Quei ponti spezzati che tornano a
dividere di PAOLO RUMIZ L'occhio del missile inquadra il manufatto a forma di ponte, il cerchio si restringe, diventa un punto e, vai John, il punto diventa una palla di fuoco finché nella scatola nera compare la scritta deleted. Nel videogioco della guerra dal cielo, la distruzione pare un atto grammaticale, la declinazione di un participio passato. Anche la distruzione dei ponti. Vengono giù uno dopo l' altro, in queste settimane di raid. Sul Danubio, sulla Morava e altri fiumi che non avevamo mai sentito prima. Dopo l' impatto restano lì, con i tronconi nel vuoto. Ma non sono materia inerte. Lanciano avvertimenti a qualcuno. In una terra che è di per sé un ponte tra i mondi, i ponti hanno ancora un significato speciale, che da noi si è perduto. Ogni ponte che cade è un confine in più e una possibilità di riconciliazione in meno. In otto anni di guerra i ponti più antichi sono stati distrutti più per sradicare i simboli dell' appartenenza che per motivi militari. E d' istinto i giovani di Belgrado hanno scelto, in questi giorni, di fare da scudi umani con i loro canti e balli non accanto alle chiese o ai monumenti, ma lungo i ponti sulla Sava. "Ovunque nel mondo, in qualsiasi posto il mio pensiero vada o si arresti - scrive Ivo Andric nel suo Ponte sulla Drina - trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell' uomo di collegare, pacificare e unire tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, affinché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi". I ponti, scrive ancora il Nobel jugoslavo, sono più importanti delle case, più sacri e più utili dei templi; "appartengono a tutti e sono uguali per tutti, sempre sensatamente costruiti nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane". Abbiamo dimenticato che i ponti sono condensati di simboli. Una volta, nel nostro mondo, chi li costruiva era definito con una parola di speciale rispetto, pontifex, quasi il sovrappasso dell' acqua richiedesse un patto col Grande Spirito. La più alta carica della cristianità cattolica fu chiamata allo stesso modo: se il diavolo è "colui che divide", il pontefice è "colui che unisce". Allo stesso modo, se la costruzione del ponte è la più sublime delle ingegnerie, il suo abbattimento è la più impressionante delle distruzioni. "Sprofondano i ponti - commentava in questi giorni lo scrittore bosniaco Bozidar Stanisic - abbattuti dalla cultura della morte e della non speranza". Un ponte che cade è come una bestia che si piega sulle ginocchia dopo il colpo alla cervice. Lancia un segnale cosmico, spezza qualcosa nell' universo. Quando cadde il ponte di Mostar non fu un videogioco. Sprofondò nell' abisso, per un attimo acquistò una pesantezza che non aveva mai avuto, poi si smaterializzò nella gola della Neretva. Rimase - e sarebbe rimasta a lungo - la parabola sospesa di un ponte che non c' era, tesa fra i due tronconi che si chiamavano. Poi sorse un pianeta enorme, giallo-cartapesta, dai monti lunari dell' Erzegovina. Solo allora si vide la data. Era il 9 novembre 1993, quarto anniversario della caduta del muro di Berlino. Si vide che, con lo Stari Most, era franata l' illusione che la fine del comunismo sarebbe stata, per i popoli, una festa di primavera. Solo allora tacquero i mortai e abbaiarono i cani. Tre estati prima fu proprio quel ponte a dire che la guerra arrivava. Era sera, la brezza mediterranea entrava nella gola. Il fiume era gonfio, la settimana prima era piovuto, e i ragazzini si arrampicavano per un sentierino dopo i tuffi. Già si sparava in Croazia, ma la Bosnia emanava una pace infinita. Un vecchio venditore di souvenir ci offrì un caffè sul belvedere. Sedemmo sulla panca in pietra alta sulla Neretva, mangiammo piccoli dolci a forma di mezzaluna, parlammo di cose leggere. Solo al momento di congedarci il vecchio ci disse quasi con noncuranza: questa è l' ultima estate di pace. Il pittore di Mostar Affan Ramic era un uomo piccolo e scolpito di rughe. Lo incontrai a Sarajevo un giorno del ' 94, durante l' assedio. In un angolo in penombra, incideva su una tavola di legno il nome di suo figlio, morto al fronte pochi giorni prima. Parlò di come ne avrebbe preparato la tomba. Poi raccontò di Mostar, del ponte che non c' era più: solo allora pianse, disperatamente. Capii che quel ponte non era un manufatto, come per noi e il soldato John. Era il luogo della memoria che dava senso alla sua vita e persino alla morte di suo figlio. Allora tutto si illuminò di senso: dai fascisti croati lo Stari Most era stato abbattuto per questo. Per negare ai bosniaci il diritto alla memoria. I Balcani non hanno dimenticato i simboli. L' Oriente ci dice che nella nostra cultura c' è una finta razionalità, che nessuna bomba è intelligente, che le guerre scatenano nei popoli tempeste identitarie che nessun computer può prevedere. La nostra logica nei Balcani non funziona. Un giorno chiesi allo scrittore bosniaco Miljenko Jergovic se scrivere, di fronte a una guerra, non fosse abbaiare alla luna. Rispose che abbaiare alla luna serviva eccome: se i cani non protestassero, la luna resterebbe sempre piena. E se non ci fosse il vento, le ragnatele avrebbero già riempito il cielo intero. Poi parlò dello Stari Most, disse di Harjudin, l' architetto turco che lo fece. Quando la gente vide quella sfida all' abisso, disse: non reggerà. E invece durò tre secoli. Anche per raggiungere l' Aldilà, secondo la mitologia d' Oriente, l' uomo deve attraversare un ponte sottile come un capello e affilato come una spada. Quel ponte celeste si chiamava "Sirat Cuprija", e per poterlo passare l' uomo doveva essere puro di cuore. Jergovic disse che quel mondo desertificato dalla guerra, dove le colline e i tumuli si confondevano, ancora emanava la voce delle cose perdute. I ponti, specialmente. Tutta la guerra in Jugoslavia sembra concentrarsi sui ponti. Nel videotape della memoria ricompare quello della Maslenica, tra Fiume e Zara, in un surreale silenzio, all' ombra del monte Velebit che da duemila metri precipita su un mare cobalto. L' esercito serbo l' aveva preso a cannonate, spezzando in due la Dalmazia, e tutto il traffico croato era affidato alla spola di un traghetto tra la terraferma e l' isola di Pago. Un ingorgo impressionante di uomini, armi, merci e animali. Il ponte di Visegrad, quello raccontato da Andric, lo vidi da lontano nell' estate ' 92, intatto, indifferente all' inferno che era diventata la gola della Drina e ai cadaveri che scendevano lungo il fiume. A Bajna Basta, poco a valle, gruppi di banditi organizzavano i weekend di guerra. Partivano cantando sul ponte, e sul ponte tornavano carichi di masserizie rubate. Bastava star lì per capire cos' era davvero quella sporca guerra. Una rapina su scala industriale. Stranamente, i montanari serbi agli ordini di Karadzic non abbatterono ponti a Sarajevo. Bombardarono moschee, biblioteche, persino i cimiteri, ma non i ponti. Eppure ce n' erano tantissimi: Sarajevo è una città costruita sui due lati di una valle, e il fiume è la sua colonna vertebrale. Spezzarla sarebbe stato facilissimo. Non lo fecero, forse per superstizione, forse per non distruggere l' oggetto misterioso e oscuro del loro desiderio. Con lo scrittore Marko Vesovic camminai lungo il fiume verso le gole che portavano al nemico. Disse: da Oriente ci arriva l' acqua, la fede (Costantinopoli), ma anche tutte le tragedie. Eravamo accanto al ponte dove 80 anni prima un serbo di nome Princip colpì un principe austriaco, dando inizio alla Grande Guerra. E poi i ponti sul Danubio. Da quando sulla Jugoslavia sono stati cancellati i voli, a Belgrado si arriva via terra, attraverso i campi infiniti della Pannonia. Prima che tirassero giù il ponte di Novi Sad, il passaggio del grande fiume, poco oltre la fortezza mitica di Petrovaradin, era come un decollo, una lunga rincorsa tra i ciliegi, un volo sulle acque e il miracolo della loro continuità in mezzo a tante guerre. E ancora, l' ultimo ponte sulla Sava prima della confluenza col Grande Fiume, sotto la fortezza bianca del Kalemegdan, solitaria nella pianura. è la primavera del ' 91, e il Brankov Most trema, invaso da un fiume di studenti in marcia contro un potere che li porta verso la guerra. Per due giorni a Belgrado è la fantasia al potere, esplode la speranza di una rivoluzione di velluto che fiorisce in ritardo, ma con forza balcanica, fantastica e travolgente. Poi i manganelli, i lacrimogeni, i panzer per le strade. E allora, di nuovo su quel ponte, si vide che a Belgrado tutto cominciava e a Belgrado tutto doveva finire. Si comprese che lì, su quella confluenza di acque e di popoli, c' era il nero e il bianco, tutto il peggio e tutto il meglio di un mondo già alla deriva, un' isola nella corrente come nell' epilogo danubiano del film Underground. (18 aprile 1999) Quei ponti spezzatiche tornano a dividere. ------------------------------------
Come si vive ai confini della guerra? A
poche miglia dal conflitto che distrugge terre vicine? O
che priva della loro terra quelli che la storia e la
geografia hanno assegnato come nostri vicini? è questo
un genere di domande, come si vede un po' contorte, che
rivelano il disagio della nostra coscienza. Un disagio
che un po' proviamo e un po' sfruttiamo per mascherare
quella che ciascuno di noi, più o meno consapevolmente,
avverte come doppia coscienza. E questo perché da una
parte siamo ai confini della guerra, e dall' altra siamo
a tutti gli effetti in guerra. SE è vero infatti che gli
aerei carichi di missili che piovono su terra serba
partono dalle nostre basi, noi siamo
"oggettivamente" in guerra con la Serbia. Lo
saremo per "ragioni umanitarie", lo saremo per
"fedeltà ai patti atlantici", ma, qualunque
sia la motivazione, noi non siamo ai confini della
guerra, ma siamo in guerra. Una strana guerra. Perché
"oggettivamente" siamo schierati dalla parte di
chi sta distruggendo la Serbia, e
"soggettivamente" non abbiamo nulla contro il
popolo serbo che consideriamo vittima, non meno della
popolazione di etnia albanese cacciata dalla terra del
Kosovo. Questa contraddizione tra i nostri comportamenti
oggettivi e i nostri sentimenti soggettivi si traduce nel
disagio della "doppia coscienza" che attraversa
sia quelli che sono favorevoli alla guerra sia quelli che
sono contrari, perché gli uni e gli altri vivono la
dissociazione tra i loro atti oggettivi (la distruzione
della Serbia) e i loro sentimenti soggettivi che non
riescono a percepire nel popolo serbo il nemico. A questo
primo disagio se ne aggiunge un secondo che turba non
meno del primo le nostre coscienze. Nelle guerre che
abbiamo conosciuto, morti, feriti e distruzioni si
distribuivano da entrambe le parti, almeno fino alla fase
finale dove una parte aveva il sopravvento sull' altra.
In questa guerra no. Per la prima volta noi siamo in
guerra, per ora, senza morti, senza feriti, senza
distruzioni. Tutte queste terribili cose stanno dall'
altra parte. Dalla parte dei serbi il cui territorio è
stato praticamente distrutto e dalla parte dell' etnia
albanese privata della terra che abitava. Noi, che non
siamo solo ai confini della guerra, ma in guerra,
possiamo concorrere all' opera di distruzione della terra
di un popolo a noi vicino senza temerne per ora la
ritorsione. Questa incolumità, già scontata all' inizio
dei bombardamenti, non lascia intatta la nostra
innocenza, come non è mai intatta l' innocenza del più
forte quando entra in conflitto con il più debole. Ma c'
è un terzo disagio avvertito da chi è in guerra e per
giunta ai confini della guerra: il disagio dell'
informazione. Giustamente ricca di notizie, di immagini e
di sollecitazioni emotive per le sorti della popolazione
di etnia albanese cacciata dalle terre che abitava, e
ingiustamente povera di notizie e opaca di immagini e
sollecitazioni emotive per le sorti della popolazione
serba a cui le forze Nato stanno distruggendo la terra.
Questa disparità di informazioni porta, tutti noi, anche
se non ce lo proponiamo, a identificare senza riserve il
popolo serbo con il suo feroce dittatore, con conseguente
immediata assoluzione della nostra coscienza che, per
effetto di questa identificazione, si trova
immediatamente nel giusto, dalla parte cioè del
perseguitato (la popolazione albanese) contro il
persecutore (la popolazione serba). E così con un po' di
semplificazioni, a cui sempre siamo disposti quando il
disagio in cui ci troviamo diventa insopportabile, ci
assolviamo dal primo conflitto che la nostra coscienza
avverte nel trovarsi oggettivamente in guerra col popolo
serbo senza essere nei suoi confronti ostile, e dal
secondo conflitto che ci vede in guerra nella condizione
di incolumi. QUESTA condizione di "coscienza
lacerata", in cui il conflitto jugoslavo da un lato
e la nostra Alleanza atlantica dall' altro ci hanno
collocato, genera un' ultima sensazione di disagio, forse
la più grave che non si concluderà con la fine della
guerra. Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi (i
popoli, le classi, le nazioni) come soggetti della
storia, e al loro posto abbiamo collocato altri soggetti
della storia. Si tratta di soggetti un po' astratti, poco
percepibili dagli individui e dai popoli come le regole
di Maastricht per fare l' Europa, la potenza militare
atlantica per mantenere l' ordine del mondo, l' Onu per
decidere a seconda delle convenienze economico-politiche
dove, a parità di tragedie, è opportuno o non opportuno
intervenire, per cui individui e popoli sentono ogni
giorno di meno di appartenere alla storia (che di loro
dovrebbe essere, se no di chi?), e venendo meno questo
senso di appartenenza avvertono ogni giorno di più di
essere co-storici, quando non addirittura a- storici.
Tale penso si senta il popolo di etnia albanese cacciato
dalle terre kosovare che abitava, il popolo serbo che
forse non ha granché da spartire con il dittatore che lo
governa (ma come in Iraq il popolo paga duramente, e il
dittatore continua a essere un interlocutore), e infine
anche il popolo d' Occidente che entra ed esce incolume
da una guerra "oggettiva",
"soggettivamente" non percepita. Questa
condizione co-storica o a-storica, a cui la politica in
epoca di globalizzazione sta conducendo individui e
popoli, genera in Occidente quel qualunquismo
generalizzato che nasce dall' impotenza che ogni
individuo e ogni popolo constata di fronte a quelle
entità un po' astratte e scarsamente percepibili,
perché di natura tecnica, economica e politica,
divenute, sopra la testa degli individui e dei popoli, i
veri soggetti storici, rispetto ai quali individui e
popoli sono ricacciati nella grettezza del loro egoismo e
particolarismo, senza più capacità o voglia di
reazione. Il diffondersi di questa cultura dell'
impotenza (dove la libertà si riduce a quella di
ubbidire o disubbidire, e la democrazia alla
manipolazione mediatica del consenso per via emotiva) è
un fatto molto pericoloso che proietta la sua ombra al di
là di questa guerra, in uno scenario caratterizzato
dall' indifferenza politica dei popoli ben nutriti e
nella sofferenza politica dei popoli mal nutriti. Ed è
questo il maggior disagio che la coscienza di noi in
guerra, ai confini della guerra, avverte come condizione
mortificante e avvilente, perché questo sembra il nuovo
corso della storia e decisamente insufficienti sembrano i
mezzi a disposizione degli individui e dei popoli per
modificarlo. ---------------------------------- Dio, patria Tra un ragazzo praghese che offriva
fiori ai carristi russi e un ragazzo occidentale che
manifestava contro la guerra nel Vietnam non era facile,
a partire dai blue-jeans e dai capelli lunghi, marcare le
differenze. C' è stato un tempo, tutto sommato lungo
(diciamo, grosso modo, da Easy Rider ai rave-party...),
nel quale ci è parso che il cosmopolitismo fosse, per i
giovani del mondo quasi intero, un destino inevitabile e
soprattutto condiviso. Oggi gli studenti di Belgrado
cresciuti a rock' n' roll rivoltano il loro stesso ritmo
contro i sorvoli Nato. --------------------------------------- Le due anime Henry Kissinger è un classico.
Zbigniew Brzezinski è, al contrario, un romantico. Il
primo, un americano nato in Baviera da una famiglia ebrea
tedesca sfuggita al nazismo, è fedele alla tradizione
europea basata sull' equilibrio delle potenze. Il
secondo, un americano di origine cattolica polacca, è
vincolato all' ideologia ed è più brutale, al tempo
stesso più innovatore. Da queste posizioni, i due grandi
intellettuali, tanto utili per capire i rapporti degli
Stati Uniti con il resto del mondo, esprimono ovviamente
giudizi assai diversi sulla crisi balcanica. KISSINGER
critica le democrazie occidentali (vale a dire Clinton)
per avere proposto a Rambouillet una soluzione
inaccettabile per i serbi e paventa il vuoto che
aprirebbe la scomparsa della Serbia dallo scacchiere dei
Balcani. All' opposto Brzezinski è interventista: anche
perché (con slancio polacco) al di là di Milosevic
impegnato a reprimere i kosovari vede il russo Eltsin che
ha fatto altrettanto in Cecenia, ed altresì il regime
bielorusso "ammiratore di Hitler", e perciò
tanto solidale con quello jugoslavo di Belgrado.
Entrambi, Kissinger e Brzezinski, prevedono l' impiego
delle truppe di terra. Kissinger lo considera una
conseguenza ineluttabile della campagna in corso: la
quale, una volta cominciata, non può più essere sospesa
e ancor meno chiusa prima di avere raggiunto l'
obiettivo. La posta in gioco è ormai troppo alta: è in
ballo la sopravvivenza della Nato, spina dorsale dell'
impero in un' area essenziale quale è l' Europa: quindi
irrinunciabile. Anche Brzezinski vede in un eventuale
cedimento di fronte a Milosevic il funerale della Nato,
ma per lui la discesa degli occidentali al suolo non è
la fatale conseguenza dell' intervento, è un atto
dovuto: è il passaggio da una strategia cauta e
graduale, insomma insufficiente sul piano militare, a una
strategia intensiva e massiccia, la sola risposta
appropriata "al genocidio e alla pulizia etnica cui
stiamo assistendo". Mi pare implicita in Brzezinski
la condanna definitiva di Milosevic. Come si può
trattare con il responsabile di un genocidio? Egli va del
resto oltre suggerendo la confisca dei beni jugoslavi in
Occidente al fine di risarcire gli abitanti del Kosovo.
Traspare invece in Kissinger la preoccupazione del vuoto
che si può creare in Serbia. Il suo vocabolario è
comunque più castigato. Dietro questi giudizi sul primo
conflitto "caldo" in Europa dal 1945, si
intravedono due visioni del ruolo degli Stati Uniti nel
mondo postcomunista, in cui sono rimasti la sola
superpotenza in esercizio. Due visioni basate su
esperienze dirette circa le possibilità e i limiti dell'
azione americana, essendo sia Kissinger sia Brzezinski
due professori universitari, due analisti, due
politologi, che hanno lavorato nei meccanismi del potere:
il primo come segretario di Stato con Nixon; il secondo
come consigliere per la sicurezza con Carter, e poi
consigliere di Reagan durante la crisi polacca, che ha
preceduto il crollo dell' Unione Sovietica (e, in quello
stesso periodo, alleato-complice di Papa Wojtyla: il
quale, adesso, nella crisi balcanica, si trova invece
sull' opposto fronte pacifista). ---------------------------------- L'arte della guerra 1. Le ragioni classiche di una guerra
sono: conquista, interessi geostrategici, lotta per i
canali commerciali, i mercati di sbocco e la
disponibilità di materie prime. Nessuno di questi motivi
gioca un ruolo nel conflitto odierno. E questo spiega l'
incredibile quantità di supposizioni che l' Occidente ha
avanzato. La più convincente appare ancora quella della
difesa dai flussi di profughi nei paesi dell' Ovest, un
"interessse nazionale" in senso tradizionale,
che però nessuno sbandiera pubblicamente. Una guerra per
motivi umanitari appare inimmaginabile agli scettici, ma
la loro caccia a malevoli secondi fini americani non ha
portato finora alcun frutto. Può darsi che si tratti
effettivamente di un novum storico. --------------------------- Ma non è l'Olocausto Quando ascolto le testimonianze dei
profughi fuggiti dal Kosovo, penso tra me e me: se mi
avessero cacciato da casa, dandomi dieci minuti per fare
i bagagli, che cosa mi sarei portato dietro? Cibo? Acqua?
Una coperta? E che cosa avrei preso per i bambini: forse
il loro giocattolo preferito? Dolci? Latte in polvere?
Qualche medicina? E che cosa si porta con sé per
sopravvivere non soltanto nelle successive ventiquattro
ore, ma per conservare nei giorni a venire anche il
proprio passato, la memoria e l'identità? Forse gli
album delle foto, documenti importanti, vecchie lettere. ---------------------------- Se il Dio dei popoli Il nostro continente rischia dunque di
riscoprirsi all' improvviso spezzato dalle storiche
nozioni di Oriente e Occidente. Là dove correva la
cortina di ferro, torna minaccioso a proporsi il fantasma
del primo grande Scisma della cristianità, se è vero
che Stati neppure tutti confinanti tra loro come la
Serbia, la Russia e la Bielorussia - grazie al potere
suggestivo degli antichi simboli comuni, riesumati dalle
ceneri del comunismo - addirittura meditano di fondersi
in una federazione. Il nostro ecumenismo laico, erede di
una tradizione giudaico- cristiana deprivata dei suoi
riferimenti alla trascendenza, da noi rimodellati in
forma di ideali civili, alla fine del millennio viene
chiamato a fare i conti col fenomeno nuovo delle
etno-religioni. HA CERTO ragione da vendere chi, come
Paolo Rumiz nei giorni scorsi, ci mette in guardia dagli
abusi storici e dalle manipolazioni propagandistiche che
contraddistinguono l' irrompere minaccioso delle
etno-religioni. Ma resta il fatto della loro
proliferazione a Oriente, per mano consapevole dei
Patriarcati delle Chiese ortodosse di Russia e di troppi
leader politici rosso-bruni. Il mito ascetico dei
"folli in Cristo" nuovamente s' incontra col
mito guerriero del principe Lazzaro evocato da preci
irriducibili: "Con cuore virtuoso e per amor di
pietà hai affrontato il serpente e il nemico delle
chiese di Dio, giudicando che il tuo cuore non avrebbe
tollerato la vista dei cristiani sottomessi agli
Ismaeliti". è evidente che preghiere altrettanto
bellicose si possono rintracciare pure tra i crociati
cattolici, i combattenti dell' Islam e dell' ebraismo.
Anzi, bisogna pur dire che in altre zone del pianeta,
dalla metà degli Anni Settanta in poi, l' integralismo
religioso ha scatenato purtroppo più di una guerra
santa. Il richiamo al divino quale strumento di
organizzazione dei conflitti sociali e di civiltà, è
una modernissima conseguenza della globalizzazione. Ma
intanto dobbiamo fare i conti con i Balcani e più in
generale con un' Europa nella quale le spinte unificanti
a fatica contrastano quel processo di frantumazione da
cui già sono nati numerosi nuovi Stati e staterelli, per
lo più fondati su base etnica. Danièle Hervieu-Léger,
nel primo volume della "Storia d' Europa"
(Einaudi) descrive le etno-religioni come una conseguenza
dei "mutamenti storici che fanno vacillare le
strutture mentali degli europei". Proliferano le
"domande identificanti" in risposta all'
"accentuata diffusione dell' individualismo". I
loro inventori cercano di salvare "la finzione dell'
appartenenza comunitaria" e adoperano le religioni
storiche "come una materia prima simbolica,
estremamente malleabile, suscettibile di diversi
trattamenti a seconda delle esigenze dei gruppi che vi
attingono". ------------------------------------ |