Kosovo, ora il nemico
si chiama inverno



di LESTER THUROW

Quando la guerra finisce, ha inizio la ricostruzione. Si è incominciato ora a parlare di un Piano Marshall per il Kosovo. Indicare come modello il Piano Marshall significa partire da due grandi assunti: primo, che l'aiuto sia di vasta portata relativamente all'economia del paese destinato a riceverlo; secondo, che la ripresa avvenga in tempi rapidi. Nel nostro caso, entrambe le cose sono possibili.

Il Kosovo è piccolo (meno di due milioni di abitanti), e la sua povertà era tale (il livello più basso di un paese povero) che non occorre molto perché l' aiuto sia di proporzioni importanti rispetto alla sua economia. Le somme di denaro che dovranno essere erogate dall'Europa e dall'America (e dal Giappone?) saranno molto esigue a confronto dei rispettivi contesti economici. Ai fini pratici, si tratta di importi quasi insignificanti, tenuto conto dei nostri livelli operativi. Altrettanto facile sarebbe conseguire un rapido recupero dei livelli d'anteguerra. Il Kosovo è una società essenzialmente rurale, e ha bisogno di rimpiazzare il patrimonio zootecnico e i macchinari agricoli perduti. Si tratta quindi semplicemente di acquistare ed importare le macchine e il bestiame necessari, che non sono molto costosi, e di cui il mercato mondiale ha ampie disponibilità.

Se parliamo di ricostruzione, non intendiamo uno sviluppo economico tale da trasformare il Kosovo in una ricca e moderna nazione europea. Per un obiettivo del genere occorrerebbero tempi lunghi. Ciò che intendiamo è una ripresa economica tale da riportare il paese al punto in cui si trovava, dotandolo di una piattaforma economica sulla cui base poter costruire il futuro.

Non è più tempo di semina per il 1999: siamo ormai troppo vicini all'inverno. Per le sue esigenze alimentari, il Kosovo dipenderà quindi dall'estero, nel migliore dei casi, fino all'autunno del 2000. Ma si tratterà, anche in questo caso, di quantitativi modesti - e d'altra parte, il mondo intero è sommerso dalle eccedenze di prodotti agricoli, tanto che i prezzi mondiali dei generi alimentari sono vicini al minimo storico.

Peraltro, l'impossibilità di dedicare l' estate e l'autunno del 1999 ai lavori agricoli può essere usata in senso positivo. Sarà necessario ricostruire gli alloggi, e spesso nelle aree rurali gli agricoltori sono al tempo stesso operai edili. I coltivatori che quest'estate non avranno la possibilità di lavorare nelle proprie aziende potranno dunque essere impegnati nei lavori di costruzione, a condizione di disporre delle attrezzature e dei materiali occorrenti. Tutto questo comunque può essere facilmente acquistato e importato. A breve termine, il problema principale non riguarda l'economia, bensì gli alloggi. In questo senso, il Kosovo sarà impegnato in una gara di velocità con l' inverno. Si farà in tempo a costruire alloggi sufficienti prima dell'arrivo della stagione fredda? La risposta non può che essere negativa. Eppure bisogna incoraggiare la popolazione a tornare, a fare tutto il possibile per ricostruire, con l'intesa che chi lo desidera possa ripartire durante i mesi invernali. L'esperienza insegna che il rimpatrio dei kosovari potrà essere tanto più massiccio, quanto più sarà avviato tempestivamente. Sarebbe un madornale errore consigliare ai profughi di aspettare che vi siano alloggi disponibili per far ritorno alla propria terra. La cosa migliore è lasciare che ciascuno decida per sé. Probabilmente, i maggiori problemi della ricostruzione non sono quelli che si pongono all'interno del Kosovo. Le infrastrutture della regione (strade, linee ferroviarie) e la sua rete di scambi commerciali dovranno essere riprogrammati per assicurare le comunicazioni con il resto del mondo attraverso l'Albania, e non più, come in passato, attraverso la Serbia. Il problema dei sistemi di trasporto verso il Kosovo si porrà a breve termine. Saranno i trasporti, e non il denaro, a frenare il ritmo della ricostruzione. Perché il Kosovo ritorni ad essere quello che era, sarà necessario prevedere, nel lungo periodo, aiuti sostanziali per la costruzione di nuove infrastrutture in Albania. Il problema reale della ricostruzione non riguarda il denaro, o l' acquisto delle necessarie attrezzature agricole, del bestiame, dei materiali e macchinari per l'edilizia, bensì l'organizzazione sociale. Chi provvederà a organizzare il da farsi in una società che non ha avuto la possibilità di darsi un suo governo, e che non possiede l'esperienza necessaria per una ricostruzione di così vasta portata? Inizialmente, la leadership dovrà provenire dagli eserciti Nato che attualmente occupano il Kosovo. L'ideale sarebbe che gli eserciti occupanti, come è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, colgano l'opportunità dell'esigenza della ricostruzione per fare opera di formazione e avviare a un'esperienza di governo una nuova generazione di leader nel Kosovo. Queste attività a lungo termine costituiscono un compito di gran lunga più importante di quello di disarmare l'Uck: un'impresa che non darà alcun risultato positivo se nella fase del dopoguerra non emergerà un'organizzazione sociale sana e vitale.

Il presidente Clinton e i governanti europei hanno ragione di dire che ad eccezione dei soccorsi umanitari, non vi saranno aiuti per la Serbia finché le cose non cambieranno ai vertici del governo. Dopo la seconda guerra mondiale, il Piano Marshall è stato concesso ad ex nemici quali la Germania e il Giappone, ma solo in seguito alla loro resa incondizionata, e dopo che i loro dirigenti erano stati processati come criminali di guerra, e i rispettivi governi affidati alla gestione degli eserciti di occupazione. Gli aiuti del Piano Marshall non sono stati elargiti a chi ha pianificato e diretto le azioni belliche delle potenze dell'Asse durante la seconda guerra mondiale. I serbi dovranno affrontare le conseguenze del fatto che evidentemente, in quest'ultimo decennio, la pulizia etnica nelle aree non serbe dell'ex-Jugoslavia ha goduto in Serbia di un diffuso sostegno. E' importante che la gente comune di questo paese debba pagare, in maniera palese agli occhi del mondo, per questo comportamento. Un periodo di limitazioni sul piano dei servizi pubblici e delle infrastrutture sarà une lezione importante per altri che potrebbero essere tentati ad adottare analoghi comportamenti.
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Lester Thurow insegna economia al Massachusetts Institute of Technology di Boston. E' uno dei più noti economisti americani, autore di bestseller internazionali come "La società a somma zero". Il suo ultimo libro, "Il futuro del capitalismo", è pubblicato in Italia da Mondadori.

(25 giugno 1999)

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Aguzzini sotto le bombe


di ADRIANO SOFRI

CI SONO porte destinate a non aprirsi. Scantinati senza finestre. Luoghi riservati. Letti di contenzione, sedie per slogare. E' raro che vengano alla luce: per un terremoto, per un'eruzione vulcanica. E' raro che se ne parli: gli ospitati non ne escono vivi. E' più facile che ne parlino i gestori: si resiste difficilmente alle vanterie, anche quando possono costare. Nel Kosovo riaperto si sapeva - purché lo si volesse sapere - che si sarebbero trovati forni e fosse comuni. Non era facile immaginare lo scantinato della tortura. Gira in questi anni una - detestabile - mostra sugli strumenti di tortura: la vergine di Norimberga, le ruote dentate, genere che ha i suoi amatori. Il repertorio interrato che da Pristina è arrivato sui nostri teleschermi è tecnologicamente grossolano, ma moralmente scelto: i pugni di ferro, i coltellacci, i mazzi di preservativi, il bastone spaccato in due (ne sarà stato orgoglioso, o seccato, quello che ha dato il colpo?), la rinfusa di documenti personali dei torturati e dei giornaletti zozzi dei torturatori. Eloquente repertorio: museo già pronto per le scolaresche.

Resistono stupidi pregiudizi sul conto della tortura, di cui i torturatori sarebbero i primi a farsi beffe. Che serva a qualcosa, a far parlare... Ma no. La tortura è un'arte, è un piacere, è gratuita. Deve far male dentro il corpo dell'altro, dell'altra. Quello scantinato è altra cosa dall'assassinio di strada e dallo stupro compiuto a cielo aperto, al caso dell'agguato e della furia improvvisa. Quello scantinato è la sala operatoria di una chirurgia d'eccezione, in cui la potenza dell'odio si è presa un ufficio, e lavora con metodo. Il paziente è di preferenza una giovane donna, e se no un uomo su cui si compiano atti di effeminazione oltraggiosa. Il torturatore è un uomo: lo diventa davvero lì dentro. E' un luogo di iniziazione completa: dal giornaletto porno alla precauzione del preservativo, dal corpo spogliato e legato alla carne incisa, alle ossa frantumate, al sangue scolato in un recipiente lurido.

Nella camera della tortura ogni movente mostra la propria fuorviante superfluità. Non importa più la divergenza nazionale e religiosa, neanche quella spinta all'assassinio di massa o allo stupro di massa. C'è il rapporto di potere nella sua essenza: il corpo a corpo fra il gruppo di armati e l'inerme denudato. Sempre la tortura prende la mano ai suoi apprendisti, dovunque, nelle caserme di polizia, nelle celle di punizione, nelle stanze private in cui uomini piccoli e impazziti si vendicano della propria paura. Succede molto, molto largamente. Ieri era anche uscito il benemerito rapporto annuale di Amnesty, impressionante: eppure succede ancora più largamente. L'omertà e la paura tengono ancora chiuse molte cantine. Possiamo fingere di non saperlo. La mia generazione ebbe fra le prime letture civili il saggio sulla tortura di Henri Alleg: era il 1958, l'Algeria. A nessuna generazione è mancato il suo addestramento. Ora i bambini vedono al telegiornale - i bambini vedono tutto, infatti - quel pavimento disseminato di ferri e mazze, in uno strano disordine; ci si aspetterebbe una cura diversa, da uomini d'ordine per eccellenza come sono i torturatori.

Non so se si solleveranno dubbi, sull'"autenticità" di questo scantinato. Se le cose stanno così - mi pare di sì - vorrà forse dire che gli aguzzini si sono lasciati prendere di sorpresa; ma anche che è costato loro caro staccarsi da quel laboratorio professionale. Si dice che un'antica dama implorasse graziosamente: "Ancora un minuto, signor boia". Qui, forse, era il boia a chiedere per sè ancora un minuto. Chi ha percorso in questi anni la Jugoslavia conosce la scena infinita delle Pompei dei vivi, delle case abbandonate senza il tempo di afferrare un oggetto, di dare un'ultima occhiata. A Spalato un soldato appena reduce dalla "pulizia" della Krajna di Knin, bevendo birra un po' per festeggiare un po' per tristezza, mi disse: "Si entra nelle case e si trova la vita normale, due bicchieri di plastica colorata da bambini, ho visto un orsacchiotto posato sullo schienale di un divano esattamente come ce n'è uno a casa mia... Questa è la cosa più dolorosa. Poi ho finito anch' io col prendermi una targa d' auto, come hanno fatto tutti". Un altro mi volle regalare una bomba a mano serba, declinai, e accettai una banconota datata Knin 1992. Neanche i soldi avevano fatto in tempo a portarsi via.

Nella cantina di Pristina non hanno fatto in tempo a raccogliere i machete, né i preservativi. Bisogna tener ferme le distinzioni. Riconoscere, dietro la fisionomia comune della violenza fisica, della violazione corporale, della tortura, i tratti speciali di ogni nuova impresa. Pristina è Pristina: non solo un altro nome da aggiungere alla mappa della tortura nel mondo. A Pristina la "polizia" serbista ha dovuto fuggire all'improvviso, questo ci dicono le immagini dell'ispezione imprevista. Ma ci dicono anche che avevano avuto molto tempo. Per 78 giorni lo scantinato è stato un quieto riparo antiaereo, nel quale fare il lavoro. Per 78 giorni noi abbiamo fissato un buco nero che si chiamava Kosovo, senza vederne se non i bordi, persone schizzate fuori a suon di minacce botte sparatorie e bombe. Abbiamo gremito il cielo, e perso di vista la terra. Ci siamo chiesti che cosa stesse succedendo, per terra, sotto la terra. Si lavorava, nella cantina di Pristina.

E' doloroso, oggi, guardare il corteo vilipeso o esasperato di serbi che abbandonano a loro volta il Kosovo: era diventato fatale. Ma è commovente vedere il corteo di ritorno dei kosovari albanesi cacciati fuori dai confini. Mai, che mi ricordi, una popolazione deportata ha fatto ritorno alle sue case - alle sue macerie: si possono amare le proprie macerie - per effetto del soccorso dei potenti. Non certo dopo la Seconda guerra, e tanto meno per i suoi scampati ebrei. Bisogna esultare per questo rientro, ed esserne grati. Bisogna dire che l'incriminazione di Milosevic e i suoi all'Aia non ha affatto dilazionato la resa, ma l'ha accelerata: e sarebbe stata comunque giusta. Bisogna riconoscere in sé il rischio orribile del negazionismo e della minimizzazione di fronte alla misura e alla profondità di una persecuzione, in nome di diffidenze e di partiti presi.

Bisogna congratularsi che la nostra parte di mondo, a differenza che per la Bosnia, non si sia lasciata piegare dall' antipatia per l'anagrafe musulmana della maggioranza della gente kosovaro-albanese. Tuttavia, si deve tornare all'inizio della questione. Perché una ottusità politica indusse a chiedersi se si dovesse o no intervenire a difesa dei kosovari, piuttosto che come intervenire. Anche dopo l'inizio dell'intervento, quando le milizie serbiste hanno risposto con l'inaudita deportazione di centinaia di migliaia di persone, e nessuno avrebbe dovuto più esitare ad affrontare quella tragedia, qualunque giudizio si desse sulla sua origine. Oggi ci si congratula dello scampato maggior pericolo, e si rischia di barattare la "vittoria" -com'era possibile che una "vittoria" non arrivasse? - con la rassegnazione al modo in cui è stata ottenuta. Credo che non dovrebbe succedere. Né per questa volta, né per le prossime, che purtroppo ci saranno. Non si può lasciare per tanto tempo una gente indifesa in balia degli scannatori. Non si può tenersi il cielo, e abbandonare loro il suolo e gli scantinati. Risparmiare le "nostre" vite è un proposito lodevole, purché non manchi il soccorso. Non è con quel proposito che agiscono le forze di polizia, o i vigili del fuoco: perché dev'essere altrimenti per la strapotenza militare del soccorso internazionale?

Qualunque conclusione si raggiunga sull' efficacia di interventi militari nel corso della seconda guerra mondiale, resta imperdonabile l'omissione, vile o rassegnata, di qualunque tentativo per anni, mentre si sapeva dello sterminio, dei suoi modi, dei suoi luoghi. Altri paragoni troppo ravvicinati sono impropri, ma questo confronto è difficile da eludere. Chi di noi non ha ceduto al sarcasmo nei confronti delle armi "intelligenti", e degli imbecilli che le hanno chiamate così? Ma è un fatto che una delle obiezioni - non la peggiore - all'invocazione di bombardare Auschwitz- Birkenau durante la guerra riguardava l'imprecisione delle armi.

L'obiezione principale fu che nessuna energia andava distolta dalla vittoria nella guerra, e che quella sarebbe coincisa con il salvataggio delle vittime. Col Kosovo, non poteva essere ripetuta. Bisognava soccorrere le vittime, non "vincere la guerra". Mi dispiace del fraintendimento che mi procurerò, ma voglio fare un altro paragone. I nazisti si servirono della guerra, che aveva i suoi propri fini, per spingersi alla soluzione finale del problema ebraico - per sterminare gli ebrei. Anche per questo la posizione degli Alleati - vincere la guerra per salvare le vittime dello sterminio - era fuori luogo. In un certo senso, questo spostamento si è ripetuto nella vicenda del Kosovo: la Nato ha trattato come una guerra il suo intervento, e ha affidato alla ripetizione della strategia aerea la "vittoria". Il regime serbo ha usato della "guerra" come dell'occasione per liquidare il problema kosovaro: cioè decimare con gli assassinii la popolazione maschile, deportare quanta più gente possibile, e ridurre un popolo in gran maggioranza numerica e in forte crescita demografica a una proporzione "accettabile": la metà.

I deportati che non torneranno, gli uccisi che riempiono le fosse comuni o i pozzi di miniera, sono un risultato acquisito. L'intervento della Nato non l'ha impedito, l'ha in parte involontariamente favorito. E la scoperta del sotterraneo della tortura ha divaricato fino al paradosso la distanza fra il pilota cui era interdetto scendere sotto i 5000 metri, e il perseguitato nel sottosuolo. La camera della tortura di Pristina è un di più, un lusso che la pulizia etnica si è regalata, nei suoi attori più scelti. Come ogni impresa gratuita, ha rivelato a perfezione il fondo della contesa. L'attaccamento all'odio, al potere, al sangue versato, all'abiezione inflitta in gruppo a ciascuno degli altri. La morte del nemico, nella tortura, diventa un' appendice, un effetto finale, se non addirittura un infortunio: la cosa sta nella sottomissione e nell'agonia protratta, nel dolore distillato, nello spettacolo offerto dal suppliziato al macellaio. Le vittime sono comunque inermi: alla tortura ci si addestra tormentando una lucertola, sbatacchiando furiosamente un neonato che piange.

Alla vista del locale e dei suoi utensili abbandonati, non riesco a vedere né a sentire le vittime, perché non voglio. Da quella cantina non si sentiva il rombo dei bombardieri della Nato: figurarsi se si potessero sentire dal nostro cielo le urla e i gemiti dei tormentati. Mute, le vittime. Quella camera improvvisamente spalancata non deve mostrar loro, né farle immaginare con paura o con raccapriccio. Deve far vedere gli aguzzini, il loro spalleggiarsi, le loro risate ubriache, i loro giornaletti e le loro tre dita levate. Restituire i jingle politici - la nazione serba, la battaglia sacra di Lazar, i monasteri magnifici e la fraternità panslava - alla loro dimensione personale, alla libertà senza confini di mettere alla prova se stessi sul corpo dell'altro. Sono scappati a gambe levate, quegli artigiani efferati: lungo la strada avranno alzato le tre dita, incrociando i carri russi, o le telecamere di ogni parte. A Belgrado, o in un'altra loro città, in un'osteria o in una caserma, non resisteranno al piacere di raccontare che cos'hanno fatto a Pristina. Troveranno altri come loro cui le cose si possono dire. Il bello di essere poliziotti - o paramilitari, è lo stesso, anzi meglio: parastatali della brutalità - in tempo di guerra patriottica è che si può fare tutto per una causa superiore. Sarebbe la dimostrazione finale del fatto che il male è più forte del bene, fra gli animali umani, se non si ricevesse ogni volta di nuovo la prova che resta nei torturatori e nei massacratori il fondo di una paura e una vergogna, la foga di cancellare le tracce. Qualcuno di noi l'aveva temuto: i serbisti tiravano per le lunghe solo per avere il tempo di cancellare le tracce. La stessa cosa era successa ai nazisti. Quando lo sterminio passò dalle fucilazioni di massa alle camere a gas, fu anche per smaltire le scorie nei forni. I nazisti (e tanti altri) seppellirono e riesumarono tante loro vittime per riseppellirle o bruciarle: come hanno appena fatto bande serbe. Dicevano, gli altruisti carnefici nazisti: il mondo non è ancora preparato a capire. Non si può lavorare alla luce del sole. Anche i serbisti devono aver pensato così. Il mondo non è ancora preparato, e anzi ha incaricato un tribunale di occuparsene: benché non lo prenda ancora abbastanza sul serio.

(19 giugno 1999)

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L'Europa cammina
su montagne di morti



di PAOLO RUMIZ

La morte di massa ha un tanfo dolciastro, quasi speziato, di terra, sudore, pelli e fiori che fermentano. Era fatale che ci prendesse alla gola dopo tre mesi di guerra "pulita", stellare, televisiva. Ora, è importante che quell' odore ci si stampi nelle narici. È la sola cosa capace di perforare la nostra incredulità, la rimozione, il rifiuto; l'unica breccia nella nostra memoria corta. In mezzo a troppi fotogrammi, è l'unico messaggio dei sensi ancora capace di dirci che è tutto vero. Ci venne addosso per la prima volta a Vukovar, nel novembre di otto anni fa. Ci aggredì all'indomani della prima ecatombe europea dopo il 1945. E richiamò sul Danubio tutti i corvi della pianura.

La morte ci insegue da allora, sempre con gli stessi miasmi. Eppure, da allora a ogni fossa che si riapre, abbiamo sempre bisogno di chiedere se davvero è accaduto, di sentirci dire che è un brutto sogno.

Forse, nel momento in cui si gettano i fondamenti della Nuova Europa, abbiamo paura di riconoscere in quelle fosse un po' di noi stessi, i buchi neri di un passato ancestrale che le nostre raffinate diplomazie si ostinano a ritenere sepolto. Dimentichiamo che le tombe di massa fanno parte della nostra memoria profonda, dell'immaginario e persino del paesaggio di questo nostro continente. L'Europa cammina, senza saperlo, su montagne di cadaveri. A Verdun o in altri luoghi del fronte occidentale, impercettibili rigonfiamenti indicano ancora i tumuli di caduti senza nome. In Polonia e dintorni, spesso gli unici dislivelli sono segni di morte. Simon Shama, professore di storia alla Columbia University e autore del libro "Paesaggio e memoria", racconta dei "Kopicc", montagnole erbose panoramiche, le uniche a sollevarsi sopra la cupa muraglia della più antica foresta d'Europa, sopra i fiumi, le cicogne, le radure e i comignoli. Dalla Vistola allo Yemen, punteggiano la pianura fino al lontano orizzonte. Gli innamorati che vi si baciano non sanno che sono tumuli anch'esse, terra portata da lontano a ricordo dei Caduti.

In Lituania la topografia della morte di massa è segnata da una miriade di avvallamenti sparsi nei boschi. Dislivelli di pochi centimetri, un metro al massimo. Segnano una delle pagine più dimenticate della "Shoah". Sotto, sono sepolti migliaia di ebrei. Per anni, raccontano, la terra ha continuato a gonfiarsi, a sfiatare, persino a illuminare la notte di pallidi fuochi. Poi i corpi han trovato pace e la terra ha cominciato a cedere, disegnando il perimetro della mattanza con impressionante fedeltà. "Sono luoghi terribili perché inseriti in una campagna dolcissima" racconta lo scrittore Livio Sirovich che li ha percorsi alla ricerca della famiglia materna. Dice: "Senti come quelle morti, lontane da un contesto cimiteriale, abbiano violentato un equilibrio naturale vecchio di millenni". Viaggi verso Sud e ti accorgi che la dolce Mitteleuropa, con la sua propaggine balcanica, continua instancabilmente a vomitare morte, a rivelare fosse comuni e a delineare, con esse, la geografia di un mondo multinazionale destinato a implodere all'infinito, devastato com'è dai nazionalismi e dalla sua incapacità di approdo a un senso moderno della cittadinanza. "Le fosse comuni, le stragi di oggi, emergono da questo retroterra, sono figlie della logica del sangue e del suolo applicata a un mondo dove ogni confine diventa ingiustizia", conviene lo storico Giampaolo Valdevit, specialista della Questione Orientale. Una storia infinita, il segno di una maledizione dove il tempo sembra non avere più senso. In queste stesse ore in cui si svelano gli orrori del Kosovo, si spalancano in Slovenia fosse comuni del 1945, si scoprono presso Maribor i corpi di quindicimila paramilitari anticomunisti jugoslavi in fuga da Tito e a Tito ignominiosamente riconsegnati dagli inglesi. In Bosnia, sulla riva sinistra della Drina, le fosse comuni non ancora richiuse continuano a sbadigliare i loro miasmi come enormi, selvagge sale anatomiche a cielo aperto. E mentre nei sotterranei di Tuzla migliaia di corpi senza nome stanno lì da due anni, allineati dentro sacchi bianchi, nell'attesa inutile che qualcuno li riconosca e li possa seppellire, gli abissi delle foibe - a cinquant'anni di distanza dagli eccidi - dividono ancora le memorie di sloveni, croati e italiani, permanendo esse il simbolo dell'insulto estremo verso la morte dell'"altro", ridotto a spazzatura, immondizia da discarica. In una guerra costruita sulla rievocazione dei morti delle guerre precedenti, è fatale che i morti di oggi tornino e diventino a loro volta atto d'accusa e rivalsa. Come i corpi delle vittime dei croati motivarono dopo mezzo secolo la rivolta serba del '91 contro Zagabria, così oggi i corpi albanesi disseppelliti in Kosovo sembrano togliere ai serbi ogni possibilità di ritorno nella terra dei loro antenati. Quelle fosse comuni dicono che a Belgrado il Campo dei Merli rischia di essere perduto per sempre, che la Gerusalemme serba potrebbe restare in mano straniera in modo assai più definitivo che dopo la sconfitta patita sei secoli fa per mano ottomana.

E allora ci si chiede: che senso ha avuto consegnare alla comunità internazionale prove così schiaccianti dell'abominio? Cosa c'è dietro la scelta di questo suicidio di un'intera reputazione nazionale? Quale senso della realtà esiste in un apparato politico che tenta di spacciare al suo popolo l'illusione di una folgorante vittoria al punto da negare persino l'esistenza dei propri caduti? Forse, Milosevic sperava che il Mondo - grato del suo ritiro dalle terre del Sud - fingesse di non vedere, come dopo la strage di Srebrenica in Bosnia, vigilia della pace di Dayton. Ma questo non spiega come mai Belgrado oggi occulti i propri morti - che sono sicuramente migliaia - proprio nel momento in cui si scoprono le tombe del "nemico".

Perché i soldati serbi caduti sul campo, contro l' Uck o sotto le bombe Nato, sono stati sepolti quasi di nascosto? Quale rapporto con la morte scatta nella testa di un Capo che ha fondato tutto il suo potere sulla mitologia di una sconfitta, quella del Principe Lazar, ucciso secoli fa dai Turchi appunto in Kosovo? I corpi che escono in queste ore dalla terra dei Balcani pongono l'ultima domanda: quale delirio, quale smania di autodissoluzione può avere spinto la Serbia in quest'avventura senza ritorno?

(18 giugno 1999)

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La vergogna dell'impunità


di ELIE WEISEL*

In Kosovo dunque la guerra è finita. Le vittime di ieri emergono dalla paura che per settimane le ha attanagliate. Ora per loro è venuto il momento di andare con speranza verso l'avvenire. Ma il mio pensiero li trattiene. Quando è stato? E' passato meno di un mese dalla mia visita in Macedonia e in Albania.

L'immagine sembra uscita dalla Bibbia: convogli che attraversano montagne e valli, alla ricerca di un luogo sicuro, di un paesaggio accogliente; folle angosciate in cui mariti e mogli, genitori e bambini smarriti continuano a cercarsi, a cercarsi. I genitori piangono, i bambini sorridono. E' più doloroso a vedersi il loro riso, o il pianto degli adulti? Di fronte a questi bambini si prova vergogna. Davanti ai loro genitori ci si sente inetti.

Segnati da una sventura implacabile, ancestrale, ti guardano in silenzio prima di mettersi a raccontare, e avresti voglia di nasconderti da qualche parte dove la vita sia più semplice e la condizione umana meno crudele. A questa gente hanno portato via tutto. Dov'è la loro speranza? Li hanno privati della casa, di ogni loro bene o oggetto di attaccamento, della loro stessa esistenza; e ora hanno l'aria di chiederti spiegazioni, se non di chiederti conto di ciò che è stato. Si vorrebbe farli parlare più a lungo, e al tempo stesso si ha paura di quello che diranno. A quanto pare, vi sono limiti a ciò che l'essere umano può assorbire. Ma non si ha il diritto di non interrogarli. Tocca a noi ricevere i loro ricordi ossessivi, le loro ferite incandescenti. Se hanno la forza di raccontare, noi dovremmo avere quella di aprirci a loro. Ricordi di tradimenti e di abbandoni, di agonia e di tortura: adolescenti che hanno assistito all'esecuzione dei genitori; anziani che avrebbero accettato volentieri di morire al posto dei loro figli; giovani donne violentate, vecchie ripiegate sul loro passato, umiliate all'ombra delle loro case in fiamme. Evocando le prove subite, tutti ricordano con una smorfia che spesso gli aguzzini e i torturatori erano i loro vicini. Come descrivere quell'universo, che si estende oltre i confini della loro memoria? Migliaia, decine di migliaia di uomini, donne e bambini si sono radunati qui per puro caso. Vittime di un fanatismo etnico la cui sistematica brutalità ci riporta a un'era che credevamo definitivamente conclusa, attendono, inebetiti, la fine di una guerra brutta e sanguinosa, di una potenza implacabile come il destino. Vado da un campo all'altro, da una tenda all'altra. Talvolta il direttore dal campo - in genere appartenente a una delle agenzia umanitarie internazionali, tutte ammirevolmente dedite alla loro causa - allontana i fotografi e i cameramen, quando si tratta di prigionieri liberati che hanno lasciato dietro di sé le famiglie. Meglio evitare rappresaglie. Allora raccontano, raccontano, ma non riescono ad arrivare alla fine. A metà di una frase, di un'immagine, le loro voci si spezzano. Un uomo ancora vigoroso ha assistito all'assassinio del fratello. Un vecchio dal capo nobilmente eretto è uno dei due sopravvissuti al massacro di centottanta prigionieri: uno di loro era suo figlio. Un uomo silenzioso non mi toglie gli occhi di dosso. Un suo amico mi confida che nella sua cella sovraffollata aveva sentito un poliziotto serbo dire al figlioletto di cinque anni: sceglilo tu, quello che pesterò oggi. Eppure sono fortunati: sono ancora vivi. Ma i loro familiari - le donne, i bambini - sono rimasti là, in uno dei villaggi incendiati, o in montagna. Parlando di loro si mettono a piangere, come per dire: le parole non bastano per esprimere quello che abbiamo subito; ascolta piuttosto le nostre lacrime. Allora li ascolti, stringendo le labbra.

Passo molto tempo con i bambini. Dovunque ci si occupa con tenerezza e amore di questi piccoli profughi. Si cerca in tutti i modi di farli divertire. Si sono improvvisate scuole, per evitare che cadano in preda alla noia. Gli israeliani hanno creato per loro un centro a parte: e ci si sente scaldare il cuore a sentirli cantare i canti israeliani. Cosa desiderano? Tornare a casa. Il più presto possibile. Prima che si avvicini l'inverno. Ma le loro case non sono in rovina? Non importa. Le ricostruiranno.

E i serbi? Come potranno vivere accanto a loro? Qui le cose si complicano. Il fatto è che oramai, da entrambe le parti, c'è odio: come un muro, che si erge per ricordare che esiste un limite all'oblio. Tutti giurano con forza che non dimenticheranno, non perdoneranno. Tutto questo fa paura: dunque questa tragedia non avrà fine? Non avendo fatto nulla per proteggere gli albanesi, la Nato a questo punto dovrà proteggere i serbi, i loro aguzzini di ieri? Per quanto tempo i soldati del generale Jackson dovranno rimanere in questa provincia martoriata, per impedire alla morte di dilagare ancora?

Ah, cosa non può fare un individuo al potere al suo infelice popolo, e ai suoi vicini più infelici ancora. Verrà il giorno in cui il presidente Slobodan Milosevic, accusato di crimini contro l'umanità - quella delle sue vittime e la nostra - sarà tradotto davanti alla Corte internazionale dell'Aja per rispondere delle sue sanguinose malefatte? Nel momento in cui si pubblicano queste righe, è la volta dei serbi, costretti a errare sulla via dell'esilio. Li vediamo sui camion o a piedi, tormentati, angosciati. Mentre per i rifugiati è iniziato il ritorno a casa. Sembrano esultanti. Come già per Sisifo, li si immagina felici. Troveranno in se stessi la forza morale per superare la loro ira, canalizzandola verso la ricostruzione delle loro case? Sarà questo il momento di ricordare loro che l'odio non è mai una soluzione? Che non dovrebbe neppure essere un'opzione? Che non è disonorevole porre fine alla sofferenza? Il capitolo jugoslavo è tutt'altro che concluso.

* L'autore, Premio Nobel per la pace, è inviato della Casa Bianca per gli aiuti umanitari in Kosovo

(17 giugno 1999)