Parà partiti da Vicenza
gli Usa smentiscono il governo
Sulla questione si discuterà in Parlamento
Ds e Margherita: "L'Italia è diventato un Paese belligerante"

ROMA - Mille parà americani della 173 Brigata aerotrasportata di stanza a Ederle, una base vicino Vicenza, sbarcano nel nord dell'Iraq e nel mondo politico italiano scoppia la bufera. Da una parte l'opposizione vuole spiegazioni su quella che ritiene una violazione degli impegni presi dal governo, ovvero nessun uso delle basi in Italia per attacchi diretti all'Iraq. Dall'altro Palazzo Chigi e gli stati Uniti dicono cose diverse. Silvio Berlusconi ha scritto al presidente della Camera Pier Ferdinando Casini ribadendo la posizione ufficiale dell'esecutivo: quei parà non parteciperanno ad attacchi diretti contro obiettivi iracheni. Ma il generale di brigata Vincent Brooks dal quartier generale del Comando centrale in Qatar smentisce Palazzo Chigi: "Si tratta di una forza che può essere usata anche in attacco, se decideremo in tale senso". E aggiunge: "Lascio all'Italia il compito di commentare il proprio ruolo nella guerra". Brooks spiegato che i parà partiti dalla base statunitense di Vicenza saranno utilizzati per proteggere le aree sotto il controllo curdo o anche per colpire l'esercito di Bagdad dal fronte del nord. "La presenza di una brigata di combattimento in quell'area - aggiunge - cambia considerevolmente le dinamiche".

Nel pomeriggio poi il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha ricevuto Silvio Berlusconi al Quirinale. Un faccia a faccia di due ore dedicato alla situazione internazionale e alla crisi irachena. Analogo tema trattato nel pomeriggio nel corso dell'incontro, sempre al Quirinale, di Ciampi con il ministro della Difesa Martino e con il generale Mosca Moschini, capo di stato maggiore della Difesa.

In attesa del chiarimento, che secondo il ministro Rocco Buttiglione sarebbe stato "più opportuno offrire tempestivamente" al Parlamento e al Paese - l'opposizione ha buon gioco ad attaccare. "Il governo sta prendendo in giro il Parlamento" dice Gavino Angius, presidente dei senatori Ds. Il suo collega alla Camera Luciano Violante chiede se la missione partita da Vicenza abbia violato la decisione del Consiglio supremo di difesa che prevedeva l'"esclusione dell'uso di strutture militari quali basi di attacco diretto ad obiettivi iracheni". Violante ha chiesto quindi "se sia mutato il ruolo dell'Italia, passando da paese non belligerante a paese co-belligerante". Cosa di cui è convinto Giuseppe Fioroni della Margherita: "Abbiamo appreso dalla Tv che l'Italia è in guerra".

E il presidente della Commissione difesa della Camera Gustavo Selva replica: "I piani si fanno a Tampa, in Florida e a Washington, non a Roma". Come a dire non possiamo farci nulla.

(27 marzo 2003)

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Il Pentagono annuncia l'arrivo di forze fresche nel Golfo
Rumsfeld: "Nessun cessate il fuoco, la guerra sarà lunga"
Iraq, in arrivo entro un mese
altri 120 mila militari Usa

WASHINGTON - Entro un mese altri 120 mila soldati americani si uniranno ai quasi trecentomila che già sono impegnati nella guerra contro l'Iraq. Una notizia che testimonia l'esigenza del Pentagono di rafforzare il dispositivo nel Golfo che, di fatto, viene raddoppiato. Fra i rinforzi che affluiranno in Iraq figurano la quarta divisione di fanteria dal Texas, la prima divisione corazzata dalla Germania, e il secondo reggimento di cavalleria corazzata dal Colorado.

La decisione di aumentare il numero dei militari nel Golfo si ricava dalle parole del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld che annuncia: "Il numero degli effettivi nel Golfo andrà crescendo a una media di 2 o 3 mila al giorno". Conti alla mano, in un mese si arriva alla cifra di 120 mila uomini. "La guerra continuerà, e nessuno pensi ad un cessato il fuoco" ammonisce il segretario Usa, anticipando un'eventuale richiesta di cessazione delle ostilità da parte delle Nazioni Unite.

L'arrivo di "forze fresche" sembra essere l'ennesima dimostrazione che il presidente iracheno Saddam Hussein si sta dimostrando una preda più difficile di quanto si pensasse inizialmente. Non a caso sia il presidente George W. Bush sia Rumsfeld parlano da qualche giorno di conflitto "lungo e difficile". Una prospettiva avvalorata dal fatto che la Guardia Repubblicana irachena si sta disponendo ad anello intorno a Baghdad, preparandosi a difenderla. "L'anello difensivo avrebbe un raggio di 80 chilometri - dice Rumsfeld - Mentre altri soldati sono stati spostati verso il nord dell'Iraq, a difesa di Tikrit, città natale di Saddam Hussein".

Il conflitto, dunque, non accenna a finire. Lo dice, con schiettezza, lo stesso Rumsfeld. "Non sappiamo quando finirà il periodo di intensi combattimenti e non siamo in grado di stimare quale sarà l'estensione dei danni inflitti alle infrastrutture dell'Iraq", anche se le forze della coalizione "fanno di tutto per limitare i danni".

(27 marzo 2003)

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Raid, ancora vittime civili
Oltre 30 in ventiquattro ore
Oltre a quello sul mercato, un altro raid a Bagdad
avrebbe provocato ieri otto morti e 44 feriti

BAGDAG - Le cifre si rincorrono, i bilanci crescono di ora in ora, è un computo difficile quello delle vittime civili ma gli iracheni non hanno dubbi: in una settimana sarebbero stati 350 i morti, fra la popolazione, e quattromila i feriti, secondo le stime del ministero della Sanità di Bagdad. Mentre la Difesa irachena segnala altre otto vittime civili, e 44 feriti, bilancio di un bombardamento anglo-americano di ieri, a sud della capitale, nell'area di un complesso residenziale.

Il direttore generale della Difesa irachena, Hatem Ali Al Khalaf, ha spiegato oggi che l'attacco aereo (messo a segno nello stesso giorno del bombardamento sul mercato a Bagdad) ha preso di mira un complesso abitato da dipendenti del ministero delle Infrastrutture civili, a Yussufiyeh, trenta chilometri a sud della capitale. Ai giornalisti convocati sul posto, Al Khalaf ha precisato che la zona è stata bombardata ieri mattina, e non la notte scorsa, come annunciato in precedenza da un dirigente iracheno, e che "le vittime sono in gran parte donne e bambini". Sul luogo del raid sono visibili le macerie dei prefabbricati, utensili da cucina sparsi in terra. E in un cratere poco profondo riposa un ordigno apparentemente intatto: "E' una bomba a frammentazione inesplosa", ha spiegato Al Khalaf.

Ma la lista delle vittime civili si allunga ulteriormente. E' ancora il direttore della Difesa irachena a dichiarare che tredici persone sono state uccise, e 56 sono rimaste ferite, nel corso dei bombardamenti anglo-americani di ieri, nell'area che va da Kerbala a Najaf, nell'Iraq centrale. Najaf e Karbala distano rispettivamente 150 e 180 chilometri da Bagdad, e sono due città sante, meta di pellegrinagio per gi sciiti. A Najaf, un raid contro il quartiere residenziale Al Hussein ha provocato la morte di sei persone, mentre le bombe su Kerbala hanno fatto sette morti.

Al computo della prima settimana di guerra si aggiunge quello, più circoscritto, delle ultime 24 ore. In questo arco di tempo sarebbero 36 i civili iracheni uccisi a Bagdad dalle forze della coalizione. I dati sono stati resi noti dal ministro della Sanità iracheno, Umid Medhat Mubarak, durante una conferenza stampa, nel corso della quale il ministro ha accusato le forze della coalizione di utilizzare bombe a frammentazione, e di "mirare esplicitamente ai civili" con lo scopo di "terrorizzare la popolazione". Secondo Medhat Mubarak, gli anglo-americani avrebbero anche "cercato di bloccare" le squadre d'emergenza che tentavano di soccorrere le vittime dei raid aerei.

(27 marzo 2003)

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DA - IL MANIFESTO

La vergogna


LUIGI PINTOR


La guerra sarà lunga, siamo solo all'inizio. Se lo dicono loro possiamo crederci anche se prima dicevano il contrario. Tradotto in pratica, vuol dire che la strage al mercato di Baghdad è solo un inizio. Non è un effetto collaterale della guerra, è il suo cuore. Questi morti li conosciamo, di altri in altre città sentiamo parlare. I massacri, la macelleria, la carneficina prendono il posto che gli spetta. Siamo solo all'inizio. Sono bombe straniere, anglo-americane, non cannonate di un nemico interno su un mercato di Sarajevo. Vengono da molto in alto, dalla cima del nostro mondo civile. Se questa è una guerra di liberazione, cos'è una guerra di aggressione e di conquista? Non era stata presentata così al mondo e al suo paese da George Bush. Non era una guerra contro una popolazione ma contro un tiranno e sarebbe stata quasi indolore. Ora anche molti soldati americani, pù di cento, muoiono e moriranno senza saperlo (quelli iracheni uccisi a Najaf sono mille).

Se è solo l'inizio ci si potrebbe ancora fermare prima del massacro finale. Ma l'America, che vive sotto assedio, non conosce questo scenario e non ne immagina le conseguenze. Crede a quel gelido coglione del suo ministro della difesa, al vice-presidente che ha in appalto i pozzi iracheni, al presidente che vuole essere rieletto. E ha la certezza della vittoria. Se si accorgerà prima o poi d'essere stata ingannata si infurierà ma sarà tardi.

Davvero la vittoria finale, preceduta dalla sporca immagine di questa guerra, porterà in Iraq la democrazia? Indirete libere elezioni in un paese finalmente pacificato? C'è una probabilità su un milione che accada qualcosa di simile, ce ne sono molte di più che il vulcano non si spenga. Farete allora il protettorato anglo-americano che avete progettato dal 1991? O sarà una gestione pluricoloniale? Farete tutto da soli o userete un altro vassallo locale, com'è stato per voi Saddam?

E' odioso essere profeti di sventura, ma qui non si tratta di essere profeti perché la sventura è sotto i nostri occhi. Lo è nell'escalation della guerra in atto e tutti i suoi connotati militari e politici prospettano un quadro delle relazioni internazionali postbelliche sconvolto e sconvolgente. Se siamo solo all'inizio, chi mal comincia è alla metà dell'opera.

Non ci viene oggi da concludere che la volontà di pace che corre per il mondo è più forte di tutto questo, anche se lo ripetiamo ogni giorno non come un rituale ma per convinzione. Oggi ci viene da dire semplicemente che quel che accade è una vergogna dell'umanità.

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DA - IL MANIFESTO

Ecco gli alleati occulti degli Usa


Spunta la lista dei 15 paesi anonimi della coalizione. Dollari per tutti
S. L.


La raffazonata «coalition of the willing» messa in piedi dagli Stati uniti per la loro operazione
Iraqi freedom - 45 paesi a favore dell'intervento contro Baghdad, di cui 15 preoccupati di mantenere l'anonimato per timore di ripercussioni interne - emerge infine in tutta la sua ampiezza. Una nota very confidential del ministero della difesa di Baghdad arrivata in qualche modo nelle mani di alcuni giornalisti iracheni elenca infatti i 15 paesi che, sia pur in modo occulto, darebbero il loro franco appoggio alla superpotenza unica. Tra di essi, come era facile prevedere, figurano sia Israele che buona parte di quei paesi arabi i cui governi sono tradizionalmente molto vicini a Washington: l'Arabia saudita, l'Egitto, la Giordania, il Bahrein, l'Oman, il Qatar e il Kuwait - questi ultimi due per la verità assai poco occulti, dal momento che entrambi danno ospitalità a migliaia di militari anglo-americani nelle loro basi. La lista di per sé non è particolarmente sconvolgente, ma è interessante per la sua contiguità con un altro elenco: quello dei paesi per i quali il presidente Bush ha chiesto l'altroieri al Congresso lo stanziamento di prestiti o aiuti diretti. Ecco quindi al primo posto delle preoccupazioni della Casa bianca rispuntare proprio gli «alleati clandestini»: Israele dovrebbe ricevere un miliardo di dollari in assistenza militare diretta - in realtà ne aveva chiesti quattro - e nove miliardi in prestiti garantiti. Per la Giordania è prevista una prebenda di 700 milioni in aiuti economici e 406 milioni di dollari in assistenza militare, per l'Egitto 300 milioni di dollari. E via dicendo.

Ma se la fedeltà viene ripagata in denaro sonante, ogni minima titubanza è invece oggetto di rappresaglie immediate: dopo aver esortato la settimana scorsa gli Stati uniti a ritirare le truppe dispiegate al confine con l'Iraq, la Nigeria si è vista tagliare ogni assistenza militare. Il pretesto avanzato da Washington sarebbe un massacro di civili perpetrato dall'esercito nigeriano... nel 2001. Quanto alla Turchia, che non ha concesso l'uso delle sue basi e il passaggio alle truppe scombinando tutti i piani del Pentagono per il fronte nord, è un alleato troppo prezioso per abbandonarlo al suo destino. Si è quindi decisa una riduzione: invece dei sei miliardi di dollari di aiuti diretti e 24 di prestiti previsti inizialmente, è stato concesso ad Ankara un miliardo di dollari di aiuti diretti.


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DA - IL MANIFESTO

Prodi: per la Ue prova del fuoco


«Nessuno ci prenderà in considerazione fino a quando ci affideremo agli Usa per garantirci la sicurezza».

Al plenum del Parlamento europeo, il presidente della Commissione chiede ai 15 una politica estera comune. E meno americana
Aiuti umanitari. Tre milioni di euro subito e altri 79 in arrivo, così la Ue pensa di affrontare l'emergenza in Iraq. Ma i 75 miliardi di dollari chiesti da Bush per le operazioni militari «sono molto superiori - dice Prodi - all'intero aiuto mondiale ai paesi poveri»


ALBERTO D'ARGENZIO
BRUXELLES


«Icittadini europei hanno già scelto. E' infatti impressionante la volontà di pace, di multilateralismo e di Europa, di un'Europa portatrice di pace, ma anche di sicurezza, che è emersa negli ultimi tempi». Parole di Romano Prodi nel pleno del Parlamento europeo. Sarà stata l'aria dell'Eurocamera, trovarsi di fronte non a Berlusconi, Blair ed Aznar ma ai rappresentanti di quei cittadini europei che dicono no alla guerra, ai fogli con impresso
Stop the war e Stop the killers branditi a sinistra, fatto sta che ieri il presidente della Commissione ha snocciolato un discorso che disegna l'Europa che vorrebbe, un Europa più vicina al suo popolo e giocoforza più lontana dalla guerra e dagli Stati uniti. Ma al di là delle parole di Prodi, l'Europa istituzionale rimane più che mai divisa e per metà sorda alla piazza, una frattura che adesso, a guerra in corso, si espande fino al Parlamento europeo, l'assemblea che non più tardi del 30 gennaio scorso aveva censurato l'attitudine di Bush, scommesso sugli ispettori e dichiarato la guerra preventiva "illegittima". Oggi è la prova del fuoco per l'Eurocamera chiamata a votare su 6 risoluzioni sull'Iraq, 5 per ogni gruppo politico ed una comune tra liberali, socialisti e verdi. I pronostici disegnano voti e veti incrociati con il risultato di privare il Parlamento, l'unica voce istituzionale fino ad ora compatta contro la guerra, di un parere comune. Così ieri l'Europa si ritrovava solamente su tre punti: gli aiuti umanitari, la necessità di preservare l'unità territoriale dell'Iraq ed i conseguenti avvertimenti alla Turchia. Da Commissione, Consiglio e Parlamento si sono levate infatti minacce per nulla velate ad Ankara, l'eterno aspirante all'Unione che fatica da morire a nascondere le sue mire sul kurdistan iracheno. «Se il processo di riforme (alludendo all'eccessivo peso politico dell'esercito turco, ndr) si dovesse interrompere o fare marcia indietro - ammoniva il Commissario all'allargamento, il tedesco Günter Verheugen - ciò provocherebbe un risultato nefasto», cioè adesione turca alle calende greche. «Veglieremo perchè la Turchia non provochi una rottura delle frontiere - l'eco di Prodi - non è nessuna esclusione ma una prova del fuoco per Ankara e la nostra risposta, visto che non abbiamo eserciti, è puramente politica».

Tempo di crisi ma anche di speranza: «L'avvenire dell'Europa dipende dalla maniera con cui viene gestita questa crisi», ripeteva all'infinito Romano Prodi. Un modo per vedere qualcosa di positivo nel disastro attuale, un po' la visione manzoniana dell'inferno, ma anche una maniera per non fuggire la gravità della situazione e sottolineare che l'Europa non può permettersi di giocare male le sue carte: la Convenzione europea e la costruzione di un soggetto politico autonomo. «Siamo coscienti che il mondo non ci prenderà in considerazione fino a quando continueremo a presentarci divisi - commentava il Presidente della Commissione - fino a quando continueremo ad affidarci all'Unione per promuovere lo sviluppo economico e agli Stati uniti per garantirci la sicurezza. E non vi è alcun sentimento anti-americano in questa mia osservazione. La mia osservazione nasce solo dalla profonda convinzione che gli interessi europei possano essere definiti solo in Europa e solo dagli europei».

Al di là dei desideri, la Commissione ha ribadito ieri l'impegno europeo per i profughi e per assicurare un pronto invio di aiuti umanitari. 3 milioni di euro, dei 21 previsti dal bilancio comunitario, sono già a disposizione delle agenzie umanitarie, mentre altri 79 verranno chiesti al Fondo speciale di emergenza. Per la ricostruzione Prodi parafrasava Chirac dicendo che mentre ancora si distrugge non è il caso di pensare al dopo ma riconosceva anche, e per la prima volta, un ruolo alla società irachena nella ricostruzione del suo paese. Dietro a Prodi è comunque bagarre tra i 15 sull'impegno da prendere per rimettere in sesto l'Iraq. Infine un commento sconsolato: "i fondi aggiuntivi richiesti per le operazioni, pari a 74,7 miliardi di dollari (per poche settimane di conflitto), sono molto superiori all'aiuto che il mondo destina ogni anno ai paesi più poveri, poco più di 50 miliardi di euro".


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DA - IL MANIFESTO

Rai, Cattaneo direttore


Annunziata e Rumi si astengono sul nome del successore di Saccà voluto da Berlusconi
Flavio Cattaneo. Praticamente perfetto. Presidente della Fiera di Milano, top manager a 40 anni, legato a Paolo Berlusconi, gradito da Bossi e ex consigliere comunale di An a Lainate


MICAELA BONGI
ROMA


Il nome del nuovo direttore generale della Rai arriva alle 11 di sera, dopo sei ore di riunione tra i consiglieri d'amministrazione. Di Flavio Cattaneo, presidente della Fiera di Milano, si scrive subito che sarà il più giovane dg di viale Mazzini, con i suoi 39 anni, 40 in giugno. Ma del suo nome si ricorderà anche che, alla prima votazione, ha spaccato il cda. Non solo: su di lui, insieme al consigliere Giorgio Rumi, il professore cattolico vicino al cardinal Ruini, si è astenuta la presidente, Lucia Annunziata. Che, dopo aver ipotizzato, per tre giorni, sue dimissioni in caso di riconferma di Agostino Saccà, e dopo aver puntato sull'unitarietà del consiglio, subisce una sconfitta al primo atto. Vedendosi imporre uno dei candidati sponsorizzati da Silvio Berlusconi. Ufficialmente la giornata comincia, alle tre del pomeriggio, con l'incontro tra la presidente e i referenti del ministero dell'Economia. Un faccia a faccia, in via XX settembre, direttamente con Giulio Tremonti. Che ci riprova: Agostino Saccà va più che bene, non si capisce il motivo della discontinuità richiesta da almeno tre quinti del consiglio, visto che l'azienda pubblica va a gonfie vele. Sul tavolo, si dice, ci sarebbero anche i nomi dell'ex direttore di Raiuno e attualmente responsabile relazioni esterne Fiat, Maurizio Beretta. Il solito Mauro Masi e Antonio Catricalà, segretario generale di palazzo Chigi. Ma, almeno da quanto circola subito dopo l'incontro, si dice sia Tremonti a bocciare anche quest'ultimo uomo, benché vicinissimo al premier.

Alla presidente, il superministro chiede, in alternativa a Saccà, di produrre una rosa condivisa da tutto il consiglio. Ma, mentre Lucia Annunziata si riunisce informalmente con i quattro consiglieri, le agenzie già battono il nome di Flavio Cattaneo come quello di colui che, in base agli accordi, sarebbe pronto a occupare il posto di Agostino Saccà.

Nel pomeriggio - mentre la Casa delle libertà, prima con il nazional-alleato Alessio Butti, poi con il forzista Giorgio Lainati e il leghista Davide Caparini, si scaglia anche contro Raitre e il Tg3 accusandoli di faziosità nell'informazione sulla guerra -, tra i palazzi continua anche a circolare la candidatura di Angelo Codignoni. In ogni caso, significa che il Cavaliere, dopo aver silurato tutti i candidati di Annunziata, punta i piedi. Vuole comunque un fedelissimo sul ponte di comando del servizio pubblico. E fa il gioco delle tre carte. Il consiglio d'amministrazione, in particolare la sua presidente, non gradisce Codignoni e Cattaneo? Allora si torna a Saccà. In questo caso la presidente (che non ha ancora firmato il contratto, si fa sapere) darebbe
forfait? Allora si torna a Codignoni e Cattaneo. Il primo è un ex dirigente Fininvest e tra i fondatori di Forza Italia. Meno riconducibile direttamente al partito-azienda, in apparenza, Cattaneo: presidente della Fiera di Milano, vicino a Ignazio La Russa e già consigliere comunale di An a Lainate. Ma in realtà indicato per la Fiera dal forzista Paolo Romani, molto legato a Paolo Berlusconi e nelle grazie di Umberto Bossi. Nonché, ovviamente, di Berlusconi Silvio. Parte il pressing sui consiglieri, che, se non impegna direttamente il premier, vede in pista i suoi stretti collaboratori. Dopo un'ora di pre-consiglio, dalle 17 alle 18, il cda affronta un'ora e mezza di relazione di Agostino Saccà («ho presentato dei conti strepitosi», dirà lui sconsolato). La riunione poi prosegue «informalmente», si sottolinea. Segno della difficoltà di dare il via a quella seduta ufficiale che ha all'ordine del giorno l'indicazione del nuovo direttore generale. Perché anche nel cda è scontro.

La presidente e i consiglieri restano chiusi al settimo piano per ore e ore, con Annunziata pronta a fare nottata. Fuori da viale Mazzini si dice che però l'indicazione del governo sarebbe chiara: il nome deve venire fuori entro la notte, con o senza l'accordo della presidente. Che, come si vedrà, ha sbilanciato dalla sua parte il professor Giorgio Rumi.

Alle dieci di sera i consiglieri sono ancora riuniti. Stanno discutendo della rosa di nomi: si parla di Antonello Perricone, ex amministratore delegato della Sipra (già in Publitalia). Sarebbe il candidato della presidente, ma non avrebbe intenzione di tornare in Rai. Poi sul tavolo c'è la candidatura di Gianfranco Virgilio. Il nome vero della terna sembra subito essere il terzo, quello di Flavio Cattaneo, appunto.

La riunione formale del consiglio d'amministrazione riprende solo alle dieci e mezza di sera. Mezz'ora dopo il designato è Cattaneo. Subito viene dato in quota An. Ma il vero vincitore si chiama Berlusconi.

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DA - IL MANIFESTO

CATILINARIE


La Quercia accusa Cofferati
C. ROS.


Un intervento «sconcertante e inaccettabile». Scomodano parole di grosso calibro, i Ds, per replicare a un lungo affondo dal titolo «il leader siderale» che dal 20 marzo scorso trova posto a firma Catilina nella sezione «interventi» del sito della Fondazione Di Vittorio presieduta da Sergio Cofferati. E, certamente, se non fosse per il nome del presidente della fondazione e per l'alone di mistero che suscitano gli pseudonimi (oltre che per l'Agi, che ieri se n'è accorta), nessuno si scandalizzerebbe di ragionamenti che vengono fatti a voce alta nei corridoi del parlamento e in molte stanze della sinistra. Ma poiché del sito ufficiale di Cofferati si tratta, e di uno pseudonimo da nemico di Cicerone che calaza a pennello all'immagine che l'Ulivo ha del
cinese, la cosa assume tutto un altro contorno. Dice il misterioso Catilina nel suo ragionamento sulla frattura tra gli interessi di governati e governati e sulla crisi della partecipazione democratica nelle società avanzate: «Purtroppo oggi, nell'Italia che si considera di sinistra continua a sopravvivere una classe dirigente che ha perduto anzitutto coscienza di esserlo. Come se il potere fosse diventato l'unico tratto dirimente della battaglia politica, e la sua perdita richiedesse solo una totale dedizione alla riconquista». Sennonché, prosegue l'intervento, «al cittadino di sinistra, persino militante tale riconquista personale non appartiene, non interessa. Almeno come valore in sé». Sono dunque «l'oligarchia e l'autoreferenzialità» che «bloccano, oggi, il nuovo e trascinante interesse dei cittadini verso la partecipazione». E allora, suggerisce Catilina, «quando il Re capisce di essere nudo, e solo, esce di scena. Quando ha perduto anche la dignità della comprensione generale, occorre accompagnarlo all'uscita».

«C'è in quelle frasi un disprezzo di fondo verso le regole della democrazia - replica la nota dell'ufficio stampa Ds - A preoccupare e amareggiare di più è la scelta di colpire un gruppo dirigente non confrontandosi con le sue idee, ma sul piano della sua presunta immoralità». Il punto, per la Quercia, è sempre quello della delegittimazione. Da mesi, del resto, la maggioranza della Quercia va in giro dicendo che il successo di Cofferati e le sue critiche all'Ulivo puntano a delegittimare il gruppo dirigente della coalizione. Come se non esistesse davvero un divario profondo tra i partiti dell'Ulivo e il popolo della sinistra e della pace: come ampiamente rappresentato dal successo della manifestazione pacifista dei movimenti di sabato scorso rispetto alla passerella dell'Ulivo.

«Speravamo che metodi del genere fossero sepolti nel passato, purtroppo non è così - continua la nota Ds - Ma su queste basi non si costruisce nulla. Su queste basi si distrugge. Ci chiediamo se sia moralmente e politicamente accettabile che il sito della Fondazione del principale sindacato dei lavoratori italiani sia utilizzato per inaccettabili aggressioni ai dirigenti del partito nel quale si identificano e si riconoscono milioni di lavoratori». Rincara l'ultras dalemiano Peppino Caldarola: «Siamo su un terreno eversivo, lo definirei `mussolinismo' puro...».

Vero è che non è nei soli Ds che si riassume la sinistra (con i suoi vizi) e che il ragionamento è dei meno sconvolgenti. Resta però l'anonimato, dietro il quale una polemica così aspra fa supporre si voglia individuare Cofferati stesso. Pierluigi Bersani - della segretaria Ds - lo esclude, così come la Fondazione assicura che si tratta di un collaboratore. Certo è che il misterioso Catilina anche ieri è tornato in azione in difesa del leader della Cgil Guglielmo Epifani, accusato di equidistanza per aver detto che scegliere la pace significa non stare «né con Bush né con Saddam». Contro chi lo ha messo alla gogna brandendo comunque la bandiera della democrazia occidentale Catilina accusa: «Questo sistema binario della semplificazione del mondo in due, bianco e nero, ci ricorda la peggiore America e il peggiore Islam».

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DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Export bellico, ratificate le modifiche alla 185

Forti critiche dall'opposizione e dalle associazioni: «Così si smantella una buona legge, hanno vinto i mercanti di armi»

ROMA - Non sono servite le proteste del cartello «Contro i mercanti di armi» e dell'opposizione. Il Senato ha approvato il disegno di legge che ratifica l'accordo di Farnborough, in modifica alla legge sull'export di materiale bellico dall'Italia, la 185 del 1990. Ora il provvedimento dovrà passare al vaglio della Camera per la seconda volta, dopo il voto del giugno scorso, che aveva però rilanciato la palla a Palazzo Madama.

FARNBOROUGH - L'accordo di Farnborough, firmato il 27 luglio 2000 dai ministri della Difesa di sei Paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Spagna e Svezia) ha come obiettivo quello di rafforzare la difesa comune dell'Unione europea. I sei Paesi firmatari, che coprono il 90% dell'intera produzione europea degli armamenti convenzionali, non dovranno più sottostare alla procedure di autorizzazione per l'export di armi in vigore fino a oggi; al loro posto viene introdotta la cosiddetta «licenza globale di progetto», che permette all'impenditore che abbia avviato un accordo con una ditta di uno dei Paesi firmatari di non sottostare al controllo del proprio Governo e Parlamento (che fino ad oggi era obbligatorio per tutti, senza distinzioni). In questo modo non sarà più possibile avere una mappa dell'export di armi italiane verso altri Paesi del mondo. Se la legge sarà approvata in via definitiva si arriverà a una forte liberalizzazione nel settore: per fare un altro esempio, il comma che prevede l'impossibilità di vendere materiale bellico a Paesi non rispettosi dei diritti umani viene sostituito con la dicitura «gravi violazioni dei diritti umani». Il Governo, al momento di autorizzare atti di esportazione, non sarebbe più tenuto a sentire il parere di associazioni internazionali come Amnesty International o Medici Senza Frontiere. Infine non sarebbe più possibile conoscere le banche implicate nel commercio di armi e le dogane non sarebbero più tenute a fornire dati sulle merci.

REAZIONI - «Hanno vinto i mercanti di armi, il Governo si sporca le mani di sangue» ha commentato a caldo l'opposizione dopo il voto, definendo la legge 185 in via di estinzione una norma giusta ed equilibrata. «È gravissimo che la maggioranza parlamentare voti un provvedimento che modifica la legge vigente sul commercio delle armi proprio mentre è in corso un conflitto - ha detto un gruppo di diessini -. Le nuove disposizioni rispondono alla pressioni delle lobby di fabbricanti di armi, che avranno il risultato di allentare i controlli finanziari, favorire il commercio di armi, attenuare le possibilità di controllo da parte del Parlamento, consentire triangolazioni commerciali anche con paesi che violano i diritti umani». Ancora più duro Pietro Folena (Ds) l'approvazione del disegno di legge è la «dimostrazione del fatto che coloro che oggi si battono il petto in pubblico per aver permesso la vendita delle armi a Saddam e a cento altri dittatori sparsi nel mondo, in realtà non hanno per nulla cambiato idea».
Soddisfazione invece da parte della maggioranza, che sottolinea il graduale rafforzamento della struttura difensiva europea. Infine, sono durissimi i commenti delle associazioni. «Il Parlamento italiano si è assunto la responsabilità di distruggere una delle leggi più avanzate in materia di commercio delle armi» ha dichiarato Nicoletta Dentico, direttore generale di Medici Senza Frontiere. «È scandaloso - aggiunge Tonio Dell'Olio, coordinatore nazionale Pax Christi - che l'Italia, in un momento così delicato come quello che stiamo vivendo, abbia deciso di procedere all'eliminazione di quelle importanti forme di garanzia e controllo che hanno regolamentato il commercio di armi fino a oggi». Altre associazioni, tra cui Amnesty International, l'Associazione Obiettori Nonviolenti, Campagna Italiana contro le mine, Missione Oggi, Nigrizia e Rete Lilliput, hanno espresso l'opinione che con l'approvazione della legge l'Italia sarà oggetto di un grosso passo indietro e rinuncerà a una legislazione considerata molto all'avanguardia rispetto agli altri Paesi europei, per trasparenza e controlli.


27 marzo 2003

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DA - IL SOLE 24 ORE

Fiat conferma: il 2002
"anno orribile" per i contiLa capogruppo ha perso 2 miliardi, consolidato in "rosso" di 4,2 miliardi. Nessun dividendo come nel 1945, '46, '47 e '94. Titoli in pesante ribasso.

Fiat Spa, 2 miliardi di perdite nel 2002
Fiat Spa ha chiuso con una perdita netta di circa 2 miliardi il bilancio 2002, approvato oggi dal Consiglio di amministrazione del gruppo torinese che si è riunito sotto la presidenza di Umberto Agnelli. La perdita - recita una nota - è dovuta principalmente all'adeguamento dei valori di carico delle partecipate.
Il Consiglio di amministrazione ha deciso di convocare l'assemblea degli azionisti per il 10 maggio prossimo (il 13 maggio in seconda coinvocazione) a cui sarà proposto di non distribuire alcun dividendo e di rinnovare il Consiglio di amministrazione.

Il gruppo ha perso 4,2 miliardi di euro
Il Consiglio di amministrazione della Fiat ha anche approvato il bilancio consolidato del gruppo del 2002, i cui risultati erano stati annunciati il 28 febbraio scorso, chiuso con una perdita di circa 4,2 miliardi. Nel corso della riunione - prosegue la nota del Lingotto - è stato anche esaminato lo stato di avanzamento del piano di dismissioni di cui «è stata rilevata l'accelerazione e la qualità delle operazioni che hanno già portato alla conclusione degli accordi per la cessione del 51% di Fidis Europe e della Toro Assicurazioni».
Il rinnovo del Cda che sarà proposto all'assemblea dei soci è motivato oltre che dal numero di consiglieri in scadenza, anche dall'esigenza di «dotare la società di un organo amministrativo con adeguata presenza di consiglieri, con caratteristiche di indipendenza, secondo le nuove regole di corporate governance».

Solo quattro gli esercizi senza dividendo
Sono stati quattro, nella centenaria storia della Fiat, gli esercizi di bilancio per i quali gli azionisti dell'azienda torinese non hanno percepito dividendi. Tre esercizi, il 1945-46-47, furono quelli sucessivi alla guerra, mentre per l'ultimo si va indietro di dieci anni.
Per il bilancio '94, inoltre, la società decise di distribuire il dividendo soltanto alle azioni di risparmio e non a quelle privilegiate e ordinarie.

Termini Imerese aperta sino al 30 aprile
Lo stabilimento Fiat di Termini Imerese proseguirà la produzione fino al 30 aprile prossimo. Lo hanno deciso i sindacati e i dirigenti dell'azienda che si sono riuniti nella sede dell'Assindustria palermitana.
Lo stabilimento doveva fermarsi nuovamente il 4 aprile prossimo, secondo il piano governo-azienda che prevede la Cassa integrazione per i 2.200 lavoratori. L'alluvione che ha bloccato il lavoro nello stabilimento di Termoli ha provocato un ritardo nella produzione di 50mila autovetture tra cui 10mila Punto. Questo ritardo adesso dovrà essere recuperato.
Il 7 aprile prossimo si svolgerà un altra riunione sindacati-azienda per discutere il futuro dello stabilimento di Termini in vista dell' annunciata riapertura definitiva prevista per settembre. Il delegato Fiom della fabbrica di Termini, Roberto Mastrosimone, dice che «gli operai sono contenti di continuare a lavorare ma guardano con preoccupazione a settembre. La Fiat vuole un sistema di lavoro e flessibilità che noi non condividiamo».

Le previsioni dopo la semestrale 2002
Il gruppo Fiat prevedeva, al tempo della presentazione della semestrale il 27 luglio scorso, che l'esercizio 2002 dal punto di vista della redditività operativa si sarebbe chiuso con una perdita operativa "in linea con quella consolidata registrata nella prima parte dell'anno (528 milioni di euro)", per effetto della performance di Fiat Auto. Nella seconda parte del 2002, peraltro, Fiat Auto prevedeva di iniziare a registrare i benefici delle azioni di risanamento e delle strategie di rilancio.
Secondo il gruppo Fiat, nella seconda parte del 2002, sul fronte del mercato avrebbero dovuto giocare a favore di un recupero di volumi e quote, il graduale miglioramento della congiuntura economica internazionale e, in Italia, l'effetto degli incentivi all'acquisto di auto ecologiche.
Ma, si legge nella nota del gruppo torinese, a dettare cautela nelle previsioni restava anche la probabile necessità di Fiat Auto di contrastare adeguatamente le aggressive iniziative di sostegno alle vendite dei concorrenti. Nella nota si ricordava che la struttura finanziaria del gruppo si era rafforzata significativamente grazie alla conclusione dell'accordo con le principali banche che aveva portato al prestito convertibile di 3 miliardi di euro firmato nei giorni precedenti.

Ancora una seduta pensante per i titoli Fiat
Ancora una seduta pesante per la scuderia Fiat a Piazza Affari.

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DA - IL MESSAGGERO

SABBIA ROSSA DI SANGUE
dal nostro inviato VALERIO PELLIZZARI

dal nostro inviato
VALERIO PELLIZZARI


Bagdad
IN UNO dei quartieri poveri, che la pioggia e il cielo senza luce nel terzo giorno di tempesta rendono ancora più squallido, quindici civili sono morti e una trentina sono rimasti feriti, colpiti da due missili che gli iracheni attribuiscono agli americani. Anche questi civili sono entrati in quel bilancio delle vittime fluido, opaco, che iracheni ed americani compilano faticosamente, ciascuno riducendo le proprie perdite e gonfiando invece quelle nemiche. Poco dopo l’esplosione, nel quartiere sciita che genericamente è dedicato al "popolo", c’erano già gli striscioni degli scudi umani che ripetevano il loro no alla guerra, inascoltati più che mai. Ieri è stato il secondo giorno di bombardamento ostinato, pesante, che perfora i timpani, i nervi, i cervelli degli abitanti di Bagdad. Subiscono con rassegnazione stremata questa guerra lenta e per niente miracolosa che gli americani promettevano.
Cadono bombe che percuotono la terra e gli edifici con un rombo metallico tremendo, prima ancora di esplodere e causare le loro devastazioni. Dice la gente che Allah mostra la sua irritazione per quello che vede scatenando, per il terzo giorno appunto, una tempesta sempre più ostile agli invasori. Ieri, in due precisi momenti della giornata, il cielo era diventato letteralmente rosso, come nemmeno gli iracheni che vivono qui ricordavano da anni. Un filtro rosso messo dalla natura a confondere ancora di più i pensieri delle donne e degli uomini. L’ingegner Hussein sembra dominare queste giornate tragiche: «Avranno già fatto cadere quattromila bombe e missili, penso che siano molto precisi».
Sulla riva del Tigri c’è l’ospedale delle suore domenicane dedicato a San Raffaele. Lì di fronte, sull’altra riva, sorge uno dei palazzi presidenziali sul quale le bombe si accaniscono. Gli echi, i vuoti d’aria, i brividi della terra tormentata rimbalzano immediatamente sull’ospedale, le suore e i loro pazienti. Lì non sono ricoverati i feriti dei due missili caduti nel quartiere sciita, ma altre vittime meno visibili colpite dalla "sindrome della paura". Lì da quando è scoppiata la guerra ogni giorno nasce qualche bambino, come avveniva anche in passato, ma il numero dei nati è sempre inferiore al numero degli aborti. L’incubo delle bombe perseguita le donne incinte, le rende più deboli, indifese, ed i bambini muoiono prima di nascere. Un giorno ci sono state due nascite e sette aborti. Così raccontano le suore e i medici. Raccontano anche che i bambini più fortunati, quelli che entrano in questo mondo ma che vengono subito accompagnati dalla pioggia delle bombe, appaiono nervosi, impauriti, marchiati. Questa non è la propaganda del regime, sono testimonianze autentiche. I bombardamenti non eliminano Saddam ma si portano dietro altre vittime totalmente indifese. Ogni giorno di più in questa città la parola guerra sembra una parola impropria, dove i bersagli civili sono i veri bersagli.
Le bombe hanno danneggiato la televisione irachena, dalla quale ogni giorno il raìs lanciava i suoi messaggi e le sue direttive. In questa guerra dove la propaganda ha un ruolo strategico, dove una sola immagine diventa più efficace di molti missili, le autorità irachene continuano a contestare le affermazioni americane. Negano che la popolazione di Bassora abbia accolto gli occidentali con entusiasmo e lancio di fiori. Dicono che a Umm Qasr gli invasori sono stati fermati dall’esercito e non dalla Guardia repubblicana, come invece sostengono gli stranieri per dimostrare che solo le truppe scelte sono determinate a combattere. E dicono che Saddam ha registrato il suo ultimo messaggio esattamente all’ora della preghiera e non prima. Ancora una volta il regime sostiene che l’elicottero Usa colpito a Kerbala è stato vittima di un contadino armato solo di un kalashnikov.
Dopo aver ignorato per molti giorni l’argomento petrolifero le autorità di Bagdad hanno ricordato che i giacimenti iracheni mettono il Paese al primo posto nella gerarchia mondiale, davanti ai sauditi. E così in realtà dicono le scoperte degli ultimi anni nel deserto occidentale del Paese. Un Eldorado del quale in queste ultime settimane nessuno parla. Bagdad ritorna invece ogni giorno sui meriti e il coraggio delle forze tribali, messe spesso al primo posto nella gerarchia militare. Sono questi guerrieri che hanno fermato gli americani attorno alla città santa di Najaf.

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DA - L'UNITA'

Aiuti, non arriva nulla. Bush: guerra lunga. Il Pentagono invia altri 110 mila soldati
di Piero Sansonetti

Il disastro umanitario c’è già. L’Iraq è sotto assedio, si sta trasformando in un cimitero. La gente ha paura delle bombe, ma soprattutto ha paura della fame e della sete. Ieri sono fuggiti a migliaia da Bassora, alla ricerca di un po’ d’acqua. L’acquedotto è a secco, distrutto dalle bombe inglesi. Gli occidentali avevano promesso aiuti agli iracheni, ma non arriva niente di niente, siamo sull’orlo della carestia. Dal porto di Umm Qasr si vede sempre quella nave al largo, ma non riesce ad attraccare. Sono quattro giorni che gli angloamericani dicono che domani attraccherà e che è piena di aiuti alimentari e acqua potabile, ma poi non succede. Evidentemente gli alleati non hanno ancora il controllo del porto. Finora gli unici aiuti arrivati in Iraq sono quelli inviati dal Kuwait: qualche camion con un po’ di cibo buono per sfamare per una giornata cinque o seimila persone. Basta.

Tanto che ora i problemi cominciano ad esserci pure per gli assedianti. Alcuni reparti americani sono a corto di scorte e hanno dovuto tagliare i pasti: due al giorno, non più tre. Quello che non manca sono le bombe. Ieri per l’ottavo giorno consecutivo Baghdad è stata colpita a tappeto. Ormai i morti tra i civili non si contano più. Gli aerei arrivano più o meno ogni due ore, giorno e notte, e le esplosioni sono quasi ininterrotte. Ieri hanno colpito un quartiere residenziale al sud della città, ed è stata un altra carneficina. Come quella del giorno prima al mercato. Per quanto tempo ancora gli americani pensano di tenere questo livello di «pressione aerea»? Molto presto Baghdad sarà ridotta a un mucchietto di macerie, e non è bello che la più moderna potenza mondiale, cioè gli Stati Uniti, cancelli dalla terra una delle città più antiche e più ricche di storia, di archeologia, di ricordi della nostra civiltà. Sul versante militare quella di ieri è una giornata abbastanza statica. È stato aperto dai paracadutisti americani un fronte nord, che dovrebbe permettere nei prossimi giorni di stringere l’assedio alla capitale. Ieri la Cnn ha fatto sapere che il Pentagono entro il prossimo mese mobiliterà altri 110mila uomini in più per la guerra, portando così a 400mila il numero dei soldati Usa nell’area. Le truppe che stanno avanzando da Sud sembrano per ora ferme, a un centinaio di miglia della città, accampate, e ogni tanto attaccate dai combattenti «saddamisti» irregolari. Al sud, situazione immutata. Bassora non cade e non cadono le atre città. Intorno a molte di esse si combatte ininterrottamente e i soldati muoiono a centinaia e a migliaia. Ieri il «New York Times» pubblicava a tutta pagina questo titolo: «L’Iraq offre fiera resistenza alle forze americane». La parola inglese usata dal New York Times è «fierce», che può essere tradotta o «fiera» o «feroce», quindi può avere un significato positivo o negativo. Però esprime lo stupore per una capacità di combattimento degli iracheni, e per un attaccamento alla patria che gli americani non si aspettavano assolutamente. Non l’avevano previsto nè i servizi segreti, né i politici, né i giornalisti , né l’opinione pubblica. È questa la novità essenziale: non è solo una novità militare, è anche politica. Gli Usa erano convinti che il regime di Saddam fosse piantato sulla sabbia. Che bastasse soffiare forte e dare una speranza di liberazione al popolo per spazzarlo via. È chiaro che non è così. Alcune informazioni giunte ad Occidente sulla brutalità dei metodi di governo di Saddam verso le minoranze e verso le opposizioni sono state scambiate per le prove di un regime senza consenso. È stato un errore di valutazione strategica molto grave. Con conseguenze che possono essere devastanti, sia nella condotta della guerra sia - eventualmente - nella gestione dell’Iraq dopo la possibile caduta di Baghdad. L’Iraq può trasformarsi per gli americani in quello che negli anni ‘80 fu l’Afghanistan per i Russi.
È probabile che di queste cose abbiano parlato ieri, nei loro lunghi colloqui a Camp David (Maryland), Bush e Blair. Tra loro non c’è più l’assoluta identità di vedute che c’era fino a un mese fa. Bush considera questa guerra la «sua» guerra, e si disinteressa ai problemi politici che gli vengono posti da Blair. Primo fra tutti quello del recupero di un ruolo per l’Onu e per l’Europa. A Bush tutto ciò non interessa. All’ipotesi avanzata da Blair di affidare all’Onu la gestione del dopo-guerra, Powell (cioè il più moderato tra i capi della Casa Bianca) ha risposto: «Non ci siamo accollati questo immenso peso per rinunciare a un controllo dominante sul futuro dell’Iraq». Sulla condotta della guerra invece - dopo l’incontro con Blair - è stato lo stesso Bush a rispondere ai giornalisti. Un po’ infastidito: «Quanto tempo ci vorrà? Ci vorrà tutto il tempo necessario per vincere. Tutto il tempo necessario: non c’è una questione di scadenze, è una questione di vittoria...». Blair e Bush hanno discusso anche della questione degli aiuti. Cioè delle possibilità di evitare una strage per fame della popolazione irachena. Non hanno trovato nessuna soluzione. Blair ha solo ottenuto una dichiarazione di principio. E cioè il via libero al ripristino del piano «oil for food» (petrolio per cibo). Si tratta del piano umanitario-commerciale stabilito dall’Onu nel ‘96, che permette all’Occidente di aggirare l’embargo (cioè il blocco di tutti i commerci con l’Iraq) e di scambiare cibo e medicine col petrolio di Saddam. Questo cibo e queste medicine sono l’unica fonte di sostentamento per il 60 per cento della popolazione dell’Iraq. Attualmente l’Onu è in possesso di 40 miliardi di dollari per i pagamenti di petrolio già inviato dall’Iraq, e dovrebbe trasformarli in cibo e medicine. Ma è impossibile, perché l’assedio degli anglo-americani ha bloccato le comunicazioni. Il cibo non può essere distribuito. Blair e Bush si sono dichiarati pronti a sbloccare «oil for food», ma a condizione che sia gestito non dal governo iracheno. Dal momento che il 90 per cento delle territorio abitato iracheno è sotto il controllo governativo, lo sblocco degli aiuti è puramente formale. L’Unicef ha chiesto l’apertura di corridoi umanitari, per fare arrivare il cibo alle popolazioni, ma non ha avuto risposta.
Ha avuto invece risposta l’Arabia Saudita, che aveva proposto un piano di pace basato sul cessate il fuoco. Il ministro americano Rumsfeld, nel corso di un’audizione al Senato, ha escluso che possa essere presa in considerazione qualsiasi ipotesi di cessate il fuoco.
Intanto il super-ispettore dell’Onu, Hans Blix, ha dichiarato ai giornalisti che fino ad ora l'Iraq non ha usato nessun missile Scud (i missili proibiti a Bagdad dalla risoluzione dell’Onu del 1991). Il governo inglese però ha dichiarato ai giornalisti di «avere prove certe che Saddam Hussein sta pensando ad usare armi chimiche».
[FIRMA-DX]Piero Sansonetti


Il disastro umanitario c’è già. L’Iraq è sotto assedio, si sta trasformando in un cimitero. La gente ha paura delle bombe, ma soprattutto ha paura della fame e della sete. Ieri sono fuggiti a migliaia da Bassora, alla ricerca di un po’ d’acqua. L’acquedotto è a secco, distrutto dalle bombe inglesi. Gli occidentali avevano promesso aiuti agli iracheni, ma non arriva niente di niente, siamo sull’orlo della carestia. Dal porto di Umm Qasr si vede sempre quella nave al largo, ma non riesce ad attraccare. Sono quattro giorni che gli anglo-americani dicono che domani attraccherà e che è piena di aiuti alimentari e acqua potabile, ma poi non succede. Evidentemente gli alleati non hanno ancora il controllo del porto. Finora gli unici aiuti arrivati in Iraq sono quelli inviati dal Kuwait: qualche camion con un po’ di cibo buono per sfamare per una giornata cinque o seimila persone. Basta.

Tanto che ora i problemi cominciano ad esserci pure per gli assedianti. Alcuni reparti americani sono a corto di scorte e hanno dovuto tagliare i pasti: due al giorno, non più tre. Quello che non manca sono le bombe. Per l’ottavo giorno consecutivo Bagdad è stata colpita a tappeto. Ormai i morti tra i civili non si contano più. Gli aerei arrivano più o meno ogni due ore, giorno e notte, e le esplosioni sono quasi ininterrotte. Ieri hanno colpito un quartiere residenziale al sud della città, ed è stata un altra carneficina. Come quella del giorno prima al mercato. Per quanto tempo ancora gli americani pensano di tenere questo livello di "pressione aerea"? Molto presto Baghdad sarà ridotta a un mucchietto di macerie, e non è bello che la più moderna potenza mondiale, cioè gli Stati Uniti, cancelli dalla terra una delle città più antiche e più ricche di storia, di archeologia, di ricordi della nostra civiltà.
Sul versante militare quella di giovedì è una giornata abbastanza statica. E’ stato aperto dai paracadutisti americani un fronte nord, che dovrebbe permettere nei prossimi giorni di stringere l’assedio alla capitale. Le truppe che stanno avanzando da Sud sembrano per ora ferme, a un centinaio di miglia della città, accampate, e ogni tanto attaccate dai combattenti "saddamisti" irregolari. Al sud, situazione immutata. Bassora non cade e non cadono le atre città. Intorno a molte di esse si combatte ininterrottamente e i soldati muoiono a centinaia e a migliaia. Ieri il "New York Times" pubblicava a tutta pagina questo titolo: «L’Iraq offre fiera resistenza alle forze americane». La parola inglese usata dal New York Times è "fierce", che può essere tradotta o "fiera" o "feroce", quindi può avere un significato positivo o negativo. Però esprime lo stupore per una capacità di combattimento degli iracheni, e per un attaccamento alla patria che gli americani non si aspettavano assolutamente. Non l’avevano previsto nè i servizi segreti, né i politici, né i giornalisti , né l’opinione pubblica. E’ questa la novità essenziale: non è solo una novità militare, è anche politica. Gli Usa erano convinti che il regime di Saddam fosse piantato sulla sabbia. Che bastasse soffiare forte e dare una speranza di liberazione al popolo per spazzarlo via. E’ chiaro che non è così. Alcune informazioni giunte ad Occidente sulla brutalità dei metodi di governo di Saddam verso le minoranze e verso le opposizioni sono state scambiate per le prove di un regime senza consenso. E’ stato un errore di valutazione strategica molto grave. Con conseguenze che possono essere devastanti, sia nella condotta della guerra sia - eventualmente - nella gestione dell’Iraq dopo la possibile caduta di Baghdad. L’Iraq può trasformarsi per gli americani in quello che negli anni ‘80 fu l’Afghanistan per i Russi.

E’ probabile che di queste cose abbiano parlato, nei loro lunghi colloqui a Camp David (Maryland), Bush e Blair. Tra loro non c’è più l’assoluta identità di vedute che c’era fino a un mese fa. Bush considera questa guerra la "sua" guerra, e si disinteressa ai problemi politici che gli vengono posti da Blair. Primo fra tutti quello del recupero di un ruolo per l’Onu e per l’Europa. A Bush tutto ciò non interessa. All’ipotesi avanzata da Blair di affidare all’Onu la gestione del dopo-guerra, Powell (cioè il più moderato tra i capi della Casa Bianca) ha risposto: «Non ci siamo accollati questo immenso peso per rinunciare a un controllo dominante sul futuro dell’Iraq». Sulla condotta della guerra invece - dopo l’incontro con Blair - è stato lo stesso Bush a rispondere ai giornalisti. Un po’ infastidito: «Quanto tempo ci vorrà? Ci vorrà tutto il tempo necessario per vincere. Tutto il tempo necessario: non c’è una questione di scadenze, è una questione di vittoria...».
Blair e Bush hanno discusso anche della questione degli aiuti. Cioè delle possibilità di evitare una strage per fame della popolazione irachena. Non hanno trovato nessuna soluzione. Blair ha solo ottenuto una dichiarazione di principio. E cioè il via libero al ripristino del piano "oil for food" (petrolio per cibo). Si tratta del piano umanitario-commerciale stabilito dall’Onu nel ‘96, che permette all’Occidente di aggirare l’embargo (cioè il blocco di tutti i commerci con l’Iraq) e di scambiare cibo e medicine col petrolio di Saddam. Questo cibo e queste medicine sono l’unica fonte di sostentamento per il 60 per cento della popolazione dell’Iraq. Attualmente l’Onu è in possesso di 40 miliardi di dollari per i pagamenti di petrolio già inviato dallIraq, e dovrebbe trasformarli in cibo e medicine. Ma è impossibile, perché l’assedio degli anglo-americani ha bloccato le comunicazioni. Il cibo non può essere distribuito. Blair e Bush si sono dichiarati pronti a sbloccare "oil for food", ma a condizione che sia gestito non dal governo iracheno. Dal momento che il 90 per cento delle territorio abitato iracheno è sotto il controllo governativo, lo sblocco degli aiuti è puramente formale. L’Unicef ha chiesto l’apertura di corridoi umanitari, per fare arrivare il cibo alle popolazioni, ma non ha avuto risposta.
Ha avuto invece risposta l’Arabia Saudita, che aveva proposto un piano di pace basato sul cessate il fuoco. Il ministro americano Rumsfeld, nel corso di un’audizione al Senato, ha escluso che possa essere presa in considerazione qualsiasi ipotesi di cessate il fuoco.
Intanto il super-ispettore dell’Onu, Hans Blix, ha dichiarato ai giornalisti che fino ad ora l'Iraq non ha usato nessun missile Scud (i missili proibiti a Bagdad dalla risoluzione dell’Onu del 1991). Il governo inglese però ha dichiarato ai giornalisti di «avere prove certe che Saddam Hussein sta pensando ad usare armi chimiche».

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DA - L'UNITA'

New York, pacifisti sdraiati sulla Quinta strada all’ora di punta
di Roberto Rezzo

NEW YORK. Contro la guerra è iniziata la disobbedienza civile nel centro di Manhattan. Ieri mattina centinaia di pacifisti si sono sdraiati in mezzo alla Quinta Avenue, all'altezza della 50ma Strada, proprio di fronte al Rockfeller Center, paralizzando il traffico dell'ora di punta. Si chiama die-in la nuova forma di protesta: ci si sdraia immobili per terra, come i morti ammazzati sotto le bombe a Baghdad. I poliziotti sono intervenuti in forze, il volto coperto dai caschi antisommossa e ha portato via i dimostranti di peso uno a uno (oltre un centinaio), li ha ammanettati con lacci di plastica e caricati sui cellulari verso il commissariato. I pacifisti non hanno intenzione di arrendersi, al sindaco Bloomberg e alla Casa Bianca mandano a dire che, sino a quando le truppe Usa non si saranno ritirate dal Golfo, a New York «non si farà business come al solito».

Mercoledì contro la campagna militare in Iraq ha preso la parola la Columbia University, la più grande e prestigiosa istituzione culturale della città, rilanciando una tradizione cominciata negli Stati Uniti durante gli anni '60, ai tempi della guerra in Vietnam: il teach-in. Oltre trenta eminenti professori hanno tenuto brevi lezioni della durata di circa un quarto d'ora ciascuna su tutti gli aspetti e le implicazioni di questa guerra. «Occorrono conoscenze tecniche per confrontarsi con il potere - ha spiegato all'Unità Victoria di Grazia, docente del dipartimento di Storia, tra gli organizzatori dell'iniziativa - In quest'epoca di comunicazioni Internet, tutti crediamo di avere le idee chiare sul mondo, ma di fronte a questa guerra post moderna ci accorgiamo di essere degli sprovveduti». Accademici di tutte le discipline si sono alternati dalle sei del pomeriggio a mezzanotte sotto la cupola della Low Library, hanno smontato pezzo a pezzo le argomentazione con cui l'amministrazione Bush ha trascinato gli Stati Unti in un conflitto «che viola tutti i principi del diritto internazionale». Centinaia di studenti ad ascoltare in sala, molti di più quelli rimasti in fila, sotto la pioggia, come neppure per una prima a Broadway, ad aspettare che si liberasse un posto per entrare. In tutto oltre tremila hanno seguito l’iniziativa.

«Parole, parole, parole. Che senso ha stare qui a parlare mentre già si spara, quando già si muore? - domanda Barbara Fields, professore di Storia, in uno degli interventi più applauditi - Perché dobbiamo riappropriarci di un linguaggio capace di contrapporre la verità a questa propaganda di morte, alle menzogne di questa amministrazione». È urgente ristabilire un principio di verità per capire la reale portata delle scelte di politica estera abbracciate dal presidente Bush. «In gergo si dice coprire la notizia - scherza Todd Gitlin, docente di giornalismo - ma qui a forza di coprire non si vede più niente. Cercate informazioni su Internet, guardate i canali stranieri, perché i nostri network televisivi, Cnn in testa, ci raccontano storie che nessuno al mondo crede, ci tengono in mezzo a una bolla di bugie». I dati di un sondaggio rivelano gli effetti di questa campagna servile e orchestrata dei mass media: il 50% degli americani è convinto che fra i dirottatori dell'11 settembre vi fossero diversi iracheni, il 23% non sa che rispondere e solo 17% la verità: nessun iracheno. Dal punto di vista dei professori del diparimento di Giurisprudenza, il problema della legittimità della guerra in Iraq neppure si pone: è un'occupazione illegale, viola lo statuto delle Nazioni Unite. «Powell dice sciocchezze quando sostiene che la risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza contiene un'autorizzazione automatica all'uso della forza. Se fosse così non sarebbe mai stata votata all'unanimità, Siria compresa».

La Casa Bianca sta cercando di costruire un impero senza egemonia, facendo conto sulla sua potenza militare, ma non fa i conti con la storia: più gli imperi si espandono a colpi di aggressioni, più aumenta il numero dei loro nemici e quindi la loro debolezza. «Siamo governati da un tirannosauro col cervello di gallina», denunciano i professori e Zainab Bahrani ricorda che sotto i bombardamenti dei missili intelligenti è stata distrutta l'Università di Baghdad, una delle più antiche del mondo, l'ateneo che è stato il centro culturale di tutta la Mesopotamia.

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DA - L'UNITA'

Tutti gli errori di Bush


di Silvano Andriani

Ora che la guerra è cominciata, guardando indietro, si può vedere che l’Amministrazione Bush ha compiuto alcuni importanti errori di valutazione. Probabilmente riteneva di poter raggiungere il proprio obbiettivo senza dover fare davvero la guerra; che fosse sufficiente minacciare di farla ed esibire l’infinita potenza bellica al cospetto dell'infima capacità militare dell’Iraq per indurre Saddam ad abbandonare il potere o i suoi ad abbandonarlo. Così non è stato e gli Usa la guerra la stanno facendo davvero, hanno indebolito politicamente i governi amici, logorato i rapporti con Francia, Russia, Cina e con un antico alleato, la Turchia.
Infine, come se non bastasse, stanno correndo il rischio di trasformare un brutale dittatore in un eroe della nazione araba.
È probabile che Bush fosse convinto, magari con l'aiuto di Powell, di poter convincere tutti gli europei, russi e cinesi a sostenere la sua guerra. E questo è un errore difficile da spiegare, visto che le divergenze non riguardavano aspetti tattici ma l'obbiettivo di fondo, che per gli Usa era, sin dall'inizio, di abbattere Saddam e per gli altri di disarmarlo.
Dopo l'11 Settembre gli Usa non hanno chiesto agli altri paesi di vedere insieme cosa fare per rendere il mondo più sicuro nel nuovo contesto che si era venuto creando, e di decidere insieme le priorità. No. Hanno deciso tutto per conto loro e hanno reso pubblica una nuova dottrina di politica internazionale, con la quale, riconoscendosi come unica superpotenza, si autoassegnano il compito di rendere il mondo più sicuro, modellandolo a propria immagine e somiglianza, hanno stabilito le priorità, individuando gli "Stati canaglia" da abbattere, con in testa l'Iraq e non certo per il timore delle armi di distruzione di massa. Così stando le cose, sperare che tutti gli altri governi si accodassero, a dispetto di un'opinione pubblica mondiale largamente sfavorevole, era chiedere troppo dalla vita.
C'è un altro errore che Bush potrebbe aver compiuto, se ha pensato di poter trarre vantaggio dalla vittoria militare nella prossima campagna elettorale, sperando magari che l'economia riparta dopo la guerra. Fra un anno probabilmente le fanfare della vittoria si saranno acquietate e gli statunitensi saranno alle prese con i problemi quotidiani, condizionati da una situazione economica che non è detto sarà migliore dell'attuale: è già capitato a Bush senior di vincere la guerra e perdere le elezioni.
Ma come sarà il dopo Saddam? Gli europei hanno fatto bene a tentare di cercare un minimo comun denominatore, discutendo del dopo Saddam. Esso dipende, in prima istanza, da come andrà la guerra. Non che la vittoria sia in dubbio: dipende dal prezzo di vittime e di distruzioni che comporterà. Più dolorosa sarà la guerra più difficile sarà il governo dell'Iraq. A parte questo, il resto dipende soprattutto dagli Usa e le principali scelte riguarderanno chi governerà l'Iraq e la questione palestinese. Possiamo immaginare due scenari, a seconda di quale delle due correnti di pensiero presenti nell'Amministrazione prevarrà.
Nello scenario peggiore prevale la tendenza definita, con un ridicolo ossimoro, «Imperialismo democratico». Ma c'è mai stata nessuna potenza imperiale che non abbia giustificato il suo imperialismo con l'intento di civilizzare il mondo? Se prevarrà questa tendenza, già ora prevalente, dobbiamo aspettarci che gli Usa vorranno mantenere il controllo dell'Iraq e delle sue fonti petrolifere,.per potere da quella posizione destabilizzare gli altri "Stati canaglia" che hanno già identificato nella regione - Iran e Siria - allo scopo, naturalmente,di democratizzare l'intero Medioriente. Ma anche Cheney e Wolfovitz sanno che quel tanto di sostegno o di neutralità che hanno ottenuto dai governi dell'area mediorientale li debbono proprio alla mancanza di democrazia: se in Medioriente ci fossero oggi governi eletti dal popolo essi sarebbero anti-Usa.
L'altra tendenza, quella dei "realisti", ha anch'essa voluto la guerra, ma per risolvere una situazione che riteneva senza via di uscita e che testimoniava il parziale fallimento della guerra del 1991. Se prevalesse questa tendenza ci sarebbe una maggiore disponibilità statunitense ad affrontare i problemi del governo dell'Iraq e della ricostruzione con un approccio multilaterale che faccia perno sull'Onu.
Anche per la questione palestinese vi sono due scenari possibili. Nel primo,quello per il quale Sharon è stato tra i promotori della guerra, gli Usa usano la maggiore forza acquisita nell'area per sostenere la repressione dei palestinesi e costringerli ad accettare il semistato offerto da Sharon. Nell'altro quella maggiore forza viene usata per indurre gli israeliani ad accettare la soluzione prevista dalla road map.
E probabile che, comunque vadano le cose le posizioni inglese e francese tenderanno a riavvicinarsi. Anche nel caso peggiore, che gli Usa intendano perseguire il disegno imperialista, difficilmente Blair vorrebbe e potrebbe seguirli su quella strada, visto che sostiene di partecipare alla guerra proprio per dare ad essa uno sbocco diverso. E sulla questione palestinese le posizioni francese ed inglese già oggi convergono.
Ricostituire una base unitaria degli europei è di importanza vitale per evitare che la guerra all'Iraq diventi l'inizio di un tragico confronto di civiltà e per affrontare successivamente le questioni europee che da tempo si trascinano irrisolte e che la vicenda irachena ci spalanca impietosamente sotto gli occhi.