Kosovo, ora il nemico
si chiama inverno
di LESTER THUROW Quando la guerra
finisce, ha inizio la ricostruzione. Si è incominciato
ora a parlare di un Piano Marshall per il Kosovo.
Indicare come modello il Piano Marshall significa partire
da due grandi assunti: primo, che l'aiuto sia di vasta
portata relativamente all'economia del paese destinato a
riceverlo; secondo, che la ripresa avvenga in tempi
rapidi. Nel nostro caso, entrambe le cose sono possibili.
Il Kosovo è piccolo (meno di due milioni di abitanti), e
la sua povertà era tale (il livello più basso di un
paese povero) che non occorre molto perché l' aiuto sia
di proporzioni importanti rispetto alla sua economia. Le
somme di denaro che dovranno essere erogate dall'Europa e
dall'America (e dal Giappone?) saranno molto esigue a
confronto dei rispettivi contesti economici. Ai fini
pratici, si tratta di importi quasi insignificanti,
tenuto conto dei nostri livelli operativi. Altrettanto
facile sarebbe conseguire un rapido recupero dei livelli
d'anteguerra. Il Kosovo è una società essenzialmente
rurale, e ha bisogno di rimpiazzare il patrimonio
zootecnico e i macchinari agricoli perduti. Si tratta
quindi semplicemente di acquistare ed importare le
macchine e il bestiame necessari, che non sono molto
costosi, e di cui il mercato mondiale ha ampie
disponibilità.
Se parliamo di ricostruzione, non intendiamo uno sviluppo
economico tale da trasformare il Kosovo in una ricca e
moderna nazione europea. Per un obiettivo del genere
occorrerebbero tempi lunghi. Ciò che intendiamo è una
ripresa economica tale da riportare il paese al punto in
cui si trovava, dotandolo di una piattaforma economica
sulla cui base poter costruire il futuro.
Non è più tempo di semina per il 1999: siamo ormai
troppo vicini all'inverno. Per le sue esigenze
alimentari, il Kosovo dipenderà quindi dall'estero, nel
migliore dei casi, fino all'autunno del 2000. Ma si
tratterà, anche in questo caso, di quantitativi modesti
- e d'altra parte, il mondo intero è sommerso dalle
eccedenze di prodotti agricoli, tanto che i prezzi
mondiali dei generi alimentari sono vicini al minimo
storico.
Peraltro, l'impossibilità di dedicare l' estate e
l'autunno del 1999 ai lavori agricoli può essere usata
in senso positivo. Sarà necessario ricostruire gli
alloggi, e spesso nelle aree rurali gli agricoltori sono
al tempo stesso operai edili. I coltivatori che
quest'estate non avranno la possibilità di lavorare
nelle proprie aziende potranno dunque essere impegnati
nei lavori di costruzione, a condizione di disporre delle
attrezzature e dei materiali occorrenti. Tutto questo
comunque può essere facilmente acquistato e importato. A
breve termine, il problema principale non riguarda
l'economia, bensì gli alloggi. In questo senso, il
Kosovo sarà impegnato in una gara di velocità con l'
inverno. Si farà in tempo a costruire alloggi
sufficienti prima dell'arrivo della stagione fredda? La
risposta non può che essere negativa. Eppure bisogna
incoraggiare la popolazione a tornare, a fare tutto il
possibile per ricostruire, con l'intesa che chi lo
desidera possa ripartire durante i mesi invernali.
L'esperienza insegna che il rimpatrio dei kosovari potrà
essere tanto più massiccio, quanto più sarà avviato
tempestivamente. Sarebbe un madornale errore consigliare
ai profughi di aspettare che vi siano alloggi disponibili
per far ritorno alla propria terra. La cosa migliore è
lasciare che ciascuno decida per sé. Probabilmente, i
maggiori problemi della ricostruzione non sono quelli che
si pongono all'interno del Kosovo. Le infrastrutture
della regione (strade, linee ferroviarie) e la sua rete
di scambi commerciali dovranno essere riprogrammati per
assicurare le comunicazioni con il resto del mondo
attraverso l'Albania, e non più, come in passato,
attraverso la Serbia. Il problema dei sistemi di
trasporto verso il Kosovo si porrà a breve termine.
Saranno i trasporti, e non il denaro, a frenare il ritmo
della ricostruzione. Perché il Kosovo ritorni ad essere
quello che era, sarà necessario prevedere, nel lungo
periodo, aiuti sostanziali per la costruzione di nuove
infrastrutture in Albania. Il problema reale della
ricostruzione non riguarda il denaro, o l' acquisto delle
necessarie attrezzature agricole, del bestiame, dei
materiali e macchinari per l'edilizia, bensì
l'organizzazione sociale. Chi provvederà a organizzare
il da farsi in una società che non ha avuto la
possibilità di darsi un suo governo, e che non possiede
l'esperienza necessaria per una ricostruzione di così
vasta portata? Inizialmente, la leadership dovrà
provenire dagli eserciti Nato che attualmente occupano il
Kosovo. L'ideale sarebbe che gli eserciti occupanti, come
è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale, colgano
l'opportunità dell'esigenza della ricostruzione per fare
opera di formazione e avviare a un'esperienza di governo
una nuova generazione di leader nel Kosovo. Queste
attività a lungo termine costituiscono un compito di
gran lunga più importante di quello di disarmare l'Uck:
un'impresa che non darà alcun risultato positivo se
nella fase del dopoguerra non emergerà un'organizzazione
sociale sana e vitale.
Il presidente Clinton e i governanti europei hanno
ragione di dire che ad eccezione dei soccorsi umanitari,
non vi saranno aiuti per la Serbia finché le cose non
cambieranno ai vertici del governo. Dopo la seconda
guerra mondiale, il Piano Marshall è stato concesso ad
ex nemici quali la Germania e il Giappone, ma solo in
seguito alla loro resa incondizionata, e dopo che i loro
dirigenti erano stati processati come criminali di
guerra, e i rispettivi governi affidati alla gestione
degli eserciti di occupazione. Gli aiuti del Piano
Marshall non sono stati elargiti a chi ha pianificato e
diretto le azioni belliche delle potenze dell'Asse
durante la seconda guerra mondiale. I serbi dovranno
affrontare le conseguenze del fatto che evidentemente, in
quest'ultimo decennio, la pulizia etnica nelle aree non
serbe dell'ex-Jugoslavia ha goduto in Serbia di un
diffuso sostegno. E' importante che la gente comune di
questo paese debba pagare, in maniera palese agli occhi
del mondo, per questo comportamento. Un periodo di
limitazioni sul piano dei servizi pubblici e delle
infrastrutture sarà une lezione importante per altri che
potrebbero essere tentati ad adottare analoghi
comportamenti.
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Lester Thurow insegna economia al Massachusetts Institute
of Technology di Boston. E' uno dei più noti economisti
americani, autore di bestseller internazionali come
"La società a somma zero". Il suo ultimo
libro, "Il futuro del capitalismo", è
pubblicato in Italia da Mondadori.
(25 giugno 1999)
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Aguzzini sotto le bombe
di ADRIANO SOFRI
CI SONO porte destinate a non aprirsi.
Scantinati senza finestre. Luoghi riservati. Letti di
contenzione, sedie per slogare. E' raro che vengano alla
luce: per un terremoto, per un'eruzione vulcanica. E'
raro che se ne parli: gli ospitati non ne escono vivi. E'
più facile che ne parlino i gestori: si resiste
difficilmente alle vanterie, anche quando possono
costare. Nel Kosovo riaperto si sapeva - purché lo si
volesse sapere - che si sarebbero trovati forni e fosse
comuni. Non era facile immaginare lo scantinato della
tortura. Gira in questi anni una - detestabile - mostra
sugli strumenti di tortura: la vergine di Norimberga, le
ruote dentate, genere che ha i suoi amatori. Il
repertorio interrato che da Pristina è arrivato sui
nostri teleschermi è tecnologicamente grossolano, ma
moralmente scelto: i pugni di ferro, i coltellacci, i
mazzi di preservativi, il bastone spaccato in due (ne
sarà stato orgoglioso, o seccato, quello che ha dato il
colpo?), la rinfusa di documenti personali dei torturati
e dei giornaletti zozzi dei torturatori. Eloquente
repertorio: museo già pronto per le scolaresche.
Resistono stupidi pregiudizi sul conto della tortura, di
cui i torturatori sarebbero i primi a farsi beffe. Che
serva a qualcosa, a far parlare... Ma no. La tortura è
un'arte, è un piacere, è gratuita. Deve far male dentro
il corpo dell'altro, dell'altra. Quello scantinato è
altra cosa dall'assassinio di strada e dallo stupro
compiuto a cielo aperto, al caso dell'agguato e della
furia improvvisa. Quello scantinato è la sala operatoria
di una chirurgia d'eccezione, in cui la potenza dell'odio
si è presa un ufficio, e lavora con metodo. Il paziente
è di preferenza una giovane donna, e se no un uomo su
cui si compiano atti di effeminazione oltraggiosa. Il
torturatore è un uomo: lo diventa davvero lì dentro. E'
un luogo di iniziazione completa: dal giornaletto porno
alla precauzione del preservativo, dal corpo spogliato e
legato alla carne incisa, alle ossa frantumate, al sangue
scolato in un recipiente lurido.
Nella camera della tortura ogni movente mostra la propria
fuorviante superfluità. Non importa più la divergenza
nazionale e religiosa, neanche quella spinta
all'assassinio di massa o allo stupro di massa. C'è il
rapporto di potere nella sua essenza: il corpo a corpo
fra il gruppo di armati e l'inerme denudato. Sempre la
tortura prende la mano ai suoi apprendisti, dovunque,
nelle caserme di polizia, nelle celle di punizione, nelle
stanze private in cui uomini piccoli e impazziti si
vendicano della propria paura. Succede molto, molto
largamente. Ieri era anche uscito il benemerito rapporto
annuale di Amnesty, impressionante: eppure succede ancora
più largamente. L'omertà e la paura tengono ancora
chiuse molte cantine. Possiamo fingere di non saperlo. La
mia generazione ebbe fra le prime letture civili il
saggio sulla tortura di Henri Alleg: era il 1958,
l'Algeria. A nessuna generazione è mancato il suo
addestramento. Ora i bambini vedono al telegiornale - i
bambini vedono tutto, infatti - quel pavimento
disseminato di ferri e mazze, in uno strano disordine; ci
si aspetterebbe una cura diversa, da uomini d'ordine per
eccellenza come sono i torturatori.
Non so se si solleveranno dubbi,
sull'"autenticità" di questo scantinato. Se le
cose stanno così - mi pare di sì - vorrà forse dire
che gli aguzzini si sono lasciati prendere di sorpresa;
ma anche che è costato loro caro staccarsi da quel
laboratorio professionale. Si dice che un'antica dama
implorasse graziosamente: "Ancora un minuto, signor
boia". Qui, forse, era il boia a chiedere per sè
ancora un minuto. Chi ha percorso in questi anni la
Jugoslavia conosce la scena infinita delle Pompei dei
vivi, delle case abbandonate senza il tempo di afferrare
un oggetto, di dare un'ultima occhiata. A Spalato un
soldato appena reduce dalla "pulizia" della
Krajna di Knin, bevendo birra un po' per festeggiare un
po' per tristezza, mi disse: "Si entra nelle case e
si trova la vita normale, due bicchieri di plastica
colorata da bambini, ho visto un orsacchiotto posato
sullo schienale di un divano esattamente come ce n'è uno
a casa mia... Questa è la cosa più dolorosa. Poi ho
finito anch' io col prendermi una targa d' auto, come
hanno fatto tutti". Un altro mi volle regalare una
bomba a mano serba, declinai, e accettai una banconota
datata Knin 1992. Neanche i soldi avevano fatto in tempo
a portarsi via.
Nella cantina di Pristina non hanno fatto in tempo a
raccogliere i machete, né i preservativi. Bisogna tener
ferme le distinzioni. Riconoscere, dietro la fisionomia
comune della violenza fisica, della violazione corporale,
della tortura, i tratti speciali di ogni nuova impresa.
Pristina è Pristina: non solo un altro nome da
aggiungere alla mappa della tortura nel mondo. A Pristina
la "polizia" serbista ha dovuto fuggire
all'improvviso, questo ci dicono le immagini
dell'ispezione imprevista. Ma ci dicono anche che avevano
avuto molto tempo. Per 78 giorni lo scantinato è stato
un quieto riparo antiaereo, nel quale fare il lavoro. Per
78 giorni noi abbiamo fissato un buco nero che si
chiamava Kosovo, senza vederne se non i bordi, persone
schizzate fuori a suon di minacce botte sparatorie e
bombe. Abbiamo gremito il cielo, e perso di vista la
terra. Ci siamo chiesti che cosa stesse succedendo, per
terra, sotto la terra. Si lavorava, nella cantina di
Pristina.
E' doloroso, oggi, guardare il corteo vilipeso o
esasperato di serbi che abbandonano a loro volta il
Kosovo: era diventato fatale. Ma è commovente vedere il
corteo di ritorno dei kosovari albanesi cacciati fuori
dai confini. Mai, che mi ricordi, una popolazione
deportata ha fatto ritorno alle sue case - alle sue
macerie: si possono amare le proprie macerie - per
effetto del soccorso dei potenti. Non certo dopo la
Seconda guerra, e tanto meno per i suoi scampati ebrei.
Bisogna esultare per questo rientro, ed esserne grati.
Bisogna dire che l'incriminazione di Milosevic e i suoi
all'Aia non ha affatto dilazionato la resa, ma l'ha
accelerata: e sarebbe stata comunque giusta. Bisogna
riconoscere in sé il rischio orribile del negazionismo e
della minimizzazione di fronte alla misura e alla
profondità di una persecuzione, in nome di diffidenze e
di partiti presi.
Bisogna congratularsi che la nostra parte di mondo, a
differenza che per la Bosnia, non si sia lasciata piegare
dall' antipatia per l'anagrafe musulmana della
maggioranza della gente kosovaro-albanese. Tuttavia, si
deve tornare all'inizio della questione. Perché una
ottusità politica indusse a chiedersi se si dovesse o no
intervenire a difesa dei kosovari, piuttosto che come
intervenire. Anche dopo l'inizio dell'intervento, quando
le milizie serbiste hanno risposto con l'inaudita
deportazione di centinaia di migliaia di persone, e
nessuno avrebbe dovuto più esitare ad affrontare quella
tragedia, qualunque giudizio si desse sulla sua origine.
Oggi ci si congratula dello scampato maggior pericolo, e
si rischia di barattare la "vittoria" -com'era
possibile che una "vittoria" non arrivasse? -
con la rassegnazione al modo in cui è stata ottenuta.
Credo che non dovrebbe succedere. Né per questa volta,
né per le prossime, che purtroppo ci saranno. Non si
può lasciare per tanto tempo una gente indifesa in balia
degli scannatori. Non si può tenersi il cielo, e
abbandonare loro il suolo e gli scantinati. Risparmiare
le "nostre" vite è un proposito lodevole,
purché non manchi il soccorso. Non è con quel proposito
che agiscono le forze di polizia, o i vigili del fuoco:
perché dev'essere altrimenti per la strapotenza militare
del soccorso internazionale?
Qualunque conclusione si raggiunga sull' efficacia di
interventi militari nel corso della seconda guerra
mondiale, resta imperdonabile l'omissione, vile o
rassegnata, di qualunque tentativo per anni, mentre si
sapeva dello sterminio, dei suoi modi, dei suoi luoghi.
Altri paragoni troppo ravvicinati sono impropri, ma
questo confronto è difficile da eludere. Chi di noi non
ha ceduto al sarcasmo nei confronti delle armi
"intelligenti", e degli imbecilli che le hanno
chiamate così? Ma è un fatto che una delle obiezioni -
non la peggiore - all'invocazione di bombardare
Auschwitz- Birkenau durante la guerra riguardava
l'imprecisione delle armi.
L'obiezione principale fu che nessuna energia andava
distolta dalla vittoria nella guerra, e che quella
sarebbe coincisa con il salvataggio delle vittime. Col
Kosovo, non poteva essere ripetuta. Bisognava soccorrere
le vittime, non "vincere la guerra". Mi
dispiace del fraintendimento che mi procurerò, ma voglio
fare un altro paragone. I nazisti si servirono della
guerra, che aveva i suoi propri fini, per spingersi alla
soluzione finale del problema ebraico - per sterminare
gli ebrei. Anche per questo la posizione degli Alleati -
vincere la guerra per salvare le vittime dello sterminio
- era fuori luogo. In un certo senso, questo spostamento
si è ripetuto nella vicenda del Kosovo: la Nato ha
trattato come una guerra il suo intervento, e ha affidato
alla ripetizione della strategia aerea la
"vittoria". Il regime serbo ha usato della
"guerra" come dell'occasione per liquidare il
problema kosovaro: cioè decimare con gli assassinii la
popolazione maschile, deportare quanta più gente
possibile, e ridurre un popolo in gran maggioranza
numerica e in forte crescita demografica a una
proporzione "accettabile": la metà.
I deportati che non torneranno, gli uccisi che riempiono
le fosse comuni o i pozzi di miniera, sono un risultato
acquisito. L'intervento della Nato non l'ha impedito,
l'ha in parte involontariamente favorito. E la scoperta
del sotterraneo della tortura ha divaricato fino al
paradosso la distanza fra il pilota cui era interdetto
scendere sotto i 5000 metri, e il perseguitato nel
sottosuolo. La camera della tortura di Pristina è un di
più, un lusso che la pulizia etnica si è regalata, nei
suoi attori più scelti. Come ogni impresa gratuita, ha
rivelato a perfezione il fondo della contesa.
L'attaccamento all'odio, al potere, al sangue versato,
all'abiezione inflitta in gruppo a ciascuno degli altri.
La morte del nemico, nella tortura, diventa un'
appendice, un effetto finale, se non addirittura un
infortunio: la cosa sta nella sottomissione e nell'agonia
protratta, nel dolore distillato, nello spettacolo
offerto dal suppliziato al macellaio. Le vittime sono
comunque inermi: alla tortura ci si addestra tormentando
una lucertola, sbatacchiando furiosamente un neonato che
piange.
Alla vista del locale e dei suoi utensili abbandonati,
non riesco a vedere né a sentire le vittime, perché non
voglio. Da quella cantina non si sentiva il rombo dei
bombardieri della Nato: figurarsi se si potessero sentire
dal nostro cielo le urla e i gemiti dei tormentati. Mute,
le vittime. Quella camera improvvisamente spalancata non
deve mostrar loro, né farle immaginare con paura o con
raccapriccio. Deve far vedere gli aguzzini, il loro
spalleggiarsi, le loro risate ubriache, i loro
giornaletti e le loro tre dita levate. Restituire i
jingle politici - la nazione serba, la battaglia sacra di
Lazar, i monasteri magnifici e la fraternità panslava -
alla loro dimensione personale, alla libertà senza
confini di mettere alla prova se stessi sul corpo
dell'altro. Sono scappati a gambe levate, quegli
artigiani efferati: lungo la strada avranno alzato le tre
dita, incrociando i carri russi, o le telecamere di ogni
parte. A Belgrado, o in un'altra loro città, in
un'osteria o in una caserma, non resisteranno al piacere
di raccontare che cos'hanno fatto a Pristina. Troveranno
altri come loro cui le cose si possono dire. Il bello di
essere poliziotti - o paramilitari, è lo stesso, anzi
meglio: parastatali della brutalità - in tempo di guerra
patriottica è che si può fare tutto per una causa
superiore. Sarebbe la dimostrazione finale del fatto che
il male è più forte del bene, fra gli animali umani, se
non si ricevesse ogni volta di nuovo la prova che resta
nei torturatori e nei massacratori il fondo di una paura
e una vergogna, la foga di cancellare le tracce. Qualcuno
di noi l'aveva temuto: i serbisti tiravano per le lunghe
solo per avere il tempo di cancellare le tracce. La
stessa cosa era successa ai nazisti. Quando lo sterminio
passò dalle fucilazioni di massa alle camere a gas, fu
anche per smaltire le scorie nei forni. I nazisti (e
tanti altri) seppellirono e riesumarono tante loro
vittime per riseppellirle o bruciarle: come hanno appena
fatto bande serbe. Dicevano, gli altruisti carnefici
nazisti: il mondo non è ancora preparato a capire. Non
si può lavorare alla luce del sole. Anche i serbisti
devono aver pensato così. Il mondo non è ancora
preparato, e anzi ha incaricato un tribunale di
occuparsene: benché non lo prenda ancora abbastanza sul
serio.
(19 giugno 1999)
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L'Europa cammina
su montagne di morti
di PAOLO RUMIZ
La morte di massa ha un tanfo
dolciastro, quasi speziato, di terra, sudore, pelli e
fiori che fermentano. Era fatale che ci prendesse alla
gola dopo tre mesi di guerra "pulita",
stellare, televisiva. Ora, è importante che quell' odore
ci si stampi nelle narici. È la sola cosa capace di
perforare la nostra incredulità, la rimozione, il
rifiuto; l'unica breccia nella nostra memoria corta. In
mezzo a troppi fotogrammi, è l'unico messaggio dei sensi
ancora capace di dirci che è tutto vero. Ci venne
addosso per la prima volta a Vukovar, nel novembre di
otto anni fa. Ci aggredì all'indomani della prima
ecatombe europea dopo il 1945. E richiamò sul Danubio
tutti i corvi della pianura.
La morte ci insegue da allora, sempre con gli stessi
miasmi. Eppure, da allora a ogni fossa che si riapre,
abbiamo sempre bisogno di chiedere se davvero è
accaduto, di sentirci dire che è un brutto sogno.
Forse, nel momento in cui si gettano i fondamenti della
Nuova Europa, abbiamo paura di riconoscere in quelle
fosse un po' di noi stessi, i buchi neri di un passato
ancestrale che le nostre raffinate diplomazie si ostinano
a ritenere sepolto. Dimentichiamo che le tombe di massa
fanno parte della nostra memoria profonda,
dell'immaginario e persino del paesaggio di questo nostro
continente. L'Europa cammina, senza saperlo, su montagne
di cadaveri. A Verdun o in altri luoghi del fronte
occidentale, impercettibili rigonfiamenti indicano ancora
i tumuli di caduti senza nome. In Polonia e dintorni,
spesso gli unici dislivelli sono segni di morte. Simon
Shama, professore di storia alla Columbia University e
autore del libro "Paesaggio e memoria",
racconta dei "Kopicc", montagnole erbose
panoramiche, le uniche a sollevarsi sopra la cupa
muraglia della più antica foresta d'Europa, sopra i
fiumi, le cicogne, le radure e i comignoli. Dalla Vistola
allo Yemen, punteggiano la pianura fino al lontano
orizzonte. Gli innamorati che vi si baciano non sanno che
sono tumuli anch'esse, terra portata da lontano a ricordo
dei Caduti.
In Lituania la topografia della morte di massa è segnata
da una miriade di avvallamenti sparsi nei boschi.
Dislivelli di pochi centimetri, un metro al massimo.
Segnano una delle pagine più dimenticate della
"Shoah". Sotto, sono sepolti migliaia di ebrei.
Per anni, raccontano, la terra ha continuato a gonfiarsi,
a sfiatare, persino a illuminare la notte di pallidi
fuochi. Poi i corpi han trovato pace e la terra ha
cominciato a cedere, disegnando il perimetro della
mattanza con impressionante fedeltà. "Sono luoghi
terribili perché inseriti in una campagna
dolcissima" racconta lo scrittore Livio Sirovich che
li ha percorsi alla ricerca della famiglia materna. Dice:
"Senti come quelle morti, lontane da un contesto
cimiteriale, abbiano violentato un equilibrio naturale
vecchio di millenni". Viaggi verso Sud e ti accorgi
che la dolce Mitteleuropa, con la sua propaggine
balcanica, continua instancabilmente a vomitare morte, a
rivelare fosse comuni e a delineare, con esse, la
geografia di un mondo multinazionale destinato a
implodere all'infinito, devastato com'è dai nazionalismi
e dalla sua incapacità di approdo a un senso moderno
della cittadinanza. "Le fosse comuni, le stragi di
oggi, emergono da questo retroterra, sono figlie della
logica del sangue e del suolo applicata a un mondo dove
ogni confine diventa ingiustizia", conviene lo
storico Giampaolo Valdevit, specialista della Questione
Orientale. Una storia infinita, il segno di una
maledizione dove il tempo sembra non avere più senso. In
queste stesse ore in cui si svelano gli orrori del
Kosovo, si spalancano in Slovenia fosse comuni del 1945,
si scoprono presso Maribor i corpi di quindicimila
paramilitari anticomunisti jugoslavi in fuga da Tito e a
Tito ignominiosamente riconsegnati dagli inglesi. In
Bosnia, sulla riva sinistra della Drina, le fosse comuni
non ancora richiuse continuano a sbadigliare i loro
miasmi come enormi, selvagge sale anatomiche a cielo
aperto. E mentre nei sotterranei di Tuzla migliaia di
corpi senza nome stanno lì da due anni, allineati dentro
sacchi bianchi, nell'attesa inutile che qualcuno li
riconosca e li possa seppellire, gli abissi delle foibe -
a cinquant'anni di distanza dagli eccidi - dividono
ancora le memorie di sloveni, croati e italiani,
permanendo esse il simbolo dell'insulto estremo verso la
morte dell'"altro", ridotto a spazzatura,
immondizia da discarica. In una guerra costruita sulla
rievocazione dei morti delle guerre precedenti, è fatale
che i morti di oggi tornino e diventino a loro volta atto
d'accusa e rivalsa. Come i corpi delle vittime dei croati
motivarono dopo mezzo secolo la rivolta serba del '91
contro Zagabria, così oggi i corpi albanesi
disseppelliti in Kosovo sembrano togliere ai serbi ogni
possibilità di ritorno nella terra dei loro antenati.
Quelle fosse comuni dicono che a Belgrado il Campo dei
Merli rischia di essere perduto per sempre, che la
Gerusalemme serba potrebbe restare in mano straniera in
modo assai più definitivo che dopo la sconfitta patita
sei secoli fa per mano ottomana.
E allora ci si chiede: che senso ha avuto consegnare alla
comunità internazionale prove così schiaccianti
dell'abominio? Cosa c'è dietro la scelta di questo
suicidio di un'intera reputazione nazionale? Quale senso
della realtà esiste in un apparato politico che tenta di
spacciare al suo popolo l'illusione di una folgorante
vittoria al punto da negare persino l'esistenza dei
propri caduti? Forse, Milosevic sperava che il Mondo -
grato del suo ritiro dalle terre del Sud - fingesse di
non vedere, come dopo la strage di Srebrenica in Bosnia,
vigilia della pace di Dayton. Ma questo non spiega come
mai Belgrado oggi occulti i propri morti - che sono
sicuramente migliaia - proprio nel momento in cui si
scoprono le tombe del "nemico".
Perché i soldati serbi caduti sul campo, contro l' Uck o
sotto le bombe Nato, sono stati sepolti quasi di
nascosto? Quale rapporto con la morte scatta nella testa
di un Capo che ha fondato tutto il suo potere sulla
mitologia di una sconfitta, quella del Principe Lazar,
ucciso secoli fa dai Turchi appunto in Kosovo? I corpi
che escono in queste ore dalla terra dei Balcani pongono
l'ultima domanda: quale delirio, quale smania di
autodissoluzione può avere spinto la Serbia in
quest'avventura senza ritorno?
(18 giugno 1999)
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La vergogna dell'impunità
di ELIE WEISEL*
In Kosovo dunque la guerra è finita.
Le vittime di ieri emergono dalla paura che per settimane
le ha attanagliate. Ora per loro è venuto il momento di
andare con speranza verso l'avvenire. Ma il mio pensiero
li trattiene. Quando è stato? E' passato meno di un mese
dalla mia visita in Macedonia e in Albania.
L'immagine sembra uscita dalla Bibbia: convogli che
attraversano montagne e valli, alla ricerca di un luogo
sicuro, di un paesaggio accogliente; folle angosciate in
cui mariti e mogli, genitori e bambini smarriti
continuano a cercarsi, a cercarsi. I genitori piangono, i
bambini sorridono. E' più doloroso a vedersi il loro
riso, o il pianto degli adulti? Di fronte a questi
bambini si prova vergogna. Davanti ai loro genitori ci si
sente inetti.
Segnati da una sventura implacabile, ancestrale, ti
guardano in silenzio prima di mettersi a raccontare, e
avresti voglia di nasconderti da qualche parte dove la
vita sia più semplice e la condizione umana meno
crudele. A questa gente hanno portato via tutto. Dov'è
la loro speranza? Li hanno privati della casa, di ogni
loro bene o oggetto di attaccamento, della loro stessa
esistenza; e ora hanno l'aria di chiederti spiegazioni,
se non di chiederti conto di ciò che è stato. Si
vorrebbe farli parlare più a lungo, e al tempo stesso si
ha paura di quello che diranno. A quanto pare, vi sono
limiti a ciò che l'essere umano può assorbire. Ma non
si ha il diritto di non interrogarli. Tocca a noi
ricevere i loro ricordi ossessivi, le loro ferite
incandescenti. Se hanno la forza di raccontare, noi
dovremmo avere quella di aprirci a loro. Ricordi di
tradimenti e di abbandoni, di agonia e di tortura:
adolescenti che hanno assistito all'esecuzione dei
genitori; anziani che avrebbero accettato volentieri di
morire al posto dei loro figli; giovani donne violentate,
vecchie ripiegate sul loro passato, umiliate all'ombra
delle loro case in fiamme. Evocando le prove subite,
tutti ricordano con una smorfia che spesso gli aguzzini e
i torturatori erano i loro vicini. Come descrivere
quell'universo, che si estende oltre i confini della loro
memoria? Migliaia, decine di migliaia di uomini, donne e
bambini si sono radunati qui per puro caso. Vittime di un
fanatismo etnico la cui sistematica brutalità ci riporta
a un'era che credevamo definitivamente conclusa,
attendono, inebetiti, la fine di una guerra brutta e
sanguinosa, di una potenza implacabile come il destino.
Vado da un campo all'altro, da una tenda all'altra.
Talvolta il direttore dal campo - in genere appartenente
a una delle agenzia umanitarie internazionali, tutte
ammirevolmente dedite alla loro causa - allontana i
fotografi e i cameramen, quando si tratta di prigionieri
liberati che hanno lasciato dietro di sé le famiglie.
Meglio evitare rappresaglie. Allora raccontano,
raccontano, ma non riescono ad arrivare alla fine. A
metà di una frase, di un'immagine, le loro voci si
spezzano. Un uomo ancora vigoroso ha assistito
all'assassinio del fratello. Un vecchio dal capo
nobilmente eretto è uno dei due sopravvissuti al
massacro di centottanta prigionieri: uno di loro era suo
figlio. Un uomo silenzioso non mi toglie gli occhi di
dosso. Un suo amico mi confida che nella sua cella
sovraffollata aveva sentito un poliziotto serbo dire al
figlioletto di cinque anni: sceglilo tu, quello che
pesterò oggi. Eppure sono fortunati: sono ancora vivi.
Ma i loro familiari - le donne, i bambini - sono rimasti
là, in uno dei villaggi incendiati, o in montagna.
Parlando di loro si mettono a piangere, come per dire: le
parole non bastano per esprimere quello che abbiamo
subito; ascolta piuttosto le nostre lacrime. Allora li
ascolti, stringendo le labbra.
Passo molto tempo con i bambini. Dovunque ci si occupa
con tenerezza e amore di questi piccoli profughi. Si
cerca in tutti i modi di farli divertire. Si sono
improvvisate scuole, per evitare che cadano in preda alla
noia. Gli israeliani hanno creato per loro un centro a
parte: e ci si sente scaldare il cuore a sentirli cantare
i canti israeliani. Cosa desiderano? Tornare a casa. Il
più presto possibile. Prima che si avvicini l'inverno.
Ma le loro case non sono in rovina? Non importa. Le
ricostruiranno.
E i serbi? Come potranno vivere accanto a loro? Qui le
cose si complicano. Il fatto è che oramai, da entrambe
le parti, c'è odio: come un muro, che si erge per
ricordare che esiste un limite all'oblio. Tutti giurano
con forza che non dimenticheranno, non perdoneranno.
Tutto questo fa paura: dunque questa tragedia non avrà
fine? Non avendo fatto nulla per proteggere gli albanesi,
la Nato a questo punto dovrà proteggere i serbi, i loro
aguzzini di ieri? Per quanto tempo i soldati del generale
Jackson dovranno rimanere in questa provincia martoriata,
per impedire alla morte di dilagare ancora?
Ah, cosa non può fare un individuo al potere al suo
infelice popolo, e ai suoi vicini più infelici ancora.
Verrà il giorno in cui il presidente Slobodan Milosevic,
accusato di crimini contro l'umanità - quella delle sue
vittime e la nostra - sarà tradotto davanti alla Corte
internazionale dell'Aja per rispondere delle sue
sanguinose malefatte? Nel momento in cui si pubblicano
queste righe, è la volta dei serbi, costretti a errare
sulla via dell'esilio. Li vediamo sui camion o a piedi,
tormentati, angosciati. Mentre per i rifugiati è
iniziato il ritorno a casa. Sembrano esultanti. Come già
per Sisifo, li si immagina felici. Troveranno in se
stessi la forza morale per superare la loro ira,
canalizzandola verso la ricostruzione delle loro case?
Sarà questo il momento di ricordare loro che l'odio non
è mai una soluzione? Che non dovrebbe neppure essere
un'opzione? Che non è disonorevole porre fine alla
sofferenza? Il capitolo jugoslavo è tutt'altro che
concluso.
* L'autore, Premio Nobel per la pace, è inviato della
Casa Bianca per gli aiuti umanitari in Kosovo
(17 giugno 1999)
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