Quei ponti spezzati che tornano a dividere

di PAOLO RUMIZ

L'occhio del missile inquadra il manufatto a forma di ponte, il cerchio si restringe, diventa un punto e, vai John, il punto diventa una palla di fuoco finché nella scatola nera compare la scritta deleted. Nel videogioco della guerra dal cielo, la distruzione pare un atto grammaticale, la declinazione di un participio passato. Anche la distruzione dei ponti. Vengono giù uno dopo l' altro, in queste settimane di raid. Sul Danubio, sulla Morava e altri fiumi che non avevamo mai sentito prima. Dopo l' impatto restano lì, con i tronconi nel vuoto. Ma non sono materia inerte. Lanciano avvertimenti a qualcuno. In una terra che è di per sé un ponte tra i mondi, i ponti hanno ancora un significato speciale, che da noi si è perduto. Ogni ponte che cade è un confine in più e una possibilità di riconciliazione in meno. In otto anni di guerra i ponti più antichi sono stati distrutti più per sradicare i simboli dell' appartenenza che per motivi militari. E d' istinto i giovani di Belgrado hanno scelto, in questi giorni, di fare da scudi umani con i loro canti e balli non accanto alle chiese o ai monumenti, ma lungo i ponti sulla Sava. "Ovunque nel mondo, in qualsiasi posto il mio pensiero vada o si arresti - scrive Ivo Andric nel suo Ponte sulla Drina - trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell' uomo di collegare, pacificare e unire tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, affinché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi". I ponti, scrive ancora il Nobel jugoslavo, sono più importanti delle case, più sacri e più utili dei templi; "appartengono a tutti e sono uguali per tutti, sempre sensatamente costruiti nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane". Abbiamo dimenticato che i ponti sono condensati di simboli. Una volta, nel nostro mondo, chi li costruiva era definito con una parola di speciale rispetto, pontifex, quasi il sovrappasso dell' acqua richiedesse un patto col Grande Spirito. La più alta carica della cristianità cattolica fu chiamata allo stesso modo: se il diavolo è "colui che divide", il pontefice è "colui che unisce". Allo stesso modo, se la costruzione del ponte è la più sublime delle ingegnerie, il suo abbattimento è la più impressionante delle distruzioni. "Sprofondano i ponti - commentava in questi giorni lo scrittore bosniaco Bozidar Stanisic - abbattuti dalla cultura della morte e della non speranza". Un ponte che cade è come una bestia che si piega sulle ginocchia dopo il colpo alla cervice. Lancia un segnale cosmico, spezza qualcosa nell' universo. Quando cadde il ponte di Mostar non fu un videogioco. Sprofondò nell' abisso, per un attimo acquistò una pesantezza che non aveva mai avuto, poi si smaterializzò nella gola della Neretva. Rimase - e sarebbe rimasta a lungo - la parabola sospesa di un ponte che non c' era, tesa fra i due tronconi che si chiamavano. Poi sorse un pianeta enorme, giallo-cartapesta, dai monti lunari dell' Erzegovina. Solo allora si vide la data. Era il 9 novembre 1993, quarto anniversario della caduta del muro di Berlino. Si vide che, con lo Stari Most, era franata l' illusione che la fine del comunismo sarebbe stata, per i popoli, una festa di primavera. Solo allora tacquero i mortai e abbaiarono i cani. Tre estati prima fu proprio quel ponte a dire che la guerra arrivava. Era sera, la brezza mediterranea entrava nella gola. Il fiume era gonfio, la settimana prima era piovuto, e i ragazzini si arrampicavano per un sentierino dopo i tuffi. Già si sparava in Croazia, ma la Bosnia emanava una pace infinita. Un vecchio venditore di souvenir ci offrì un caffè sul belvedere. Sedemmo sulla panca in pietra alta sulla Neretva, mangiammo piccoli dolci a forma di mezzaluna, parlammo di cose leggere. Solo al momento di congedarci il vecchio ci disse quasi con noncuranza: questa è l' ultima estate di pace. Il pittore di Mostar Affan Ramic era un uomo piccolo e scolpito di rughe. Lo incontrai a Sarajevo un giorno del ' 94, durante l' assedio. In un angolo in penombra, incideva su una tavola di legno il nome di suo figlio, morto al fronte pochi giorni prima. Parlò di come ne avrebbe preparato la tomba. Poi raccontò di Mostar, del ponte che non c' era più: solo allora pianse, disperatamente. Capii che quel ponte non era un manufatto, come per noi e il soldato John. Era il luogo della memoria che dava senso alla sua vita e persino alla morte di suo figlio. Allora tutto si illuminò di senso: dai fascisti croati lo Stari Most era stato abbattuto per questo. Per negare ai bosniaci il diritto alla memoria. I Balcani non hanno dimenticato i simboli. L' Oriente ci dice che nella nostra cultura c' è una finta razionalità, che nessuna bomba è intelligente, che le guerre scatenano nei popoli tempeste identitarie che nessun computer può prevedere. La nostra logica nei Balcani non funziona. Un giorno chiesi allo scrittore bosniaco Miljenko Jergovic se scrivere, di fronte a una guerra, non fosse abbaiare alla luna. Rispose che abbaiare alla luna serviva eccome: se i cani non protestassero, la luna resterebbe sempre piena. E se non ci fosse il vento, le ragnatele avrebbero già riempito il cielo intero. Poi parlò dello Stari Most, disse di Harjudin, l' architetto turco che lo fece. Quando la gente vide quella sfida all' abisso, disse: non reggerà. E invece durò tre secoli. Anche per raggiungere l' Aldilà, secondo la mitologia d' Oriente, l' uomo deve attraversare un ponte sottile come un capello e affilato come una spada. Quel ponte celeste si chiamava "Sirat Cuprija", e per poterlo passare l' uomo doveva essere puro di cuore. Jergovic disse che quel mondo desertificato dalla guerra, dove le colline e i tumuli si confondevano, ancora emanava la voce delle cose perdute. I ponti, specialmente. Tutta la guerra in Jugoslavia sembra concentrarsi sui ponti. Nel videotape della memoria ricompare quello della Maslenica, tra Fiume e Zara, in un surreale silenzio, all' ombra del monte Velebit che da duemila metri precipita su un mare cobalto. L' esercito serbo l' aveva preso a cannonate, spezzando in due la Dalmazia, e tutto il traffico croato era affidato alla spola di un traghetto tra la terraferma e l' isola di Pago. Un ingorgo impressionante di uomini, armi, merci e animali. Il ponte di Visegrad, quello raccontato da Andric, lo vidi da lontano nell' estate ' 92, intatto, indifferente all' inferno che era diventata la gola della Drina e ai cadaveri che scendevano lungo il fiume. A Bajna Basta, poco a valle, gruppi di banditi organizzavano i weekend di guerra. Partivano cantando sul ponte, e sul ponte tornavano carichi di masserizie rubate. Bastava star lì per capire cos' era davvero quella sporca guerra. Una rapina su scala industriale. Stranamente, i montanari serbi agli ordini di Karadzic non abbatterono ponti a Sarajevo. Bombardarono moschee, biblioteche, persino i cimiteri, ma non i ponti. Eppure ce n' erano tantissimi: Sarajevo è una città costruita sui due lati di una valle, e il fiume è la sua colonna vertebrale. Spezzarla sarebbe stato facilissimo. Non lo fecero, forse per superstizione, forse per non distruggere l' oggetto misterioso e oscuro del loro desiderio. Con lo scrittore Marko Vesovic camminai lungo il fiume verso le gole che portavano al nemico. Disse: da Oriente ci arriva l' acqua, la fede (Costantinopoli), ma anche tutte le tragedie. Eravamo accanto al ponte dove 80 anni prima un serbo di nome Princip colpì un principe austriaco, dando inizio alla Grande Guerra. E poi i ponti sul Danubio. Da quando sulla Jugoslavia sono stati cancellati i voli, a Belgrado si arriva via terra, attraverso i campi infiniti della Pannonia. Prima che tirassero giù il ponte di Novi Sad, il passaggio del grande fiume, poco oltre la fortezza mitica di Petrovaradin, era come un decollo, una lunga rincorsa tra i ciliegi, un volo sulle acque e il miracolo della loro continuità in mezzo a tante guerre. E ancora, l' ultimo ponte sulla Sava prima della confluenza col Grande Fiume, sotto la fortezza bianca del Kalemegdan, solitaria nella pianura. è la primavera del ' 91, e il Brankov Most trema, invaso da un fiume di studenti in marcia contro un potere che li porta verso la guerra. Per due giorni a Belgrado è la fantasia al potere, esplode la speranza di una rivoluzione di velluto che fiorisce in ritardo, ma con forza balcanica, fantastica e travolgente. Poi i manganelli, i lacrimogeni, i panzer per le strade. E allora, di nuovo su quel ponte, si vide che a Belgrado tutto cominciava e a Belgrado tutto doveva finire. Si comprese che lì, su quella confluenza di acque e di popoli, c' era il nero e il bianco, tutto il peggio e tutto il meglio di un mondo già alla deriva, un' isola nella corrente come nell' epilogo danubiano del film Underground. (18 aprile 1999) Quei ponti spezzatiche tornano a dividere.

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La coscienza lacerata
Impotenti davanti alla guerra



di UMBERTO GALIMBERTI

Come si vive ai confini della guerra? A poche miglia dal conflitto che distrugge terre vicine? O che priva della loro terra quelli che la storia e la geografia hanno assegnato come nostri vicini? è questo un genere di domande, come si vede un po' contorte, che rivelano il disagio della nostra coscienza. Un disagio che un po' proviamo e un po' sfruttiamo per mascherare quella che ciascuno di noi, più o meno consapevolmente, avverte come doppia coscienza. E questo perché da una parte siamo ai confini della guerra, e dall' altra siamo a tutti gli effetti in guerra. SE è vero infatti che gli aerei carichi di missili che piovono su terra serba partono dalle nostre basi, noi siamo "oggettivamente" in guerra con la Serbia. Lo saremo per "ragioni umanitarie", lo saremo per "fedeltà ai patti atlantici", ma, qualunque sia la motivazione, noi non siamo ai confini della guerra, ma siamo in guerra. Una strana guerra. Perché "oggettivamente" siamo schierati dalla parte di chi sta distruggendo la Serbia, e "soggettivamente" non abbiamo nulla contro il popolo serbo che consideriamo vittima, non meno della popolazione di etnia albanese cacciata dalla terra del Kosovo. Questa contraddizione tra i nostri comportamenti oggettivi e i nostri sentimenti soggettivi si traduce nel disagio della "doppia coscienza" che attraversa sia quelli che sono favorevoli alla guerra sia quelli che sono contrari, perché gli uni e gli altri vivono la dissociazione tra i loro atti oggettivi (la distruzione della Serbia) e i loro sentimenti soggettivi che non riescono a percepire nel popolo serbo il nemico. A questo primo disagio se ne aggiunge un secondo che turba non meno del primo le nostre coscienze. Nelle guerre che abbiamo conosciuto, morti, feriti e distruzioni si distribuivano da entrambe le parti, almeno fino alla fase finale dove una parte aveva il sopravvento sull' altra. In questa guerra no. Per la prima volta noi siamo in guerra, per ora, senza morti, senza feriti, senza distruzioni. Tutte queste terribili cose stanno dall' altra parte. Dalla parte dei serbi il cui territorio è stato praticamente distrutto e dalla parte dell' etnia albanese privata della terra che abitava. Noi, che non siamo solo ai confini della guerra, ma in guerra, possiamo concorrere all' opera di distruzione della terra di un popolo a noi vicino senza temerne per ora la ritorsione. Questa incolumità, già scontata all' inizio dei bombardamenti, non lascia intatta la nostra innocenza, come non è mai intatta l' innocenza del più forte quando entra in conflitto con il più debole. Ma c' è un terzo disagio avvertito da chi è in guerra e per giunta ai confini della guerra: il disagio dell' informazione. Giustamente ricca di notizie, di immagini e di sollecitazioni emotive per le sorti della popolazione di etnia albanese cacciata dalle terre che abitava, e ingiustamente povera di notizie e opaca di immagini e sollecitazioni emotive per le sorti della popolazione serba a cui le forze Nato stanno distruggendo la terra. Questa disparità di informazioni porta, tutti noi, anche se non ce lo proponiamo, a identificare senza riserve il popolo serbo con il suo feroce dittatore, con conseguente immediata assoluzione della nostra coscienza che, per effetto di questa identificazione, si trova immediatamente nel giusto, dalla parte cioè del perseguitato (la popolazione albanese) contro il persecutore (la popolazione serba). E così con un po' di semplificazioni, a cui sempre siamo disposti quando il disagio in cui ci troviamo diventa insopportabile, ci assolviamo dal primo conflitto che la nostra coscienza avverte nel trovarsi oggettivamente in guerra col popolo serbo senza essere nei suoi confronti ostile, e dal secondo conflitto che ci vede in guerra nella condizione di incolumi. QUESTA condizione di "coscienza lacerata", in cui il conflitto jugoslavo da un lato e la nostra Alleanza atlantica dall' altro ci hanno collocato, genera un' ultima sensazione di disagio, forse la più grave che non si concluderà con la fine della guerra. Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi (i popoli, le classi, le nazioni) come soggetti della storia, e al loro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia. Si tratta di soggetti un po' astratti, poco percepibili dagli individui e dai popoli come le regole di Maastricht per fare l' Europa, la potenza militare atlantica per mantenere l' ordine del mondo, l' Onu per decidere a seconda delle convenienze economico-politiche dove, a parità di tragedie, è opportuno o non opportuno intervenire, per cui individui e popoli sentono ogni giorno di meno di appartenere alla storia (che di loro dovrebbe essere, se no di chi?), e venendo meno questo senso di appartenenza avvertono ogni giorno di più di essere co-storici, quando non addirittura a- storici. Tale penso si senta il popolo di etnia albanese cacciato dalle terre kosovare che abitava, il popolo serbo che forse non ha granché da spartire con il dittatore che lo governa (ma come in Iraq il popolo paga duramente, e il dittatore continua a essere un interlocutore), e infine anche il popolo d' Occidente che entra ed esce incolume da una guerra "oggettiva", "soggettivamente" non percepita. Questa condizione co-storica o a-storica, a cui la politica in epoca di globalizzazione sta conducendo individui e popoli, genera in Occidente quel qualunquismo generalizzato che nasce dall' impotenza che ogni individuo e ogni popolo constata di fronte a quelle entità un po' astratte e scarsamente percepibili, perché di natura tecnica, economica e politica, divenute, sopra la testa degli individui e dei popoli, i veri soggetti storici, rispetto ai quali individui e popoli sono ricacciati nella grettezza del loro egoismo e particolarismo, senza più capacità o voglia di reazione. Il diffondersi di questa cultura dell' impotenza (dove la libertà si riduce a quella di ubbidire o disubbidire, e la democrazia alla manipolazione mediatica del consenso per via emotiva) è un fatto molto pericoloso che proietta la sua ombra al di là di questa guerra, in uno scenario caratterizzato dall' indifferenza politica dei popoli ben nutriti e nella sofferenza politica dei popoli mal nutriti. Ed è questo il maggior disagio che la coscienza di noi in guerra, ai confini della guerra, avverte come condizione mortificante e avvilente, perché questo sembra il nuovo corso della storia e decisamente insufficienti sembrano i mezzi a disposizione degli individui e dei popoli per modificarlo.

(17 aprile 1999)

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Dio, patria
e Rock'N'Roll



di MICHELE SERRA

Tra un ragazzo praghese che offriva fiori ai carristi russi e un ragazzo occidentale che manifestava contro la guerra nel Vietnam non era facile, a partire dai blue-jeans e dai capelli lunghi, marcare le differenze. C' è stato un tempo, tutto sommato lungo (diciamo, grosso modo, da Easy Rider ai rave-party...), nel quale ci è parso che il cosmopolitismo fosse, per i giovani del mondo quasi intero, un destino inevitabile e soprattutto condiviso. Oggi gli studenti di Belgrado cresciuti a rock' n' roll rivoltano il loro stesso ritmo contro i sorvoli Nato.

Ed è come assistere al disastro finale di un tacito, lunghissimo Piano Marshall infine vomitato dai suoi destinatari in faccia al mittente. I loro omologhi montenegrini disertano per non obbedire a Milosevic, preferendo onorare remote pulsioni micronazionali, memorie di re antichissimi, Lari e Penati i cui frantumi vengono ricomposti con devozione certosina, e furore quasi medianico, davanti ai focolari domestici. Ovunque rivegetano radici profonde e dimenticate, e sbucano dal suolo superficialmente mondializzato i fantasmi delle identità ancestrali: ossari di battaglie vecchie di secoli, santi vendicatori della fede, martiri della Nazione, decrepite date che ricominciano a sanguinare. I satelliti, che vagamente e forse presuntuosamente identificano in un campo smosso di fresco le tracce di una fossa comune, non riescono a sorvegliare e neppure a indovinare questo sinistro e rigoglioso risorgimento, che pure muta il territorio, e la sua percezione, ben più di quanto vogliano o possano gli eserciti e i bombardamenti. Se sono i vecchi pope maledicenti, gli anziani governanti, i consumati generali a predicare la guerra, sono poi i giovani, gli studenti, gli adolescenti ad accettarla, a farla e a sostenerne, sempre, ovunque, il maggior peso emotivo. Sono giovani i volontari russi che scalpitano per andare a battersi in Serbia, giovani i manifestanti di Belgrado, giovani i top-gun americani, tedeschi, francesi, italiani. Per la prima volta nella storia ascoltano la stessa musica, vedono gli stessi film, bevono la stessa birra, bivaccano in caffè e pubs identici, vestono gli stessi panni. Non è bastato, questo, a preservarli dalla guerra più di quanto sia accaduto, cinquant' anni fa, a un nero americano o a un cosacco o a un siciliano, lontani l' uno dagli altri quanto le loro diversissime culture, psicologie, antropologie, allora ancora separate, non comunicanti. Solo la guerra, allora, li fece incontrare. Oggi la guerra divide ciò che la pace era riuscita miracolosamente - ma quanto fragilmente - a unire.

Quanti hanno creduto e sperato (io pure) che il cosmpolitismo delle gioventù mondiali, lanciato in groppa allo sfrenato galoppo di consumi culturali assai simili, favorito dai viaggi, dagli incontri, dalla condivisione di un' identità e addirittura di un pathos giovanile comune, potesse favorire una convivenza meno bellicosa tra i popoli e le culture, devono ricredersi, e costringersi a ri-ragionare su moltissime cose. è come se una foresta dalla chioma uniforme ricominciasse a manifestare l' irrimediabile differenza delle sue radici. Che gli umori rimessi in circolo da queste radici siano spesso velenosi e altrettanto spesso pretestuosi, posticci come può esserlo il culto di identità etniche ormai cancellate dalle migrazioni e dalla storia, è cosa che rende ancora più grave il fallimento della precedente, supposta uniformità delle speranze e delle buone volontà. Ben superficiale doveva essere la patina del cosmopolitismo, se a bucarla ovunque sono le minute ma acute pulsioni etniche: evidentemente, e purtroppo, per molti è più desiderabile ed efficace un' identità locale, per quanto imparaticcia, piuttosto di un molto generico passaporto di cittadino del mondo, di quelli che sognavano i beatnik e gli studenti "alla pari" valicando decine di frontiere in autostop. Toccherà interrogarsi, di qui in poi, sulla precarietà e forse sulla stessa legittimità di un' idea di concittadinanza, di amicizia, di somiglianza che ha viaggiato, per decenni e per due generazioni almeno, solo a cavallo dei consumi, culturali e non. Che molti di noi, per due generazioni almeno, abbiano saputo aggiungere a un disco, a un paio di jeans, a un ostello promiscuo anche il serio e maturo sogno di sentirsi a casa anche in casa altrui, non toglie evidenza, e drammaticità, allo spaesamento che questa promiscuità, al contrario, produce in tanti altri, e oggi specialmente in tanti giovani. Un mostruoso, ricchissimo catalogo di risposte false (ma percepite come utili, e risolutive) sforna in mezzo mondo quantità industriali di nuove identità. Escono dai bauli vecchie uniformi, vecchie icone, vecchi "Dio è con noi" che propongono il confortante calore della tribù.

L' illusione che a mondializzare il mondo bastasse il mercato non pare, in questi giorni, meno patetica dell' illusione internazionalista, al cui ritirarsi, come quando la marea arretra, sono tornati alla luce tutti i rottami del nazionalismo, e neanche troppo arrugginiti. L' identità delle persone e dei popoli è, evidentemente, una faccenda ben più complessa e ambigua di quanto risulti dai gloriosi grafici che illustrano la penetrazione delle merci, la rapidità di circolazione delle notizie, l' incremento esponenziale del turismo, i matrimoni misti tra capitali finanziari e azioni. In mezzo a questa spaventosa crisi c' è di buono, almeno, che i concetti di reazione e progresso, pur ridisegnandosi, riacquistano senso, e un senso bene intelligibile e spendibile. Tipicamente reazionario è ripudiare lo spaesamento della mondializzazione riaprendo i vecchi bauli della razza e della nazione.

Tipicamente (e disperatamente, oggi) progressista è ricominciare a chiedersi quali strade sminare, quali frontiere dismettere perché nuovamente si possano incontrare e parlare, domani, coloro che la guerra divide: i giovani soldati e i giovani profughi, prima di tutto, perché toccherà a loro, per forza, riprendere il cammino di una vita che per i capi di oggi, che sono i giovani di ieri, è meno promettente, e molto più breve. Internet, musica e cinema, viaggi geografici e quelli virtuali, chissà. Purché si possa ripartire proprio da quel poco di utile, e di generoso, che la breve era cosmopolita ha lasciato sul campo, disperso e malinconico come le lattine dopo un concerto rock. C' è, in mezzo alle macerie, un disco rotto da raccattare. Il vantaggio è che ognuno dei reduci, l' americano, il serbo, il kosovaro, può riconoscere dalle prime note qual è la canzone. E' quasi nulla, come vantaggio, ma è forse il solo che ci lascia il nostro secolo lungo.

(16 aprile 1999

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Le due anime
dell'America



di BERNARDO VALLI

Henry Kissinger è un classico. Zbigniew Brzezinski è, al contrario, un romantico. Il primo, un americano nato in Baviera da una famiglia ebrea tedesca sfuggita al nazismo, è fedele alla tradizione europea basata sull' equilibrio delle potenze. Il secondo, un americano di origine cattolica polacca, è vincolato all' ideologia ed è più brutale, al tempo stesso più innovatore. Da queste posizioni, i due grandi intellettuali, tanto utili per capire i rapporti degli Stati Uniti con il resto del mondo, esprimono ovviamente giudizi assai diversi sulla crisi balcanica. KISSINGER critica le democrazie occidentali (vale a dire Clinton) per avere proposto a Rambouillet una soluzione inaccettabile per i serbi e paventa il vuoto che aprirebbe la scomparsa della Serbia dallo scacchiere dei Balcani. All' opposto Brzezinski è interventista: anche perché (con slancio polacco) al di là di Milosevic impegnato a reprimere i kosovari vede il russo Eltsin che ha fatto altrettanto in Cecenia, ed altresì il regime bielorusso "ammiratore di Hitler", e perciò tanto solidale con quello jugoslavo di Belgrado. Entrambi, Kissinger e Brzezinski, prevedono l' impiego delle truppe di terra. Kissinger lo considera una conseguenza ineluttabile della campagna in corso: la quale, una volta cominciata, non può più essere sospesa e ancor meno chiusa prima di avere raggiunto l' obiettivo. La posta in gioco è ormai troppo alta: è in ballo la sopravvivenza della Nato, spina dorsale dell' impero in un' area essenziale quale è l' Europa: quindi irrinunciabile. Anche Brzezinski vede in un eventuale cedimento di fronte a Milosevic il funerale della Nato, ma per lui la discesa degli occidentali al suolo non è la fatale conseguenza dell' intervento, è un atto dovuto: è il passaggio da una strategia cauta e graduale, insomma insufficiente sul piano militare, a una strategia intensiva e massiccia, la sola risposta appropriata "al genocidio e alla pulizia etnica cui stiamo assistendo". Mi pare implicita in Brzezinski la condanna definitiva di Milosevic. Come si può trattare con il responsabile di un genocidio? Egli va del resto oltre suggerendo la confisca dei beni jugoslavi in Occidente al fine di risarcire gli abitanti del Kosovo. Traspare invece in Kissinger la preoccupazione del vuoto che si può creare in Serbia. Il suo vocabolario è comunque più castigato. Dietro questi giudizi sul primo conflitto "caldo" in Europa dal 1945, si intravedono due visioni del ruolo degli Stati Uniti nel mondo postcomunista, in cui sono rimasti la sola superpotenza in esercizio. Due visioni basate su esperienze dirette circa le possibilità e i limiti dell' azione americana, essendo sia Kissinger sia Brzezinski due professori universitari, due analisti, due politologi, che hanno lavorato nei meccanismi del potere: il primo come segretario di Stato con Nixon; il secondo come consigliere per la sicurezza con Carter, e poi consigliere di Reagan durante la crisi polacca, che ha preceduto il crollo dell' Unione Sovietica (e, in quello stesso periodo, alleato-complice di Papa Wojtyla: il quale, adesso, nella crisi balcanica, si trova invece sull' opposto fronte pacifista).

Potrei certo ricorrere ad altri intellettuali americani con un' esperienza del genere alle spalle. Penso a James Schlesinger, ex segretario alla Difesa ed ex capo della Cia, autore di Fragmentation and Hubris. A Shaky Basis for American Leadership: in cui si descrive un' America più dedita agli interessi particolari che agli interessi nazionali, e indifferente alle sorti del mondo, nonostante il potere, la Casa Bianca, gli dedichi appassionati discorsi. Penso anche a Richard Haass, ex collaboratore del National Security Council, autore di Reluctant Sheriff. The United States after the Cold War": in cui è analizzata proprio la ripugnanza americana a intervenire militarmente con il rischio di perdite umane. Ripugnanza, secondo Haass, che limita e rende effimera l' egemonia americana. Kissinger e Brzezinski hanno espresso tuttavia con maggior chiarezza, per noi europei, la loro visione in due opere recenti: il primo in Diplomacy, il secondo in The Grand Chessboard: e il fatto che nel suo libro Kissinger abbia soprattutto analizzato con fredda intelligenza il passato e Brzezinski abbia affrontato con geniale passione il futuro, rende ancora più interessanti i loro discorsi. I quali, alla fine, guidati entrambi dalla Storia, sostanzialmente convergono.

Kissinger ci presenta il carattere ambivalente degli Stati Uniti: da un lato il paese isolazionista, la cui vocazione si limita ad essere un esempio per il resto dell' umanità; dall' altro il paese interventista, la cui vocazione non si riduce all' esempio e vuole salvare attraverso l' azione il resto dell' umanità diffondendo la democrazia e dunque la pace. Le due anime hanno un' aspirazione comune: quella di vedere il pianeta adottare i valori universali incarnati dall' America; ed entrambe sono riluttanti, anzi rifiutano di confondere gli Stati Uniti con altri paesi, di metterli sullo stesso piano, fosse anche in una posizione da primus inter pares, nel quadro di un equilibrio multipolare. Kissinger resta fedele alla formula classica dell' impero e dell' equilibrio, alla quale non c' è per lui alternativa. Per questo è stato paragonato, non senza ironia, al Metternich del Congresso di Vienna (1815). Nel dopo guerra-fredda si è reso conto che il mondo non è diventato, come si pensava, unipolare e con una sola incontrastata superpotenza, e quindi che la geopolitica postcomunista non esentava dalla tradizionale ricerca di un equilibrio tra gli Stati che contano. Si è creata una situazione multipolare che impone come nel passato una serie di pazienti calcoli tendenti a una convivenza tra l' impero e gli altri. Calcoli a cui l' America è refrattaria. Kissinger riconosce ovviamente la sua supremazia, ma gli sembra più relativa di quel che appare. Più fragile di quel che si dice. Vede affiorare altri centri di potere, di cui non si conosce ancora il peso e l' orientamento (la Cina, il Giappone, l' Europa, la Russia, forse l' India): li vede delinearsi, con forme ancora incerte, da studiare col tempo.

Il gran fracasso dei mass media è come una nebbia che cancella i dettagli e lascia vedere soltanto una sagoma rudimentale della realtà in mutazione. L' idealismo americano è per sua natura contrario a una politica di puro equilibrio: eppure la diplomazia classica è indispensabile all' impero che esercita la sua egemonia in un mondo multipolare. Il giudizio di Kissinger sulla crisi balcanica è coerente a questo principio. L' Occidente (in sostanza Clinton) non ha applicato il metodo appropriato alla situazione. Ha trascurato la Russia; l' universo ortodosso che si sente solidale con la Serbia; si pensi alla Grecia, paese della Nato in questa congiuntura ancor più contrapposto alla Turchia, altro pilastro dell' alleanza; e agli altri paesi dei Balcani. E le conseguenze per la Nato? Il professor Kissinger può distribuire bacchettate. La visione di Brzezinski è più americana. è più dinamica, scavalca la nozione statica dell' equilibrio tra le potenze; è anche più ottimista, nel senso che contempla la trionfante egemonia degli Stati Uniti; egemonia che, pur essendo insidiata dal mondo multipolare, sarà superata col tempo soltanto da un ordine cooperativo mondiale. In sostanza gli Usa sono l' ultimo impero universale, grazie alla superiorità senza rivali in tutti i campi: economico, tecnologico, culturale e militare. è tuttavia un impero di tipo nuovo: simile al suo sistema interno. Vale a dire che implica una struttura complessa, articolata in modo da provocare il consenso e attenuare gli squilibri e i disaccordi. "Così la supremazia globale americana riposa su un sistema elaborato di alleanze e di coalizioni che copre, in concreto, l' intero pianeta".

Ne risulta per Brzezinski la necessità di una doppia politica: una tesa a mantenere, per almeno un' altra generazione, l' egemonia degli Stati Uniti; l' altra tesa ad incoraggiare gli alleati e gli ex avversari ad entrare in un sistema che prepari appunto un governo mondiale, facendo in modo che i partner non diventino troppo indipendenti. L' Europa costituisce la testa di ponte della democrazia, dunque dell' America, sul continente euroasiatico. E' bene favorire la sua unità, sulla base dell' intesa franco-tedesca, evitando però che conquisti un' autonomia eccessiva. Il capitolo dedicato alla Russia ha un titolo esplicito: "Il buco nero": l' americano polacco sottolinea il pericolo che costituisce l' ex superpotenza: non si tratta di distruggerla o di escluderla ma di impedirle di ridiventare un impero minaccioso per i vicini. Per questo si devono curare i rapporti con i paesi limitrofi (la Cina, ma anche la Turchia, l' Iran, l' Ucraina, l' Azerbajdzhan e l' Uzbekistan): e favorire gli investimenti americani nell' Eldorado petrolifero sul Mar Caspio per evitare che la Russia ne approfitti.

Sulla severità di Brzezinski nell' analizzare la crisi balcanica pesa anche il sospetto che Mosca ne possa trarre prestigio e comunque vantaggi: sia come punto di riferimento per il mondo slavo ortodosso frustrato, sia come capitale intermediaria tra Milosevic e l' Occidente. Un compromesso su quest' ultima base sarebbe un' umiliazione inaccettabile per la Nato. Siamo ben lontani dagli equilibri di Kissinger. Ma anche il "discepolo di Metternich" sostiene, in queste ore, che, se vuole sopravvivere, la Nato deve vincere in modo netto. Avverte tuttavia, nella sua ultima opera, che una delle profonde differenze tra l' analista politico e l' uomo di Stato risiede nel fatto che il primo è padrone del proprio tempo quando decide una conclusione; mentre il secondo è sottoposto in permanenza a una corsa contro l' orologio. Inoltre uno non rischia nulla, mentre l' altro può rischiare tutto. Insomma, se partecipasse ancora al potere, Zbigniew Brzezisnki avrebbe altri impulsi, o modererebbe quelli che ha.

(16 aprile 1999)

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L'arte della guerra
a fine millennio



di HANS MAGNUS ENZENSBERGER

1. Le ragioni classiche di una guerra sono: conquista, interessi geostrategici, lotta per i canali commerciali, i mercati di sbocco e la disponibilità di materie prime. Nessuno di questi motivi gioca un ruolo nel conflitto odierno. E questo spiega l' incredibile quantità di supposizioni che l' Occidente ha avanzato. La più convincente appare ancora quella della difesa dai flussi di profughi nei paesi dell' Ovest, un "interessse nazionale" in senso tradizionale, che però nessuno sbandiera pubblicamente. Una guerra per motivi umanitari appare inimmaginabile agli scettici, ma la loro caccia a malevoli secondi fini americani non ha portato finora alcun frutto. Può darsi che si tratti effettivamente di un novum storico.

2. Nel contempo è venuta fuori la bizzarra idea che si possa far la guerra senza che si lamentino morti. Anche questa è una cosa mai successa fino ad ora. Un pensiero del genere può prender piede solo in società del benessere viziate dalla pace e che si ritengono erroneamente immuni da tutte le pretese della Storia. Nuova è anche la regola che la popolazione civile debba essere risparmiata. SI tratta di un' inversione di marcia sorprendente. Nella Seconda guerra mondiale uccidere quanti più civili tedeschi possibile era ancora un obiettivo dichiarato dal Comando dei bombardieri alleati.

3. Se però viene fatta violenza alle persone, i media sanno differenziare le cose in modo piuttosto singolare. Tre soldati americani che sono stati fatti prigionieri, in televisione e sulla stampa hanno lo stesso peso di una o due dozzine di serbi feriti o ammazzati, e questi a loro volta hanno un peso pari a quello di duecentomila kosovari cacciati dal loro paese. Il peso specifico di una vita umana è evidentemente un misura variabile.

4. Un dittatore che da oltre dieci anni si dedica con grande energia e notevole successo alla rovina della sua nazione viene descritto unanimemente come nazionalista. La distruzione del Paese avviene in mezzo all' entusiastico giubilo di grandi parti della popolazione. Si tratta di una sindrome che dovrebbe riuscir nota ai tedeschi.

5. Mentre nella parte serba il comune accordo è totale, in Occidente c' è un contrasto con fronti sorprendenti. I resti del movimento pacifista fanno dimostrazioni in Germania fianco a fianco con i fautori di un crimine di guerra. Fra comunisti, gaullisti e radicali di destra si approda a strane alleanze.

6. Anche il mondo islamico mostra delle crepe. La sua solidarietà con i compagni di fede perseguitati lascia a desiderare. I ricchi paesi del petrolio non muovono un dito per i musulmani cacciati e lasciano che siano gli infedeli dell' Occidente a soccorrerli.

7. La guerra dei media procede asimmetricamente. La Cnn invita il governo di Belgrado a esprimersi senza riserve e trasmette ringraziando le sue accuse contro la Nato. Questo è, al pari dell' aperto contrasto di opinioni, un segno di forza. Le bugie frontali della parte serba sono goffe a paragone della censura militare dell' Ovest, che si limita a passare sotto silenzio fatti indesiderati.

8. Le vittime in questione non vengono interpellate sulla loro visione delle cose. Nessuno sembra considerarle competenti. Eppure è la loro terra quella per cui si combatte. Esse conoscono il Kosovo meglio di ogni militare a Bruxelles o a Washington. Il territorio è a loro familiare, sono motivate al massimo e molto più decise a combattere i loro aguzzini che non un soldato proveniente dal Minnesota, da Sheffield o da Mainz. Perché l' Occidente non le arma?

9. Anche per i problemi dei diritti dei popoli si offre una semplice soluzione. Gli albanesi del Kosovo hanno scelto da anni con una maggioranza schiacciante un parlamento e un governo. Perché questo governo non viene riconosciuto dai paesi della Nato? Precedenti ne esistono a sufficienza. L' argomento che l' intervento in Kosovo viola la sovranità serba sarebbe così liquidato, la guerra difensiva degli albanesi sarebbe legittimata dal diritto dei popoli.

10. Fra la guerra dei serbi in Kosovo e la guerra della Nato nel cielo sopra i Balcani c' è una differenza temporale di quattrocento anni. Chi si vuol fare un quadro dei saccheggi, dei danni prodotti dagli incendi, dei massacri, degli orrori della soldatesca serba, non si dovrebbe affidare alla Cnn, ma dovrebbe leggersi i racconti europei della Guerra dei Trent' anni.

(15 aprile 1999)

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Ma non è l'Olocausto


di DAVID GROSSMAN

Quando ascolto le testimonianze dei profughi fuggiti dal Kosovo, penso tra me e me: se mi avessero cacciato da casa, dandomi dieci minuti per fare i bagagli, che cosa mi sarei portato dietro? Cibo? Acqua? Una coperta? E che cosa avrei preso per i bambini: forse il loro giocattolo preferito? Dolci? Latte in polvere? Qualche medicina? E che cosa si porta con sé per sopravvivere non soltanto nelle successive ventiquattro ore, ma per conservare nei giorni a venire anche il proprio passato, la memoria e l'identità? Forse gli album delle foto, documenti importanti, vecchie lettere.

Vorrei che ognuno pensasse per dieci secondi a che cosa avrebbe portato con sé in circostanze simili, e a che cosa potremmo dare a chi oggi si trova realmente in quelle condizioni.

Noi israeliani siamo molto lontani dal Kosovo e non possiamo fare molto. Tuttavia negli ultimi giorni finalmente Israele si è svegliata e si muove. Così avremmo voluto vedere sempre noi stessi, in ogni situazione analoga: sensibili alla sofferenza altrui, capaci di identificarci completamente con chiunque subisca un torto, con ogni vittima, profugo o gente cacciata dalla propria casa, utilizzando la nostra grande forza, le nostre possibilità economiche, per riparare finalmente qualcosa nel mondo.

So che alcuni paragonano quello che sta avvenendo in Kosovo con l'Olocausto. Io rifiuto questo genere di paragone. Primo, perché le catastrofi non possono essere confrontate: probabilmente c'è un bisogno umano di catalogare, paragonare, mettere in relazione gli eventi, ma credo che ogni confronto sia ingiusto verso entrambe le tragedie. Poi ci sono differenze sostanziali tra l'una e l'altra. I serbi non stanno cercando di sterminare gli albanesi del Kosovo, mentre l'obiettivo dei nazisti era cancellare l'intero popolo ebraico dalla faccia della terra. Intendevano far scomparire gli ebrei non da un territorio, ma dal mondo, in quanto razza da estinguere, e insieme alla razza estinguere la cultura ebraica, le sue tradizioni, la sua storia.

Da questo punto di vista, la pulizia etnica contro i kosovari e il genocidio contro gli ebrei non sono paragonabili. Eppure immagino che Milosevic abbia studiato attentamente le tecniche usate dai nazisti nella Shoa: la sua operazione contro i kosovari viene compiuta sistematicamente, cinicamente, e sembra che fosse preparata da molto tempo nei minimi dettagli.

Quello che i serbi stanno facendo in Kosovo non è altro che il trasferimento di un popolo, un'espulsione di massa da un paese all'altro: ciò che da noi in Israele viene chiamato "transfert" dal partito di estrema destra che propone appunto di espellere un milione di arabo-israeliani. Dunque faremmo bene a osservare attentamente le immagini che ci arrivano dal Kosovo, per comprendere esattamente il significato più autentico di quella realtà. Dobbiamo capire in che modo può avverarsi un sogno distorto, coltivato anche da alcuni di noi israeliani; e forse così potremo cancellare definitivamente questa ignobile possibilità dal nostro vocabolario.

Le azioni umanitarie compiute in questi giorni da Israele vengono seguite con occhi particolarmente attenti dai nostri vicini: è indiscutibile che il sostegno offerto ai profughi albanesi avviene senza alcun riguardo alla loro religione o fede, vengono aiutati semplicemente perché sono persone bisognose, e questo è il lato più umano e più bello della nostra solidarietà. In Israele dobbiamo essere consapevoli che l'assistenza ai kosovari avrà una grande importanza anche nel nostro dialogo con i paesi arabi confinanti. E avrà un effetto fondamentale nel cuore dei cittadini arabi di Israele: vedranno che, forse per la prima volta, lo Stato cui appartengono si mobilita con tutta la generosità di cui è capace per quelli che loro considerano fratelli, per altri musulmani.

Mentre aiutiamo gli albanesi del Kosovo, mentre trasmettiamo ai kosovari la nostra solidarietà, c'è una domanda che mi sembra doverosa: come è possibile che quando si tratta di profughi perseguitati lontano dai nostri confini, noi israeliani siamo così pronti a comprendere la loro sofferenza, così entusiasti di aiutarli; mentre a quanto pare ci è difficile o addirittura impossibile avvicinarsi alla sofferenza dei profughi che sono i nostri vicini di casa, i palestinesi, gente nella cui tragedia siamo direttamente coinvolti da oltre mezzo secolo.

Bisogna aiutare i profughi albanesi con una motivazione universale: perché sono gente disperata. Genitori, bambini, vecchi senza più speranza. Certo, aiutarli è un'operazione vasta e complessa, ma comunque, alla fine della lunga catena, si trova sempre un uomo che riceve almeno una pagnotta o un piatto di riso, e noi ebrei in questi giorni pensiamo a lui, a quest'uomo. Perché nessuno sa meglio di noi che una persona cacciata dalla propria casa, i cui parenti sono stati uccisi, che deve lottare per un pezzo di pane o per trovare una coperta per scaldarsi, può perdere facilmente la voglia di vivere. E se gli daremo qualcosa, una tenda, un piatto di minestra, medicinali per i suoi bambini, salveremo non solo la sua vita e quella di suo figlio, ma gli daremo forse, in mezzo a tutta la disperazione in cui si trova, l'ultima ragione per voler continuare a vivere.

E proprio perché essere profugo e sradicato è una condizione che ci è tanto familiare, come figli del popolo ebraico, proprio per questo noi dobbiamo essere presenti, là, nei campi profughi del Kosovo, quando è in atto una tale tragedia. A noi è vietato negarla. Poiché anche chi è nato qui in Israele e non è mai stato esule, profugo e nemmeno emigrante, conosce dai racconti uditi dai nonni o sfogliando l'album di famiglia o da quello che gli è inciso nei geni, cosa vuol dire essere cacciato, umiliato, vittima. Nel momento in cui contribuiamo agli aiuti, formuliamo una possibilità di un comportamento umano diverso, senza dubbio migliore, fra un uomo e il suo prossimo, e più in generale tra popoli e genti. Con ogni spicciolo che noi diamo, con ogni indumento o vaccino contro l'epatite comprato con quei soldi, noi in realtà diciamo: è possibile agire diversamente, è possibile essere diversi, e quanto più lo faremo con generosità e determinazione, tanto più questo sistema diventerà naturale e diffuso. Occorre ribadirlo a voce alta e limpida, con parole fatte di pane, di latte e di riso: noi non siamo disposti a lasciare l'arena al dominio incontrastato dei comportamenti bestiali e dell'indifferenza.

Albert Camus diceva che questo passaggio fra discorrere sulla moralità e l'azione morale ha un nome: si chiama "diventare uomo". Oggi, di fronte al Kosovo, quell'espressione ha una valenza concreta, semplice e immediata: dare, contribuire, tendere la mano a chi soffre.
(traduzione di Sarah Kaminski)

(14 aprile 1999)

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Se il Dio dei popoli
combatte nei Balcani



di GAD LERNER

Il nostro continente rischia dunque di riscoprirsi all' improvviso spezzato dalle storiche nozioni di Oriente e Occidente. Là dove correva la cortina di ferro, torna minaccioso a proporsi il fantasma del primo grande Scisma della cristianità, se è vero che Stati neppure tutti confinanti tra loro come la Serbia, la Russia e la Bielorussia - grazie al potere suggestivo degli antichi simboli comuni, riesumati dalle ceneri del comunismo - addirittura meditano di fondersi in una federazione. Il nostro ecumenismo laico, erede di una tradizione giudaico- cristiana deprivata dei suoi riferimenti alla trascendenza, da noi rimodellati in forma di ideali civili, alla fine del millennio viene chiamato a fare i conti col fenomeno nuovo delle etno-religioni. HA CERTO ragione da vendere chi, come Paolo Rumiz nei giorni scorsi, ci mette in guardia dagli abusi storici e dalle manipolazioni propagandistiche che contraddistinguono l' irrompere minaccioso delle etno-religioni. Ma resta il fatto della loro proliferazione a Oriente, per mano consapevole dei Patriarcati delle Chiese ortodosse di Russia e di troppi leader politici rosso-bruni. Il mito ascetico dei "folli in Cristo" nuovamente s' incontra col mito guerriero del principe Lazzaro evocato da preci irriducibili: "Con cuore virtuoso e per amor di pietà hai affrontato il serpente e il nemico delle chiese di Dio, giudicando che il tuo cuore non avrebbe tollerato la vista dei cristiani sottomessi agli Ismaeliti". è evidente che preghiere altrettanto bellicose si possono rintracciare pure tra i crociati cattolici, i combattenti dell' Islam e dell' ebraismo. Anzi, bisogna pur dire che in altre zone del pianeta, dalla metà degli Anni Settanta in poi, l' integralismo religioso ha scatenato purtroppo più di una guerra santa. Il richiamo al divino quale strumento di organizzazione dei conflitti sociali e di civiltà, è una modernissima conseguenza della globalizzazione. Ma intanto dobbiamo fare i conti con i Balcani e più in generale con un' Europa nella quale le spinte unificanti a fatica contrastano quel processo di frantumazione da cui già sono nati numerosi nuovi Stati e staterelli, per lo più fondati su base etnica. Danièle Hervieu-Léger, nel primo volume della "Storia d' Europa" (Einaudi) descrive le etno-religioni come una conseguenza dei "mutamenti storici che fanno vacillare le strutture mentali degli europei". Proliferano le "domande identificanti" in risposta all' "accentuata diffusione dell' individualismo". I loro inventori cercano di salvare "la finzione dell' appartenenza comunitaria" e adoperano le religioni storiche "come una materia prima simbolica, estremamente malleabile, suscettibile di diversi trattamenti a seconda delle esigenze dei gruppi che vi attingono".

Così si elaborano le identità etniche, poco importa se fasulle. I simboli religiosi vengono mobilitati in funzione identificante, dalla Giovanna d' Arco manipolata da Le Pen fino al beato Basilio moscovita. Come dimenticare, dieci anni dopo la promulgazione della "fatwa" contro Salman Rushdie, che furono i giovani indo-pakistani in scarpe da tennis, immigrati di seconda generazione, a imporla al Consiglio delle moschee di Bradford, ben prima del sigillo pervenuto da Teheran? Lo spiega bene Gilles Kepel ("A ovest di Allah", Sellerio), dimostrando come anche il fondamentalismo islamico sia piuttosto il prodotto moderno di una crisi della laicità dentro i circoli universitari, approdato solo in un secondo tempo nei ghetti e nelle bidonvilles. Si tratta, in tutti questi esempi, di manipolazioni dei più antichi simboli religiosi. Quando tre anni fa, in casa nostra, Umberto Bossi cercò di ancorare una posticcia identità etnica dei Padani all' improbabile invenzione del dio Eridanio sorgente dal Po, precipitò nel ridicolo. E non a caso oggi anche lui - abiurato in fretta e furia il neo-paganesimo - preferisce riconoscersi nello "scudo cristiano" minacciato dal ritorno dell' "impero musulmano" con l' aiuto dell' Anticristo a stelle e a strisce.

Le etno-religioni hanno bisogno di solidi riferimenti al sacro, come tali in grado di alimentarsi dalle tragedie storiche più recenti. Come dimenticare, ad esempio, che alle spalle del nuovo nazionalismo di Belgrado ci sono anche gli anni feroci della Seconda guerra mondiale, quando i serbi venivano massacrati a centinaia di migliaia nel lager croato di Jasenovac in cui agivano anche dei frati francescani come il famigerato Filipovic? Nei tempi bui delle etno-religioni, anche i leader democratici dell' Occidente laico sono tentati di ricorrere all' immagine di Milosevic quale "nuovo Demonio", com' è scappato detto a Tony Blair. Perché la guerra europea torna ad assumere le vesti di guerra di religione. La trasformazione è impressionante, nel confronto con gli altri conflitti di questo secolo. è stato, indubbiamente, un secolo costellato di pulizie e trapianti etnici di intere popolazioni. Non possiamo dimenticare neppure che nella primavera di sessantuno anni fa la stessa nascita dello Stato di Israele fu favorita dall' evacuazione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi, benché non vi sia paragone possibile con la ferocia di quanto avvenuto in Bosnia e in Kosovo. Se cito questo esempio "imbarazzante", è per rilevare le profonde differenze culturali rispetto all' epoca delle etno- religioni. Le due correnti sioniste che combattevano in Palestina, quella socialista e quella revisionista, erano entrambe profondamente laiche. Zvi Kolitz, il militante dell' Irgun che ci ha consegnato un meraviglioso apocrifo in cui raffigura l' ultimo ebreo combattente del ghetto di Varsavia ("Yossl Rakover si rivolge a Dio", Adelphi), esibisce addirittura sfrontatezza nel rivendicare la propria emancipazione dal Signore: "Credo nel Dio d' Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui... Il mio rapporto con lui non è più quello di uno schiavo verso il suo padrone, ma di un discepolo verso il suo maestro. Chino la testa dinanzi alla sua grandezza ma non bacerò la verga con cui mi percuote". Nel Novecento, fino a poco tempo fa, neppure in Terrasanta si osava combattere nel nome di Dio. Sono le etno-religioni, oggi, in Europa, a disseppellire il dio della guerra e a proporlo come supremo garante dei confini. Confini etnici, appunto, o ancor peggio confini tra mondi, tra il Bene e il Male, tra l' Oriente e l' Occidente.

Speriamo di fermare in tempo questa nuova, surreale concezione della guerra. Facendo televisione, in questi giorni, si viene sommersi da lettere astruse di pseudo-esperti che sventolano vigorosamente le più varie ascendenze etniche, richiamando la nobile origine degli albanesi negli illiri, piuttosto che la slavità di molte popolazioni musulmane europee. Così incede la balcanizzazione dei nostri cervelli. Qualcuno un giorno o l' altro si metterà in testa di riesumare dal Duomo di Otranto le ossa dei martiri cristiani trucidati dai saraceni, per dimostrare che gli albanesi sono nostri nemici.

(13 aprile 1999)

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