I Balcani saranno
il nostro nuovo Sud
di LUCIO CARACCIOLO Confessiamolo: avremmo
tutti una gran voglia di archiviare questa guerra e
tornare alle nostre domestiche occupazioni. L' entusiasmo
un po' troppo esibito con cui i leader europei hanno
salutato l'accordo di pace tradiva questa umanissima
pulsione. Ora, dopo la firma di Kumanovo, si spera di
aver finalmente sbrogliato la matassa della crisi.
Secondo il copione, nei prossimi giorni dovremmo vedere
il ritorno sotto robusta scorta atlantica di qualche
migliaio di profughi nelle loro terre devastate. A quel
punto festeggeremo la vittoria. Poi i riflettori potranno
spegnersi.
E CIASCUNO tornerà a occuparsi delle faccende di casa
sua. E chi la casa non ce l'ha più? Chi ha perso tutto,
anche la speranza, e non ha i soldi per scapparsene nel
ricco Occidente? Chi ha creduto nel nostro slancio
umanitario, nella nostra simpatia per gli umiliati e gli
offesi d'Oltre Adriatico? Abbiamo posto molto alta l'
asticella degli obiettivi bellici. Abbiamo preso un
impegno morale con gli albanesi del Kosovo, salvo poi
lasciare che venissero deportati. Abbiamo spiegato ai
serbi che non ce l'avevamo con loro, ma con il criminale
di guerra che li ha mandati al macello, salvo poi
seppellirli sotto bombe non sempre intelligenti e fare la
pace con Milosevic. No, non è il momento di voltare
pagina. E se proprio non riusciamo a essere all'altezza
delle nostre proclamazioni morali, cerchiamo almeno di
non tradire i nostri interessi. Che sono molto chiari: o
riusciremo a europeizzare i Balcani, o ne saremo
balcanizzati. Dopo tante insensatezze, tanti orrori,
osiamo sperare che la guerra sia riuscita a risvegliare
nella nostra Europa quel sano istinto di conservazione
che ci dovrebbe spingere a impegnare ogni risorsa a
disposizione per ricostruire i Balcani. Un'impresa quasi
impossibile ma senza alternative. Il vulcano della guerra
ha eruttato dalle viscere di quella terra malata il
peggio del suo peggio. Davanti alle nostre coste è
affiorato un Mezzogiorno esterno, molto più povero e
disperato del nostro. Questo nuovo Sud penderà
inevitabilmente verso di noi. Per gli albanesi, ma anche
per i serbi, i montenegrini, i macedoni e gli altri
popoli ex jugoslavi, noi italiani siamo sempre più
"Lamerica". L'America, quella vera, non ha
nessuna intenzione di imbarcarsi in un nuovo Piano
Marshall. Troppo lontani i Balcani per il contribuente di
Cleveland o Seattle, troppo forte il risentimento verso
noi europei che ogni volta chiamiamo il pompiere
americano a spegnere (?) gli incendi di casa nostra.
Resta l'Europa, certo. Vogliamo credere che il piano di
ricostruzione dei Balcani sia più di una lista della
spesa, che sia orientato a una visione regionale, che non
si riduca alla mera emergenza. Vogliamo anche sperare che
i nostri partner dell'Europa centro-settentrionale
capiscano di aver sbagliato quando ci lasciarono quasi
soli ai tempi dell'Operazione Alba (in fondo, la guerra
del Kosovo è anche frutto dell'insensibilità europea
per la questione albanese). E contiamo su Romano Prodi,
che ha dimostrato di essere perfettamente consapevole dei
termini del problema. Senza la Conferenza per i Balcani,
da lui proposta, non ci sarà nessuna soluzione stabile
per il Kosovo né per gli altri focolai di crisi nella
regione.
Europa o non Europa, l'Italia resterà comunque in prima
linea. Dovremo fronteggiare le conseguenze dell'ennesimo
conflitto balcanico, ci piaccia o meno. Chi pensa di
poter nascondere la testa nella sabbia, italicamente
aspettando che trascorra la nottata, avrà presto un
risveglio molto brusco. Perché questo Mezzogiorno
esterno è destinato a saldarsi con il nostro
Mezzogiorno, con l'intera penisola. In senso positivo o
in senso distruttivo. Positivo, se l'Italia e l'Europa
sapranno proiettarsi nei Balcani per guidarne la lenta,
dolorosissima ricostruzione. Distruttivo, se ce ne
laveremo la mani e ci lasceremo travolgere dai drammi
balcanici, cominciando dall'inevitabile massiccio flusso
di profughi e dal consolidarsi dei vincoli criminali fra
mafie nostrane e mafie balcaniche.
La trasformazione del Kosovo in protettorato
internazionale, conseguenza inevitabile della guerra e
degli accordi di pace faticosamente negoziati, è
condizione necessaria ma tutt'altro che sufficiente per
stabilizzare i Balcani. Per molti anni Oltre Adriatico
regneranno ancora miseria, soprusi, oppressione, con le
truppe americane, europee e russe nella parte degli
sceriffi, ciascuno a suo modo, nel Far West balcanico. In
uno stringato inventario delle ferite da ricucire, al
primo posto vengono i profughi. Questa guerra ha aggiunto
al milione e mezzo di disperati, tra cui cinquecentomila
serbi, che ancora non sono rientrati a casa dopo i
massacri in Croazia e in Bosnia, un altro milione e
quattrocentomila di kosovari fra profughi (quasi 800
mila, sistemati provvisoriamente nei campi di Macedonia,
Albania e Montenegro), emigrati all'estero (già 72 mila)
e sfollati interni, che si aggirano per i boschi e i
villaggi distrutti (530 mila). Agli albanesi si
aggiungono centomila dei duecentomila serbi del Kosovo,
costretti ad abbandonare le loro case. Molti seguiranno,
specialmente chi si è arruolato nelle squadracce
paramilitari e vuole sfuggire alle vendette. Quanto agli
albanesi, si presume che solo il 15% dei profughi sarà
in grado di rientrare in Kosovo prima dell'inverno.
Nel frattempo, le organizzazioni umanitarie sono alla
caccia di 30 mila container mobili in cui far svernare le
vittime della pulizia etnica. Le mafie locali hanno già
studiato astuti stratagemmi per lucrare sugli aiuti, per
cui sarà necessaria la massima fermezza per stroncare le
speculazioni sulla pelle dei rifugiati. Peraltro la
guerra, oltre ad aggravare la crisi umanitaria che
avrebbe dovuto risolvere, lascia completamente
impregiudicata la posta in gioco geopolitica. Davvero
speriamo che l'Uck si faccia disarmare? Davvero
immaginiamo che i serbi si rassegnino ad abbandonare il
Kosovo ai loro arcinemici albanesi? Davvero crediamo a un
Kosovo "autonomo", dunque a suo modo integrato
nel sistema jugoslavo, magari con gli albanesi che un
giorno voteranno per il successore di Milosevic? Favole.
Gli albanesi non accetteranno mai nulla meno
dell'indipendenza e gli estremisti serbi - ancora più
inveleniti dalla guerra - ricorreranno al terrorismo pur
di impedirlo. A Parigi Milosevic aveva respinto l'accordo
per due ragioni: perché dava alla Nato il permesso di
agire in tutta la Jugoslavia (appendice B, punto 8),
trasformandola di fatto in protettorato, e perché
prometteva ambiguamente ai kosovari un referendum
sull'indipendenza entro tre anni (capitolo 8, punto 3).
Non c'è traccia di ciò nel documento del G8, per dare
qualche soddisfazione ai russi. Ma se ai kosovari può
bastare una forte presenza Nato anche solo nella loro
provincia, certamente non rinunceranno al referendum.
Prima di immaginare la ricostruzione del Kosovo e dell'
intera regione bisognerà insomma aver trovato un accordo
esplicito - anzitutto fra noi occidentali, e quindi fra
noi e i russi - sulla nuova carta geopolitica dei
Balcani, nella quale una Serbia si spera emancipata dal
suo fallimentare regime dovrà comunque avere un ruolo
centrale. A questo dovrebbe anzitutto servire la
Conferenza internazionale proposta da Prodi. Altrimenti
costruiremo castelli di sabbia e getteremo al vento i
soldi del contribuente.
Sono alte le vette da scalare, se vogliamo che questa del
Kosovo sia l'ultima delle guerre di successione jugoslava
e non il prologo dell'ennesimo massacro annunciato (in
Macedonia, in Montenegro, nel Sangiaccato?). Alla prova
del fuoco l'Italia si è rivelata più matura di quanto
potessimo temere. Abbiamo saggiamente cercato di evitare
la guerra, prima, e abbiamo altrettanto saggiamente
evitato di disertare il nostro campo, durante. Abbiamo
anzi indicato per primi la strada verso la pace, che non
poteva non passare per la Russia e per la rianimazione
del fantasma delle Nazioni Unite. Ci attende ora l'esame
più difficile, quello del dopo. Se lo passeremo,
renderemo meno insensate le tragedie di questi mesi e
conquisteremo sul campo quel ruolo di pilastro
dell'Unione europea che i più scettici fra i nostri
partner continuano a negarci.
(10 giugno 1999)
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La nuova Europa
nasce a Pristina
di ANDRE' GLUCKSMANN
Una volta finita la tragedia,
cominciano le commedie. Messo alle strette, Milosevic ha
cercato di allargare la sua guerra mondiale:
Belgrado-Mosca-Pechino contro la Nato, un sogno! A sua
volta, l'élite russa mima, per atavismo congenito, una
guerra fredda che sa bene di avere perso. Comunque si
fosse comportato Eltsin, scimmiottando il signor
"Niet" alla Molotov o sbattendo la sua scarpa
sul tavolo come Krusciov, gli innamorati continuerebbero
tranquillamente a sbaciucchiarsi sulle panchine. Salvo
ridere di cuore quando a qualcuno viene in mente di
rispolverare la guerra di Corea, come se non fossero
trascorsi cinquant'anni: Clinton, la peste! Jospin,
Chirac, assassini!
AVANTI compagno, le antiche stravaganze sono davanti a
te. Non importa, l'essenziale si gioca e si decide al di
fuori di questo barocco "ultimo assalto"...
Il 24 marzo 1999 abbiamo sfondato, evviva! Era troppo
tardi e troppo poco. Sono dieci anni che Milosevic manda
avanti il suo esercito e devasta la Jugoslavia. Bisognava
fermarlo alla prima città martire, Vukovar. Il nostro
ritardo è stato pagato con la morte di 200.000 bosniaci.
La nostra sottovalutazione della brutalità è stata
disarmante, testimone lo stupore universale suscitato
dalle deportazioni in massa dei kosovari. Le mie riserve
riguardo all'azione militare della Nato sono quindi
esattamente all'opposto di quelle sostenute dai
filoserbi, dai pacifisti a oltranza e dai nostalgici del
Muro. Penso che bisognasse agire prima, più
energicamente e non escludere a priori la minaccia di un
intervento via terra: sei settimane più tardi, la Nato
l'ha preso in considerazione e l'avversario ha ceduto.
Sono stato in Croazia nell'autunno del 1991. Mi trovavo a
Dubrovnik quando l'artiglieria serba tirava sugli
alberghi gremiti di fuggiaschi e sui chiostri francescani
del XV secolo. Ero a Osijek sotto il fuoco degli
"organi di Stalin" jugoslavi, i fantasmi di
Vukovar rabbrividivano per l'orrore. Proprio così, ho
visto gli ospedali sventrati dai cannoni, i luoghi di
culto e di cultura - chiese, teatri - meticolosamente
distrutti. Quando, qualche mese dopo, inciampai fra le
ceneri delle migliaia e migliaia di volumi della
biblioteca nazionale di Sarajevo, non me ne meravigliai:
la pulizia etnica agisce sui corpi e sulle anime; uccide
le persone per il solo motivo che non sono nate serbe;
aggredisce i simboli, la memoria, le speranze. Che chi
non ha perso la vita, perda qualsiasi ragione di vita!
Questo è il primo comandamento dei commando di epuratori
che, in nome della "Grande Serbia", perpetrano
una spaventosa guerra razziale.
Fermare questa esplosione di crudeltà con tutti i mezzi,
compresi quelli militari! Fummo in pochi, io e qualche
amico, a sollecitare pubblicamente l'intervento dell'
Europa: che i capi di Stato, allora riuniti a Maastricht,
firmassero il loro trattato a Dubrovnik e proclamassero
il divieto, nel nostro continente, del saccheggio delle
città e del massacro degli innocenti. Invano: Mitterrand
e Major erano amici dei serbi; Bush aspettava che il
fuoco si spegnesse da solo. Per qualche anno,
l'indifferenza della classe dirigente fu generale: pochi
reporter, giornalisti, medici, una minoranza di
intellettuali, stigmatizzati come "mediatici",
misero in allarme l'opinione pubblica. Prima lezione
confortante: nel silenzio e nella cecità dei Grandi, le
grida degli umiliati e offesi, propagate da un pugno di
persone, poco a poco, purtroppo tardivamente, fanno
suonare la campana a martello. Per chi suonava a
Sarajevo?
Guerra in Croazia, guerra in Bosnia, serie interminabile
di massacri, culminata a Srebrenica (estate 1995), dove
il generale Mladic seleziona in mondovisione i futuri
cadaveri a migliaia, cosa non abbiamo dovuto vedere prima
che i nostri capi ricorressero alla forza! Quando le
masse si rivoltano e s'impazientiscono, i principi
europei sonnecchiano. Seconda lezione: tali flagranti
crimini contro l'umanità hanno più rispondenza fra i
telespettatori che presso i notabili. Ai giorni nostri,
la "coscienza universale"non si manifesta ai
vertici, se non dopo aver macerato ai livelli inferiori.
Gli europei non credevano ai loro occhi, non avevano
visto, sulla loro terra, una simile miseria dai tempi di
Stalin. La guerra scatenata da Belgrado è banale per gli
altri continenti. L'Europa aveva dimenticato: stupri,
rapine, incendi, deportazioni, che colpiscono chiunque,
donne e bambini soprattutto. Nel decennale albo d' oro di
Milosevic soltanto villaggi e città assediati,
spopolati, rasi al suolo. Da Vukovar a Pristina,
altrettanti nomi, altrettanti spettri. Utilizzare la
gente comune come bersagli per i cecchini, ostaggi per
trattative diplomatiche, scudi per manovre strategiche,
proiettili per aggredire i vicini (a colpi di centinaia
di migliaia di fuoriusciti), tutto ciò si chiama guerra
contro i civili. Con l'aiuto insostituibile, ancora per
molto tempo, degli Stati Uniti, l'Europa infine fa piazza
pulita, risolvendo la duplice questione del perché e del
come. Problema di diritto: in nome di che cosa? In nome
dell'urgenza. Davanti all'orrore flagrante. Senza
attendere un'autorizzazione dell'Onu. Pazzo chi fa il
delicato! Quando i comunisti vietnamiti invasero la
Cambogia grondante sangue e misero fine al genocidio
perpetrato dai Khmer rossi, ancor più comunisti, chi li
condannò? Ufficialmente, essi violarono la
"sovranità" di una nazione riconosciuta,
ufficiosamente tutto il mondo tirò un sospiro di
sollievo. Al contrario, quando l'Onu non fa nulla per
impedire il genocidio dei tutsi (1994), rispetta la
sovranità del Rwanda hutu, ma si rende complice di un
crimine gravissimo (sarebbero stati sufficienti 5000
soldati di una forza internazionale per salvare un
milione di vittime). Solo, Clinton chiese scusa. In caso
di delitti contro l'umanità è colpevole chi lascia
fare, è giustificato chi si oppone all'inferno.
L'intervento della Nato è legittimo per l'unica e
inconfutabile ragione che era necessario agire e che
nessun altro l'avrebbe fatto al suo posto.
Problema di fatto: come? Un intervento militare può
essere giusto quanto si vuole nei suoi fini, ma se con i
mezzi che mette in opera provoca un danno maggiore di
quello che combatte, perde di legittimità. Essendo
difficile scovare un esercito mimetizzato all'interno
della popolazione, attivamente e anche passivamente
complice (Serbia) o arruolata con la forza come
scudo-ostaggio (Kosovo), bisognava inventare una
strategia che frantumasse l' ossatura militare e
risparmiasse al massimo gli abitanti. Di qui l'inaudita
novità degli attuali bombardamenti, la cui precisione,
errori compresi, non ha assolutamente niente in comune
con il bombardamento a tappeto della seconda guerra
mondiale o del Vietnam. Il nostro diritto d'ingerenza non
è che un diritto di contro-ingerenza. È Milosevic che
non ha rispettato i confini. È Milosevic che ha ridotto
i civili alla schiavitù. È la barbarie razzista che ha
reso necessaria una controguerra umanitaria. Alla fine di
un secolo segnato da terribili esperienze, gli Stati
democratici si coalizzano questa volta per far piazza
pulita dei pulitori. L'Europa nascerà in una Pristina
libera.
(11 giugno 1999)
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Quei tristi dopoguerra
nei Balcani
di PAOLO RUMIZ
"Quando lo ammazzi, il maiale
scalcia dappertutto". Ljubomir, 53 anni, profugo
serbo in Ungheria, risponde senza pensarci un attimo alla
domanda se davvero arriverà la pace. Tramonta il sole
sul Danubio e, per rendere l'idea, l'uomo mima l'agonia
dell'animale tirando all'aria pugni e calci tremendi. Il
maiale come metafora è molto usato nei Balcani, con
varianti sinistre. A Srebrenica, nel '95, per spiegare ai
Caschi blu olandesi che la città era presa, il generale
Ratko Mladic - prima di dedicarsi alla liquidazione di
ottomila musulmani - fece scannare un porco e lo appese a
un albero come ammonizione.
Ai nostri dubbi sul futuro dell'area, i balcanici
rispondono spesso con saggezza contadina. Ljubo è membro
attivo dell'opposizione democratica e il suo concetto è
tagliente. Primo: il sacrificio s'ha da fare, o non se ne
esce. Secondo: il sangue schizzerà intorno, toccherà i
Paesi vicini. Spiega: "La vostra civiltà delle
bombe intelligenti deve ancora capire che non ci sono
guerre etiche, che ci sono lavori in cui è impossibile
restare puliti". Poi torna al maiale: "L'agonia
- dice - è il momento più pericoloso". Pochi anni
fa, uno scrittore serbo già ammoniva: per uccidere il
vampiro puoi solo piantargli un paletto nello sterno. Ma
non dimenticare che reagirà con vitalità inattesa.
Se pensasse solo al sacrificio del Capo supremo,
Milosevic, Ljubo non parlerebbe di maiali ma di capri
espiatori. Lui pensa a ciò che sta dietro al Capo, ai
privilegiati del feudalesimo comunista che hanno
trascinato al suicidio una nazione intera solo per
conservare il potere. Sa che oltre ai veleni, la
propaganda, i trucchi, i silenzi e i camaleontismi del
Boss c'è un sistema malato capace di tutto. È ciò che
resta della "Nuova classe" identificata già
negli anni Sessanta da Milovan Djilaa, il delfino di
Tito: quella dei burocrati-ladri. Ecco allora i maiali,
gli stessi di Orwell ne "La fattoria degli
animali".
Per spazzarli via, il lavoro sarà lungo e difficile.
Quanto durerà? "Due anni, forse più". Il
serbo gela senza esitazioni le speranze dell'Europa.
"Quelli faranno di tutto per restare. I più furbi
si trasformeranno in democratici. I peggiori, invece,
incendieranno uno alla volta il Montenegro, la Vojvodina,
il Sangiaccato. E alla fine, quando non ci sarà più
niente da buttare all'aria, metteranno i serbi contro i
serbi. Non so se l'Occidente saprà gestire questo casino
e imporre una democrazia reale. Forse lascerà che la
Serbia scompaia dalla carta geografica. Per questo me ne
vado e non torno più".
Il nome Ljubomir significa: "Colui che ama la
pace". Un'intera generazione di jugoslavi ebbe nomi
simili dopo il '45. Branimir, "Il difensore della
pace"; Zivomir, "Viva la pace"; Mirna,
"La pacifica"; Miroslava, "Colei che
celebra la pace". A giudicare dai battesimi, nessun
popolo europeo ha bramato la pace come gli jugoslavi nel
dopoguerra. Eppure, proprio in quel dopoguerra si
gettarono le basi del conflitto di oggi. La retorica
esistenziale della fratellanza e unità sommerse tutto:
ieri impedì il riesame critico delle stragi etniche tra
jugoslavi e oggi ha consentito ai nazionalisti di
riempire di veleni il grande vuoto di quella rimozione.
Anche i nomi propri della pace nascono da una grande
rimozione? Forse, essi non erano solo auspicio e
scaramanzia, ma anche il segno di una paura inconfessata:
quella che gli slavi hanno di se medesimi, della parte
buia della loro anima. Nessuno teme i balcanici come i
balcanici stessi. Scrive il romeno Emil Cioran: in noi
c'è "il gusto della devastazione, del disordine
interno, di un universo simile a un bordello in
fiamme". Senza contare "quella prospettiva
sardonica sui cataclismi avvenuti o imminenti,
quell'asprezza, quel far niente da insonne o da
assassino...". E il serbo-ungherese Danilo Kis
intravvide nel Paese profondo un nucleo minoritario - ma
devastante e inestirpabile - di aggressività. Scrisse:
"È vero, siamo primitivi, ma essi sono selvaggi; se
noi ci ubriachiamo, essi sono alcolizzati; se noi
uccidiamo, essi sono tagliagole".
"Oggi - racconta Ljubo - comunque vada a finire, i
miei nipoti non avranno quei nomi. In Bosnia ho visto
troppi assassini chiamati come angeli". E poi, si
chiede il serbo, come può esserci pace se non c'è mai
stata una guerra? Nelle guerre vere gli eserciti si
scontrano in battaglie campali. Dopo la catarsi finale -
ha scritto l'albanese Kadaré - esse emettono
misteriosamente un "bang" di energia positiva,
da cui nasce la ricostruzione. Nei Balcani, stavolta, non
andrà così. C'è stato solo un latrocinio infinito, un
pauroso accumulo di energia negativa. Una miscela
esplosiva fatta di stanchezza, disillusione, avvilimento
e paura. E nelle scuole i libri di storia già inoculano
nei bambini letali pregiudizi etnici forieri di nuove
instabilità. "La guerra è niente - taglia corto
l'uomo - il peggio comincia dopo. Vedrete".
A Sarajevo, nell'ora viola in cui le rondini si calano
dal monte Trebevic e fanno ressa attorno ai minareti,
Jasna, quarantacinquenne professoressa di matematica
senza lavoro, non esce più con le amiche al caffè. Non
è solo perché non ha più soldi per pagarselo. È anche
perché non sopporta i nuovi avventori. I ristoranti sono
pieni sempre della stessa gente. Solo stranieri: soldati
americani imbottiti di valuta, spocchiosi e superpagati
funzionari di organizzazioni internazionali, operatori
umanitari governativi col loro carico di elemosine,
diplomatici con le loro corti, retroguardie di
giornalisti-guardoni. Niente sarajevesi nell'allegra
brigata; tranne la solita corte di belle ragazze in cerca
di dollari e compagnia.
Jasna sa che in Bosnia non si spara da quasi quattro
anni, ma sa anche che questa pace le fa schifo. È
peggiore della guerra. A Sarajevo, la guerra di
resistenza aveva esaltato, per un po', almeno l'identità
del luogo. Mai essa aveva umiliato la città come questa
pace paradossale fra separati in casa che trasforma la
Bosnia in una colonia e i bosniaci in zulù. "Sono
situazioni - dice - che eccitano i fondamentalismi più
delle bombe". Il piano Marshall non è mai arrivato
e Jasna ha perso il lavoro; parla sei lingue, ma farebbe
carte false per pelar patate per il battaglione francese
o per la guarnigione italiana. Decine di professionisti
alla fame rispondono ogni giorno alle inserzioni di
chiunque prometta un visto e improbabili lavori
all'estero, raccontando al telefono la loro miseria
personale.
Mi dice: "Non è difficile, da Sarajevo, capire come
sarà la pace a Belgrado. Con o senza Milosevic al
potere, con o senza le bombe della Nato, il prossimo
inverno i serbi moriranno. Il fiato della Sava se li
porterà via come mosche, senza che i giornalisti
scrivano un rigo. Finita la guerra, finirà anche
l'interesse". Osserva: cosa può fare un Paese senza
soldi, senza energia, senza vie di comunicazione, senza
infrastrutture, senza classe dirigente? Le chiedo: e i
profughi albanesi quando torneranno? Risponde: "In
Bosnia non è tornato quasi nessuno. Anzi, l'esodo
continua. Il Kosovo è ancora peggio: resterà a lungo
terra desolata, luogo di bande armate. Ci vorranno dieci
anni almeno per rifare quello che è stato distrutto in
tre mesi".
Torneranno gli albanesi? Lentamente, ma torneranno.
"Il tempo è dalla nostra" disse già dieci
anni fa un mite "mullah" di Pristina, mentre la
polizia di Milosevic bastonava selvaggiamente donne e
bambini in corteo. Non disse che gli albanesi avevano
dalla loro anche il numero, la demografia; non disse che
il "genocidio" denunciato dai serbi era
l'amplificazione politica una reale soppressione
biologica. "Vinceremo col pene!" gridavano già
allora i più estremi degli studenti kosovari,
annunciando che avrebbero cacciato i serbi solo facendo
figli, senza imbracciare le armi. È finita in tragedia.
Ma oggi gli albanesi hanno dalla loro altre armi in più:
l'appoggio della Nato, un piccolo esercito e
l'incrollabile determinazione a tornare in una terra che
considerano, ormai, soltanto loro.
I pochi serbi rimasti in Kosovo lo sanno bene, e la loro
fuga è già cominciata. Sanno che arriverà la resa dei
conti, che nessuna forza internazionale potrà
proteggerli dalle rappresaglie e da un nazionalismo -
quello albanese - sì meno esplicito, meno truculento e
visibile, ma certamente non meno implacabile di quello di
Belgrado. Così, oggi, dopo essere stati gonfiati di
mitologia, ubriacati di politica, affiancati da bande
criminali e trascinati in uno scontro suicida, gli uomini
che invocarono il nuovo salvatore del popolo serbo si
preparano come sei secoli fa a un altro tradimento, a una
nuova fuga dal Kosovo, forse definitiva. Dove andranno
nessuno sa, visto che il loro Paese non può mantenerli.
Saranno, probabilmente, il prossimo problema dell'Europa.
Si avvicina intanto una data fatale: il 28 giugno,
anniversario della sconfitta di Kosovo Polje (1389) e di
tante disgrazie serbe. Dieci anni fa, su quel campo di
battaglia Milosevic annunciava a un milione di uomini che
l'ora della riscossa era tornata. Ha mantenuto la
promessa a metà: la Terra dei merli è vuota di
albanesi, ma non c'è nessuna riscossa da celebrare
perché anche i serbi se ne vanno. Chi conosce Milosevic
sa che guarda alle ricorrenze in modo superstizioso e
maniacale. E sa che, non potendo vivere un trionfo,
potrebbe usare il 28 giugno anche per santificare un
esodo, drammatizzare una sconfitta solo per farla entrare
nel mito come quella del 1389. Slobo, figlio di genitori
suicidi, potrebbe anche scegliere quel giorno per
sigillare a suo modo un suicidio nazionale durato dieci
anni.
(9 giugno 1999)
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In Serbia il futuro
è diventato passato
di DRAGAN VELIKIC ***
LA LOGICA di tutte le guerre che negli
ultimi dieci anni si sono svolte nella regione dei
Balcani, può spiegarsi come effetto di un forte
sentimento di preoccupazione e attenzione. In un primo
tempo tutti si sono mostrati preoccupati per il destino
della Jugoslavia, ma quando questo "destino" ha
cominciato a manifestarsi come un fenomeno di enorme
disgregazione e separazione, allora tutti hanno
cominciato a essere molto preoccupati per il destino
degli "altri". I politici croati si sono molto
preoccupati per il destino dei croati in Serbia e in
Bosnia, i politici bosniaci si sono preoccupati allo
stesso modo per il destino dei musulmani in Croazia e
Serbia e, chiaramente, il regime serbo si è molto
preoccupato per ciò che sarebbe successo ai serbi in
Kosovo, in Croazia e in Bosnia.
Si è dunque sviluppata tutta una retorica della
preoccupazione per l'altrui destino. Naturalmente, non è
difficile vedere come questa preoccupazione abbia una sua
forma perversa -dal momento che non si tratta mai di
interesse nei confronti di qualcun altro, ma
esclusivamente di preoccupazione per se stessi, per i
"nostri", per coloro che insieme a noi fanno
parte del nostro corpo nazionale. Tutte le guerre di
Milosevic sono iniziate con l'intenzione di aiutare gli
altri, come guerre umanitarie. Così è la guerra della
Nato contro la Serbia. La Nato conduce una guerra
umanitaria, una guerra per gli altri, la guerra provocata
dall'interesse verso la sorte degli altri. La Nato non
scatena la guerra per interessi propri, ma nell'interesse
degli altri, e non contro il proprio interesse.
Un uomo di nome Jamie Shea ha spiegato in una conferenza
stampa che la Nato ha inventato una nuova concezione di
guerriglia, e cioè il modo in cui la Nato conduce la
guerra umanitaria. Oltre ad avere evidentemente mentito,
Jamie Shea ha ignorato l'argomento chiave che anche
Milosevic ha scatenato esclusivamente delle guerre
umanitarie. Come la Nato ripete in continuazione di non
essere in guerra con la Serbia, né con nessun altro
paese, ma di essere impegnata in un'azione umanitaria,
così anche Milosevic ripete in continuazione che
"la Serbia non è in guerra", ma sta solo
salvando gli oppressi. Sembra di assistere ad una
configurazione sorprendentemente identica: tra strategia
e politica della Nato e strategia e politica di Slobodan
Milosevic. Qualche giorno dopo l'inizio dei bombardamenti
sulla Serbia, il presidente americano, meglio conosciuto
come Bill Clinton, ha spiegato al mondo che la Nato
avrebbe dovuto intervenire per assicurare il ritorno dei
profughi in Kosovo. All'osservazione dei giornalisti che
quei profughi non erano così numerosi prima
dell'intervento della Nato, il presidente Clinton ha
risposto che questo non cambia l'essenza delle cose, dal
momento che il regime serbo è tale che prima o poi
l'espulsione degli albanesi del Kosovo sarebbe avvenuta,
e la Nato in ogni caso avrebbe dovuto intervenire.
Era quindi questa la logica della posizione di Clinton:
è necessario reagire adesso per prevenire una catastrofe
futura. In un modo perverso, Clinton ha ragione: quel
programma futuro, non è futuro perché si realizza nel
presente, e la Nato non dovrà intervenire nel futuro
perché reagisce nel presente. Questa logica perversa non
ha naturalmente lo scopo di fermare la catastrofe ma il
fine di anticipare il futuro, di precorrerlo, di
comportarsi come se il futuro fosse presente, come se
l'ignoto fosse già noto, come se quello che dovrebbe
succedere fosse già successo. Il loro motto principale
è: il futuro è il passato. Ma questo è stato anche il
motto di tutta la politica di Milosevic: non è
necessario aspettare il futuro per vedere se i serbi
saranno privati dei diritti umani e civili nel nuovo
stato della Croazia. Questa attesa è superflua perché i
serbi in una Croazia non così lontana, ma sempre nel
passato, venivano uccisi dai croati. Quello che è stato
una volta sarà di nuovo, e il futuro era già presente
nel passato. Questa sicura conoscenza del futuro, oltre
che caratteristica di una mente primitiva, è divenuta
motore e giustificazione di ogni violenza perpetrata nei
Balcani negli ultimi dieci anni.
L'intelligenza umana riunita nella Nato è
strutturalmente identica all'intelligenza di Milosevic:
noi siamo certi del futuro perché il futuro è il
passato, e perciò con il nostro comportamento presente
faremo di tutto per far sì che il futuro diventi
passato. Detto fatto. In Serbia il futuro è diventato
passato. La Serbia è l'unico paese in Europa nel quale
le case non sono illuminate elettricamente, nel quale la
gente non ha acqua corrente, nel quale non esistono
ponti, trasporti pubblici, fabbriche e treni, nel quale
non funzionano né scuole, né asili, né cinema né
teatri. La Serbia è anche l'unico paese in Europa in cui
fra poco non ci sarà più nemmeno lo zoo perché gli
animali sono impazziti a causa delle sirene e delle bombe
ed hanno cominciato a mangiarsi, a mordere le loro stesse
zampe, a strappare pezzi del loro corpo.
"Tutto questo è colpa di Milosevic", ha detto,
tenendo la mano in tasca, Jamie Shea, riferendosi,
evidentemente, ad un'idea squilibrata di giustizia e
responsabilità. Perché squilibrata? Il motivo è in
fondo semplice: se Slobodan Milosevic è colpevole della
morte di cinquemila serbi uccisi dalle bombe Nato, questo
significa che la colpa non è di chi butta le bombe, di
chi ordina le stragi, di chi distrugge città e ponti,
ospedali e scuole, ma di chi non ha voluto accordarsi con
chi uccide e possiede la verità. Ma così pensa anche
Slobodan Milosevic: non è lui il colpevole della
distruzione di Sarajevo, né Karadzic, ma quell'Alija
Izetbegovic che non ha voluto firmare il documento di
Milosevic, così come ha pensato Milosevic. Se ci
atteniamo alla logica di Jamie Shea - i colpevoli non
sono quelli che bombardano e massacrano - questo
significa che Slobodan Milosevic non è colpevole per
quello che è successo in Bosnia e Croazia, e tutto
sommato Slobodan Milosevic è un uomo assolutamente
innocente. Ma se proviamo ad avvicinare questa logica
perversa ad una mente più sana di quella di Shea, allora
dobbiamo ammettere, ovviamente, la colpevolezza o la
responsabilità di Slobodan Milosevic per le sofferenze -
enormi - di innocenti in Bosnia e in Kosovo, e la
colpevolezza dei governanti della Nato come anche dei
presidenti di tutti i Paesi della Nato per le sofferenze
- altrettanto enormi - di innocenti in Serbia e in
Kosovo. E di nuovo emerge l'identità strutturale tra i
fatti provocati dal regime serbo e quelli provocati dagli
alleati Nato: celati dalla logica dell'aiuto umanitario,
sia gli uni che gli altri ammazzano innocenti.
Ma cosa sono alcune migliaia di morti serbi rispetto ad
alcune decine di migliaia (come dicono i media
occidentali) di morti albanesi? C'è gente che si pone
questa domanda escludendosi, in questo modo, dalla
categoria stessa di "gente". Perché questa
domanda tende verso il razzismo estremo, quasi verso il
nazismo puro. Questa domanda rivela in realtà la sua
ipotesi: possiamo mercanteggiare la vita, esistono vite
più o meno importanti, esistono alcune vite
assolutamente senza valore, altre preziose. Come Slobodan
Milosevic applicava questa logica nel corso delle varie
guerre balcaniche, così oggi la Nato, o più
esattamente, coloro che sostengono queste idee, usa la
stessa logica. In tutte le conferenze stampa si parla dei
massacri che i serbi hanno provocato in Kosovo, si parla
degli albanesi uccisi, si parla dei profughi albanesi,
perché gli albanesi sono esseri umani, e questo è vero,
su questo non c' è dubbio. Ma dei serbi uccisi si parla
come di "effetti collaterali", come di qualche
danno collaterale, di qualche guasto non pianificato (ma
non meno desiderato) nei confronti del nemico. Sembra
così che i serbi, oltre ad aver perso ottocento carri
armati, cinquanta ponti, centinaia di binari e strade,
abbiano subito "danni collaterali" su alcuni
corpi, insignificanti, non personali, quindi non umani,
perciò di poco conto. Se seguiamo questa logica perversa
della Nato possiamo dire: "Sono state uccise decine
di migliaia di albanesi e i serbi hanno perso dieci
tonnellate di carne".
(traduzione a cura del gruppo Logos)
***Dragan Velikic nato a Belgrado nel 1953 è
cresciuto a Pola, in Istria. Ha pubblicato due libri di
racconti, tre saggi e cinque romanzi tra i quali
"Via Pola", "Astragan" e "Piazza
Dante". Nel corso degli ultimi sette anni ha
pubblicato testi politici per i media dell'opposizione di
Belgrado.
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