Le transizioni
incompiute



di PREDRAG MATVEJEVIC ***

NELLA maggior parte dei paesi dell' Est non c' è stato solo un crollo del sistema politico, la società stessa è esplosa. Il post-comunismo non è ancora riuscito a "raggiungere" i regimi che si dicevano comunisti (livello di vita e di produzione, diversi tipi di scambi, economici e culturali, sicurezza sociale, ecc). Questa considerazione non ha lo scopo di riabilitare le pratiche del comunismo stalinista (ovvero del "socialismo reale") e neppure di giustificare qualsiasi forma di ciò che viene chiamato, in modo poco preciso e troppo generico, il post-comunismo.

Certi fenomeni che ci riproponiamo di evocare si riscontrano ben al di là dell' "Altra Europa". Quello che succede oggi nel Kosovo, che è accaduto ieri in Bosnia, può riprodursi in vari altri luoghi. Nell' Est dell' Europa - e analogamente in molti punti della costa mediterranea e del suo entroterra - le transizioni durano molto più a lungo del previsto. Riescono soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni, e, quando ci riescono, i risultati sembrano spesso desolanti, talvolta tragici. Abbiamo potuto constatarlo nei paesi che furono sottomessi all' Urss e anche in ex-Jugoslavia, in Albania e altrove - nel Sud del Mediterraneo, non solo in Algeria. Il cattivo odore dell' ancien régime ristagna ancora in molte aree del nostro continente e fuori di esso. Un' atmosfera avariata si diffonde sul litorale mediterraneo, da Levante a Ponente. L' Unione europea si preoccupa poco del suo proprio Sud e dello stesso Mediterraneo: dalle sue rive molti constatano, con amarezza, che si sta costruendo "un' Europa senza la culla dell' Europa".

Sugli spazi molto estesi di un "mondo ex", ci si confronta con una realtà che sembra già compiuta pur senza concludersi. è una situazione difficile da sopportare e dalla quale non ci si riesce facilmente ad affrancare. "Paludismo morale e sociale nello stesso tempo", sarebbe una diagnosi abbastanza approssimativa di questo stato d' animo. Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie. è un ruolo tutt' altro che gradevole. Più di un regime proclama in modo ostentato la democrazia senza pervenire a fornirne un' apparenza un poco credibile: tra passato e presente si determina uno iato, tra presente e avvenire l' ibrido incontro tra un auspicio di emancipazione e un residuo di assoggettamento. Da più di sette anni, io chiamo questo non-luogo ambiguo con il nome di democratura. Non so quanto si attagli esattamente alla realtà che vorrei definire nell' Altra Europa e altrove. Vi incontriamo molti eredi senza eredità. Si fanno spartizioni senza che rimanga granché da spartire. Si è creduto di conquistare il presente e non si riesce a dominare il passato. Vi nascono certe libertà senza che si sappia sempre cosa farne e rischiando di abusarne.

In quei paesi è stato necessario difendere un patrimonio nazionale - ed oggi bisogna difendersi da quello stesso patrimonio. Altrettanto dicasi per la memoria: si doveva salvaguardarla - ed essa sembra adesso voler punire quelli che la volevano salvare. I regimi totalitari lasciano dietro di sé un' ansia di totalitarismo. Le nazioni marginalizzate dalla storia, con l' aspirazione di farsi avanti, coltivano uno storicismo retrogrado. Si possono comparare alcune tendenze più promettenti, e le speranze che esse portano con sé, a corsi d' acqua che si prosciugano, spariscono nella sabbia o nelle crepe del suolo. Il suolo della storia è pieno di crepe e le sabbie sono spesso mobili. So bene che non si possono generalizzare queste constatazioni appositamente forzate: ciò che vale per l' Albania o per l' Algeria, e per certi paesi che facevano parte dell' ex-Jugoslavia - in primo luogo il Kosovo o la Bosnia - non può essere applicato allo stesso titolo per la Bulgaria, la Romania o la Russia. La situazione bulgara, rumena o russa non è invece comparabile con quella dell' Ungheria, della Polonia o, soprattutto, con quella della Repubblica Ceca.

Quella della Croazia, della Slovenia e della Serbia sono differenti. Comunque sia, ci sono delle somiglianze che si ritrovano in diversi di quei paesi europei o balcanici e anche al di fuori di essi: mancanza di idee-forza e di riferimenti affidabili; deficienza di valori stabiliti o di esempi probanti; fallimento delle ideologie e diffidenza nei confronti della politica; perdita o sviamento di fiducia e di fede. Incertezze e incongruità. Dispersione e disorientamento. Non si tratta più di una semplice crisi culturale, ma di ben altro: di una crisi di credito nella cultura. Il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera sciagura. Riprendere le forme più primitive del capitalismo - che lo stesso capitalismo contemporaneo ha abbandonato - non può sostenere nessun tipo di ricostruzione né incoraggiare rinnovamenti di sorta.

L' idolatria dell' economia di mercato dà scarsi risultati laddove manca lo stesso mercato, vuol dire la mercanzia! I risultati della democrazia borghese, che quelle "democrature" cercano di fare propri, non possiedono, nemmeno essi, valori universali. Le conoscenze in materia dei riformatori occasionali sono spesso limitate. Tutte queste diagnosi in sequenza sembrano, bisogna pur ammetterlo, delle lamentazioni. Io stesso talvolta le definisco litanie. "L' apocalisse c' è già stata", mi assicura un amico bosniaco, "bisogna viverla a ritroso, per continuare a vivere". Nel cuore dell' Europa, proprio vicino alla "culla" della sua civiltà, abbiamo potuto vedere - ciò vale per chi voleva guardare - più di duecentomila morti, oltre due milioni di esiliati (profughi, rifugiati, sfollati, deportati, fuggiaschi, espatriati, respinti, espulsi, clandestini ecc - mi rendo conto che la lingua italiana ha tantissime parole per dirlo).

Si tratta di una vera profusione terminologica o semplicemente di una confusione? Tanti paesi e città in rovina, ponti ed edifici, scuole e ospedali bombardati e distrutti, templi e monumenti rasi al suolo o profanati, violenze e torture, stupri e umiliazioni, "etnocidi", "genocidi", "culturocidi", "urbicidi", "memoricidi": è diventato necessario forgiare tanti nuovi termini dopo Vukovar, Sarajevo, Srebrenica, Mostar e il Kosovo stesso. C' è da stupirsi se qualche volta i nostri discorsi sono così pessimistici? Sono probabilmente piuttosto disillusi che disperati. (traduzione: Egi Volterrani)

(2 giugno 1999)

***Predrag Matvejevic è nato a Mostar, nella Bosnia-Erzegovina, nel 1932 da madre croata e padre russo. Vive in Italia dal 1994 e insegna Slavistica all' Università di Roma. Ha scritto, fra l' altro, Breviario Mediterraneo (Garzanti), Epistolario dell' altra Europa (Garzanti), Sarajevo (Motta), Ex Jugoslavia. Diario di una guerra (Magma), Tra asilo ed esilio (Meltemi).

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L'idolo infranto
dello Stato sovrano



DI VACLAV HAVEL

Tutto sta a indicare che la gloria della nazione-stato intesa come culmine della storia di ogni comunità nazionale e come suo più alto valore terreno - l'unico, anzi, in nome del quale è consentito uccidere, o per il quale era considerato dulce et decorum sacrificare la vita - ha già superato il suo zenit. Sembrerebbe che gli illuminati sforzi di generazioni di democratici, la terribile esperienza di due guerre mondiali - che tanto hanno contribuito all' adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani - nonché l'evolversi della civiltà abbiano, finalmente, indotto l'umanità a persuadersi che gli esseri umani sono più importanti dello Stato. In questo nuovo mondo, la gente, i popoli - indipendentemente dalle frontiere - sono connessi fra loro in milioni di modi diversi: mediante scambi commerciali, finanza, proprietà mobiliari e immobiliari, reti d'informazione.

Tali rapporti comportano una vasta varietà di valori e di modelli culturali aventi validità universale. È un mondo in cui la minaccia portata ad alcuni incombe immediatamente su tutti; in cui, per molte ragioni, in primis gli enormi progressi della scienza e della tecnologia, i nostri destini individuali si vanno fondendo in un unico destino. In un siffatto mondo, l'idolo della sovranità statale dovrà, inevitabilmente, infrangersi e scomparire.

È chiaro che in un simile mondo il cieco amor di patria diviene, necessariamente, un pericoloso anacronismo, fonte di conflitti e, alla fine, di enormi sofferenze umane. Nel secolo venturo sono certo che gli stati, per la maggior parte, cominceranno a mutare: da entità "di culto" sovraccariche di passione, in entità assai più semplici e più civili, in unità amministrative meno potenti e più razionali che rappresenteranno soltanto uno dei modi (complessi, a molti livelli) in cui la nostra società planetaria è oggi organizzata. Con tale trasformazione, l'idea di non interferenza (la convinzione che non sia affar nostro ciò che avviene in un altro paese, ove mettiamo si violino i diritti umani) dovrebbe anch'essa scomparire, inghiottita da una botola della storia. Se gli stati democratici moderni sono comunemente definiti da determinate qualità - il rispetto che hanno per le libertà e i diritti umani, l'eguaglianza di cui godono i loro cittadini e l'esistenza di una società civile - allora la condizione verso la quale l'umanità potrà, anzi, nell'interesse della sua stessa sopravvivenza dovrà muoversi sarà, probabilmente, caratterizzata da un rispetto, universale o globale, per i diritti umani, dall'universale eguaglianza dei cittadini, dal principio di legalità e da una planetaria società civile. Spero sia chiaro che io non sono contro l'istituto dello stato sovrano come tale. Sarebbe oltre tutto assurdo che un capo di stato auspicasse l'abolizione dello stato di fronte agli organi rappresentativi di altri stati. Parlo di qualcosa di ben diverso: dico cioè che esiste, di fatto, qualcosa di più alto valore dello stato. Questo valore è l'umanità. Come sappiamo, lo stato esiste per servire la gente, il popolo, non viceversa. Se un individuo serve il proprio paese, ebbene, si dovrebbe pretendere che questi lo serva solo nella misura necessaria a far sì che lo stato possa servire bene tutti i propri cittadini. I diritti umani sono superiori ai diritti degli stati. Le libertà umane rappresentano un valore più alto della sovranità statale. Leggi internazionali che proteggano il singolo essere umano debbono venir collocate più in alto delle leggi internazionali che proteggono lo stato. L'Alleanza atlantica sta conducendo una lotta contro il regime genocida di Slobodan Milosevic. Questa lotta non è né facile né popolare e le nostre vedute possono divergere circa la strategia e le tattiche. Ma c'è una cosa che nessuna persona ragionevole può negare: questa è probabilmente la prima guerra che sia scoppiata non in nome di "interessi nazionali" ma in nome, piuttosto, di determinati principi e valori. Se mai si può dire di qualsiasi guerra che sia "etica", che venga combattuta per motivi "etici", ebbene ciò può dirsi di questa guerra. Il Kosovo non ha campi petroliferi che possano far gola; nessun paese membro della Nato ha alcuna pretesa territoriale sul Kosovo; Milosevic non minaccia l'integrità territoriale di alcun paese dell'Alleanza Atlantica. E tuttavia l'Alleanza è in guerra. Sta combattendo perché si dà pensiero del destino di altri. Combatte perché nessuna persona decente può assistere senza scomporsi al sistematico assassinio di tanta gente, a omicidi compiuti sotto l'egida di uno stato. Non può tollerare una simile cosa. Non può esimersi dal portare aiuto.

Questa guerra pone i diritti umani al di sopra dei diritti dello stato. La Repubblica federale di Jugoslavia è stata attaccata dalla Nato senza un diretto mandato da parte dell'Onu. Ciò non è avvenuto irresponsabilmente, come un atto d'aggressione o in dispregio della legge internazionale. È avvenuto, al contrario, nel pieno rispetto della legge, d' una legge che si situa più in alto della legge che protegge la sovranità degli stati. L'Alleanza Atlantica ha agito per far rispettare i diritti umani.

Credo che ciò costituisca un importante precedente per l'avvenire. È stato detto in chiare note che non si può semplicemente permettere che persone vengano assassinate, cacciate dalle loro case, torturate e spogliate delle loro proprietà con atti di confisca. Quel che qui è stato dimostrato è il fatto che i diritti umani sono indivisibili e che, se si fa ingiustizia a uno, la si fa a tutti. Mi sono spesso domandato perché mai gli esseri umani abbiano dei diritti. E sono sempre giunto alla conclusione che i diritti umani, le libertà umane e l' umana dignità hanno le loro radici profonde da qualche parte al di fuori del mondo percettibile. Questi valori sono tanto potenti perchè in determinate circostanze, la gente li accetta senza esservi costretta ed è pronta a morire per essi. Questi valori hanno un senso solo nella prospettiva dell'infinito e dell'eterno. Sono profondamente convinto che ciò che facciamo, vuoi in armonia con la nostra coscienza (ambasciatrice dell'eternità) vuoi in conflitto con essa, può venire alla fine valutato soltanto in una dimensione che si situa al di là del mondo che possiamo vedere intorno a noi. Consentitemi di concludere queste mie osservazioni sullo stato e sul suo probabile ruolo in futuro con l'asserzione che, laddove lo stato è una creazione umana, gli esseri umani sono creature di Dio.
(traduzione di Pier Francesco Paolini)

Il testo integrale dell'articolo sarà pubblicato nel numero di luglio-agosto della Rivista dei Libri.

(1 giugno 1999)

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I raid non fermano
lo sterminio



di RICHARD FORD***

A PROPOSITO dell' attacco Nato contro la Jugoslavia, la mia impressione è molto simile a quella suscitata dall' attacco contro l' Iraq all' inizio degli anni Novanta: entrambi sono ingiusti per una serie di motivi, non ultimo il fatto che gli strumenti della diplomazia internazionale volti a proteggere le vite ed a tutelare gli interessi dei kosovari in Jugoslavia non sono stati sfruttati pienamente.

A tutto ciò vanno aggiunte varie circostanze: l' interesse degli Stati Uniti a condurre una guerra simile è difficile da accertare; i bombardamenti non hanno frenato la deportazione e lo sterminio dei cittadini kosovari; l' impegno profuso in questa guerra è a dir poco esitante (non è previsto un intervento di terra, in parte a causa della nobile avversione del presidente Clinton alla perdita di vite umane statunitensi); centinaia di cittadini serbi del tutto innocenti continuano a cadere sotto una pioggia di bombardamenti sconsiderati.

Tali argomentazioni contro il bombardamento della Jugoslavia ovviamente non tengono conto dei bisogni più urgenti dei kosovari i quali stanno perdendo tutto. Ma in una guerra che non sembra possibile vincere (non fosse altro perché i suoi protagonisti riuniti nella Nato non hanno il fegato per vincerla), l' argomentazione secondo la quale due torti non fanno una ragione sembra inevitabile.


***Scrittore e sceneggiatore americano, Richard Ford ha vinto i premi "Pulitzer" e "Faulkner".

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Patologie del nazionalismo


di VLATKO SEKULOVIC ***

E' DIFFICILE spiegare la crisi nella ex Jugoslavia con motivazioni tipo: guerra fredda, interessi economici, conflitti di religione. Ancor di più lo è interpretarla in chiave spregiativa come frutto di "odii ancestrali", "culture guerriere", "incapacità di convivenza", ecc. Il dibattito intellettuale sulle ragioni delle guerre jugoslave a volte oscura una semplice verità: alla base di questa tragedia vi è il nazionalismo. Quello che stiamo affrontando oggi nella ex Jugoslavia e nell' Europa dell' Est non ha niente a che vedere con i nazionalismi del movimento anticolonialista e neanche con le ispirazioni e le idee dei Grandi movimenti nazionali nell' Europa del XIX secolo.

L'idea di unire tutti i membri di una etnia nella Grande Serbia, Grande Croazia, Grande Albania, Grande Russia, Grande Ungheria, Grande Slovacchia, Grande Bulgaria, ecc. è il denominatore comune a tutti questi nazionalismi. La retorica che usano per spiegare le proprie pretese è così simile che ovviamente dietro c' è lo stesso sistema mentale e sociopatologico. Alcuni tratti personali dei leader di tali movimenti ci fanno concludere che abbiamo a che fare con persone profondamente frustrate e, in certi casi, con veri psicopatici. Anche la base sociale del nazionalismo è più o meno la stessa: i loro seguaci sono reclutati tra lumpenproletariato, tifosi ultras, gang di strada, da criminali e assassini che spesso diventano vere "truppe d' assalto". Alcuni di questi, grazie alle guerre nella ex Jugoslavia, si sono trasformati in "eroi nazionali". Tuttavia, esistono anche differenze di ordine pratico tra i citati nazionalismi, riconducibili a diverse posizioni che essi occupano nelle rispettive società, differenti capacità che essi hanno di mobilitare le masse e dalle differenti possibilità di concretizzare le loro folli idee.

Per questo sarebbe sbagliato mettere un segno di uguaglianza tra il nazionalismo che nel suo ambito sociale è più una caratteristica folkloristica e quello che è diventato l' ufficiale ideologia e politica dello Stato. La genesi di questi nazionalismi viene spesso imputata all' oppressione comunista dei sentimenti nazionali e questi, con il crollo del comunismo, eruppero con violenza alla superficie. Questa tesi nella sua essenza è mendace, soprattutto nel caso della ex Jugoslavia. Il rapporto tra comunismo e nazionalismo è diverso, la caduta dell' ideologia comunista creò un vuoto spirituale il quale non soltanto dovette essere colmato in fretta, ma dovette essere rimpiazzata da un' ideologia ancor più totalitaria per minimizzare gli effetti della disintegrazione del comunismo, ed il nazionalismo era il più adatto per tale compito.

Il nazionalismo serbo è caratterizzato da una specie di odio atavico nei confronti di altre etnie e specialmente verso i croati, musulmani ed albanesi. Quest' odio fu creato prima dell' inizio delle guerre jugoslave ed era ben camuffato nella tesi: "Sono le altre nazioni che odiano i serbi". Un alto funzionario del Partito socialista, tuttora al potere nella Serbia, dichiarò esaltante, durante una sessione del Parlamento serbo nell' aprile del 1991: "Noi serbi siamo odiati dai croati, gli sloveni non ci amano, i musulmani ci odiano, i macedoni non ci amano, gli albanesi ci odiano.

Ma, noi serbi, grazie a Dio, siamo così numerosi che nessuno ci può far niente". Il clima per la guerra fu preparato nel 1990 e nella prima metà della prima metà del 1991 con slogan come questi: la Jugoslavia è una creazione antiserba perché tutte le altre nazioni hanno il loro stato tranne che i serbi; la caratteristica fondamentale delle altre nazioni è l' odio per i serbi; è arrivato l' ora per i serbi di smettere di essere naif e reagire nello stesso modo; non ci sono condizioni per le quali i serbi possono continuare a vivere con gli altri, e devono costituire un loro Stato dopo la spartizione definitiva dei territori; i serbi sono un popolo santo ed il Kosovo è la terra santa dei serbi. Da queste tesi primitive si è originata in breve una completa dottrina fanatica e messianica. Tutto ciò che sta accadendo tutt' oggi nella ex Jugoslavia è conseguenza diretta ed inevitabile di tale ideologia neonazionalista. La logica di ogni dottrina messianica comincia e finisce con la regola: il fine giustifica il mezzo. Una delle esponenti dei nazionalisti serbi durante la guerra in Bosnia dichiarò che "non importa se sei milioni di serbi moriranno in questa guerra, se gli altri sei vivranno nella Grande Serbia". I postulati di base del nazionalismo serbo "sono" verità assolute e non è possibile discuterle.

Il fatto è che la comunità internazionale ha rifiutato queste verità condannando, la Serbia ed il Montenegro, dichiarandoli responsabili delle guerre in Croazia ed in Bosnia. A parole gli esponenti del regime esprimono la volontà di normalizzare i rapporti con la comunità internazionale e di trovare soluzioni politiche, ma...soltanto quando il mondo riconoscerà di aver sbagliato e che la Serbia ha ragione. Poiché è molto difficile argomentare che tutto il mondo ha torto e che la Serbia ha ragione, per loro fu inevitabile concludere che la Serbia è vittima di un complotto internazionale da parte dei creatori del nuovo ordine mondiale. La reazione dei nazionalisti fu espressa dal loro portavoce Vojislav Seselj, l' attuale vice presidente del Consiglio della Serbia, durante uno dei suoi numerosi incontri con Zhirinovskij: "Per noi (serbi) il vero pericolo non sono i croati, i musulmani ed altri, loro sono soltanto esponenti di una politica.

Noi ci battiamo contro tutto l' Occidente e dobbiamo dimostrare che c' è qualcuno sopra l' Occidente". Pertanto, è evidente che è impossibile dialogare con i teorizzatori di questo fondamentalismo nazionalista. Il neonazionalismo, dunque, è uno stato sociale patologico, e se abbiamo difficoltà a capire le ragioni di questa piaga, a prevedere le sue manifestazioni e reazioni neurotiche, a trovare le vie per la sua estirpazione, possiamo almeno esprimere la nostra determinazione, il nostro sdegno morale, la nostra condanna intellettuale. Il terribile prezzo che pagano gli innocenti, siano questi serbi, albanesi, o altri, è dovuto anche alle esitazioni, ai dubbi ed all' ipocrisia che si manifestano spesso nell' Occidente nei confronti del neonazionalismo.

***L' autore è stato fra gli organizzatori delle proteste studentesche nella Serbia del '92 e poi deputato dell' opposizione democratica nel Parlamento della Serbia.

(30 maggio 1999)

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Il compromesso
è una sconfitta



di ZBIGNIEW BRZESINSKI

IL MODO di condurre la guerra in Kosovo da parte del presidente americano Bill Clinton è stato irresponsabile. Il suo eccessivo ricorso alla diplomazia ha minato la credibilità della campagna militare, mentre le sue prudenti tattiche militari hanno privato la sua diplomazia del dovuto prestigio. Il suo vago accenno a 50.000 "tutori della pace" non risponde alla semplice cruciale domanda: come entreranno in Kosovo? Nessuna meraviglia che l' uomo forte serbo, Slobodan Milosevic, non si sia arreso. La decisione moralmente fallimentare della Nato di non assumersi alcun rischio militare nelle operazioni che hanno l' obiettivo di impedire la pulizia etnica ha lasciato ai criminali di Milosevic mano libera per distruggere la comunità kosovara.

Al tempo stesso la Russia, che ha denunciato ad alta voce i bombardamenti della Nato come una "barbara atrocità", mantenendo invece il silenzio sugli assassinii e sulle deportazioni di massa in Kosovo, è stata sollecitata dal Dipartimento di Stato di Clinton in veste di mediatrice. Così, Milosevic resta ovviamente in attesa di uno sbocco "diplomatico" che - con l' aiuto di Mosca - renderà meno aspre le condizioni originariamente imposte dalla Nato per sconfiggerlo con la forza. Fra le cinque condizioni originarie della Nato, due sono di capitale importanza; il modo di applicarle determinerà l' esito del conflitto.

Non sono ammessi errori a questo proposito: malgrado i probabili sforzi di parlare in modo poco chiaro, nel consueto stile clintoniano, l' operazione Nato sarà un insuccesso se si consentirà che in Kosovo rimanga anche un solo serbo armato; a meno che le forze di occupazione di tutto il Kosovo non separato non siano in prevalenza (anche se non esclusivamente) composte e comandate dalla Nato e includano una significativa presenza di forze di combattimento Usa. Tutto dipenderà da come queste due condizioni saranno risolte. I deportati kosovari non ritorneranno alle loro case, se il risultato sarà inferiore a questo. I cavilli legali relativi alla sistemazione futura del Kosovo e ai suoi rapporti con Belgrado sono meno importanti della domanda su chi eserciterà di fatto il controllo sul territorio.

L' accettazione di una presenza dell' esercito o della polizia serba in Kosovo sarebbe garanzia di un conflitto a oltranza con l' Uck, che non soltanto si rifiuterebbe di consegnare le armi, ma cercherebbe di ottenere la vendetta sui serbi. Inoltre, la portata morale del conflitto non può essere ignorata, qualunque ne sia l' esito. Soltanto un Kosovo liberato della presenza delle armate serbe potrebbe parzialmente riscattare il fallimento della Nato nel compiere qualsiasi sforzo per salvare le vite dei kosovari. La penosa realtà è che la campagna di bombardamenti è stata condotta come se le vite umane in gioco dovessero essere valutate a tre differenti livelli: le vite più preziose sono quelle dei piloti americani, con tattiche militari esplicitamente adottate per ridurre al minimo le loro perdite; poi vengono quelle degli ufficiali di Milosevic, i cui quartieri generali hanno costituito un bersaglio soltanto quando erano vuoti; quelle che valgono meno sono le vite dei kosovari stessi, a vantaggio dei quali non è stato corso alcun rischio.

Questa apparente indifferenza ha già colpito la posizione generale dell' America. Ogni governo democratico è comprensibilmente riluttante a perdere le vite dei suoi soldati. Ma condurre una guerra, in cui non venga fatto alcuno sforzo - anche se la vita dei suoi combattenti professionisti è esposta a qualche rischio - per proteggere le maggioranze indifese, priva la sua stessa attuazione del suo più alto obiettivo morale. Per porre termine alla campagna in Kosovo, in modo non soltanto da tener fede al suo intento originario, ma da salvaguardare anche la ragion d' essere della Nato, l' Alleanza dovrà assumersi qualche rischio. è necessario riconoscere il fatto che, a un certo punto, si dovrà entrare in Kosovo con la forza. Non c' è nessun motivo di attendersi che Milosevic si arrenda ai soli bombardamenti - anche se l' armata serba è stata "intaccata" per il 90 per cento - finché Clinton continua a rassicurarlo che non ci sarà azione di terra.

Il controllo dei serbi sul Kosovo è semplicemente troppo importante, non soltanto per Milosevic, ma per la maggior parte dei serbi. In presenza di queste circostanze, il dittatore serbo ha ogni incentivo per resistere, nella speranza che l' Alleanza si spacchi sotto le pressioni dell' opinione pubblica contraria, e che quelli che a Washington hanno investito molto sulla diplomazia russa l' abbiano vinta.

Colpisce a questo riguardo che il ruolo di Mosca nella crisi del Kosovo sia ufficialmente interpretato da Washington come frutto di buone intenzioni e non inquadrato nel contesto della generale politica estera della Russia. La politica di Mosca non è guidata dal desiderio di aiutare gli Usa o di rafforzare la Nato. Infatti, quello che realmente la Russia vuole è uno scacco della Nato, che discrediti contemporaneamente l' atteggiamento generale dell' America (evitando al tempo stesso uno scontro aperto fra la Russia e l' Occidente). Pensare diversamente significa dimostrare un' incredibile ingenuità. In queste circostanze, l' unica soluzione accettabile è l' imposizione del controllo effettivo del Kosovo da parte delle forze della Nato, unitamente al reale ritiro dell' esercito serbo. Il fatto che Milosevic sia alla fine destituito per la defezione dei serbi è un argomento secondario.

L' attuale campagna di bombardamenti potrà avere un significato strategico retroattivo soltanto se il danno alla capacità di resistenza dell' esercito serbo sarà in seguito sfruttato da un' operazione di scavalcamento della Nato in Kosovo, azione che tragga pieno vantaggio dal controllo dello spazio aereo da parte dell' Alleanza, utilizzando le enormi risorse dei contingenti aerotrasportati, così come la sua imponente superiorità di potenza di fuoco e la mobilità sul terreno. Anche se la Nato nella sua totalità dovesse scegliere di non impegnarsi in una campagna di terra, sussistono buone ragioni per cui gli Usa, l' Inghilterra e la Francia, lo facciano per conto proprio. Una tale operazione, tuttavia, richiederà un grado di coraggio politico e militare che finora l'amministrazione Clinton è stata ben lontana dal dimostrare.
(Traduzione a cura del Gruppo Logos)


***Zbigniew Brzezinski è stato Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti durante la presidenza Carter

Pubblicazione autorizzata da The Wall Street Journal 1999 Dow Jones & Company, Inc. Tutti i diritti riservati.

(29 maggio 1999)

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La ragione smarrita


di WIM WENDERS*

Sono tante le cose che non comprendo/
di questa guerra e così poche quelle che afferro. Una sola mi sembra abbastanza certa:
ogni guerra è una guerra. Ogni guerra finisce per mangiarsi le sue ragioni quand' anche/ fossero le migliori. E continuo a pensare
che combattere il male con altro male non può, alla fine,/
essere un bene.

(28 maggio 1999)

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Genocidio, una questione
universale



di AMOS OZ*

L'unico aspetto positivo della tragedia in Kosovo è che il genocidio non è più considerato una faccenda interna del paese in cui viene consumato. Questo è un cambiamento e un progresso rispetto a cinquant' anni fa, quando la maggior parte delle nazioni ritenevano il genocidio una questione interna: al massimo protestavano, ma non interferivano mai. Naturalmente, la linea di dove è ammissibile o meno l' intervento è del tutto arbitraria: oggi non viene giudicato accettabile, per esempio, che il mondo intervenga e bombardi un paese che pratica la censura, che opprime il suo popolo, che arresta dissidenti senza processo, che perseguita gli intellettuali; ma viene accettato e sostenuto l' intervento quando si tratta di fermare un genocidio. In ogni caso, io credo che da qualche parte bisogna pur cominciare; e credo che sia molto importante distinguere tra le diverse gradazioni del male. Se e quando tutto il male viene valutato allo stesso livello, se ogni azione diabolica e immorale viene equiparata a un' altra, allora rischiamo di diventare schiavi del male. E poiché il genocidio è il male sommo, è giusto che un regime che commette genocidio sappia che non è più immune dall' intervento esterno. Spero che questa diventi una scelta universale. L' INTERVENTO a cui assistiamo in Jugoslavia sfoggia una grande, immensa potenza. Eppure proprio in Jugoslavia assistiamo anche ai limiti di quella potenza, e direi di ogni tipo di potere. Paradossalmente, sembra infatti che tutte le parti coinvolte, che siano dalla parte della ragione o del torto, coltivavano un' idea esagerata del proprio potere.

Il movimento di liberazione degli albanesi kosovari, credendo di poter strappare ai serbi una vasta autonomia con una ribellione armata, ha evidentemente sopravvalutato la sua forza. Ma anche Milosevic, credendo di poter farla franca con la pulizia etnica di massa, ha sovrastimato il suo potere. E ho l' impressione che anche mister Clinton e l' Alleanza Atlantica credessero di poter risultare molto più efficaci di come si stanno rivelando. Tutti pensano di poter ottenere con la forza quel che credono giusto. Invece ci sono dei limiti. Sia coloro che sono relativamente dalla parte del giusto, sia i "cattivi" di questo conflitto, imparano a caro prezzo che il potere militare ha dei limiti. Gli eserciti, gli armamenti, le bombe, le polizie, non possono risolvere tutto. E questa è una prima scoperta. Ce n' è una seconda. Qualcuno si meraviglia: come è potuto accadere tutto questo nel cuore dell' Europa, come è possibile che una carneficina così terribile sia scoppiata proprio in mezzo alle nazioni civili del "vecchio continente"? Confesso che questo genere di discussione non mi piace per nulla: quasi che l' Europa fosse immune dalle atrocità, quasi che il genocidio e la pulizia etnica e lo sterminio appartenessero soltanto alla Namibia, alla Somalia o al Vietnam, ma certo non all' Europa.

Francamente, non so da dove gli europei traggano questo tono di ipocrita rettitudine, dimenticando che negli ultimi 500 anni il piccolo continente europeo ha sparso più sangue di tutti gli altri quattro continenti messi insieme: il proprio sangue, e il sangue dei popoli degli altri quattro continenti. Mi domando come si possa ragionevolmente pensare che l' Europa sia più civilizzata, o al riparo da atrocità e crudeltà. Al contrario, se uno guarda la storia degli ultimi cinque secoli, l' Europa appartiene a un gruppo ad alto rischio per quanto riguarda atrocità e brutalità. La guerra nei Balcani contiene una terza scoperta, particolarmente scioccante per l' Occidente. Molti, in America, in Europa, erano diventati troppo ottimisti circa l' avvento di una nuova era, la cosiddetta "fine della storia", come la battezzò il politologo Fukuyama. La gente pensava che dal crollo dell' Unione Sovietica sarebbero spuntati un villaggio globale dove tutti diventano amici su Internet, e una specie di religione globale centrata su Madonna e Maradona. Le cose sono andate diversamente. I terribili avvenimenti nei Balcani ci rammentano che gli orologi del mondo non segnano tutti quanti la stessa ora: da qualche parte è iniziata l' epoca post-moderna, altrove infuria ancora quella prearcaica, qui è in voga il postnazionalismo, là regnano indiscussi il tribalismo e gli istinti primordiali.

Il fattore più deprimente è che le simpatie sembrano allinearsi secondo vecchie solidarietà genetiche e religiose: l' intero mondo slavo è con i serbi, la Chiesa ortodossa pure, compresi molti in Grecia, un paese membro della Nato; il mondo musulmano sta saldamente al fianco dei mussulmani albanesi del Kosovo; mentre il mondo occidentale sembra trattare gli uni e gli altri con variabili misure di disgusto o repulsione. Decidere con chi stare ha generato una buona dose di confusione in Israele e tra i palestinesi. Chi sono i "buoni" e chi sono i "cattivi" nel conflitto dei Balcani? Alcuni israeliani sentono che devono essere automaticamente contro i musulmani, dunque contro i kosovari, perché sono musulmani i nemici di Israele in Medio Oriente; e inoltre alcuni risentono del fatto che nella seconda guerra mondiale i serbi aiutarono molti ebrei a sfuggire ai nazisti. Tuttavia, la memoria storica dell' Olocausto nazista spinge altri israeliani a identificarsi con gli albanesi: cosa c' entra che sono musulmani, sono innanzitutto un popolo deportato e minacciato di genocidio.

Una confusione simile si avverte tra i palestinesi: devono essere pro-Kosovo in nome della solidarietà fra musulmani; ma alcuni pensano di dover essere in primo luogo anti-americani, perché appartengono al Terzo Mondo, sono un popolo oppresso e antiimperialista, dunque mostrano qualche simpatia per i serbi bombardati. Tutta questa confusione rivela che, in qualunque disputa, guerra, conflitto, la gente si schiera secondo i propri geni, non secondo la propria coscienza; secondo la religione, il pregiudizio, l' ideologia, non secondo la voce della coscienza. Se a uno non piace l' America, deve essere contro l' intervento americano in Jugoslavia. Se a uno non piace l' Islam, non può appoggiare con entusiasmo gli albanesi mussulmani del Kosovo.

Io penso che sia venuto il momento per l' umanità di trattare la coscienza non come una parte del proprio stomaco, non come un' appendice dei propri organi sessuali, non come una ghiandola produttrice di ormoni: sarebbe ora di dare piena sovranità alla coscienza dentro alle nostre menti e alle nostre anime, rendendola finalmente indipendente dalle nostre identità tribali, dalle nostre simpatie genetiche. I serbi ortodossi, i croati cattolici, gli albanesi o i bosniaci musulmani, dovranno vivere per sempre uno accanto alla porta di casa dell' altro: e anche se riusciranno a spostare quella porta qualche metro più a ovest o più a est, resteranno lo stesso vicini di casa. In questo credo ci sia anche una lezione utile per israeliani e palestinesi. I vicini sono vicini: lo rimangono anche se spingono lo steccato di confine un po' più in qua o un po' più in là. Tra popoli che la storia ha messo vicini, nessuno può vincere una vittoria definitiva. Forse questa è la lezione, e l' amara ironia, di quanto sta accadendo nei Balcani.

*Amos Oz, scrittore israeliano, docente di letteratura e di filosofia, si è impegnato nel movimento "La Pace" per la riconciliazione fra israeliani e palestinesi ed è considerato una delle voci più autorevoli del Paese. Fra le sue opere, Il mio Michele, Un giusto riposo, Conoscere una donna, La terza condizione, Lo stesso mare.

(26 maggio 1999)

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Gli incrollabili
profeti della trattativa



di GUSTAV HERLING

Circa un mese fa ho ricevuto da Belgrado la lettera d' un mio amico, un quarantenne sociologo serbo. Una lettera assai impressionante per il suo contenuto aperto e coraggioso. Non esiste a Belgrado una censura bellica? - mi domandavo. Ma poi, visto che la lettera era scritta in polacco (l' amico di Belgrado conosce bene la mia lingua), mi sono detto che la censura bellica serba è probabilmente sprovvista di un impiegato capace di leggere il polacco. Nella lettera del mio amico si potevano distinguere tre sentimenti.

1. L' orrore, la rabbia e il dolore per i bombardamenti della Nato, che stavano distruggendo il suo paese.

2. L' orrore, la rabbia e il dolore per l' espulsione di un intero popolo dal suo paese natio: il mio amico lo sapeva, anche se non dai media serbi.

3. L' orrore e la rabbia di fronte al megalomane nazional-stalinista, pronto a sacrificare la Serbia pur di insediarsi nella leggenda popolare insieme agli eroici predecessori di Kosowoje Pole. L' astio verso Milosevic era, nella lettera, tanto violento da sconfinare nell' odio.

Immagino che molta gente serba, sensibile, intelligente e animata da autentico patriottismo, reagisca agli avvenimenti in un modo se non identico, almeno analogo. E dei tre sentimenti presenti nella lettera del sociologo serbo quale trova la maggior comprensione nell' Occidente? Certamente il primo, in parte il secondo e molto poco il terzo. Di recente abbiamo sentito dall' altissimo loco in Italia un pensiero aureo, ripetuto in ogni occasione fino alla noia: "La guerra non ha mai risolto nessun problema".

Un pensierino, in fondo, poco aureo, anzi falso. Se non fosse stata combattuta la Seconda guerra mondiale contro il nazismo, l' Europa sarebbe oggi un vasto protettorato tedesco, retto dai discepoli di Hitler; con buona pace di chi ha sempre a disposizione qualche pensierino immortale. La lettera del mio amico serbo, tradotta in un linguaggio più semplice, dice a noi più o meno: è il mio dovere elementare di serbo di detestare dal profondo del cuore la Nato, che sta distruggendo il mio paese, è il vostro dovere di combattere l' operazione nazi- comunista del Kosovo; e di non dimenticare che Milosevic non è il nostro leader, ma il nostro dittatore folle. Chi chiamerà questa posizione contraddittoria - come si fa a combattere la "pulizia etnica" del Kosovo e il folle dittatore serbo senza usare le armi? - dovrebbe ricordare che la contraddizione sta qui nelle cose e non nei difetti di logica. Einstein e Lichtenberg hanno affermato varie volte che non impariamo nulla o quasi nulla dalla nostre esperienze. è lecito applicare questa constatazione a quel che si osserva oggi in Italia. Lasciamo stare i vari Cossutta, Bertinotti o Manconi (un petulante particolarmente vuoto e retorico) che fanno il loro mestiere "politico".

I dubbi sulla giustezza dell' operazione della Nato affiorano anche altrove e non per comprensibili ragioni militari, che considerano insufficiente l' attacco esclusivamente aereo senza l' intervento di terra. Sempre più spesso si fa sentire l' atteggiamento "pragmatico", con un pizzico di cinismo che vuole la trattativa, un negoziato con Milosevic. è curioso che le analoghe esperienze con Hitler prima della guerra vengano del tutto ignorate. Chamberlain non era "pragmatico"? Sembra incrollabile la fede nella "diplomazia", basta vedere aumentato il traffico degli "intermediari" per sentir rasserenata l' atmosfera. Ma la "diplomazia" ha limiti invalicabili, non può nulla nei casi di pura pazzia politica, come è quello di Milosevic. E come è quello del presidente bielorusso Lukashenka. Ci voleva poco per vedere i due uniti alla Russia in una specie di nuova formazione ideologico-politica tesa a ricostruire quanto è crollato col Muro di Berlino. I "pragmatici" farebbero bene a rendersene conto. Come farebbero bene a rendersi conto che è in gioco molto di più del "caso serbo" o del "caso Milosevic". Il tentativo di Milosevic, giustamente flagellato dalla Nato, mirava a sovvertire l' ordine europeo. Di nuovo sono apparsi fenomeni che sembravano scomparsi dopo la caduta dei totalitarismi. Di nuovo "il capo" si sentiva libero di fare con i suoi sudditi ciò che voleva, persino di espellerli dalle loro case. Non si può "negoziare" con Milosevic, bisogna abbatterlo.

Non lo ha capito all' inizio nemmeno Giovanni Paolo II. Certo, il Papa non può non servire la causa della pace. Ma nessun cenno nella sua prima dichiarazione faceva sentire che alla soglia dell' Anno Santo, del Terzo Millennio, parallela alla lunga fila dei pellegrini si era mossa la lunga fila degli schiavi martoriati in fuga.

*Gustaw Herling è nato in Polonia nel 1919, ma da oltre quarant'anni vive a Napoli. Il suo libro più famoso è Un mondo a parte che ancor prima di Solgenitsyn denunciò l' orrore dei lager sovietici. Da qualche giorno è in libreria Don Ildebrando (Feltrinelli), tratto dal Diario scritto in una notte, un'opera che in Polonia è giunta al sesto volume.

(25 maggio 1999)