "Lascio all'Italia il compito di
commentare il proprio ruolo nella guerra". Brooks
spiegato che i parà partiti dalla base statunitense di
Vicenza saranno utilizzati per proteggere le aree sotto
il controllo curdo o anche per colpire l'esercito di
Bagdad dal fronte del nord. "La presenza di una
brigata di combattimento in quell'area - aggiunge -
cambia considerevolmente le dinamiche".
Nel pomeriggio poi il presidente della
Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha ricevuto Silvio
Berlusconi al Quirinale. Un faccia a faccia di due ore
dedicato alla situazione internazionale e alla crisi
irachena. Analogo tema trattato nel pomeriggio nel corso
dell'incontro, sempre al Quirinale, di Ciampi con il
ministro della Difesa Martino e con il generale Mosca
Moschini, capo di stato maggiore della Difesa.
In attesa del chiarimento, che secondo il ministro Rocco
Buttiglione sarebbe stato "più opportuno offrire
tempestivamente" al Parlamento e al Paese -
l'opposizione ha buon gioco ad attaccare. "Il
governo sta prendendo in giro il Parlamento" dice
Gavino Angius, presidente dei senatori Ds. Il suo collega
alla Camera Luciano Violante chiede se la missione
partita da Vicenza abbia violato la decisione del
Consiglio supremo di difesa che prevedeva
l'"esclusione dell'uso di strutture militari quali
basi di attacco diretto ad obiettivi iracheni".
Violante ha chiesto quindi "se sia mutato il ruolo
dell'Italia, passando da paese non belligerante a paese
co-belligerante". Cosa di cui è convinto Giuseppe
Fioroni della Margherita: "Abbiamo appreso dalla Tv
che l'Italia è in guerra".
E il presidente della Commissione difesa della Camera
Gustavo Selva replica: "I piani si fanno a Tampa, in
Florida e a Washington, non a Roma". Come a dire non
possiamo farci nulla.
(27 marzo 2003)
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Il Pentagono annuncia l'arrivo di forze
fresche nel Golfo
Rumsfeld: "Nessun cessate il fuoco, la guerra sarà
lunga"
Iraq, in
arrivo entro un mese
altri 120 mila militari Usa
WASHINGTON - Entro un mese altri 120 mila
soldati americani si uniranno ai quasi trecentomila che
già sono impegnati nella guerra contro l'Iraq. Una
notizia che testimonia l'esigenza del Pentagono di
rafforzare il dispositivo nel Golfo che, di fatto, viene
raddoppiato. Fra i rinforzi che affluiranno in Iraq
figurano la quarta divisione di fanteria dal Texas, la
prima divisione corazzata dalla Germania, e il secondo
reggimento di cavalleria corazzata dal Colorado.
La decisione di aumentare il numero dei militari nel
Golfo si ricava dalle parole del segretario alla Difesa
Donald Rumsfeld che annuncia: "Il numero degli
effettivi nel Golfo andrà crescendo a una media di 2 o 3
mila al giorno". Conti alla mano, in un mese si
arriva alla cifra di 120 mila uomini. "La guerra
continuerà, e nessuno pensi ad un cessato il fuoco"
ammonisce il segretario Usa, anticipando un'eventuale
richiesta di cessazione delle ostilità da parte delle
Nazioni Unite.
L'arrivo di "forze fresche" sembra
essere l'ennesima dimostrazione che il presidente
iracheno Saddam Hussein si sta dimostrando una preda più
difficile di quanto si pensasse inizialmente. Non a caso
sia il presidente George W. Bush sia Rumsfeld parlano da
qualche giorno di conflitto "lungo e
difficile". Una prospettiva avvalorata dal fatto che
la Guardia Repubblicana irachena si sta disponendo ad
anello intorno a Baghdad, preparandosi a difenderla.
"L'anello difensivo avrebbe un raggio di 80
chilometri - dice Rumsfeld - Mentre altri soldati sono
stati spostati verso il nord dell'Iraq, a difesa di
Tikrit, città natale di Saddam Hussein".
Il conflitto, dunque, non accenna a finire. Lo dice, con
schiettezza, lo stesso Rumsfeld. "Non sappiamo
quando finirà il periodo di intensi combattimenti e non
siamo in grado di stimare quale sarà l'estensione dei
danni inflitti alle infrastrutture dell'Iraq", anche
se le forze della coalizione "fanno di tutto per
limitare i danni".
(27 marzo 2003)
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Raid, ancora
vittime civili
Oltre 30 in ventiquattro ore
Oltre a quello sul mercato, un
altro raid a Bagdad
avrebbe provocato ieri otto morti e 44 feriti
BAGDAG - Le cifre si rincorrono, i bilanci
crescono di ora in ora, è un computo difficile quello
delle vittime civili ma gli iracheni non hanno dubbi: in
una settimana sarebbero stati 350 i morti, fra la
popolazione, e quattromila i feriti, secondo le stime del
ministero della Sanità di Bagdad. Mentre la Difesa
irachena segnala altre otto vittime civili, e 44 feriti,
bilancio di un bombardamento anglo-americano di ieri, a
sud della capitale, nell'area di un complesso
residenziale.
Il direttore generale della Difesa irachena, Hatem Ali Al
Khalaf, ha spiegato oggi che l'attacco aereo (messo a
segno nello stesso giorno del bombardamento sul mercato a
Bagdad) ha preso di mira un complesso abitato da
dipendenti del ministero delle Infrastrutture civili, a
Yussufiyeh, trenta chilometri a sud della capitale. Ai
giornalisti convocati sul posto, Al Khalaf ha precisato
che la zona è stata bombardata ieri mattina, e non la
notte scorsa, come annunciato in precedenza da un
dirigente iracheno, e che "le vittime sono in gran
parte donne e bambini". Sul luogo del raid sono
visibili le macerie dei prefabbricati, utensili da cucina
sparsi in terra. E in un cratere poco profondo riposa un
ordigno apparentemente intatto: "E' una bomba a
frammentazione inesplosa", ha spiegato Al Khalaf.
Ma la lista delle vittime civili si allunga
ulteriormente. E' ancora il direttore della Difesa
irachena a dichiarare che tredici persone sono state
uccise, e 56 sono rimaste ferite, nel corso dei
bombardamenti anglo-americani di ieri, nell'area che va
da Kerbala a Najaf, nell'Iraq centrale. Najaf e Karbala
distano rispettivamente 150 e 180 chilometri da Bagdad, e
sono due città sante, meta di pellegrinagio per gi
sciiti. A Najaf, un raid contro il quartiere residenziale
Al Hussein ha provocato la morte di sei persone, mentre
le bombe su Kerbala hanno fatto sette morti.
Al computo della prima settimana di guerra si aggiunge
quello, più circoscritto, delle ultime 24 ore. In questo
arco di tempo sarebbero 36 i civili iracheni uccisi a
Bagdad dalle forze della coalizione. I dati sono stati
resi noti dal ministro della Sanità iracheno, Umid
Medhat Mubarak, durante una conferenza stampa, nel corso
della quale il ministro ha accusato le forze della
coalizione di utilizzare bombe a frammentazione, e di
"mirare esplicitamente ai civili" con lo scopo
di "terrorizzare la popolazione". Secondo
Medhat Mubarak, gli anglo-americani avrebbero anche
"cercato di bloccare" le squadre d'emergenza
che tentavano di soccorrere le vittime dei raid aerei.
(27 marzo 2003)
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DA - IL MANIFESTO
La vergogna
LUIGI PINTOR
La guerra sarà lunga, siamo solo all'inizio. Se lo
dicono loro possiamo crederci anche se prima dicevano il
contrario. Tradotto in pratica, vuol dire che la strage
al mercato di Baghdad è solo un inizio. Non è un
effetto collaterale della guerra, è il suo cuore. Questi
morti li conosciamo, di altri in altre città sentiamo
parlare. I massacri, la macelleria, la carneficina
prendono il posto che gli spetta. Siamo solo all'inizio.
Sono bombe straniere, anglo-americane, non cannonate di
un nemico interno su un mercato di Sarajevo. Vengono da
molto in alto, dalla cima del nostro mondo civile. Se
questa è una guerra di liberazione, cos'è una guerra di
aggressione e di conquista? Non era stata presentata
così al mondo e al suo paese da George Bush. Non era una
guerra contro una popolazione ma contro un tiranno e
sarebbe stata quasi indolore. Ora anche molti soldati
americani, pù di cento, muoiono e moriranno senza
saperlo (quelli iracheni uccisi a Najaf sono mille).
Se è solo l'inizio ci si potrebbe ancora fermare prima
del massacro finale. Ma l'America, che vive sotto
assedio, non conosce questo scenario e non ne immagina le
conseguenze. Crede a quel gelido coglione del suo
ministro della difesa, al vice-presidente che ha in
appalto i pozzi iracheni, al presidente che vuole essere
rieletto. E ha la certezza della vittoria. Se si
accorgerà prima o poi d'essere stata ingannata si
infurierà ma sarà tardi.
Davvero la vittoria finale, preceduta dalla sporca
immagine di questa guerra, porterà in Iraq la
democrazia? Indirete libere elezioni in un paese
finalmente pacificato? C'è una probabilità su un
milione che accada qualcosa di simile, ce ne sono molte
di più che il vulcano non si spenga. Farete allora il
protettorato anglo-americano che avete progettato dal
1991? O sarà una gestione pluricoloniale? Farete tutto
da soli o userete un altro vassallo locale, com'è stato
per voi Saddam?
E' odioso essere profeti di sventura, ma qui non si
tratta di essere profeti perché la sventura è sotto i
nostri occhi. Lo è nell'escalation della guerra in atto
e tutti i suoi connotati militari e politici prospettano
un quadro delle relazioni internazionali postbelliche
sconvolto e sconvolgente. Se siamo solo all'inizio, chi
mal comincia è alla metà dell'opera.
Non ci viene oggi da concludere che la volontà di pace
che corre per il mondo è più forte di tutto questo,
anche se lo ripetiamo ogni giorno non come un rituale ma
per convinzione. Oggi ci viene da dire semplicemente che
quel che accade è una vergogna dell'umanità.
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DA - IL MANIFESTO
Ecco gli
alleati occulti degli Usa
Spunta la lista dei 15 paesi anonimi della coalizione.
Dollari per tutti
S. L.
La raffazonata «coalition of the willing» messa in
piedi dagli Stati uniti per la loro operazione Iraqi
freedom - 45 paesi a favore
dell'intervento contro Baghdad, di cui 15 preoccupati di
mantenere l'anonimato per timore di ripercussioni interne
- emerge infine in tutta la sua ampiezza. Una nota very
confidential del ministero della
difesa di Baghdad arrivata in qualche modo nelle mani di
alcuni giornalisti iracheni elenca infatti i 15 paesi
che, sia pur in modo occulto, darebbero il loro franco
appoggio alla superpotenza unica. Tra di essi, come era
facile prevedere, figurano sia Israele che buona parte di
quei paesi arabi i cui governi sono tradizionalmente
molto vicini a Washington: l'Arabia saudita, l'Egitto, la
Giordania, il Bahrein, l'Oman, il Qatar e il Kuwait -
questi ultimi due per la verità assai poco occulti, dal
momento che entrambi danno ospitalità a migliaia di
militari anglo-americani nelle loro basi. La lista di per
sé non è particolarmente sconvolgente, ma è
interessante per la sua contiguità con un altro elenco:
quello dei paesi per i quali il presidente Bush ha
chiesto l'altroieri al Congresso lo stanziamento di
prestiti o aiuti diretti. Ecco quindi al primo posto
delle preoccupazioni della Casa bianca rispuntare proprio
gli «alleati clandestini»: Israele dovrebbe ricevere un
miliardo di dollari in assistenza militare diretta - in
realtà ne aveva chiesti quattro - e nove miliardi in
prestiti garantiti. Per la Giordania è prevista una
prebenda di 700 milioni in aiuti economici e 406 milioni
di dollari in assistenza militare, per l'Egitto 300
milioni di dollari. E via dicendo.
Ma se la fedeltà viene ripagata in denaro sonante, ogni
minima titubanza è invece oggetto di rappresaglie
immediate: dopo aver esortato la settimana scorsa gli
Stati uniti a ritirare le truppe dispiegate al confine
con l'Iraq, la Nigeria si è vista tagliare ogni
assistenza militare. Il pretesto avanzato da Washington
sarebbe un massacro di civili perpetrato dall'esercito
nigeriano... nel 2001. Quanto alla Turchia, che non ha
concesso l'uso delle sue basi e il passaggio alle truppe
scombinando tutti i piani del Pentagono per il fronte
nord, è un alleato troppo prezioso per abbandonarlo al
suo destino. Si è quindi decisa una riduzione: invece
dei sei miliardi di dollari di aiuti diretti e 24 di
prestiti previsti inizialmente, è stato concesso ad
Ankara un miliardo di dollari di aiuti diretti.
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DA - IL MANIFESTO
Prodi: per la
Ue prova del fuoco
«Nessuno ci prenderà in considerazione fino a quando ci
affideremo agli Usa per garantirci la sicurezza».
Al plenum del Parlamento europeo, il
presidente della Commissione chiede ai 15 una politica
estera comune. E meno americana
Aiuti umanitari. Tre milioni di euro subito e altri 79 in
arrivo, così la Ue pensa di affrontare l'emergenza in
Iraq. Ma i 75 miliardi di dollari chiesti da Bush per le
operazioni militari «sono molto superiori - dice Prodi -
all'intero aiuto mondiale ai paesi poveri»
ALBERTO D'ARGENZIO
BRUXELLES
«Icittadini europei hanno già scelto. E' infatti
impressionante la volontà di pace, di multilateralismo e
di Europa, di un'Europa portatrice di pace, ma anche di
sicurezza, che è emersa negli ultimi tempi». Parole di
Romano Prodi nel pleno del Parlamento europeo. Sarà
stata l'aria dell'Eurocamera, trovarsi di fronte non a
Berlusconi, Blair ed Aznar ma ai rappresentanti di quei
cittadini europei che dicono no alla guerra, ai fogli con
impresso Stop the war
e Stop the killers
branditi a sinistra, fatto sta che ieri il presidente
della Commissione ha snocciolato un discorso che disegna
l'Europa che vorrebbe, un Europa più vicina al suo
popolo e giocoforza più lontana dalla guerra e dagli
Stati uniti. Ma al di là delle parole di Prodi, l'Europa
istituzionale rimane più che mai divisa e per metà
sorda alla piazza, una frattura che adesso, a guerra in
corso, si espande fino al Parlamento europeo, l'assemblea
che non più tardi del 30 gennaio scorso aveva censurato
l'attitudine di Bush, scommesso sugli ispettori e
dichiarato la guerra preventiva "illegittima".
Oggi è la prova del fuoco per l'Eurocamera chiamata a
votare su 6 risoluzioni sull'Iraq, 5 per ogni gruppo
politico ed una comune tra liberali, socialisti e verdi.
I pronostici disegnano voti e veti incrociati con il
risultato di privare il Parlamento, l'unica voce
istituzionale fino ad ora compatta contro la guerra, di
un parere comune. Così ieri l'Europa si ritrovava
solamente su tre punti: gli aiuti umanitari, la
necessità di preservare l'unità territoriale dell'Iraq
ed i conseguenti avvertimenti alla Turchia. Da
Commissione, Consiglio e Parlamento si sono levate
infatti minacce per nulla velate ad Ankara, l'eterno
aspirante all'Unione che fatica da morire a nascondere le
sue mire sul kurdistan iracheno. «Se il processo di
riforme (alludendo all'eccessivo peso politico
dell'esercito turco, ndr)
si dovesse interrompere o fare marcia indietro - ammoniva
il Commissario all'allargamento, il tedesco Günter
Verheugen - ciò provocherebbe un risultato nefasto»,
cioè adesione turca alle calende greche. «Veglieremo
perchè la Turchia non provochi una rottura delle
frontiere - l'eco di Prodi - non è nessuna esclusione ma
una prova del fuoco per Ankara e la nostra risposta,
visto che non abbiamo eserciti, è puramente politica».
Tempo di crisi ma anche di speranza: «L'avvenire
dell'Europa dipende dalla maniera con cui viene gestita
questa crisi», ripeteva all'infinito Romano Prodi. Un
modo per vedere qualcosa di positivo nel disastro
attuale, un po' la visione manzoniana dell'inferno, ma
anche una maniera per non fuggire la gravità della
situazione e sottolineare che l'Europa non può
permettersi di giocare male le sue carte: la Convenzione
europea e la costruzione di un soggetto politico
autonomo. «Siamo coscienti che il mondo non ci prenderà
in considerazione fino a quando continueremo a
presentarci divisi - commentava il Presidente della
Commissione - fino a quando continueremo ad affidarci
all'Unione per promuovere lo sviluppo economico e agli
Stati uniti per garantirci la sicurezza. E non vi è
alcun sentimento anti-americano in questa mia
osservazione. La mia osservazione nasce solo dalla
profonda convinzione che gli interessi europei possano
essere definiti solo in Europa e solo dagli europei».
Al di là dei desideri, la Commissione ha ribadito ieri
l'impegno europeo per i profughi e per assicurare un
pronto invio di aiuti umanitari. 3 milioni di euro, dei
21 previsti dal bilancio comunitario, sono già a
disposizione delle agenzie umanitarie, mentre altri 79
verranno chiesti al Fondo speciale di emergenza. Per la
ricostruzione Prodi parafrasava Chirac dicendo che mentre
ancora si distrugge non è il caso di pensare al dopo ma
riconosceva anche, e per la prima volta, un ruolo alla
società irachena nella ricostruzione del suo paese.
Dietro a Prodi è comunque bagarre tra i 15 sull'impegno
da prendere per rimettere in sesto l'Iraq. Infine un
commento sconsolato: "i fondi aggiuntivi richiesti
per le operazioni, pari a 74,7 miliardi di dollari (per
poche settimane di conflitto), sono molto superiori
all'aiuto che il mondo destina ogni anno ai paesi più
poveri, poco più di 50 miliardi di euro".
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DA - IL MANIFESTO
Rai, Cattaneo
direttore
Annunziata e Rumi si astengono sul nome del successore di
Saccà voluto da Berlusconi
Flavio Cattaneo. Praticamente perfetto. Presidente della
Fiera di Milano, top manager a 40 anni, legato a Paolo
Berlusconi, gradito da Bossi e ex consigliere comunale di
An a Lainate
MICAELA BONGI
ROMA
Il nome del nuovo direttore generale della Rai arriva
alle 11 di sera, dopo sei ore di riunione tra i
consiglieri d'amministrazione. Di Flavio Cattaneo,
presidente della Fiera di Milano, si scrive subito che
sarà il più giovane dg di viale Mazzini, con i suoi 39
anni, 40 in giugno. Ma del suo nome si ricorderà anche
che, alla prima votazione, ha spaccato il cda. Non solo:
su di lui, insieme al consigliere Giorgio Rumi, il
professore cattolico vicino al cardinal Ruini, si è
astenuta la presidente, Lucia Annunziata. Che, dopo aver
ipotizzato, per tre giorni, sue dimissioni in caso di
riconferma di Agostino Saccà, e dopo aver puntato
sull'unitarietà del consiglio, subisce una sconfitta al
primo atto. Vedendosi imporre uno dei candidati
sponsorizzati da Silvio Berlusconi. Ufficialmente la
giornata comincia, alle tre del pomeriggio, con
l'incontro tra la presidente e i referenti del ministero
dell'Economia. Un faccia a faccia, in via XX settembre,
direttamente con Giulio Tremonti. Che ci riprova:
Agostino Saccà va più che bene, non si capisce il
motivo della discontinuità richiesta da almeno tre
quinti del consiglio, visto che l'azienda pubblica va a
gonfie vele. Sul tavolo, si dice, ci sarebbero anche i
nomi dell'ex direttore di Raiuno e attualmente
responsabile relazioni esterne Fiat, Maurizio Beretta. Il
solito Mauro Masi e Antonio Catricalà, segretario
generale di palazzo Chigi. Ma, almeno da quanto circola
subito dopo l'incontro, si dice sia Tremonti a bocciare
anche quest'ultimo uomo, benché vicinissimo al premier.
Alla presidente, il superministro chiede, in alternativa
a Saccà, di produrre una rosa condivisa da tutto il
consiglio. Ma, mentre Lucia Annunziata si riunisce
informalmente con i quattro consiglieri, le agenzie già
battono il nome di Flavio Cattaneo come quello di colui
che, in base agli accordi, sarebbe pronto a occupare il
posto di Agostino Saccà.
Nel pomeriggio - mentre la Casa delle libertà, prima con
il nazional-alleato Alessio Butti, poi con il forzista
Giorgio Lainati e il leghista Davide Caparini, si scaglia
anche contro Raitre e il Tg3 accusandoli di faziosità
nell'informazione sulla guerra -, tra i palazzi continua
anche a circolare la candidatura di Angelo Codignoni. In
ogni caso, significa che il Cavaliere, dopo aver silurato
tutti i candidati di Annunziata, punta i piedi. Vuole
comunque un fedelissimo sul ponte di comando del servizio
pubblico. E fa il gioco delle tre carte. Il consiglio
d'amministrazione, in particolare la sua presidente, non
gradisce Codignoni e Cattaneo? Allora si torna a Saccà.
In questo caso la presidente (che non ha ancora firmato
il contratto, si fa sapere) darebbe forfait?
Allora si torna a Codignoni e Cattaneo. Il primo è un ex
dirigente Fininvest e tra i fondatori di Forza Italia.
Meno riconducibile direttamente al partito-azienda, in
apparenza, Cattaneo: presidente della Fiera di Milano,
vicino a Ignazio La Russa e già consigliere comunale di
An a Lainate. Ma in realtà indicato per la Fiera dal
forzista Paolo Romani, molto legato a Paolo Berlusconi e
nelle grazie di Umberto Bossi. Nonché, ovviamente, di
Berlusconi Silvio. Parte il pressing sui consiglieri,
che, se non impegna direttamente il premier, vede in
pista i suoi stretti collaboratori. Dopo un'ora di
pre-consiglio, dalle 17 alle 18, il cda affronta un'ora e
mezza di relazione di Agostino Saccà («ho presentato
dei conti strepitosi», dirà lui sconsolato). La
riunione poi prosegue «informalmente», si sottolinea.
Segno della difficoltà di dare il via a quella seduta
ufficiale che ha all'ordine del giorno l'indicazione del
nuovo direttore generale. Perché anche nel cda è
scontro.
La presidente e i consiglieri restano chiusi al settimo
piano per ore e ore, con Annunziata pronta a fare
nottata. Fuori da viale Mazzini si dice che però
l'indicazione del governo sarebbe chiara: il nome deve
venire fuori entro la notte, con o senza l'accordo della
presidente. Che, come si vedrà, ha sbilanciato dalla sua
parte il professor Giorgio Rumi.
Alle dieci di sera i consiglieri sono ancora riuniti.
Stanno discutendo della rosa di nomi: si parla di
Antonello Perricone, ex amministratore delegato della
Sipra (già in Publitalia). Sarebbe il candidato della
presidente, ma non avrebbe intenzione di tornare in Rai.
Poi sul tavolo c'è la candidatura di Gianfranco
Virgilio. Il nome vero della terna sembra subito essere
il terzo, quello di Flavio Cattaneo, appunto.
La riunione formale del consiglio d'amministrazione
riprende solo alle dieci e mezza di sera. Mezz'ora dopo
il designato è Cattaneo. Subito viene dato in quota An.
Ma il vero vincitore si chiama Berlusconi.
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DA - IL MANIFESTO
CATILINARIE
La
Quercia accusa Cofferati
C. ROS.
Un intervento «sconcertante e inaccettabile». Scomodano
parole di grosso calibro, i Ds, per replicare a un lungo
affondo dal titolo «il leader siderale» che dal 20
marzo scorso trova posto a firma Catilina nella sezione
«interventi» del sito della Fondazione Di Vittorio
presieduta da Sergio Cofferati. E, certamente, se non
fosse per il nome del presidente della fondazione e per
l'alone di mistero che suscitano gli pseudonimi (oltre
che per l'Agi, che ieri se n'è accorta), nessuno si
scandalizzerebbe di ragionamenti che vengono fatti a voce
alta nei corridoi del parlamento e in molte stanze della
sinistra. Ma poiché del sito ufficiale di Cofferati si
tratta, e di uno pseudonimo da nemico di Cicerone che
calaza a pennello all'immagine che l'Ulivo ha del cinese,
la cosa assume tutto un altro contorno. Dice il
misterioso Catilina nel suo ragionamento sulla frattura
tra gli interessi di governati e governati e sulla crisi
della partecipazione democratica nelle società avanzate:
«Purtroppo oggi, nell'Italia che si considera di
sinistra continua a sopravvivere una classe dirigente che
ha perduto anzitutto coscienza di esserlo. Come se il
potere fosse diventato l'unico tratto dirimente della
battaglia politica, e la sua perdita richiedesse solo una
totale dedizione alla riconquista». Sennonché, prosegue
l'intervento, «al cittadino di sinistra, persino
militante tale riconquista personale non appartiene, non
interessa. Almeno come valore in sé». Sono dunque
«l'oligarchia e l'autoreferenzialità» che «bloccano,
oggi, il nuovo e trascinante interesse dei cittadini
verso la partecipazione». E allora, suggerisce Catilina,
«quando il Re capisce di essere nudo, e solo, esce di
scena. Quando ha perduto anche la dignità della
comprensione generale, occorre accompagnarlo
all'uscita».
«C'è in quelle frasi un disprezzo di fondo verso le
regole della democrazia - replica la nota dell'ufficio
stampa Ds - A preoccupare e amareggiare di più è la
scelta di colpire un gruppo dirigente non confrontandosi
con le sue idee, ma sul piano della sua presunta
immoralità». Il punto, per la Quercia, è sempre quello
della delegittimazione. Da mesi, del resto, la
maggioranza della Quercia va in giro dicendo che il
successo di Cofferati e le sue critiche all'Ulivo puntano
a delegittimare il gruppo dirigente della coalizione.
Come se non esistesse davvero un divario profondo tra i
partiti dell'Ulivo e il popolo della sinistra e della
pace: come ampiamente rappresentato dal successo della
manifestazione pacifista dei movimenti di sabato scorso
rispetto alla passerella dell'Ulivo.
«Speravamo che metodi del genere fossero sepolti nel
passato, purtroppo non è così - continua la nota Ds -
Ma su queste basi non si costruisce nulla. Su queste basi
si distrugge. Ci chiediamo se sia moralmente e
politicamente accettabile che il sito della Fondazione
del principale sindacato dei lavoratori italiani sia
utilizzato per inaccettabili aggressioni ai dirigenti del
partito nel quale si identificano e si riconoscono
milioni di lavoratori». Rincara l'ultras dalemiano
Peppino Caldarola: «Siamo su un terreno eversivo, lo
definirei `mussolinismo' puro...».
Vero è che non è nei soli Ds che si riassume la
sinistra (con i suoi vizi) e che il ragionamento è dei
meno sconvolgenti. Resta però l'anonimato, dietro il
quale una polemica così aspra fa supporre si voglia
individuare Cofferati stesso. Pierluigi Bersani - della
segretaria Ds - lo esclude, così come la Fondazione
assicura che si tratta di un collaboratore. Certo è che
il misterioso Catilina anche ieri è tornato in azione in
difesa del leader della Cgil Guglielmo Epifani, accusato
di equidistanza per aver detto che scegliere la pace
significa non stare «né con Bush né con Saddam».
Contro chi lo ha messo alla gogna brandendo comunque la
bandiera della democrazia occidentale Catilina accusa:
«Questo sistema binario della semplificazione del mondo
in due, bianco e nero, ci ricorda la peggiore America e
il peggiore Islam».
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DA - IL CORRIERE DELLA SERA
Export bellico,
ratificate le modifiche alla 185
Forti critiche dall'opposizione e dalle
associazioni: «Così si smantella una buona legge, hanno
vinto i mercanti di armi»
ROMA - Non sono servite le proteste del
cartello «Contro i mercanti di armi» e
dell'opposizione. Il Senato ha approvato il disegno di
legge che ratifica l'accordo di Farnborough, in modifica
alla legge sull'export di materiale bellico dall'Italia,
la 185 del 1990. Ora il provvedimento dovrà passare al
vaglio della Camera per la seconda volta, dopo il voto
del giugno scorso, che aveva però rilanciato la palla a
Palazzo Madama.
FARNBOROUGH - L'accordo di Farnborough, firmato il 27
luglio 2000 dai ministri della Difesa di sei Paesi
europei (Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Spagna e
Svezia) ha come obiettivo quello di rafforzare la difesa
comune dell'Unione europea. I sei Paesi firmatari, che
coprono il 90% dell'intera produzione europea degli
armamenti convenzionali, non dovranno più sottostare
alla procedure di autorizzazione per l'export di armi in
vigore fino a oggi; al loro posto viene introdotta la
cosiddetta «licenza globale di progetto», che permette
all'impenditore che abbia avviato un accordo con una
ditta di uno dei Paesi firmatari di non sottostare al
controllo del proprio Governo e Parlamento (che fino ad
oggi era obbligatorio per tutti, senza distinzioni). In
questo modo non sarà più possibile avere una mappa
dell'export di armi italiane verso altri Paesi del mondo.
Se la legge sarà approvata in via definitiva si
arriverà a una forte liberalizzazione nel settore: per
fare un altro esempio, il comma che prevede
l'impossibilità di vendere materiale bellico a Paesi non
rispettosi dei diritti umani viene sostituito con la
dicitura «gravi violazioni dei diritti umani». Il
Governo, al momento di autorizzare atti di esportazione,
non sarebbe più tenuto a sentire il parere di
associazioni internazionali come Amnesty International o
Medici Senza Frontiere. Infine non sarebbe più possibile
conoscere le banche implicate nel commercio di armi e le
dogane non sarebbero più tenute a fornire dati sulle
merci.
REAZIONI - «Hanno vinto i mercanti di armi, il Governo
si sporca le mani di sangue» ha commentato a caldo
l'opposizione dopo il voto, definendo la legge 185 in via
di estinzione una norma giusta ed equilibrata. «È
gravissimo che la maggioranza parlamentare voti un
provvedimento che modifica la legge vigente sul commercio
delle armi proprio mentre è in corso un conflitto - ha
detto un gruppo di diessini -. Le nuove disposizioni
rispondono alla pressioni delle lobby di fabbricanti di
armi, che avranno il risultato di allentare i controlli
finanziari, favorire il commercio di armi, attenuare le
possibilità di controllo da parte del Parlamento,
consentire triangolazioni commerciali anche con paesi che
violano i diritti umani». Ancora più duro Pietro Folena
(Ds) l'approvazione del disegno di legge è la
«dimostrazione del fatto che coloro che oggi si battono
il petto in pubblico per aver permesso la vendita delle
armi a Saddam e a cento altri dittatori sparsi nel mondo,
in realtà non hanno per nulla cambiato idea».
Soddisfazione invece da parte della maggioranza, che
sottolinea il graduale rafforzamento della struttura
difensiva europea. Infine, sono durissimi i commenti
delle associazioni. «Il Parlamento italiano si è
assunto la responsabilità di distruggere una delle leggi
più avanzate in materia di commercio delle armi» ha
dichiarato Nicoletta Dentico, direttore generale di
Medici Senza Frontiere. «È scandaloso - aggiunge Tonio
Dell'Olio, coordinatore nazionale Pax Christi - che
l'Italia, in un momento così delicato come quello che
stiamo vivendo, abbia deciso di procedere
all'eliminazione di quelle importanti forme di garanzia e
controllo che hanno regolamentato il commercio di armi
fino a oggi». Altre associazioni, tra cui Amnesty
International, l'Associazione Obiettori Nonviolenti,
Campagna Italiana contro le mine, Missione Oggi, Nigrizia
e Rete Lilliput, hanno espresso l'opinione che con
l'approvazione della legge l'Italia sarà oggetto di un
grosso passo indietro e rinuncerà a una legislazione
considerata molto all'avanguardia rispetto agli altri
Paesi europei, per trasparenza e controlli.
27 marzo 2003
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DA - IL SOLE 24 ORE
Fiat conferma:
il 2002
"anno orribile" per i
contiLa capogruppo ha perso 2 miliardi, consolidato in
"rosso" di 4,2 miliardi. Nessun dividendo come
nel 1945, '46, '47 e '94. Titoli in pesante ribasso.
Fiat Spa, 2 miliardi di perdite nel 2002
Fiat Spa ha
chiuso con una perdita netta di circa 2 miliardi il
bilancio 2002, approvato oggi dal Consiglio di
amministrazione del gruppo torinese che si è riunito
sotto la presidenza di Umberto Agnelli. La perdita -
recita una nota - è dovuta principalmente
all'adeguamento dei valori di carico delle partecipate.
Il Consiglio di amministrazione ha deciso di convocare
l'assemblea degli azionisti per il 10 maggio prossimo (il
13 maggio in seconda coinvocazione) a cui sarà proposto
di non distribuire alcun dividendo e di rinnovare il
Consiglio di amministrazione.
Il gruppo ha perso 4,2 miliardi di euro
Il Consiglio di amministrazione della Fiat ha anche
approvato il bilancio consolidato del gruppo del 2002, i
cui risultati erano stati annunciati il 28 febbraio
scorso, chiuso con una perdita di circa 4,2 miliardi. Nel
corso della riunione - prosegue la nota del Lingotto - è
stato anche esaminato lo stato di avanzamento del piano
di dismissioni di cui «è stata rilevata l'accelerazione
e la qualità delle operazioni che hanno già portato
alla conclusione degli accordi per la cessione del 51% di
Fidis Europe e della Toro Assicurazioni».
Il rinnovo del Cda che sarà proposto all'assemblea dei
soci è motivato oltre che dal numero di consiglieri in
scadenza, anche dall'esigenza di «dotare la società di
un organo amministrativo con adeguata presenza di
consiglieri, con caratteristiche di indipendenza, secondo
le nuove regole di corporate governance».
Solo quattro gli esercizi senza dividendo
Sono stati quattro, nella centenaria storia della Fiat,
gli esercizi di bilancio per i quali gli azionisti
dell'azienda torinese non hanno percepito dividendi. Tre
esercizi, il 1945-46-47, furono quelli sucessivi alla
guerra, mentre per l'ultimo si va indietro di dieci anni.
Per il bilancio '94, inoltre, la società decise di
distribuire il dividendo soltanto alle azioni di
risparmio e non a quelle privilegiate e ordinarie.
Termini Imerese aperta sino al 30 aprile
Lo stabilimento Fiat di Termini Imerese proseguirà la
produzione fino al 30 aprile prossimo. Lo hanno deciso i
sindacati e i dirigenti dell'azienda che si sono riuniti
nella sede dell'Assindustria palermitana.
Lo stabilimento doveva fermarsi nuovamente il 4 aprile
prossimo, secondo il piano governo-azienda che prevede la
Cassa integrazione per i 2.200 lavoratori. L'alluvione
che ha bloccato il lavoro nello stabilimento di Termoli
ha provocato un ritardo nella produzione di 50mila
autovetture tra cui 10mila Punto. Questo ritardo adesso
dovrà essere recuperato.
Il 7 aprile prossimo si svolgerà un altra riunione
sindacati-azienda per discutere il futuro dello
stabilimento di Termini in vista dell' annunciata
riapertura definitiva prevista per settembre. Il delegato
Fiom della fabbrica di Termini, Roberto Mastrosimone,
dice che «gli operai sono contenti di continuare a
lavorare ma guardano con preoccupazione a settembre. La
Fiat vuole un sistema di lavoro e flessibilità che noi
non condividiamo».
Le previsioni dopo la semestrale 2002
Il gruppo Fiat prevedeva, al tempo della presentazione
della semestrale il 27 luglio scorso, che l'esercizio
2002 dal punto di vista della redditività operativa si
sarebbe chiuso con una perdita operativa "in linea
con quella consolidata registrata nella prima parte
dell'anno (528 milioni di euro)", per effetto della
performance di Fiat Auto. Nella seconda parte del 2002,
peraltro, Fiat Auto prevedeva di iniziare a registrare i
benefici delle azioni di risanamento e delle strategie di
rilancio.
Secondo il gruppo Fiat, nella seconda parte del 2002, sul
fronte del mercato avrebbero dovuto giocare a favore di
un recupero di volumi e quote, il graduale miglioramento
della congiuntura economica internazionale e, in Italia,
l'effetto degli incentivi all'acquisto di auto
ecologiche.
Ma, si legge nella nota del gruppo torinese, a dettare
cautela nelle previsioni restava anche la probabile
necessità di Fiat Auto di contrastare adeguatamente le
aggressive iniziative di sostegno alle vendite dei
concorrenti. Nella nota si ricordava che la struttura
finanziaria del gruppo si era rafforzata
significativamente grazie alla conclusione dell'accordo
con le principali banche che aveva portato al prestito
convertibile di 3 miliardi di euro firmato nei giorni
precedenti.
Ancora una seduta pensante per i titoli Fiat
Ancora una seduta pesante per la scuderia Fiat a Piazza
Affari.
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DA - IL MESSAGGERO
SABBIA
ROSSA DI SANGUE
dal nostro
inviato
VALERIO PELLIZZARI
dal nostro inviato
VALERIO PELLIZZARI
Bagdad
IN UNO dei quartieri poveri, che la pioggia e il cielo
senza luce nel terzo giorno di tempesta rendono ancora
più squallido, quindici civili sono morti e una trentina
sono rimasti feriti, colpiti da due missili che gli
iracheni attribuiscono agli americani. Anche questi
civili sono entrati in quel bilancio delle vittime
fluido, opaco, che iracheni ed americani compilano
faticosamente, ciascuno riducendo le proprie perdite e
gonfiando invece quelle nemiche. Poco dopo
lesplosione, nel quartiere sciita che genericamente
è dedicato al "popolo", cerano già gli
striscioni degli scudi umani che ripetevano il loro no
alla guerra, inascoltati più che mai. Ieri è stato il
secondo giorno di bombardamento ostinato, pesante, che
perfora i timpani, i nervi, i cervelli degli abitanti di
Bagdad. Subiscono con rassegnazione stremata questa
guerra lenta e per niente miracolosa che gli americani
promettevano.
Cadono bombe che percuotono la terra e gli edifici con un
rombo metallico tremendo, prima ancora di esplodere e
causare le loro devastazioni. Dice la gente che Allah
mostra la sua irritazione per quello che vede scatenando,
per il terzo giorno appunto, una tempesta sempre più
ostile agli invasori. Ieri, in due precisi momenti della
giornata, il cielo era diventato letteralmente rosso,
come nemmeno gli iracheni che vivono qui ricordavano da
anni. Un filtro rosso messo dalla natura a confondere
ancora di più i pensieri delle donne e degli uomini.
Lingegner Hussein sembra dominare queste giornate
tragiche: «Avranno già fatto cadere quattromila bombe e
missili, penso che siano molto precisi».
Sulla riva del Tigri cè lospedale delle
suore domenicane dedicato a San Raffaele. Lì di fronte,
sullaltra riva, sorge uno dei palazzi presidenziali
sul quale le bombe si accaniscono. Gli echi, i vuoti
daria, i brividi della terra tormentata rimbalzano
immediatamente sullospedale, le suore e i loro
pazienti. Lì non sono ricoverati i feriti dei due
missili caduti nel quartiere sciita, ma altre vittime
meno visibili colpite dalla "sindrome della
paura". Lì da quando è scoppiata la guerra ogni
giorno nasce qualche bambino, come avveniva anche in
passato, ma il numero dei nati è sempre inferiore al
numero degli aborti. Lincubo delle bombe perseguita
le donne incinte, le rende più deboli, indifese, ed i
bambini muoiono prima di nascere. Un giorno ci sono state
due nascite e sette aborti. Così raccontano le suore e i
medici. Raccontano anche che i bambini più fortunati,
quelli che entrano in questo mondo ma che vengono subito
accompagnati dalla pioggia delle bombe, appaiono nervosi,
impauriti, marchiati. Questa non è la propaganda del
regime, sono testimonianze autentiche. I bombardamenti
non eliminano Saddam ma si portano dietro altre vittime
totalmente indifese. Ogni giorno di più in questa città
la parola guerra sembra una parola impropria, dove i
bersagli civili sono i veri bersagli.
Le bombe hanno danneggiato la televisione irachena, dalla
quale ogni giorno il raìs lanciava i suoi messaggi e le
sue direttive. In questa guerra dove la propaganda ha un
ruolo strategico, dove una sola immagine diventa più
efficace di molti missili, le autorità irachene
continuano a contestare le affermazioni americane. Negano
che la popolazione di Bassora abbia accolto gli
occidentali con entusiasmo e lancio di fiori. Dicono che
a Umm Qasr gli invasori sono stati fermati
dallesercito e non dalla Guardia repubblicana, come
invece sostengono gli stranieri per dimostrare che solo
le truppe scelte sono determinate a combattere. E dicono
che Saddam ha registrato il suo ultimo messaggio
esattamente allora della preghiera e non prima.
Ancora una volta il regime sostiene che lelicottero
Usa colpito a Kerbala è stato vittima di un contadino
armato solo di un kalashnikov.
Dopo aver ignorato per molti giorni largomento
petrolifero le autorità di Bagdad hanno ricordato che i
giacimenti iracheni mettono il Paese al primo posto nella
gerarchia mondiale, davanti ai sauditi. E così in
realtà dicono le scoperte degli ultimi anni nel deserto
occidentale del Paese. Un Eldorado del quale in queste
ultime settimane nessuno parla. Bagdad ritorna invece
ogni giorno sui meriti e il coraggio delle forze tribali,
messe spesso al primo posto nella gerarchia militare.
Sono questi guerrieri che hanno fermato gli americani
attorno alla città santa di Najaf.
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DA - L'UNITA'
Aiuti, non
arriva nulla. Bush: guerra lunga. Il Pentagono invia
altri 110 mila soldati
di Piero Sansonetti
Il disastro umanitario cè già.
LIraq è sotto assedio, si sta trasformando in un
cimitero. La gente ha paura delle bombe, ma soprattutto
ha paura della fame e della sete. Ieri sono fuggiti a
migliaia da Bassora, alla ricerca di un po
dacqua. Lacquedotto è a secco, distrutto
dalle bombe inglesi. Gli occidentali avevano promesso
aiuti agli iracheni, ma non arriva niente di niente,
siamo sullorlo della carestia. Dal porto di Umm
Qasr si vede sempre quella nave al largo, ma non riesce
ad attraccare. Sono quattro giorni che gli angloamericani
dicono che domani attraccherà e che è piena di aiuti
alimentari e acqua potabile, ma poi non succede.
Evidentemente gli alleati non hanno ancora il controllo
del porto. Finora gli unici aiuti arrivati in Iraq sono
quelli inviati dal Kuwait: qualche camion con un po
di cibo buono per sfamare per una giornata cinque o
seimila persone. Basta.
Tanto che ora i problemi cominciano ad esserci
pure per gli assedianti. Alcuni reparti americani sono a
corto di scorte e hanno dovuto tagliare i pasti: due al
giorno, non più tre. Quello che non manca sono le bombe.
Ieri per lottavo giorno consecutivo Baghdad è
stata colpita a tappeto. Ormai i morti tra i civili non
si contano più. Gli aerei arrivano più o meno ogni due
ore, giorno e notte, e le esplosioni sono quasi
ininterrotte. Ieri hanno colpito un quartiere
residenziale al sud della città, ed è stata un altra
carneficina. Come quella del giorno prima al mercato. Per
quanto tempo ancora gli americani pensano di tenere
questo livello di «pressione aerea»? Molto presto
Baghdad sarà ridotta a un mucchietto di macerie, e non
è bello che la più moderna potenza mondiale, cioè gli
Stati Uniti, cancelli dalla terra una delle città più
antiche e più ricche di storia, di archeologia, di
ricordi della nostra civiltà. Sul versante militare
quella di ieri è una giornata abbastanza statica. È
stato aperto dai paracadutisti americani un fronte nord,
che dovrebbe permettere nei prossimi giorni di stringere
lassedio alla capitale. Ieri la Cnn ha fatto sapere
che il Pentagono entro il prossimo mese mobiliterà altri
110mila uomini in più per la guerra, portando così a
400mila il numero dei soldati Usa nellarea. Le
truppe che stanno avanzando da Sud sembrano per ora
ferme, a un centinaio di miglia della città, accampate,
e ogni tanto attaccate dai combattenti «saddamisti»
irregolari. Al sud, situazione immutata. Bassora non cade
e non cadono le atre città. Intorno a molte di esse si
combatte ininterrottamente e i soldati muoiono a
centinaia e a migliaia. Ieri il «New York Times»
pubblicava a tutta pagina questo titolo: «LIraq
offre fiera resistenza alle forze americane». La parola
inglese usata dal New York Times è «fierce», che può
essere tradotta o «fiera» o «feroce», quindi può
avere un significato positivo o negativo. Però esprime
lo stupore per una capacità di combattimento degli
iracheni, e per un attaccamento alla patria che gli
americani non si aspettavano assolutamente. Non
lavevano previsto nè i servizi segreti, né i
politici, né i giornalisti , né lopinione
pubblica. È questa la novità essenziale: non è solo
una novità militare, è anche politica. Gli Usa erano
convinti che il regime di Saddam fosse piantato sulla
sabbia. Che bastasse soffiare forte e dare una speranza
di liberazione al popolo per spazzarlo via. È chiaro che
non è così. Alcune informazioni giunte ad Occidente
sulla brutalità dei metodi di governo di Saddam verso le
minoranze e verso le opposizioni sono state scambiate per
le prove di un regime senza consenso. È stato un errore
di valutazione strategica molto grave. Con conseguenze
che possono essere devastanti, sia nella condotta della
guerra sia - eventualmente - nella gestione
dellIraq dopo la possibile caduta di Baghdad.
LIraq può trasformarsi per gli americani in quello
che negli anni 80 fu lAfghanistan per i
Russi.
È probabile che di queste cose abbiano parlato ieri, nei
loro lunghi colloqui a Camp David (Maryland), Bush e
Blair. Tra loro non cè più lassoluta
identità di vedute che cera fino a un mese fa.
Bush considera questa guerra la «sua» guerra, e si
disinteressa ai problemi politici che gli vengono posti
da Blair. Primo fra tutti quello del recupero di un ruolo
per lOnu e per lEuropa. A Bush tutto ciò non
interessa. Allipotesi avanzata da Blair di affidare
allOnu la gestione del dopo-guerra, Powell (cioè
il più moderato tra i capi della Casa Bianca) ha
risposto: «Non ci siamo accollati questo immenso peso
per rinunciare a un controllo dominante sul futuro
dellIraq». Sulla condotta della guerra invece -
dopo lincontro con Blair - è stato lo stesso Bush
a rispondere ai giornalisti. Un po infastidito:
«Quanto tempo ci vorrà? Ci vorrà tutto il tempo
necessario per vincere. Tutto il tempo necessario: non
cè una questione di scadenze, è una questione di
vittoria...». Blair e Bush hanno discusso anche della
questione degli aiuti. Cioè delle possibilità di
evitare una strage per fame della popolazione irachena.
Non hanno trovato nessuna soluzione. Blair ha solo
ottenuto una dichiarazione di principio. E cioè il via
libero al ripristino del piano «oil for food» (petrolio
per cibo). Si tratta del piano umanitario-commerciale
stabilito dallOnu nel 96, che permette
allOccidente di aggirare lembargo (cioè il
blocco di tutti i commerci con lIraq) e di
scambiare cibo e medicine col petrolio di Saddam. Questo
cibo e queste medicine sono lunica fonte di
sostentamento per il 60 per cento della popolazione
dellIraq. Attualmente lOnu è in possesso di
40 miliardi di dollari per i pagamenti di petrolio già
inviato dallIraq, e dovrebbe trasformarli in cibo e
medicine. Ma è impossibile, perché lassedio degli
anglo-americani ha bloccato le comunicazioni. Il cibo non
può essere distribuito. Blair e Bush si sono dichiarati
pronti a sbloccare «oil for food», ma a condizione che
sia gestito non dal governo iracheno. Dal momento che il
90 per cento delle territorio abitato iracheno è sotto
il controllo governativo, lo sblocco degli aiuti è
puramente formale. LUnicef ha chiesto
lapertura di corridoi umanitari, per fare arrivare
il cibo alle popolazioni, ma non ha avuto risposta.
Ha avuto invece risposta lArabia Saudita, che aveva
proposto un piano di pace basato sul cessate il fuoco. Il
ministro americano Rumsfeld, nel corso di
unaudizione al Senato, ha escluso che possa essere
presa in considerazione qualsiasi ipotesi di cessate il
fuoco.
Intanto il super-ispettore dellOnu, Hans Blix, ha
dichiarato ai giornalisti che fino ad ora l'Iraq non ha
usato nessun missile Scud (i missili proibiti a Bagdad
dalla risoluzione dellOnu del 1991). Il governo
inglese però ha dichiarato ai giornalisti di «avere
prove certe che Saddam Hussein sta pensando ad usare armi
chimiche».
[FIRMA-DX]Piero Sansonetti
Il disastro umanitario cè già. LIraq è
sotto assedio, si sta trasformando in un cimitero. La
gente ha paura delle bombe, ma soprattutto ha paura della
fame e della sete. Ieri sono fuggiti a migliaia da
Bassora, alla ricerca di un po dacqua.
Lacquedotto è a secco, distrutto dalle bombe
inglesi. Gli occidentali avevano promesso aiuti agli
iracheni, ma non arriva niente di niente, siamo
sullorlo della carestia. Dal porto di Umm Qasr si
vede sempre quella nave al largo, ma non riesce ad
attraccare. Sono quattro giorni che gli anglo-americani
dicono che domani attraccherà e che è piena di aiuti
alimentari e acqua potabile, ma poi non succede.
Evidentemente gli alleati non hanno ancora il controllo
del porto. Finora gli unici aiuti arrivati in Iraq sono
quelli inviati dal Kuwait: qualche camion con un po
di cibo buono per sfamare per una giornata cinque o
seimila persone. Basta.
Tanto che ora i problemi cominciano ad esserci
pure per gli assedianti. Alcuni reparti americani sono a
corto di scorte e hanno dovuto tagliare i pasti: due al
giorno, non più tre. Quello che non manca sono le bombe.
Per lottavo giorno consecutivo Bagdad è stata
colpita a tappeto. Ormai i morti tra i civili non si
contano più. Gli aerei arrivano più o meno ogni due
ore, giorno e notte, e le esplosioni sono quasi
ininterrotte. Ieri hanno colpito un quartiere
residenziale al sud della città, ed è stata un altra
carneficina. Come quella del giorno prima al mercato. Per
quanto tempo ancora gli americani pensano di tenere
questo livello di "pressione aerea"? Molto
presto Baghdad sarà ridotta a un mucchietto di macerie,
e non è bello che la più moderna potenza mondiale,
cioè gli Stati Uniti, cancelli dalla terra una delle
città più antiche e più ricche di storia, di
archeologia, di ricordi della nostra civiltà.
Sul versante militare quella di giovedì è una giornata
abbastanza statica. E stato aperto dai
paracadutisti americani un fronte nord, che dovrebbe
permettere nei prossimi giorni di stringere
lassedio alla capitale. Le truppe che stanno
avanzando da Sud sembrano per ora ferme, a un centinaio
di miglia della città, accampate, e ogni tanto attaccate
dai combattenti "saddamisti" irregolari. Al
sud, situazione immutata. Bassora non cade e non cadono
le atre città. Intorno a molte di esse si combatte
ininterrottamente e i soldati muoiono a centinaia e a
migliaia. Ieri il "New York Times" pubblicava a
tutta pagina questo titolo: «LIraq offre fiera
resistenza alle forze americane». La parola inglese
usata dal New York Times è "fierce", che può
essere tradotta o "fiera" o "feroce",
quindi può avere un significato positivo o negativo.
Però esprime lo stupore per una capacità di
combattimento degli iracheni, e per un attaccamento alla
patria che gli americani non si aspettavano
assolutamente. Non lavevano previsto nè i servizi
segreti, né i politici, né i giornalisti , né
lopinione pubblica. E questa la novità
essenziale: non è solo una novità militare, è anche
politica. Gli Usa erano convinti che il regime di Saddam
fosse piantato sulla sabbia. Che bastasse soffiare forte
e dare una speranza di liberazione al popolo per
spazzarlo via. E chiaro che non è così. Alcune
informazioni giunte ad Occidente sulla brutalità dei
metodi di governo di Saddam verso le minoranze e verso le
opposizioni sono state scambiate per le prove di un
regime senza consenso. E stato un errore di
valutazione strategica molto grave. Con conseguenze che
possono essere devastanti, sia nella condotta della
guerra sia - eventualmente - nella gestione
dellIraq dopo la possibile caduta di Baghdad.
LIraq può trasformarsi per gli americani in quello
che negli anni 80 fu lAfghanistan per i
Russi.
E probabile che di queste cose abbiano
parlato, nei loro lunghi colloqui a Camp David
(Maryland), Bush e Blair. Tra loro non cè più
lassoluta identità di vedute che cera fino a
un mese fa. Bush considera questa guerra la
"sua" guerra, e si disinteressa ai problemi
politici che gli vengono posti da Blair. Primo fra tutti
quello del recupero di un ruolo per lOnu e per
lEuropa. A Bush tutto ciò non interessa.
Allipotesi avanzata da Blair di affidare
allOnu la gestione del dopo-guerra, Powell (cioè
il più moderato tra i capi della Casa Bianca) ha
risposto: «Non ci siamo accollati questo immenso peso
per rinunciare a un controllo dominante sul futuro
dellIraq». Sulla condotta della guerra invece -
dopo lincontro con Blair - è stato lo stesso Bush
a rispondere ai giornalisti. Un po infastidito:
«Quanto tempo ci vorrà? Ci vorrà tutto il tempo
necessario per vincere. Tutto il tempo necessario: non
cè una questione di scadenze, è una questione di
vittoria...».
Blair e Bush hanno discusso anche della questione degli
aiuti. Cioè delle possibilità di evitare una strage per
fame della popolazione irachena. Non hanno trovato
nessuna soluzione. Blair ha solo ottenuto una
dichiarazione di principio. E cioè il via libero al
ripristino del piano "oil for food" (petrolio
per cibo). Si tratta del piano umanitario-commerciale
stabilito dallOnu nel 96, che permette
allOccidente di aggirare lembargo (cioè il
blocco di tutti i commerci con lIraq) e di
scambiare cibo e medicine col petrolio di Saddam. Questo
cibo e queste medicine sono lunica fonte di
sostentamento per il 60 per cento della popolazione
dellIraq. Attualmente lOnu è in possesso di
40 miliardi di dollari per i pagamenti di petrolio già
inviato dallIraq, e dovrebbe trasformarli in cibo e
medicine. Ma è impossibile, perché lassedio degli
anglo-americani ha bloccato le comunicazioni. Il cibo non
può essere distribuito. Blair e Bush si sono dichiarati
pronti a sbloccare "oil for food", ma a
condizione che sia gestito non dal governo iracheno. Dal
momento che il 90 per cento delle territorio abitato
iracheno è sotto il controllo governativo, lo sblocco
degli aiuti è puramente formale. LUnicef ha
chiesto lapertura di corridoi umanitari, per fare
arrivare il cibo alle popolazioni, ma non ha avuto
risposta.
Ha avuto invece risposta lArabia Saudita, che aveva
proposto un piano di pace basato sul cessate il fuoco. Il
ministro americano Rumsfeld, nel corso di
unaudizione al Senato, ha escluso che possa essere
presa in considerazione qualsiasi ipotesi di cessate il
fuoco.
Intanto il super-ispettore dellOnu, Hans Blix, ha
dichiarato ai giornalisti che fino ad ora l'Iraq non ha
usato nessun missile Scud (i missili proibiti a Bagdad
dalla risoluzione dellOnu del 1991). Il governo
inglese però ha dichiarato ai giornalisti di «avere
prove certe che Saddam Hussein sta pensando ad usare armi
chimiche».
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DA - L'UNITA'
New York,
pacifisti sdraiati sulla Quinta strada allora di
punta
di Roberto Rezzo
NEW YORK. Contro la guerra è iniziata la
disobbedienza civile nel centro di Manhattan. Ieri
mattina centinaia di pacifisti si sono sdraiati in mezzo
alla Quinta Avenue, all'altezza della 50ma Strada,
proprio di fronte al Rockfeller Center, paralizzando il
traffico dell'ora di punta. Si chiama die-in la nuova
forma di protesta: ci si sdraia immobili per terra, come
i morti ammazzati sotto le bombe a Baghdad. I poliziotti
sono intervenuti in forze, il volto coperto dai caschi
antisommossa e ha portato via i dimostranti di peso uno a
uno (oltre un centinaio), li ha ammanettati con lacci di
plastica e caricati sui cellulari verso il commissariato.
I pacifisti non hanno intenzione di arrendersi, al
sindaco Bloomberg e alla Casa Bianca mandano a dire che,
sino a quando le truppe Usa non si saranno ritirate dal
Golfo, a New York «non si farà business come al
solito».
Mercoledì contro la campagna militare in Iraq ha preso
la parola la Columbia University, la più grande e
prestigiosa istituzione culturale della città,
rilanciando una tradizione cominciata negli Stati Uniti
durante gli anni '60, ai tempi della guerra in Vietnam:
il teach-in. Oltre trenta eminenti professori hanno
tenuto brevi lezioni della durata di circa un quarto
d'ora ciascuna su tutti gli aspetti e le implicazioni di
questa guerra. «Occorrono conoscenze tecniche per
confrontarsi con il potere - ha spiegato all'Unità
Victoria di Grazia, docente del dipartimento di Storia,
tra gli organizzatori dell'iniziativa - In quest'epoca di
comunicazioni Internet, tutti crediamo di avere le idee
chiare sul mondo, ma di fronte a questa guerra post
moderna ci accorgiamo di essere degli sprovveduti».
Accademici di tutte le discipline si sono alternati dalle
sei del pomeriggio a mezzanotte sotto la cupola della Low
Library, hanno smontato pezzo a pezzo le argomentazione
con cui l'amministrazione Bush ha trascinato gli Stati
Unti in un conflitto «che viola tutti i principi del
diritto internazionale». Centinaia di studenti ad
ascoltare in sala, molti di più quelli rimasti in fila,
sotto la pioggia, come neppure per una prima a Broadway,
ad aspettare che si liberasse un posto per entrare. In
tutto oltre tremila hanno seguito liniziativa.
«Parole, parole, parole. Che senso ha stare
qui a parlare mentre già si spara, quando già si muore?
- domanda Barbara Fields, professore di Storia, in uno
degli interventi più applauditi - Perché dobbiamo
riappropriarci di un linguaggio capace di contrapporre la
verità a questa propaganda di morte, alle menzogne di
questa amministrazione». È urgente ristabilire un
principio di verità per capire la reale portata delle
scelte di politica estera abbracciate dal presidente
Bush. «In gergo si dice coprire la notizia - scherza
Todd Gitlin, docente di giornalismo - ma qui a forza di
coprire non si vede più niente. Cercate informazioni su
Internet, guardate i canali stranieri, perché i nostri
network televisivi, Cnn in testa, ci raccontano storie
che nessuno al mondo crede, ci tengono in mezzo a una
bolla di bugie». I dati di un sondaggio rivelano gli
effetti di questa campagna servile e orchestrata dei mass
media: il 50% degli americani è convinto che fra i
dirottatori dell'11 settembre vi fossero diversi
iracheni, il 23% non sa che rispondere e solo 17% la
verità: nessun iracheno. Dal punto di vista dei
professori del diparimento di Giurisprudenza, il problema
della legittimità della guerra in Iraq neppure si pone:
è un'occupazione illegale, viola lo statuto delle
Nazioni Unite. «Powell dice sciocchezze quando sostiene
che la risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza
contiene un'autorizzazione automatica all'uso della
forza. Se fosse così non sarebbe mai stata votata
all'unanimità, Siria compresa».
La Casa Bianca sta cercando di costruire un
impero senza egemonia, facendo conto sulla sua potenza
militare, ma non fa i conti con la storia: più gli
imperi si espandono a colpi di aggressioni, più aumenta
il numero dei loro nemici e quindi la loro debolezza.
«Siamo governati da un tirannosauro col cervello di
gallina», denunciano i professori e Zainab Bahrani
ricorda che sotto i bombardamenti dei missili
intelligenti è stata distrutta l'Università di Baghdad,
una delle più antiche del mondo, l'ateneo che è stato
il centro culturale di tutta la Mesopotamia.
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DA - L'UNITA'
Tutti gli
errori di Bush
di Silvano Andriani
Ora che la guerra è cominciata, guardando indietro, si
può vedere che lAmministrazione Bush ha compiuto
alcuni importanti errori di valutazione. Probabilmente
riteneva di poter raggiungere il proprio obbiettivo senza
dover fare davvero la guerra; che fosse sufficiente
minacciare di farla ed esibire linfinita potenza
bellica al cospetto dell'infima capacità militare
dellIraq per indurre Saddam ad abbandonare il
potere o i suoi ad abbandonarlo. Così non è stato e gli
Usa la guerra la stanno facendo davvero, hanno indebolito
politicamente i governi amici, logorato i rapporti con
Francia, Russia, Cina e con un antico alleato, la
Turchia.
Infine, come se non bastasse, stanno correndo il rischio
di trasformare un brutale dittatore in un eroe della
nazione araba.
È probabile che Bush fosse convinto, magari con l'aiuto
di Powell, di poter convincere tutti gli europei, russi e
cinesi a sostenere la sua guerra. E questo è un errore
difficile da spiegare, visto che le divergenze non
riguardavano aspetti tattici ma l'obbiettivo di fondo,
che per gli Usa era, sin dall'inizio, di abbattere Saddam
e per gli altri di disarmarlo.
Dopo l'11 Settembre gli Usa non hanno chiesto agli altri
paesi di vedere insieme cosa fare per rendere il mondo
più sicuro nel nuovo contesto che si era venuto creando,
e di decidere insieme le priorità. No. Hanno deciso
tutto per conto loro e hanno reso pubblica una nuova
dottrina di politica internazionale, con la quale,
riconoscendosi come unica superpotenza, si autoassegnano
il compito di rendere il mondo più sicuro, modellandolo
a propria immagine e somiglianza, hanno stabilito le
priorità, individuando gli "Stati canaglia" da
abbattere, con in testa l'Iraq e non certo per il timore
delle armi di distruzione di massa. Così stando le cose,
sperare che tutti gli altri governi si accodassero, a
dispetto di un'opinione pubblica mondiale largamente
sfavorevole, era chiedere troppo dalla vita.
C'è un altro errore che Bush potrebbe aver compiuto, se
ha pensato di poter trarre vantaggio dalla vittoria
militare nella prossima campagna elettorale, sperando
magari che l'economia riparta dopo la guerra. Fra un anno
probabilmente le fanfare della vittoria si saranno
acquietate e gli statunitensi saranno alle prese con i
problemi quotidiani, condizionati da una situazione
economica che non è detto sarà migliore dell'attuale:
è già capitato a Bush senior di vincere la guerra e
perdere le elezioni.
Ma come sarà il dopo Saddam? Gli europei hanno fatto
bene a tentare di cercare un minimo comun denominatore,
discutendo del dopo Saddam. Esso dipende, in prima
istanza, da come andrà la guerra. Non che la vittoria
sia in dubbio: dipende dal prezzo di vittime e di
distruzioni che comporterà. Più dolorosa sarà la
guerra più difficile sarà il governo dell'Iraq. A parte
questo, il resto dipende soprattutto dagli Usa e le
principali scelte riguarderanno chi governerà l'Iraq e
la questione palestinese. Possiamo immaginare due
scenari, a seconda di quale delle due correnti di
pensiero presenti nell'Amministrazione prevarrà.
Nello scenario peggiore prevale la tendenza definita, con
un ridicolo ossimoro, «Imperialismo democratico». Ma
c'è mai stata nessuna potenza imperiale che non abbia
giustificato il suo imperialismo con l'intento di
civilizzare il mondo? Se prevarrà questa tendenza, già
ora prevalente, dobbiamo aspettarci che gli Usa vorranno
mantenere il controllo dell'Iraq e delle sue fonti
petrolifere,.per potere da quella posizione
destabilizzare gli altri "Stati canaglia" che
hanno già identificato nella regione - Iran e Siria -
allo scopo, naturalmente,di democratizzare l'intero
Medioriente. Ma anche Cheney e Wolfovitz sanno che quel
tanto di sostegno o di neutralità che hanno ottenuto dai
governi dell'area mediorientale li debbono proprio alla
mancanza di democrazia: se in Medioriente ci fossero oggi
governi eletti dal popolo essi sarebbero anti-Usa.
L'altra tendenza, quella dei "realisti", ha
anch'essa voluto la guerra, ma per risolvere una
situazione che riteneva senza via di uscita e che
testimoniava il parziale fallimento della guerra del
1991. Se prevalesse questa tendenza ci sarebbe una
maggiore disponibilità statunitense ad affrontare i
problemi del governo dell'Iraq e della ricostruzione con
un approccio multilaterale che faccia perno sull'Onu.
Anche per la questione palestinese vi sono due scenari
possibili. Nel primo,quello per il quale Sharon è stato
tra i promotori della guerra, gli Usa usano la maggiore
forza acquisita nell'area per sostenere la repressione
dei palestinesi e costringerli ad accettare il semistato
offerto da Sharon. Nell'altro quella maggiore forza viene
usata per indurre gli israeliani ad accettare la
soluzione prevista dalla road map.
E probabile che, comunque vadano le cose le posizioni
inglese e francese tenderanno a riavvicinarsi. Anche nel
caso peggiore, che gli Usa intendano perseguire il
disegno imperialista, difficilmente Blair vorrebbe e
potrebbe seguirli su quella strada, visto che sostiene di
partecipare alla guerra proprio per dare ad essa uno
sbocco diverso. E sulla questione palestinese le
posizioni francese ed inglese già oggi convergono.
Ricostituire una base unitaria degli europei è di
importanza vitale per evitare che la guerra all'Iraq
diventi l'inizio di un tragico confronto di civiltà e
per affrontare successivamente le questioni europee che
da tempo si trascinano irrisolte e che la vicenda
irachena ci spalanca impietosamente sotto gli occhi.
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