La forza della cultura
e il cancro balcanico



di ISMAIL KADARE'

NON conosciamo ancora con precisione i termini dell'accordo tra Nato e serbi, ma io credo nella pace perché dopo ogni guerra si sviluppa sempre una grande energia umana. E il fatto più importante è che i kosovari torneranno ad apprezzare la vita dopo aver visto con i propri occhi la catastrofe. I kosovari troveranno dentro loro stessi una grande energia positiva. Credo nella pace, ma solo se le forze che oggi sono contro il crimine si muoveranno senza compromessi. Da uomo di cultura accetto i compromessi, ma non in questo caso. Non conosciamo ancora esattamente la definizione dell'intesa, ma nei Balcani c'è ancora una peste.

Ciò che è avvenuto nel Kosovo è stato solo l'epilogo di un dramma che ha portato qualcosa di imprevedibile. E' stato il pretesto per scoprire una malattia che nessuno immaginava fosse dentro di noi. Non bisogna, dunque, utilizzare mezze misure. Bisogna essere determinati fino alla fine. Nessun lassismo nei confronti di Milosevic e dei suoi ufficiali responsabili dei crimini commessi nel Kosovo. Milosevic e gli uomini del suo clan vanno arrestati per il bene dei Balcani, dell'Europa e dello stesso popolo serbo. Bisogna finirla con questa pagina nera dei Balcani.

La maggior parte della popolazione serba, purtroppo, ha approvato l'azione di Milosevic e perciò ora l'azione della cultura può essere importantissima per ricostruire la parte positiva della popolazone serba. Ci sono tanti giovani, tanti giovani serbi che sono stati plagiati da questa follia di Slobodan Milosevic. Ma la cultura deve intervenire. La cultura europea può estirpare il cancro balcanico. Può esercitare azioni contro la falsificazione della storia. Si è lasciata andare avanti per troppi anni una cultura criminale balcanica. La cultura può essere utilizzata in modo buono o cattivo. Quella balcanica, purtroppo, ha due facce. Quella distruttiva, negativa, e un'altra faccia nobile. Al momento si impone il volto negativo.

Come cambiare, dunque, direzione? Utilizzando tutte le possibilità che ha la cultura europea dominante. Condannando tutte le dittature scioviniste o nazionaliste. Evitando di far parlare pseudointellettuali o pseudofilosofi. Con chi usa l'odio non bisogna essere tolleranti. Non è sufficiente condannare. Bisogna essere intolleranti. Di fronte al cinismo bisogna essere estremisti, totalitari perché, di fronte al crimine, la tolleranza è anch'essa un crimine. Oggi in Europa c'è un fronte unico contro il crimine, ma c'è anche un fronte unito che difende il crimine. è il momento che la coscienza europea si muova. Non bisognerà mai dimenticare che in questa vicenda il popolo albanese è quello che ha pagato il prezzo più alto. La soluzione, dunque, sarà nel ritorno del popolo kosovaro nelle proprie case. La cosa più importante è che tornino nelle case da cui sono stati espulsi. Ma i kosovari torneranno solo nelle aree che saranno protette dalla Nato. Nessuno rientrerà nelle zone in cui dovesse esserci solo l'armata russa. Bisogna fare perciò in modo che non ci sia una parte del Kosovo controllata dai russi perché in quel caso gli albanesi non torneranno nella loro terra. Dico questo perché sono convinto che la stragrande maggioranza dei kosovari vuole ritornare nelle proprie terre, è decisa a rientrare nelle proprie case, ma il controllo del territorio resta un problema fondamentale.

I kosovari vogliono tornare nella propria terra perché in nessuna parte del mondo troveranno case così grandi e belle come quelle da cui sono stati espulsi, come quelle che i serbi hanno bruciato. In nessuna parte del mondo i kosovari potrebbero trovare case così belle. In nessuna parte del mondo potrebbero abituarsi a vivere in piccole case. Ma torneranno solo dove ci sarà la Nato. Non dove ci saranno russi. Io credo perciò che il Kosovo dovrà rimanere alcuni anni sotto l'amministrazone europea e poi, in un'area balcanica democraticizzata, non sarà un problema trovare una soluzione politica, una soluzione definitiva per il Kosovo. Gli albanesi, oggi, chiedono solo il diritto di vivere come tutte le altre popolazioni d'Europa. Se potranno vivere da europei, lo status politico si troverà. Non c'è alcuna contraddizione tra il sogno albanese e i progetti dell'Europa.


(7 giugno 1999)

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Trattare
con l'imputato Milosevic



di STEFANO RODOTA'

E' ACCETTABILE una conclusione "non etica" di una guerra "etica"? Questo interrogativo era già nell'aria dal momento in cui s' era definito Milosevic come l'Hitler dei Balcani. Ed era divenuto più stringente dopo la sua incriminazione per crimini di guerra e contro l'umanità: si temeva proprio che questo fatto avrebbe reso più difficile, o addirittura impossibile, una conclusione negoziata del conflitto. Si può, infatti trattare con un criminale? La trattativa sembrava così impigliarsi in un vincolo etico e in un ostacolo giuridico. Ma poi la politica ha fatto sentire forte la sua voce, e la desiderata pace sembra ormai a portata di mano.

Tutto semplice, dunque, con la politica che riafferma la sua autonomia dalla morale e la sua superiorità sul diritto? Anche questa volta bisogna diffidare dalle semplificazioni, dalla voglia di voltare in fretta una pagina sgradevole. La guerra serba lascia sul terreno morti e distruzioni, ma pure problemi aperti, domande in cerca di risposta, che condizioneranno negli anni a venire le forme organizzative del mondo, il destino dei diritti, le sorti della guerra e della pace.

Ritorniamo al modo in cui la guerra venne avviata, nel quale si potrebbe essere indotti a ritrovare una logica opposta a quella che sta portando alla sua conclusione. Allora l'esigenza etica di reagire alla pulizia etnica e l'affermazione del diritto di ingerenza umanitaria presentavano la politica non nella sua orgogliosa autonomia, ma nelle sembianze dell'ancella della morale e del diritto. Prima ancora d'una necessità politica, era l'imperativo etico e giuridico ad imporre il ricorso alle armi. Subito, però, divennero evidenti le contraddizioni e i limiti dell'argomento etico e di quello giuridico. Può l'etica accettare il sacrificio dei civili innocenti? Può il diritto tramutarsi in indifferenza rispetto al modo in cui i poteri vengono esercitati? L'etica impone anche misura, proporzione: più i giorni passavano, più si coglieva lo scarto tra l'azione bellica e i sacrifici imposti a popolazioni incolpevoli, gli stessi serbi e i kosovari più di prima perseguitati e scacciati. Il diritto è regola, stabilita in anticipo: il "diritto d'ingerenza umanitaria" che si stava faticosamente costruendo, esige una precisa e preventiva individuazione di chi può esercitarlo, non può mai essere inteso come una sorta di delega in bianco rilasciata a Stati o alleanze perché intervengano dove e quando gli piaccia.

Così, dietro lo schermo etico e giuridico ricomparivano, nude, la forza e la spietatezza della politica. Proprio per ricostruire un'accettabile condizione etica e giuridica, allora, diveniva indispensabile giungere alla conclusione della guerra. Di una superiorità morale della pace hanno parlato tutti i filosofi che si sono cimentati nell'impresa ardua di dare ad essa una fondazione che potesse farla divenire "perpetua". Ma, al di là dell'intima forza di questo principio, vi è un'urgenza nelle cose che impone di non legare alla vicenda personale di un governante l'umana sorte di milioni di persone, già destinate e vivere per un tempo non breve in condizioni difficili, in territori devastati e con un'economia distrutta. Un' implacabile intransigenza morale avrebbe di nuovo portato a quella mancanza di misura e di proporzionalità che mina la forza dell'argomento etico. Negare ogni legittimità alla trattativa con Milosevic avrebbe portato ad una situazione nella quale l'unica via d'uscita sarebbe stata l'uccisione del tiranno.

Ma trattare non significa assolvere o condonare. Non sto postulando l'indifferenza della politica rispetto alle regole del diritto ed alle esigenze della morale. Voglio più semplicemente dire che bisogna ritrovare lucidità nel ridefinire le relazioni tra queste diverse sfere, oscurate dalla strumentalità e dall'approssimazione con cui sono state analizzate in questo drammatico periodo. l'interlocutore Milosevic rimane l'imputato Milosevic davanti al Tribunale penale internazionale. Comprendo la difficoltà di accettare questa distinzione, e anche il rischio che ad essa venga rivolta una critica di scarso realismo. Ma queste sono le difficoltà obiettive di una situazione in cui le nuove dimensioni del mondo sfidano le logiche tradizionali, mostrano l'inadeguatezza di vecchie istituzioni e di vecchi concetti, e la fatica con la quale si cerca di costruire un quadro istituzionale adeguato.

Al Tribunale penale internazionale spetta ora il difficile compito di agire con imparzialità, di scrollarsi di dosso il sospetto d'essere il troppo docile strumento d'una parte politica. Non è un tribunale dei vincitori, davanti al quale vengono trascinati in catene gli sconfitti. Agisce nel fuoco dei conflitti, e quindi è destinato a fare i conti con le difficoltà di svolgere i processi e soprattutto di far eseguire le condanne, per ragioni che sono tutte dipendenti dalla politica. Si può imprigionare un capo di Stato?

Stiamo così ridefinendo, insieme, le modalità della politica, le regole del diritto, lo spazio dell'etica. Non ci aggiriamo, soltanto, smarriti, lungo gli incerti confini tra diritto e morale. è pure alla politica, a lungo invocata durante il conflitto serbo come unica alternativa alle armi, che bisogna attribuire un ruolo adeguato, non essendo ormai sufficiente fermarsi all'affermazione della sua autonomia come irrinunciabile lascito della modernità. Dobbiamo sicuramente guardarci da una politica sottomessa all'etica in modo da farne puro strumento per imporre valori non condivisi, opprimendo così minoranze e dissenzienti. Ma dobbiamo pure guardarci da una politica ridotta a ragion di Stato, per la quale ogni regola giuridica è impaccio, di cui è legittimo liberarsi. l'esigenza di legalità è ineliminabile, a livello nazionale e sovranazionale. La guerra in Serbia ha mostrato la debolezza delle istituzioni esistenti, ma non ha smentito, anzi ha reso più urgente e drammatica, la ricerca di una nuova "forma costituzionale" del mondo. Si tratta ora di definire come debba svolgersi questo processo, e chi debba esserne protagonista. Tra le molte definizioni di quest'ultima guerra, una mi è sembrata particolarmente felice, e inquietante. Si è parlato di guerra "costituente", così sottolineando come il potere di delineare l'assetto futuro della comunità internazionale sia sfuggito ai luoghi della democrazia e si sia concentrato in quelli della forza.

Proprio a questa deriva bisogna sottrarsi, partendo anche dalla constatazione realistica della debolezza delle istituzioni esistenti, di un' Onu che sembra al tramonto e di un' Europa che fatica a manifestarsi. Al tempo stesso, però, non ci si può rifugiare negli schemi che hanno accompagnato altri tempi e altri mondi. Proprio nel momento in cui con violenza tornano a manifestarsi i nazionalismi, non bisogna pensare che di nuovo si sia vincolati dalle logiche della sovranità nazionale. La parabola di questo concetto, così lucidamente investigata da Hans Kelsen già al tempo della prima guerra mondiale, sembra avviarsi verso la sua conclusione. Le dimensioni del mondo non possono più essere chiuse in confini nazionali, anche se continueranno ad essere insidiate da ricorrenti "tribalizzazioni". Questo vuol dire che a nessuno Stato-nazione può essere attribuito un diritto di vita o di morte sui destini di chiunque. Ma vuol dire anche che dobbiamo contrastare le pretese tribali ed etniche, quando vestono impropriamente i panni di uno dei nuovi diritti collettivi, quello all'autodeterminazione dei popoli. Si negherebbe, altrimenti, il pluralismo, ritenuto ormai un valore irrinunciabile. Come all'interno delle comunità nazionali, così nella dimensione internazionale, dobbiamo rifiutare la logica dei ghetti, che produce separazione e distanza dall'altro, e dunque è terribile matrice di nuovi conflitti.

(6 giugno 1999)

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La fenice russa
è risorta nei Balcani



di SANDRO VIOLA

SARA' stata l'euforia, certo è che avant'ieri, all'annuncio degli accordi di Belgrado, i governanti europei sembravano aver perso la memoria. Solo Gerhard Schroeder s'è infatti ricordato che quegli accordi erano il frutto di una mediazione, e che a mediare erano stati i russi: "Il merito è di Eltsin", ha detto il Cancelliere tedesco, "senza il quale sarebbe stato impossibile giungere a questo risultato".

Riconoscere l'utilità della missione che il 15 aprile Eltsin affidò a Cernomyrdin, era in effetti, da parte dell'Europa, un atto dovuto. Perché è vero che la guerra balcanica sarebbe comunque - a un certo punto - finita, con l'esaurirsi delle capacità di resistenza dei serbi: ma quando e come si sarebbe arrivati a quel "certo punto": tra un mese, due, tre, oppure soltanto con l'intervento delle truppe di terra?

A questo servono, nel quadro d'un conflitto, le mediazioni. Ad accorciare lo scontro armato, a limitarne i danni. La missione Cernomyrdin è stata quindi, da questo punto di vista, un successo. Specie se pensiamo agli ostacoli che ha incontrato. Prima il terremoto moscovita di metà maggio (il licenziamento di Evghenij Primakov, la procedura di "impeachment" nei confronti di Eltsin, l'ennesima sbandata delle istituzioni russe), che sembrava dover azzoppare il mediatore. Bruciarne la credibilità. Poi le bombe sull'ambasciata cinese a Belgrado, che avevano inceppato per vari giorni i congegni della trattativa. Infine la posizione presa dagli anglo-americani, nelle ultime due settimane sempre più marcata, che mirava non tanto a un cedimento di Milosevic quanto alla sua uscita di scena. quest'ultimo ostacolo ha rischiato di vanificare gli sforzi di Viktor Cernomyrdin: perché il compito del mediatore era di far raggiungere alle parti in conflitto un compromesso, e non certo quello di portare su un piatto d'argento, al comando Nato di Bruxelles, la testa di Slobodan Milosevic.

E fortuna che a trattare con Cernomyrdin ci fosse il sottosegretario di Stato Strobe Talbott, un uomo che conosce molto bene la situazione russa e si rendeva conto dei vantaggi che non soltanto Eltsin, ma anche l'Occidente, avrebbero ricavato da un successo d'immagine della povera Russia. Perché la pretesa di continuare le operazioni belliche sinché Milosevic non fosse, in un modo o nell'altro, caduto, minacciava di far durare la guerra chi sa quanto ancora. Se la mediazione russa ha potuto superare tanti e difficili intralci, è perché era l'unica disponibile. Cernomyrdin sarà stato certamente all'altezza del compito, e molto hanno contato anche l'aiuto di Talbott e l'esperienza del presidente finlandese. Ma le ragioni sostanziali della riuscita stanno nel fatto che sul tappeto della crisi balcanica non c'era altro se non il tentativo russo. Ed è nella cornice di quel tentativo che s'inserivano da un mese e mezzo tutte le attese, le richieste, le pressioni dei governi europei più preoccupati della brutta piega che la guerra aveva preso: vale a dire i governi di Germania, Italia, Francia. Non ci fosse stata una mediazione russa da incoraggiare e sostenere di fronte allo scetticismo di Washington e Londra, le inquietudini degli europei si sarebbero scaricate all'interno dell'Alleanza, e forse ne avrebbero danneggiato la compattezza.

Si capisce così che il significato del successo russo oltrepassa di molto la cornice della guerra balcanica. Esso s'avvertirà infatti su altri due versanti: sulla scena politica russa, e nei rapporti tra Russia e Occidente. Per quel che riguarda quest'ultimo versante, la prima cosa da dire è che Mosca è stata più vicina agli occidentali che all'alleato storico, la Serbia slava e ortodossa. Se all'inizio, infatti, s'era potuto pensare che Cernomyrdin si sarebbe posto a metà strada tra i contendenti, lavorando ad un compromesso di tipo classico - tale cioè da non scontentare nessuno -, più tardi s'è visto che egli ha lavorato per giungere alla resa di Slobodan Milosevic.

E' la resa di Milosevic, infatti, il risultato della mediazione russa. Il risultato cioè che serviva alla Nato, all'Occidente. Che i russi avessero una maggiore comprensione delle ragioni europee ed americane che non delle ragioni di Milosevic, fu chiaro alla riunione del G8 a Bonn. Lo schema d'accordo elaborato quel 6 maggio riprendeva quasi totalmente (anche se restava vago su alcuni punti sostanziali) le richieste degli alleati. Da quel momento, la Russia aveva già fatto le sue scelte. Aveva capito che la Nato non poteva perdere la partita, e che il mediatore doveva soltanto provarsi a rendere meno severa, disastrosa, la resa dei serbi. Ma nell'avvicinamento alle posizioni dell'Alleanza, non c'era soltanto il desiderio di condurre in porto un'iniziativa capace di ridare un qualche prestigio alla Russia. C'era, ormai, una scelta di campo.

Su questo conviene essere chiari. Cernomyrdin, e con lui Boris Eltsin, prendevano dei rischi. Sapevano perfettamente che a Mosca la canea dei nazionalcomunisti si sarebbe scatenata contro il "tradimento" ai danni della Serbia, contro Cernomyrdin "lacchè degli americani", puntando ad elettrizzare gli umori anti-occidentali che pervadono la Russia della crisi permanente. Di questo erano consapevoli, e tuttavia sono sempre rimasti - dopo la scelta compiuta a Bonn - dalla parte degli europei e degli americani. Né avrebbe senso ipotizzare che la linea Eltsin-Cernomyrdin sia venuta soltanto dal bisogno di procurarsi, in cambio d'una mediazione così sbilanciata, così favorevole agli occidentali, i prestiti del Fondo monetario. Questo ha contato, certo, ma la scelta aveva poi altri significati: non rompere con l'Occidente, mantenere la Russia all'interno degli interessi europei, contrastare il nazionalismo isolazionista e rancoroso di tanta parte della società russa.

E qui va rammentata l'atmosfera in cui la Russia ha vissuto l'inizio dell'offensiva aerea della Nato. Davvero, come dice Evtushenko, sembrava che "lo scheletro della guerra fredda" fosse uscito dalla tomba. Perché l'attacco contro la Federazione jugoslava aveva aggravato le frustrazioni della potenza decaduta, rianimato i rottami della tradizione panslavista, messo a fuoco la debolezza e marginalità del ruolo russo in Europa e nel mondo. E se non ci fosse stato Eltsin, il suo tentativo di mantenere l'aggancio con l'Occidente così da salvare il salvabile dei suoi ondeggianti, accidentali e spesso disastrosi anni di governo, il gioco era fatto. La lacerazione tra Russia ed Europa si sarebbe compiuta. Le due campagne elettorali che s' avvicinano (legislative in dicembre, presidenziali a giugno dell'anno venturo), avrebbero avuto come tema dominante lo spettro d'una Russia umiliata dall'Occidente, assediata, in pericolo.

Beninteso, il successo della mediazione Cernomyrdin non eviterà che per qualche giorno, dai banchi della Duma, i nazionalcomunisti facciano un gran chiasso contro "il servizio reso all'imperialismo americano". Ma quando il polverone si sarà dissolto, i russi che hanno occhi per vedere s' accorgeranno che la conclusione della guerra balcanica ha consentito al paese un ritorno insperato sulla grande scena internazionale. Ha mostrato che la Russia non è, in ambito politico e diplomatico, il cadavere che tante volte negli ultimi mesi era sembrato. E ha posto le premesse per un rilancio di quell'integrazione russa con i paesi occidentali, che è la sola strada da percorrere per poter ancora sperare in una rinascita della nazione. Dinanzi a questo tornante dei rapporti tra Russia e Occidente, l'Europa e l'America non dovranno permettersi distrazioni. Più volte, nell'ultimo anno, il disastro russo era parso così ampio e irrimediabile da indurre molti uomini di governo occidentali a pensare che non ci fosse altra soluzione se non tenersi a debita distanza da Mosca. Distanza politica, distanza economica.

Ma oggi quest'atteggiamento non avrebbe senso. Nella più difficile congiuntura che l'Europa abbia conosciuto dalla fine della Seconda guerra mondiale, il ruolo della Russia è risultato decisivo. E di questo bisognerà tener conto, evitando sinché è possibile che si producano nuove e pericolose divaricazioni tra gli interessi russi e quelli occidentali. La guerra contro Milosevic è costata non poco a Mosca. Essa vedrà nei prossimi giorni forze armate degli Stati Uniti nel cuore dei Balcani, una regione che era stata un tempo d'influenza russa, poi "grigia", ma mai marcata da una presenza americana. Essa sa che Bulgaria e Romania, concedendo alla Nato una serie di facilitazioni durante i due mesi di guerra, si sono già molto avvicinate al loro ingresso nell'Alleanza: ciò che porterà ancora più a ridosso delle frontiere russe un'organizzazione politico-militare di cui la Russia non fa parte. Nonostante abbiano dovuto pagare questo prezzo, i russi che credono all'importanza dei legami con l'Occidente hanno operato perché la guerra finisse con la resa jugoslava. Dimenticarlo sarebbe non solo ingeneroso, ma anche imprudente.

(5 giugno 1999)

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La guerra finisce
senza balli in piazza



di ADRIANO SOFRI

LA PACE ha un passo zoppo e congedato. Niente fanfare. Era abusivo il nome di guerra, per questa devastazione condotta dall'alto in basso. Né vera azione di polizia, com' era necessario, né vera guerra. Un temporale in cui l'impotenza e l'onnipotenza si sono date la mano. Dunque si potrà chiamare col nome di pace la sua conclusione, oggi finalmente annunciata? Le guerre hanno smesso da tanto di essere cavalleresche, tant' è vero che a morirne sono i civili. Ma finché erano guerre ammettevano anche lo scoppio della pace.

Una notizia che correva da uno all'altro, soldati che risorgevano dal grembo macabro delle trincee buttando via il moschetto e correndo ad abbracciarsi, folla assiepata ai bordi delle strade a sventolare fazzoletti e bandierine, balli e baci regalati dalle belle ragazze. Non so se questa volta ci sarà un momento per dichiarare la pace, e farle festa. Temo di no. Le belle ragazze sono ora le vittime predilette, e le scampate sono le più riluttanti a tornare. Qualcuno firmerà fogli in televisione: spero che non ci sia Milosevic, e che almeno manchi la corrente, ai televisori dei profughi. Guerre e paci moderne sono travestite e ambigue. Non fanno festa, né fraternizzazioni. La pace perde anche lei la sua maiuscola. E stenta, dubbia, amara: si chiede perché la pazzia sia appena avvenuta, e se un'altra pazzia non sia in agguato. Niente balli nelle strade: tuttavia è la pace. E la fine degli agguati, degli stupri, delle botte, delle fughe, degli sputi. Il ritorno dei cacciati. Lo sgombero delle macerie. Il pellegrinaggio alla ricerca degli scomparsi, delle fosse. I cimiteri ricomposti. Le rovine frugate a trovare le reliquie del mondo di prima, una fotografia, un cucchiaio, un giocattolo. Qualcuno ci sarà che, per orrore e offesa, non vorrà più tornare. Sarà questo, la pace. Lo stupore per un vicino dell'altra nazione che, a differenza dagli altri, non va via, e l'incertezza fra l'odio e il saluto restituito a occhi bassi. L'incontro con qualche vecchio animale inselvatichito e scampato alla tempesta, una gallina, una gatta restata fedele alla rovina.

L'abitudine da fare a blindati e jeep e persone straniere a serbi e albanesi, arroganti nella carrozzeria intatta e nelle uniformi stirate e nella corsa perpetua, come se stessero precipitandosi a un salvataggio fatale, e invece girano rapidi e a vuoto, come ogni truppa di occupazione, anche la più benvenuta. La voglia di raccontare ciascuno la propria odissea, in cambio di una piccola pazienza per ascoltare il racconto degli altri. La coda a uno sportello di fortuna che restituisca una carta d'identità. La pace. Non il tempo nuovo, la rinascita, il fervore: semplicemente, la fine, cauta, della paura e dell'orrore. Non è poco. Vidi l'arrivo della pace a Sarajevo. Non arrivò. Niente feste. Anzi, dopo crebbero di colpo i suicidi. Però era finita. Finita con le granate, coi cecchini, con le deportazioni, con le taniche d'acqua trascinate dai vecchi fino all'ultimo piano, con le candele di falsa cera, col freddo. Si è insieme sollevati, e più offesi, quando è finita. Avranno fatto festa, ieri, a Kukes, o nei boschi intorno a Pec, o a Kragujevac e nella Novi Sad vedova di ponti? Tutti quegli uomini maschi che abbiamo visto piangere senza controllo, da due mesi. Forse hanno pianto, ancora più che gli altri giorni, ma in un modo diverso.

Solo la fine, speriamo non effimera, della "guerra". Non è poco. Cambieranno cielo e terra. Il cielo era stato confiscato da una migrazione quotidiana di macchine magnifiche e lontane, gloria in excelsis: apparecchi da castigo, con gli occhi bendati. E la terra. E pace in terra. La guerra ormai è affare dei cieli, la terra è invasa dagli assalitori razzisti, scavata di fosse comuni, corsa dai fuggiaschi. La pace riguarda la terra. Dobbiamo avere a cuore le creature umane, uccise, violate, sofferenti. Bisognava soccorrerle, in Kosovo, e bisogna altrove. Il loro ritorno protetto non risarcirà la tempesta furibonda dei due mesi trascorsi, ma almeno non l'avrà resa solo un'inutile esibizione. Un popolo destituito, spinto a coprirsi sotto un telo di plastica, vergognandosi di sé ai nostri occhi di spettatori commossi o cinici, si ricostruirà un tetto rosso di tegole: i suoi bambini si riabitueranno un po' alla volta a disegnare case col fumo che esce dal comignolo, invece che dal rogo dei ripulitori. l'inverno non li farà tremare.

La pace è fatta per gli umani, e poi per le loro case: è domestica. Ma è fatta anche per la terra. Mi piace l'espressione: torneranno alle loro case - benché bruciate e profanate. Ma non vorrei dire: alla loro terra. La terra merita di essere di tutti - no, neanche: anche in questo c' è un'usurpazione. La terra merita di essere di nessuno. Non so per quale inversione di senso, in latino si diceva res nullius, cosa di nessuno, per designare ciò che fosse a disposizione di tutti: come la selvaggina cacciabile. Il punto estremo cui sapevamo arrivare era di dichiarare qualcosa senza padrone - in modo che chiunque di noi umani ne fosse padrone. Con la stessa formula, terra di nessuno, no man' s land, abbiamo chiamato quelle strisce disboscate che come cicatrici commemorano le nostre guerre e separano le nostre risse: luogo scelto dagli innamorati senza etnia e senza segnaletica, come i due ragazzi di Sarajevo che vi si avviarono mano nella mano.

Terra di nessuno, dunque libera? No: è il punto in cui vi sparano addosso da tutti i lati, con un'autorizzazione universale. Come sui ponti, e su tutto ciò che congiunge e traduce e traghetta. (I disgraziati che hanno assassinato d'Antona non hanno trovato di meglio, per spiegare la loro impresa, che definirlo come una cerniera fra qualcosa e qualcos' altro). La terra non dovrebbe essere di nessuno, neanche di tutti noi, se non reciprocamente. In questi due mesi sarebbe sembrato un lusso e uno scandalo protestare per conto della terra colpita e ferita, con tanto dolore umano: tuttavia bisogna farlo, e augurare pace alla terra. Non dico degli avvelenamenti di terre e acque, che la guerra moderna moltiplica ma la pace provoca anche lei. Dico proprio delle ferite alla terra: della semina di mine, dei crateri di bombe e di schegge, delle sepolture occultate, dei campi e dei boschi distrutti. Fuori dalle città, a sminare la Bosnia provvedono, a vanvera, animali selvatici sopravvissuti o capre slegate.

Gli uomini colpiscono la terra e la rendono sterile e inabitabile. Bestemmiano. E anche quando hanno una ragione migliore dalla propria parte, non sanno trovare un modo migliore per perseguirla. La nostra parte, che aveva dalla sua la ragione, è sembrata accanirsi a colpire la terra: come il satrapo persiano che, per superbia, ordinò di fustigare il mare indocile. La terra è docile, accogliente, materna: purché non la recintiamo di filo spinato e non la innaffiamo di sangue. Noi ci stiamo disaffezionando alla terra, dopo averla tanto maltrattata e imbruttita. La bruciamo, le togliamo l'aria. Lo facciamo alla leggera, in tempo e luogo di pace; o anche con furia, guerrescamente, con mine a forma di farfalla e proiettili all'uranio impoverito. Guerra è la storia, pace è la terra. La terra del Kosovo è ancora antica, e antichi gli odii e le vendette di sangue che sembra imporre ai suoi abitatori: campo dei merli, campi di teschi dissepolti. Lì la nostra schiacciante modernità è stata convocata, e ha fatto figura un po' di cavaliere un po' di maramaldo. Intanto si rifiniva la costruzione della piattaforma spaziale permanente, grande come uno stadio di calcio, che segnerà una tappa essenziale nel nostro trasloco da un pianeta esaurito. Piattaforme orbitanti, gommoni rattoppati da Valona: è il nostro mondo.

Uno dei bambini che hanno già visto Prizren e Blace e Comiso e Narvik forse ora potrà completare gli studi alla Libera università di Pristina, e poi si imbarcherà per Marte. C' è stato, di nuovo come da dieci anni, l'orrore di una "pulizia etnica" in Europa: sembrava impensabile. C' è stato, finalmente, l'impiego di una forza internazionale a difesa delle vittime e del diritto. un'azione di polizia internazionale. Dopo la prima sera, il nostro capo del governo pensava che potesse bastare. Non aveva capito, né lui, né noi, né i generali della Nato. è continuato, per suo conto, per inerzia. Poteva davvero venirne una guerra mondiale, forse un impiego dell'atomica. In fondo, di tutte le grandi conquiste dell'Uomo, l'atomica è l'unica che, usata una volta - a Hiroshima e Nagasaki - è stata tenuta in magazzino. A noi piace usare le nostre scoperte. Ora lo faremo con la genetica: a giocare con le atomiche resteranno i poveracci rifatti, l'India e il Pakistan. Poteva andare malissimo. Invece, pare, è arrivata la pace. Messaggeri un uomo d'affari russo, un po' tozzo, che dice "il diavolo si annida nei dettagli", e i cronisti pensano che sia un'idea sua, e un uomo di stato finlandese, vistosamente zoppicante. Va bene così. Era ora che quel bel paese del nord si riscattasse dall'immeritata categoria che gli era stata cucita addosso: finlandizzazione. Magari ci finlandizzassimo: e invece ci balcanizziamo. Quanto al passo zoppo, sia benedetto, dopo tanto gorgheggiare pro e contro l'intervento di terra: è così, con quel passo zoppo e congedato, che arriva la pace.


(4 giugno 1999)

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Il peccato
originale



di PAUL GINSBORG

FERNAND Braudel, nella prefazione all' edizione inglese della sua famosa storia del Mediterraneo all' epoca di Filippo II, ha insistito molto sull' "unità e coesione della regione", esprimendo la convinzione che "l' intero mare partecipa di un destino comune". Per il XX secolo non è possibile sostenere nessuna tesi del genere. I paesi delle coste meridionali e orientali sono, nel complesso, troppo diversi da quelli delle coste settentrionali per consentire una seria comparazione. Che cosa hanno in comune Beirut e Barcellona, Torino e Tunisi? Che cosa lo straordinario incremento demografico dell' Algeria e il bassissimo tasso di fertilità italiano?

Tuttavia, se spostiamo lo sguardo dal Mediterraneo nel suo insieme all' Europa meridionale cristiana (compreso il Portogallo, che in termini puramente geografici non è un paese mediterraneo), allora la possibilità che il combinarsi di geografia, religione e storia produca gli elementi di un destino comune diviene assai più consistente. Naturalmente, le diversità fra e all' interno delle singole esperienze nazionali rimangono molto forti. Ma la storia comparata non può soltanto, né principalmente, occuparsi di differenze e distinzioni. Essa va anche in cerca di affinità, nella convinzione che la loro scoperta possa rivelarsi illuminante. Mentre il secolo si sta concludendo con una terribile guerra proprio in questa parte dell' Europa, può essere opportuno riflettere per un momento sulle affinità e le differenze all' interno della regione. La storia dell' intera Europa meridionale nel XX secolo appare segnata da convulsioni, dittature, guerre civili e interventi stranieri. E' stata, però, anche la storia di una dolorosa, esitante e non certo ineluttabile e irreversibile affermazione della democrazia rappresentativa, delle libertà civili, del pluralismo e della tolleranza. La tensione fra questi due processi è stata costante, e non solo nei Balcani.

Nei decenni centrali del nostro secolo tutti i paesi dell' Europa meridionale, dal Portogallo nell' estremo versante occidentale alla Grecia in quello orientale, sono stati caratterizzati dall' affermazione di regimi autoritari di destra, con la benedizione delle rispettive chiese cristiane. Sono stati inoltre teatro di guerre civili di intensità più o meno grave. E' il caso di ricordare non solo le dittature di Mussolini (1922- 43), Salazar (1932-68), Metaxas (1936-41) e Franco (1939-75), ma anche le guerre civili del Sud: quella di minore portata in Italia centrale e settentrionale fra il 1943 e il 1945, ma anche quelle terribili in Spagna (1936- 39) e in Grecia (1946-49). Quanto alla Spagna, solo chi vorrebbe farci dimenticare ciò che è realmente accaduto stende un velo pietoso sulle atrocità dell' una e dell' altra parte. Recentemente, in Italia è diventato di moda "rivalutare" il regime di Franco, omettendo di ricordare, neppure en passant, che secondo le stime della ricerca storica più recente sono decine di migliaia (forse addirittura 200.000) gli ex-repubblicani che sono stati uccisi da quel regime dopo la conclusione ufficiale delle ostilità.

L' intervento straniero, in alcuni casi a fin di bene, in altri molto meno, è sempre stato un elemento presente in questa storia. Si può dubitare che, senza il trasporto dell' esercito dell' Africa assicurato dagli aerei di Hitler e di Mussolini, la rivolta dei generali spagnoli sarebbe sopravvissuta alle prime, incertissime settimane. Allo stesso tempo i paesi democratici, e in particolare la Francia e la Gran Bretagna, decisero fra dure polemiche di non intervenire, condannando in tal modo la Spagna repubblicana alla sconfitta. L' opinione pubblica europea, dunque, non è nuova agli accesi dibattiti sull' opportunità di un intervento esterno in una guerra civile nell' Europa meridionale. E vale la pena di aggiungere che alcuni fra i più convinti oppositori dell' intervento delle democrazie occidentali nell' attuale crisi balcanica sarebbero stati quasi certamente fra i più ferventi sostenitori di un loro intervento negli anni 1936-39.

La Grecia è un caso molto controverso, ma bisogna constatare che è stato principalmente l' intervento americano a salvare il paese da una dittatura comunista, seppure a un prezzo assai elevato. La politica avventuristica del Partito comunista greco, in netto contrasto con quella condotta dal Pci in Italia, spinse una generazione eroica, quella della resistenza greca, in un tragico cul de sac. Di fatto, le scelte dei dirigenti di sinistra in favore di soluzioni estremiste piuttosto che moderate (Largo Caballero e Zachariadis da una parte, Togliatti e Thorez dall' altra), si sono rivelate spesso decisive per il destino dei rispettivi paesi. La guerra civile, le atrocità, l' intervento straniero non sono quindi una caratteristica esclusiva della ex Jugoslavia, ma sono state una componente inseparabile della storia dell' Europa meridionale di questo secolo. Tuttavia, la seconda metà del secolo ha visto la progressiva espansione della democrazia, in modi e gradi diversi in ogni singolo paese di quest' area. In Italia tale processo è iniziato formalmente nel 1946. La democrazia italiana, per quanto imperfetta, è stata la più stabile e duratura della regione, e vale la pena di ribadirlo di fronte al perpetuarsi dello scetticismo e del pessimismo autoctoni. Di fatto l' Italia non ha mai dovuto affrontare una crisi della democrazia di gravità pari a quella esplosa in Francia nel 1958, che ebbe origini squisitamente mediterranee e scosse fin dalle fondamenta quel grande centauro, per metà appartenente al Sud e per metà al Nord dell' Europa. La Spagna e la Grecia hanno faticato molto di più per riaffermare la democrazia. L' immagine del colonnello Antonio Tejero che sparava nell' aula delle Cortes spagnole, trasmessa dalle televisioni di tutto il mondo il 23 febbraio 1981, è stata una testimonianza indimenticabile della precarietà della democrazia nell' Europa meridionale. E in Grecia la "democrazia controllata" dei decenni successivi alla guerra civile è stata brutalmente interrotta dal regime dei colonnelli degli anni 1967- 74. Per questi paesi, l' ingresso nella Comunità Europea (la Grecia nel 1981, la Spagna e il Portogallo nel 1986) ha avuto un valore incalcolabile. Oggi, sono molte le voci che a ragione si levano per denunciare il "deficit democratico" che sta alla base della nuova Unione Europea. Ma per la Spagna, la Grecia e il Portogallo il "vincolo esterno", i limiti imposti alle loro politiche interne dall' affiliazione all' Europa sono stati fondamentali. Nel 1939 tutti i maggiori paesi del Sud Europa erano governati da una dittatura. Sessant' anni dopo, nessuno di essi lo è più.

Perché dunque quell' area dei Balcani che per qualche decennio del Novecento si è chiamata Jugoslavia è rimasta così lontana - salvo recentissime eccezioni come la Slovenia - dal progresso democratico del resto dell' Europa meridionale? Per quale motivo essa è invece ripiombata, negli ultimi dieci anni, in un sanguinoso conflitto intestino? Nel tentativo di spiegare questa tragedia, l' acceso dibattito delle ultime settimane si è concentrato in gran parte, in modo più o meno raffinato, su spiegazioni strutturali di lungo periodo. Alcuni commentatori hanno posto l' accento sull' arretratezza ereditata dal dominio ottomano e austro-ungarico, altri sull' influenza cesaristica della Chiesa ortodossa, molti di più sull' inestricabile intreccio di differenti gruppi etnici nella regione, e molti altri ancora sugli effetti negativi di quattro decenni di dittatura comunista. Con la probabile eccezione di quella religiosa (come ha recentemente chiarito su queste pagine Olivier Clément), si tratta di spiegazioni della particolarità jugoslava che hanno una notevole forza. Rebecca West, nel suo straordinario viaggio attraverso la Jugoslavia nel 1936-37 (Black Lamb and Grey Falcon, pubblicato per la prima volta nel 1942), scrisse: "Se potessi scendere al mercato, armata di poteri magici, e prendere un contadino per le spalle, sussurrandogli: "In vita tua, hai conosciuto la pace?", attendere la sua risposta, scuoterlo per le spalle, e trasformarlo in suo padre, per fargli la stessa domanda, e trasformarlo a sua volta in suo padre, non sentirei mai la parola "Sì", neppure se interrogassi i morti risalendo all' indietro di mille anni. Sentirei sempre "No, c' era la paura, i nostri nemici fuori, i tiranni dentro, c' era il carcere, la tortura, la morte violenta".

Sarebbe comunque sbagliato pensare che ciò ponga termine alla discussione; che il peso della storia, per quanto grave, sia sufficiente da solo a spiegare quanto è avvenuto negli ultimi dieci anni; che i Balcani siano inevitabilmente condannati dal loro passato alla barbarie presente. Innanzitutto, la storia di questa regione non può essere scritta semplicemente nei termini di un continuo succedersi di tragedie disastro. Se così fosse, oggi la Jugoslavia sarebbe nient' altro che una terra desolata. E' indispensabile, poi, sottolineare che le origini della crisi attuale vanno individuate anche in specifiche scelte politiche adottate all' indomani della morte di Tito. Laura Silber, esperta corrispondente dai Balcani del Financial Times e co- autrice della straordinaria serie di documentari della Bbc che abbiamo visto ultimamente su Rai Tre, ha scritto: "Negli ultimi anni Ottanta la Jugoslavia era, per molti aspetti, in una posizione migliore di molti altri Stati comunisti per affrontare la transizione verso una democrazia multipartitica, sia come Stato singolo, sia come gruppo di Stati eredi della Federazione". Molti e diversi soggetti politici, sia al suo interno che fuori, portano in vario grado la responsabilità di non aver assicurato che tale transizione avvenisse. Uno di essi è senza dubbio la Comunità Europea (sebbene molti di quanti oggi rimproverano le democrazie occidentali, e sono prodighi di sapienti consigli su ciò che esse avrebbero dovuto fare, rimasero allora in silenzio e ignari). Un altro è Franjo Tudjman. Ma chiunque abbia fatto lo sforzo di leggersi un resoconto minimamente disinteressato di questi tragici anni si trova di fronte a una conclusione inevitabile: la schiacciante e criminale responsabilità di Slobodan Milosevic, che ha fomentato il fanatismo nazionalista serbo, e l' evidenza dei crimini di guerra commessi dalle milizie serbe nei territori della ex-Jugoslavia.

Ma allora, cosa si può fare? Se consideriamo la storia dell' Europa meridionale della seconda metà del Novecento, è certo che, in qualunque modo questa guerra finisca, un ruolo fondamentale spetterà, o almeno potrebbe spettare, all' Unione Europea. E' stata l' Europa (come abbiamo appena visto) che in tempi molto recenti, combinando incentivi e limitazioni, ha accompagnato il Portogallo, la Spagna e la Grecia (un paese balcanico!) nella loro transizione alla democrazia. La prosperità economica è stata il richiamo principale; le libere elezioni, le libertà civili, la tolleranza e il pluralismo le condizioni necessarie. Ora, per la prima volta, la Commissione Europea verrà guidata in modo stabile da un politico dell' Europa del Sud, Romano Prodi. Avrà egli la lungimiranza e la determinazione di intraprendere un compito tanto difficile quanto necessario (anche per il suo Paese), quello di concepire un piano economico e politico che consenta alla parte più martoriata dell' Europa meridionale di entrare in Europa? Per una serie di ragioni - lo scandalo della Commissione Santer, le elezioni europee, il nuovo Trattato di Amsterdam - l' Unione Europea ha conosciuto un vuoto di autorità proprio quando più urgeva che la sua voce si facesse sentire. Il prossimo autunno, comunque, sarà un momento di scelte determinanti. Solo se l' Europa riesce a fare un salto di qualità, e a tradurre le vaghe promesse di aiuto all' ex- Jugoslavia e all' Albania nei termini di una duratura realtà economica, avremo qualche motivo per dire: no, quella parte dell' Europa meridionale non è condannata dalla sua storia più di quanto non lo sia il resto della regione; no, per i Balcani non ci sono soltanto "nemici fuori e tiranni dentro".

(traduzione di David Scaffei)

(3 giugno 1999)