La Macedonia e il razzismo
dell'Occiden
te


di MILCHO MANCEVSKI*

Negli articoli sulla Macedonia si pone per lo più l' accento sul "delicato equilibrio etnico" del paese, di cui si paventerebbe lo sconvolgimento in seguito all' arrivo dal Kosovo di almeno 250.000 profughi. Un giudizio che non coglie nel segno. Non si tratta di un problema di equilibrio etnico ma di qualcosa di molto più semplice: la Macedonia è un paese povero che si sente tradito. Nel marzo scorso, prima che iniziasse l' esodo di massa, si riteneva che non sarebbe stato necessario accogliere in Macedonia più di ventimila profughi. IL Partito Democratico degli Albanesi, una delle tre formazioni politiche che compongono il governo macedone, aveva convinto gli altri partiti della coalizione a riconoscere ai profughi lo status di "ospiti". Così hanno potuto entrare come turisti, con formalità di ingresso semplificate e senza controlli sanitari, e sono stati alloggiati presso famiglie che si erano offerte volontariamente di accoglierli. Un trattamento che era sembrato più umano. Mi ero recato al valico di confine di Blace con il mio produttore, Domenico Procacci, il 28 marzo, quando secondo le valutazioni l' aumento dei profughi era di 20:1 circa. Quando vi ritornai sei giorni dopo, si era ormai ammassata nella zona a cavallo del confine una folla di 30.000-50.000 profughi, alcuni ancora in Kosovo, altri nella terra di nessuno e altri in salvo in Macedonia. I trattori erano rimasti impantanati nel fango e gli addetti locali venuti ad assistere i kosovari distribuivano pane e acqua. I malati venivano portati via su barelle improvvisate con coperte piegate in due. Circolava la voce che la notte precedente una dozzina di persone fossero morte nel campo. I poliziotti erano confusi e insolitamente benevoli, forse perché colti alla sprovvista di fronte a quella grande tragedia umana. Mentre il numero totale dei rifugiati in Macedonia si avviava rapidamente a superare i 200.000 - il decuplo del previsto - appariva chiaro che il governo non aveva la minima idea di come far fronte a una crisi di questa portata. Il concetto di "ospiti" era ormai ridicolo, ma poiché era questa l' idea prevalente prima che la calamità esplodesse, i campi profughi non erano stati approntati. Anche nei periodi migliori, la Macedonia non brilla per capacità organizzativa; e oggi stiamo vivendo un periodo tutt' altro che ideale. Non importa che i profughi siano albanesi, serbi, macedoni, francesi o americani. La popolazione di questo paese già impoverito, che era di due milioni di abitanti, in sole due settimane è aumentata del 10% a causa di quest' immensa immigrazione forzata. E quella che era la fragile economia macedone sembra appartenere ormai a un lontano passato. Le bombe della Nato hanno fatto saltare le strade verso il resto dell' Europa, e le società jugoslave che commerciavano con la Macedonia non sono più in grado di lavorare. Secondo i calcoli del governo, le perdite dirette avranno superato alla fine dell' anno un miliardo e mezzo di dollari, pari a più del 40% del Pil dell' intera nazione. Dato che molte società macedoni stanno licenziando personale, il tasso di disoccupazione, già superiore al 30%, è in ulteriore aumento. In Macedonia il Pil pro capite è pari a 1.900 dollari l' anno, una cifra inferiore di un terzo a quello della Giamaica, tanto per fare un raffronto con un paese occidentale. L' economia di questo paese non è in grado di sostenere un numero così ingente di profughi, come non lo è la sua struttura sociale. I macedoni si chiedono se sia questo il premio per aver costituito l' unico, luminoso esempio di tolleranza e cooperazione etnica della regione. La Macedonia non conosceva la violenza etnica. I partiti albanese e macedone si dividono il potere, e vi sono ministri e ambasciatori di entrambi i gruppi etnici. Dopo le elezioni, un nuovo partito di etnia albanese ha sostituito quello che faceva parte del precedente governo. Le minoranze sono tutelate dalla costituzione, hanno le loro scuole, i loro teatri, i loro giornali, i loro programmi televisivi.

L' unico parlamentare tzigano del mondo è alla sua seconda legislatura nel parlamento macedone. La Macedonia ha rifiutato di farsi coinvolgere nel conflitto del Kosovo, ed è riuscita a tener lontana la violenza. I macedoni percepiscono la guerra del Kosovo come qualcosa di estraneo; tuttavia hanno accettato di ospitare truppe (rozzamente definite di estrazione Nato) chiedendo però che il loro spazio aereo non venisse attraversato per attaccare i paesi vicini, con i quali la Macedonia dovrà pur convivere nei secoli a venire. Una richiesta che è stata prontamente ignorata. Spesso le bombe Nato sbagliano addirittura paese, e quasi ogni giorno ci infliggono uno scossone; una è esplosa ad appena due chilometri da una fabbrica di munizioni nei pressi di Samokov; un' altra a 200 metri da un' importante diga della Macedonia dell' Est. Infine, molti qui si sentono traditi quando l' Occidente, anziché condividere l' onere dell' assistenza ai rifugiati, rimprovera la Macedonia di non fare di più e meglio, e ci impartisce isteriche lezioni sui diritti umani al posto di aiuti concreti. Quando il governo macedone, sopraffatto dall' emergenza, ha deciso di chiudere le frontiere, l' americano Strobe Talbot si è precipitato a Skopje per forzargli la mano. Ovviamente, al bastone si accompagnava la carota, sotto forma della promessa Usa di alloggiare 20.000 profughi a Guantanamo Bay (Cuba). A questa posizione si sono associati gli altri paesi della Nato.

Ma non appena la Macedonia ha riaperto le frontiere, gli Usa hanno ritirato l' offerta, subito imitati dalla maggior parte delle nazioni europee. La Finlandia aveva acconsentito a ospitare un totale di 50 (cinquanta) profughi, l' Estonia 15 (quindici), l' Olanda 200. Ma queste promesse, pure così modeste, non sono state mantenute, e i profughi che lasciano il paese sono soltanto un rivolo, mentre ne sono affluiti circa 11.000 ogni 24 ore. In un' occasione, la Francia ha acconsentito a concedere visti soltanto ai cattolici, rafforzando così le divisioni religiose che hanno contribuito in larga misura all' attuale tragedia. A Skopje il comportamento delle autorità francesi ha dato luogo a scene strazianti. Spesso la consegna dei visti veniva accolta con pianti angosciati, perché il visto era stato negato a uno dei membri della famiglia, presumibilmente per garantire il futuro rimpatrio degli altri. Gli Usa stanno ora accettando i profughi che hanno parenti residenti in America. Gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e altri hanno inviato alla Macedonia, in buona sostanza, il seguente messaggio: tenetevi i vostri profughi bisognosi di doccia. Noi vi forniremo alimenti in scatola e coperte, ma non accetteremo rifugiati in nome dell' impegno umanitario. I primi ministri della Gran Bretagna e della Francia, Tony Blair e Lionel Jospin, hanno visitato la Macedonia e ventilato sussidi finanziari, ma hanno eluso ogni richiesta di assistenza diretta ai profughi che hanno un disperato bisogno d' aiuto. Quanto poi alle somme promesse, la Grecia è stato l' unico paese della Nato a inviare effettivamente 2,7 milioni di dollari. Tutti gli altri spendono i loro soldi in bombe. Nel frattempo la situazione sta peggiorando. Si avvicina l' estate con le sue temperature di 40 gradi. Il quotidiano indipendente "Dnevnik" riferisce che tra i profughi stanno per esplodere disordini. Si sono già verificati alcuni casi di irruzioni e atti criminosi. Sono in molti qui a provare amarezza di fronte al comportamento degli Stati che avrebbero i mezzi per assistere i profughi. Questi paesi, che condividono con Milosevic la responsabilità dell' esplosione di questa tragedia umana, cercano di dissimulare il loro razzismo dietro dichiarazioni basate su informazione errate, come quella di Sadako Ogata (dell' Acnur), secondo cui i profughi desiderano rimanere vicini alle loro case.

L' elenco dei profughi che lottano per trovar posto nei voli per i paesi dell' Europa occidentale è lungo. La maggioranza dei kosovari rifiuta di emigrare in Albania o in Turchia. E in quest' elenco hanno cercato di inserirsi anche macedoni di etnia albanese che non sono affatto profughi. La Macedonia è a due ore di volo dalla maggior parte delle capitali europee. Ma quasi tutti i paesi della Nato si interessano ai voli adibiti al trasporto delle bombe, piuttosto che a quello dei profughi.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

* Milcho Manchevski è uno scrittore e regista macedone. Il suo film "Prima della pioggia" è stato nella rosa delle opere candidate all' Academy Award nel 1995; ha vinto il Leone d' oro al Festival di Venezia nel 1994.

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La forza delle parole


di LUCE IRIGARAY*

Chiedere di esprimersi sulla guerra a persone il cui mestiere è pensare, non è già cominciare ad aprire una terza via tra i belligeranti, in grado forse di portare luce all' una e all' altra parte? Spesso nel corso della Storia, i filosofi e gli artisti hanno consigliato o ispirato i politici. Sarebbe bene che le loro riflessioni aprissero oggi nuove prospettive diplomatiche, più ampie, più disinteressate, più attente alle diversità politico-culturali esistenti tra i vari paesi, tra le varie regioni. PROSPETTIVE che possano porre fine non soltanto a questa guerra, ma a tutte le guerre, facendo apparire come caduco, poco degno dell' umano, un tale modo di risolvere i problemi. La parola sospesa. La guerra, in effetti, è prima di tutto la rottura del dialogo, l' assenza di parola, la perdita dell' umano in quanto tale. Il passaggio dal discorso alla violenza muta si verifica chiaramente tra i belligeranti, ma anche tra tutti quanti gli altri: i cittadini stessi non si parlano più. Non sanno quello che pensa l' altro, a quale clan appartiene, e temono di suscitare un conflitto alla minima parola pronunciata. Questa diffidenza tra cittadini è peraltro mantenuta dai politici e dai media i quali dettano quello che bisogna pensare e accusano coloro che la pensano diversamente di "disubbidienza civile", di "appartenenza a partiti" condannabili in quanto "estremisti" di destra o di sinistra, oppure di "anti-americanismo primitivo", ecc. Ognuno è invitato ad aggregarsi al coro dei sostenitori che applaudono a ogni colpo inferto. E la vendetta inflitta sul nemico totalitario - che non si sente mai parlare, cosa che aiuterebbe i cittadini a formarsi una propria opinione - cala sui cittadini effetti totalitari meno percepiti: il primo dei quali è la costrizione a pensare come coloro che hanno deciso di fare la guerra. E qualora uno si arrischi a disturbare il punto di vista generale, i sondaggi prendono la parola in sua vece, facendo tacere le sue proteste con l' argomento, cosiddetto democratico, dei numeri. Come sono calcolati i sondaggi, lo ignoro, ma mentre da essi risulta che la maggioranza dei francesi interpellati sarebbe "per la guerra", io non ho ancora trovato una sola persona che lo sia veramente tra coloro che ho interrogato: i miei vicini, i commercianti del mio quartiere, gli stranieri incontrati in queste ultime settimane, per non parlare dei miei amici. Ho invece osservato che la gente è triste, che non ha capito un granchè, che è preoccupata per le possibili rappresaglie, che ha sempre più l' impressione di ricevere delle informazioni insufficienti e di essere intossicata da discorsi che l' obbligano a giudicare la situazione in un certo modo e non in libertà. Nero o bianco.

La guerra è anche il ritorno alla logica del tutto bianco o tutto nero, culla dei regimi autoritari. è l' abdicazione generale del giudicare, della coscienza, della determinazione individuale. Ciò che è cattivo, che è nero, è lui, l' altro, e io, che sono colpevole o complice della distruzione di un paese povero, dell' equilibrio dei paesi vicini messi appena un po' meno male e della morte di cittadini innocenti, io dovrei sentirmi buono/a, tutto/a bianco/a. Meglio ancora: fiero/a di far regnare nel mondo l' ordine giusto, orgoglioso/a di stare con i buoni. E la guerra non ha neppure più l' alibi della legittima difesa, essa è il mezzo utilizzato affinché il giusto distrugga l' ingiusto, il bianco il nero, in assenza di "stati d' animo" che significherebbero probabilmente un ritorno egoista al proprio sé, a una compiacenza sensibile e troppo umana. E se la nostra attenzione viene attirata senza sosta sui rifugiati, sui profughi, è ancora per rendere più nero il nero, senza che venga mai posta la domanda sulla responsabilità di chi o di ciò che ha accelerato il disastro, l' esodo. Il bianco dev' essere incessantemente giustificato e ri-giustificato, deve restare senza macchia. Una guerra pulita. D' altronde, una tecnologia ultrasofisticata aiuterà i più ricchi - i bianchi - a non sporcarsi le mani col sangue, a non vederlo neppure. Uccidono senza essere costretti a guardare il crimine commesso, assassinano a distanza, ciecamente. è il radar che decide, che sbaglia o che non sbaglia. L' unica responsabilità dei bianchi è quella di manovrare bene la macchina, scordando che sono umani. Una guerra pulita dimentica l' esistenza dell' altro, il corpo e l' anima del nemico d' abbattere, se non anche i propri. Gli stessi ritmi elementari della vita non sono più rispettati: non più notte o giorno. Non più sangue, né necessità vitali: l' astrazione tecnica prevale. L' andamento della Borsa, qui e altrove, è oramai interpretato in rapporto alla guerra. E allo stesso modo si parla anche dei danni economici causati da essa, più che delle vittime umane. Quei luoghi saranno rimessi in sesto, si promette, senza dire quando. E non si riconosce nemmeno che anche vestigia culturali saranno così state annientate per dar luogo a un' architettura standard. Non si tratterà qua di annientare la cultura stessa? Cominciare a bombardare alla vigilia di un' importante festa ortodossa, il 24 marzo - come, altrove, alla vigilia del Ramadan -, non è forse un modo di affermare il disprezzo per una cultura e la volontà di distruggerla? Ma quale cultura si pretende d' imporre in suo luogo? Abolire le differenze e le storie rispettive, non è, anche lì, promuovere dei valori a rischio totalitario? Legge del taglione. Nelle culture europee, la pena di morte - suprema legge del taglione - è stata abolita. Arrogarsi il diritto di uccidere per vendicare il crimine commesso non fa più parte dei nostri codici. Ordunque la giustificazione della guerra alla quale assistiamo invoca questo taglione: io distruggerò chi ha distrutto. E dopo? Ammettiamo pure che il giustiziere, o i giustizieri, abbia oramai la coscienza pura e in pace, quali germi di violenza saranno stati seminati? Tra il nemico, tra coloro che dalla guerra sono danneggiati, nel corpo o nei beni, tra coloro che assistono impotenti al massacro. Non c' è qualcosa d' ironico nel sentire i politici predicare ai ragazzi la dolcezza e la tolleranza quando essi stessi propongono l' esempio di violenze spietate: nei gesti e nelle parole. Cittadini ostaggi dello Stato?.

Può essere considerato un progresso il far portare a un popolo il peso delle azioni del suo capo? Prima, il taglione veniva esercitato sullo stesso colpevole, ora un popolo intero viene punito. E ancora, si può qualificare come progresso democratico il fatto di poter uccidere senza sapere che si uccide né chi si uccide? Possibilità certo riservata ai ricchi - non ai poveri né ai ragazzi - così come è loro riservato il privilegio di inquinare l' insieme dei cittadini e d' imporre loro altri flagelli che distruggono gli esseri viventi e il loro habitat. è legittimo domandarsi inoltre se rendere asettica la guerra o rendere asettica la vita umana all' interno di progetti universali non rispettosi delle differenze: di sensibilità, di corpi, di culture - se non astrattamente, sulla carta o in discorsi incantatori -, non corrisponda a preparare un olocausto generalizzato dell' umanità. Chi o che cosa è in questo caso più temibile? Come sventare il pericolo? Certamente non esorcizzando gli errori e gli orrori del passato proiettandoli in modo cieco e poco coerente sul presente e sul futuro. Non è che invece, preoccupandosi in maniera civile dei diritti di ogni cittadino e dei rapporti tra tutti i cittadini tenendo conto delle loro differenze, un ordine mondiale potrebbe essere costruito? Questo non può essere né militare né finanziario. Sono gli uomini e le donne che lo possono assicurare in un mutuo rispetto garantito da diritti: non quelli degli Stati soltanto, ma i loro diritti.

Gli uomini e le donne che vivono in questo mondo non smettono di pagare - fisicamente, moralmente, economicamente - certe follie e cecità di coloro che pretendono di governarli, contribuendo anche spesso a corrompere l' opinione pubblica in modo che il potere e il denaro restino loro. è arrivato il momento di affidare ai cittadini una maggiore responsabilità nei confronti di essi stessi, nei confronti della società, nei confronti della Storia. Più l' orizzonte diventa vasto, più è importante garantire l' esistenza, la sicurezza, il futuro degli uomini e delle donne che vi vivono oggi, che vi vivranno domani.

(traduzione di Guiomar Parada)

*Luce Irigaray è scrittrice e Direttrice di Ricerca in Filosofia presso il Centro Nazionale della Ricerca Scientifica francese

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Mondo moderno
e mali antichi



di EDUARD SHEVARDNADZE

Voglio credere che la tragedia dei Balcani sia l' ultima guerra del ventesimo secolo. Credere che altre situazioni di conflitto, non esclusa quella del Caucaso, del paese di cui sono presidente, la Georgia, possano essere risolte in modo pacifico. Spero molto e confido che nel prossimo secolo la comunità mondiale, traendo insegnamento dalla lezione di quello trascorso, uno dei più sanguinosi nella storia dell' umanità, saprà elaborare meccanismi di sicurezza che non siano causa di sofferenze per milioni di persone, ma consentano di superare politicamente e in modo pacifico le insorgenti contraddizioni e di instaurare un ordine più giusto ovunque e laddove persistano o compaiano pericolosi focolai capaci di alimentare nuovi conflitti. RISULTATO ideale per la comunità mondiale, per le organizzazioni internazionali come l' Onu e le altre, per le alleanze politico-militari, Nato in primo luogo, sarebbe quello di conferire loro capacità effettive di estinguere i conflitti in embrione, di poter costringere le parti avversarie a sedere immediatamente al tavolo delle trattative. Su tutte queste politiche c' è ancora da lavorare, però oggi non vedo obiettivo più meritevole e importante per coloro che dedicano i propri sforzi alla creazione di un mondo sicuro ed alla liberazione dell' uomo dalla sindrome del terrore. Si tratta, d' altra parte, di un compito abbastanza difficile, un compito del futuro che, voglio pensare, sia ormai prossimo. Per il momento, l' unico effettivo meccanismo tra quelli esistenti, qualora pressanti azioni diplomatiche non risultino sufficienti come misure di persuasione, è il ricorso a misure di coercizione. E' in questo senso che vanno viste le azioni Nato contro il regime jugoslavo. Quelli con cui abbiamo a che fare oggi non sono conflitti puri e semplici, ma fenomeni che in molti casi tendono ad espandersi minacciosamente superando i confini di un paese o di un continente. E' sotto i nostri occhi la piega presa dagli avvenimenti in Jugoslavia nel corso di alcuni anni e durante le ultime settimane. Come uomo, e l' ho dichiarato in più di un' occasione, sono contrario all' impiego della forza. Al tempo in cui ricoprivo la carica di ministro degli Esteri dell' Urss fu deciso, in linea con la nuova strategia di pensiero proclamata dall' Unione Sovietica negli anni della perestrojka, di ritirare le nostre truppe dall' Afghanistan; purtroppo portare fuori sani e salvi da quel paese tutti quelli che alla guerra avevano preso parte non sarebbe stato possibile a nessuno. Questo io non riesco ancora a dimenticarlo. Né mai dimenticherò quanto è accaduto sei anni orsono in Abkhazia, il quotidiano tributo di vite di georgiani e abkhazi. Allora il regime separatista dei governanti abkhazi, forte dell' appoggio politico e militare di forze reazionarie e di conquista, commise una terribile rappresaglia sulla popolazione innocente e pacifica di questa regione soltanto perché si trattava di georgiani. Non ci fu in Abkhazia una sola città o provincia in cui non si verificarono azioni di vero e proprio genocidio. E' evidente che simili azioni non possono rimanere impunite. Nel corso degli ultimi sei anni il Consiglio di sicurezza dell' Onu ha approvato quindici risoluzioni che non hanno dato alcun risultato. Le valutazioni politiche e le azioni pratiche dell' Onu si sono dimostrate fiacche, prive di convinzione e inefficaci. Mi resta ancora difficile comprendere dove risiedano le cause di questa irresolutezza, di questa strana apatia politica. All' Onu ha fatto difetto la determinazione a chiamare le cose con il loro nome ed a condannare in modo adeguato una evidente pulizia etnica. E questo a fronte del fatto che l' Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa aveva ritenuto necessario riconoscere ufficialmente che in Abkhazia erano effettivamente in atto azioni di pulizia etnica. Sono sempre stato convinto che, se le azioni criminose perpetrate dal regime separatista e dai suoi protettori fossero state oggetto di un' adeguata valutazione politica ed i principali organizzatori del genocidio dei georgiani condannati e puniti dalla comunità internazionale, i sanguinosi avvenimenti in Cecenia avrebbero potuto essere evitati e difficilmente l' Europa avrebbe assistito all' acuirsi della crisi in Jugoslavia in seguito ai problemi del Kosovo. Tanto più che già durante la prima fase del conflitto abkhazo la Georgia aveva proposto che venissero applicati quei criteri di composizione dei quali ho parlato, riferendomi alla crisi jugoslava, durante la mia recente visita di lavoro negli Usa, alla seduta del Consiglio dell' alleanza atlantica a Washington e a Strasburgo alla cerimonia di ingresso della Georgia nel Consiglio d' Europa. E' interessante notare che qui i punti di vista di Georgia e comunità internazionale coincidono perfettamente. Purtroppo applicare i suddetti criteri in Georgia alcuni anni fa risultò impossibile. Gli avvenimenti di oggi confermano quanto sia errato quell' atteggiamento passivo che rende in gran parte possibile la nascita di nuovi focolai e in un certo senso la loro propagazione a catena. Vale la pena di ricordare che tutti questi elementi si ritrovano anche nelle proposte che in questi giorni sono state avanzate dagli otto paesi più sviluppati per risolvere i problemi del Kosovo. Di conseguenza, nel dare come uomo politico un giudizio sulle azioni della Nato in Jugoslavia, ed essendo, ripeto, un oppositore obiettivo dell' uso della forza, vedo chiaramente che questa via, questo metodo di coercizione alla pace, rappresenta fra quelli possibili l' unico in grado di influenzare efficacemente i processi in corso. E non solo in Jugoslavia. Non mi pare vi sia oggi altro modo di preservare l' Europa dalla diffusione di certe metastasi politiche. Non credo di sbagliare: le azioni criminose di alcuni regimi possono provocare gravi conseguenze e la loro propagazione alle regioni circostanti. Da questo punto di vista le misure intraprese dalla Nato assumono un carattere di inevitabilità, assolutamente privo di alternative e giustificato da come si sono andati sviluppando gli avvenimenti in precedenza. Ancora una volta e con particolare drammaticità i fatti del Kosovo hanno confermato quanto da tempo testimoniano altri conflitti irrisolti o, come è uso chiamarli, "congelati". E allora occorre applicarsi con serietà e determinazione al perfezionamento dei meccanismi di sicurezza oggi esistenti. Sebbene ancora a disposizione delle organizzazioni internazionali, e dell' Onu in particolare, essi non sono di alcuna reale utilità. Si tratta di meccanismi nati in epoche e per scopi completamente diversi.

E' forse possibile conformare un mondo profondamente cambiato ai singoli statuti, alle singole concezioni e tradizioni e non vedere e tenere in considerazione la specificità e il nuovo delle odierne realtà, adattarsi ad esse e sviluppare capacità di azione in grado di fronteggiare i nuovi pericoli? Tutto questo è oggi inammissibile. Ogni giorno trascorso conferma che senza solide garanzie di sicurezza e, voglio sottolinearlo perché molto importante, senza il consolidamento della forza della diplomazia, senza la reale attivazione di un principio di coercizione alla pace non potremo liberarci dall' epidemia dei conflitti. Alla largamente diffusa sindrome da impunibilità per delitti commessi contro l' umanità dovranno essere contrapposti nuovi e coraggiosi approcci. E perché non ricordare che l' umanità ha da lungo tempo e decisamente condannato con buon diritto sia il fascismo, sia il genocidio degli ebrei, sia il bolscevismo con le sue azioni criminose come la deportazione di intere popolazioni in una sola notte. Perché mai dovremmo utilizzare un diverso metro di valutazione per le pulizie etniche commesse dai regimi dittatoriali del nostro tempo? Non può esserci in questo alcuna selettività. Ad una analoga e adeguata valutazione devono corrispondere azioni analoghe e adeguate. Naturalmente, sarebbe stato preferibile che la Nato non si fosse trovata nella necessità di intervenire con la forza, o che l' Onu avesse sancito il ricorso a misure di coercizione in Jugoslavia. Il fatto è che questa risoluzione e le operazioni della Nato non sarebbero state necessarie se la stessa Onu si fosse rivelata all' altezza del suo compito mostrando fermezza, decisione e efficacia. Ma se si troverà una forza capace di contrapporsi alle azioni di coloro che attuano pulizie etniche e di non lasciare simili delitti impuniti, allora io dico ben venga questa forza. Se c' è ancora qualcuno che nutre dubbi circa l' opportunità di un' azione di forza, io vorrei chiedergli: perché non rammentare tutto quello che ha preceduto la decisione della Nato e perché non riflettere su quello che sarebbe accaduto dopo e quale carattere di irreversibilità avrebbero assunto gli eventi se la Nato avesse chiuso gli occhi su quanto stava accadendo?

Il periodo di transizione ad una situazione di sicurezza generale che segue la fine della "guerra fredda" è caratterizzato da delicatezza e fragilità. Esso potrà durare ben più di un decennio. In questo lasso di tempo l' umanità dovrà fare i conti in particolare con l' esigenza di una pace stabile. Ahimè, non sempre i leader politici di questo o quel paese dimostrano di essere pronti al confronto con questa comune volontà, ma, cercando di realizzare le proprie ingiustificate e insane ambizioni, agiscono contro gli interessi dei processi democratici, della trasformazione del mondo, del passaggio da contrapposizioni ideologiche e politico-militari a un nuovo modo di vivere, qualitativamente diverso, libero da invidiose rivalità e da politiche avventuristiche e criminose. Questa transizione, in atto in vaste aree geografiche e geopolitiche, interessa anche la Georgia e la regione del Caucaso. Proprio in Georgia, dove la composizione dei conflitti è ancora in corso (con successo, come in Ossezia e, in minor misura, in Abkhazia), nello scorso mese di aprile, quando è scoppiata la guerra in Jugoslavia, è stato inaugurato un oleodotto attraverso il quale il petrolio del Mar Caspio raggiunge i terminali dislocati sulle sponde del Mar Nero e da qui viene trasportato in Europa e in altri paesi. La Georgia diviene la principale arteria della Grande Via della Seta nel Caucaso. Eppure appena cinque o sei anni orsono per le strade della Georgia risuonavano gli spari e uscire di casa era pericoloso anche di giorno. Il tempo è stato utilizzato a dovere e, non ci fossero stati quei conflitti, il popolo vivrebbe già adesso in condizioni molto migliori. Ma non è andata così. Come si è visto, il conflitto abkhazo fu accompagnato dal genocidio della gente georgiana e da una pulizia etnica delle più brutali. La creazione di un sistema che renda inevitabile la punizione per delitti di carattere politico non può essere ulteriormente procrastinata, ma deve divenire oggetto di specifica discussione. E' mia opinione che sia opportuno utilizzare in maniera più efficace il tribunale internazionale per i leader politici ed i governanti di quei regimi che, alle soglie del XXI secolo, adottano misure repressive nei confronti di persone di un' altra nazionalità. Se non si fermerà il male che si esprime con le pulizie etniche, se continueranno le atrocità, se non verranno bloccati i nazionalismi e i separatismi aggressivi, allora il mondo si troverà di fronte a problemi di difficile soluzione. Senza esagerare, si può già adesso esprimere il timore che il mondo possa trovarsi all' improvviso sull' orlo di una nuova guerra mondiale. Ed è importante rivolgere l' attenzione anche a questo.

Nel corso degli ultimi avvenimenti, in Iraq e in particolare in Jugoslavia, è emerso chiaramente che sull' arena internazionale l' opposizione alle principali ed essenziali norme di convivenza pacifica e sicura ha assunto un carattere più nascosto, oserei dire mimetizzato. Naturalmente tale opposizione non può essere messa a confronto con gli aperti contrasti dei tempi della "guerra fredda", ma non è meno inquietante. In questi ultimi tempi il mio pensiero corre sempre più spesso agli anni ' 80, quando i governanti di Urss e Usa lavoravano alla costruzione di un nuovo ordine mondiale per garantire una pace sicura. Che quello di oggi sia un mondo nuovo non può essere messo in dubbio da alcuno. Ma in che misura questo mondo può essere considerato equilibrato? Qui sta il problema. E cosa devono fare in queste condizioni i nuovi giovani stati che si trovano ad affrontare una grande mole di lavoro sulla via dello sviluppo sociale? Gli interessi della stessa Georgia, per esempio, sono direttamente legati al futuro di Europa e Asia, ma purtroppo, malgrado la "guerra fredda" sia ormai superata, questo futuro è ben lontano dall' essere privo di nubi. E' triste, ma all' origine di tutto questo ci sono ancora opposte concezioni rispetto ad una serie di importantissimi problemi del mondo moderno. Durante la guerra nel Golfo Persico i fatti si incaricarono di dimostrare che la "guerra fredda" era ormai riposta negli archivi della storia. Ma adesso, come nel 1990, vedo la minaccia della rivincita.

La rivincita comunista, intendo. Vedo questo perché a molti, troppi, piacerebbe farla finita con i risultati della politica estera della perestrojka, di quel graduale processo di creazione di una concezione del mondo comune. L' esperienza di questo secolo che volge al termine, spero, non consentirà agli avvenimenti di svilupparsi in quella direzione. L' umanità non può vivere in un mondo diviso e in conflitto. E' contro ogni buonsenso. Credo, infine, che vinceranno la ragione e la naturale aspirazione a vivere e costruire. E su questo io conto molto.

(Traduzione a cura del gruppo Logos)

* L'autore è stato ministro degli Esteri dell' Urss; è presidente della Georgia

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Sarajevo, il passato
che ritorna



di ADRIANO SOFRI

Mi sono ricordato di un giorno della mia vita. Il 5 febbraio del 1994. Ero a Sarajevo, e ci fu la strage del mercato. Ma non è questo: non solo questo. Devo cominciare dalla sera prima. Non avevo ancora preso casa, ero all' Holiday Inn, come i giornalisti. Avevo una telecamera amatoriale, mi ero fatto prendere la mano, e avevo finito la scorta di cassette. L' indomani mattina sarebbe partito un convoglio di profughi dalla sinagoga, mi premeva riprenderlo. C' era un operatore che lavorava per la Rai, Miran Hrovatin. Era triestino come me, ma lui davvero, e aveva una bella faccia cordiale. All' ora dell' ultimo telegiornale andò al palazzo delle televisioni. CI METTEMMO d' accordo: se non avesse fatto troppo tardi ci saremmo rivisti, per una partita a scopa. Fece tardi, ma aspettai. Si stava al buio, ad ascoltare gli scoppi, e calcolare la distanza. Quando Miran tornò era ora di andare a dormire - a provarci. Arrivò con due cassette per la mia telecamera, se le era fatte regalare da un collega americano. Miran sarebbe stato ucciso un mese dopo a Mogadiscio insieme a Ilaria Alpi: aveva scelto di tornare in Somalia per mettere una pausa fra sé e tutto quel sangue jugoslavo. Il cielo della mattina del 5 era tetro. C' era il rumore di fondo degli spari, e il rombo degli aerei - sorvoli alti, facevano sentire la lontananza, più che una presenza. La gente cominciò ad arrivare molto presto. Sarajevo è tutta di saliscendi e scalinate. Le persone si affacciavano alla salita, nella nebbia, tenendo in due i manici di borsoni sgangherati. Era un film in bianco e nero. Era un film girato a Varsavia nel 1944, ed ero io a girarlo. L' esodo era stato preparato dagli ebrei della Benevolencija, e contrattato pazientemente con gli assedianti: tanti ebrei, tanti serbi, tanti bosniaci musulmani. Vecchi e malati per lo più, e qualche donna coi bambini. Arrivavano davanti alla sinagoga, e le famiglie già si separavano. Gli esuli entravano a sbrigare i documenti, i parenti restavano fuori, tenuti dal lato opposto della strada da una milizia cortese ma rigida. Per un paio d' ore stettero così, a parlarsi da un marciapiede all' altro, persone che non sapevano se si sarebbero mai più viste, o anche solo a guardarsi in silenzio. Solo i cani attraversavano inosservati, cani di Sarajevo, che si erano abituati a perdere gli umani, e a esserne perduti. Arrivarono le corriere, tre, malconce, e cominciò l' appello dei partenti. Allora la folla composta si ruppe, si alzarono grida, qualcuno spingeva per rubare un ultimo abbraccio, e veniva ricacciato indietro. C' era una ragazza alta, magra, molto giovane ma coi capelli di un grigio ferro, in un vecchio cappotto grigio col bavero alzato: fissava immobile, seria, la faccia di un uomo dietro il vetro appannato della corriera. Me ne innamorai. A Sarajevo mi sono innamorato di tutte le donne che ho visto. Facevo andare la telecamera. Tenere l' occhio dentro una telecamera è un espediente prezioso, quando non bisogna piangere. Finì. Le corriere scomparvero, la folla si sciolse, in un silenzio gonfio di angoscia e quasi, chissà perché, di vergogna. O forse era solo nostra, degli spettatori. Un peso oscuramente simile a quello del visitatore di Auschwitz: così mi parve. Fino a poco tempo fa, non avrei creduto che al mio tempo potesse appartenere una mattina così. Ma era ancora presto. C' era la prima di un film, alle undici, in un teatro del centro. Il film di un giovane regista, forte, pieno di rimandi letterari: l' incendio di una biblioteca moresca di Sarajevo commentato con citazioni di Dante e di Shakespeare. La sala era strapiena, come sempre sotto le bombe. Uscii a guardare la strada, il crocevia dei cecchini lì accanto, le corse dei passanti. C' erano esplosioni di granate, vicine, fragorose. Era normale. D' improvviso si sentirono i clackson di tante auto, e un' agitazione inspiegata: un contagio di facce spaventate e di corse affannose. Saltammo su un' auto e corremmo verso il punto da cui veniva lo spavento. Era vicino, ma bisognava fare un giro di sensi unici e di cecchini. Alla curva del Ponte Latino, sull' angolo delle rivoltellate di Gavrilo Princip, qualcuno ci gridò: a Markale, il mercato della città vecchia. Arrivammo in mezzo alla strage, cominciavano appena a raccattare i corpi e i feriti. C' era un rumore terribile di pianti, di urla, di richiami concitati, di auto caricate alla rinfusa che sgommavano via. C' era una gamba artificiale, staccata e diritta sul suolo. C' erano scarpe, è incredibile come le scarpe si spandano nelle carneficine. C' erano uomini grandi e grossi che soccorrevano e piangevano a dirotto. Toni Capuozzo si buttò nella falcidie, io non seppi fare niente. Da giorni avevo adottato, e viceversa, una banda di ragazzini che faceva capo a quella piazza del mercato. Avevo appuntamento con loro là, ogni giorno fra le tre e le quattro. Conoscevo ormai quasi una per una le persone del mercato, le vecchie che vendevano calzettoni fatti a mano e bacche selvatiche, il bambino che vendeva a malincuore un gallo, i vecchi che vendevano rubinetti e distintivi e medaglie, le fioraie: ero il più prodigo compratore di fiori della città. Anche quando mancavano il pane e le candele, a Sarajevo le case avevano voglia di fiori; e poi tutti avevano qualche tomba fresca alla quale destinare un fiore. I morti di Markale furono 68, i feriti nessuno li ha contati.

La città si svuotò. Era un ordine delle autorità: ai cetnici piace duplicare le stragi. Ma non c' era bisogno di ordini. C' era troppo dolore, troppa disperazione. Tornammo in albergo. I giornalisti erano frenetici: notizie da trasmettere, articoli da scrivere. Io non avevo niente da fare, se non essere disperato. I miei ragazzini sarebbero rimasti chiusi in casa. Ma se qualcuno fosse andato lo stesso all' appuntamento? Così uscii e tornai, a piedi, al mercato. Sapevo correre nei punti esposti: ma la città era così deserta che anche i cecchini, sazi, dovevano essersi messi a dormicchiare. Il cielo si era fatto ancora più plumbeo. Dal mercato veniva un rumore di motore sussultante, monotono. La strada era ingombra di blindati bianchi dell' Onu. Nella piazzetta del mercato c' erano solo caschi blu dell' Onu, francesi: una ventina di soldati e qualche graduato. C' era un paio di autocisterne d' acqua, il rumore era quello delle pompe. I soldati della Comunità internazionale spazzavano il suolo con gli idranti, e poi raccoglievano con le pale i detriti spinti contro il marciapiede. L' acqua era rossa. Le pale raccoglievano nel rigagnolo avanzi di povere mercanzie e di corpi umani. L' Onu faceva piazza pulita, anche lei in un silenzio interrotto da ordini brevi in francese - che bella lingua è il francese - e da quella lugubre percussione di motore. Durò a lungo il risciacquo. Potei guardare il punto in cui era caduta la granata: la solita buchetta con la rosa di scalfitture attorno, mutata già in pozzanghera. Qualcuno aveva tirato su una scarpa sfiancata da una donna, e l' aveva posata sul rottame di un banco. Non c' era nessuno, solo le Nazioni Unite e io. E un viavai di corvi neri contro il cielo nero. Li ripresi scrupolosamente.

L' ho detto: è utile, certi giorni, mettere una telecamera fra il proprio ciglio e il mondo. Arrivò un sarajevese, un tipo, poi avrei fatto amicizia con lui: si chiamava Dino, parlava un po' di italiano dalla Seconda guerra, intagliava certe pipette di legno e le vendeva agli stranieri. Ora aveva bevuto fino a vacillare, buttò qualche frase addosso ai soldatini francesi, che non si voltarono nemmeno. Poi, forse in onore della mia telecamera, si tenne eretto, e disse solennemente: "Sangue. Questo è il nostro sangue bosniaco per l' Europa". Tale fu un giorno della mia vita, in un triangolo, fra sinagoga incrocio dei cecchini e mercato, di neanche cinquecento metri per lato. Anzi, il giorno non era neanche finito, ma non me ne viene in mente altro, dopo che ebbi trovato la casa di qualcuno dei miei ragazzini, e saputo che erano vivi. Non me n' ero più ricordato, di quel giorno, tant' è vero che adesso mi sono stupito che fossero successe insieme, tutte quelle cose: la delicatezza di Hrovatin e il corteo ebraico per i fuggiaschi, la strage e la vista intima delle Nazioni Unite all' opera, corvi bianchi e blu, spazzini postumi nelle città assediate e tra i popoli deportati.

(16 maggio 1999)

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Ci vorrebbe un Roosevelt


di ARTHUR MILLER

Sulla guerra ho una persuasione, alcune perplessità e molte domande. La persuasione è che Milosevic è uno dei grandi criminali di questo secolo. Tutta la sua attività, da Vukovar a Sarajevo al Kosovo è l'attività di qualcuno incapace persino di comprendere il male che ha commesso. Non credo che alcun crimine collettivo sia più grave della pulizia etnica, che significa strage e persecuzioni specialmente contro donne e bambini e non credo che il mondo civile possa fingere di non sapere, di non vedere o di "trattare". Che cosa trattiamo: il numero dei morti, se c'è un limite allo stupro delle donne e all'uccisione dei bambini, tollerando un simile governo se non esagera?

La mia perplessità è sullo strumento guerra, guerra di bombe potenzialmente illimitata. Uno come me non può non pensare, fin dall'inizio: pessima idea. Sappiamo come comincia, ma non sappiamo dove finisce. Soprattutto, dobbiamo adattarci all'idea che un certo numero di cittadini uccisi va bene, purché non siano troppi. Quanti sono "troppi morti" causati, come ci dicono, a fin di bene? Che cosa pensate voi? chiedo a chi mi sta intorno. Io, da democratico, vorrei rispondere: la decisione spetta ai serbi. Tocca a loro decidere da chi e come vogliono essere governati. Ma questa mia risposta democratica mi torna indietro come un boomerang. Vuole anche dire che se ai serbi va bene Milosevic deve andare bene anche a me? Non può andarmi bene.

Nel 1944 avrei mai accettato di sentirmi dire dal comandante di un campo di sterminio che quello che stava facendo si poteva fare perché la grande maggioranza dei tedeschi era d'accordo? Infatti non ho accettato una simile risposta, e ho combattuto contro quel male e quella negazione di umanità. In poche parole, non mi va bene la guerra. Ma non mi va bene la pace di Milosevic, perché è pace solo per noi, che ci liberiamo dall'incubo delle azioni di guerra. Per le donne, i bambini, gli uomini del Kosovo, quella pace si chiama libertà di strage. È un pensiero con il quale non so convivere.

Nel tentativo di uscire dai due incubi, la guerra che rischia di diventare sempre più distruttiva, la pace che sarebbe una maschera che copre la morte, non ho che una serie di domande. Perché non abbiamo coinvolto la Russia fin dal primo momento? Perché sappiamo così poco, così male di quello che sta accadendo? Non ho mai visto dare notizie di guerra nel modo contraddittorio e confuso dei portavoce della Nato. Non c'è vero giornalismo dal fronte. O perché è impedito da una censura rigida della Serbia che vuole solo propaganda. O perché i reporter coraggiosi sono dispersi in aree troppo piccole, in situazioni troppo locali per darci un' idea di quello che accade.

C'è uno strappo fra notizie e realtà? Primo, non so quale dovrebbe essere il risultato di quello che stiamo facendo 50 giorni dopo l'inizio. Secondo, noto che, comunque, un risultato per ora non c'è. E allora non posso fare a meno di dirmi: ah, se ci fosse un leader! Voglio dire, uno che ha una visione, conosce i pro e i contro di quello che sta facendo, ha calcolato gli imprevisti, sa che cosa rispondere, a parte gli slogan, quando l'opinione pubblica chiede: volete dirci a che punto siamo? Va meglio o peggio di quello che avevamo previsto?

Voglio essere sincero. Io penso a Roosevelt. Lo rimpiango. Tony Blair e Clinton mi sembrano lievi, al confronto, danno l' impressione di regolarsi alla giornata. Aggiustano, di volta in volta, più le dichiarazioni che la strategia. Qui la morsa mi afferra di nuovo: non voglio la guerra. Ma non posso convivere con la strage. E so che Milosevic, di sua iniziativa, non si ferma e non tratta. Lui ha una visione, lui è un vero leader. Ma il suo mondo è un mondo di orrore.

Questo stato d'angoscia aumenta, sapendo che adesso la Russia si trova in una condizione terribile: un primo ministro che viene dai servizi segreti, un Parlamento che sta per processare il presidente. Eppure io dico che dobbiamo continuare a sperare nei russi.

Chiedo di sapere di più, ecco la mia conclusione. E mi dico: per fortuna in questa vicenda noi americani non siamo soli. Da soli abbiamo avuto il Vietnam. Non possiamo averne un altro. Ci sono con noi i paesi europei che sanno cos'è la guerra nella propria casa, che cos'è il razzismo, che cos'è la razzia di gente innocente. Mi dico: ne usciremo insieme, senza avere violato almeno i criteri minimi di civiltà. E restituendo diritti e libertà ai perseguitati. È un'illusione?

Arthur Miller, 84 anni, è uno dei più famosi commediografi al mondo. È autore, tra l'altro, di Morte di un commesso viaggiatore, Dopo la caduta, Uno sguardo dal ponte.

(14 maggio 1999)

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L'amaro prezzo
della vittoria



di PETER SCHNEIDER*

Più si prolunga la guerra nel Kosovo, e più le voci di accompagnamento degli intellettuali suonano stridule e confuse. Sembra che le accuse stiano rapidamente cambiando bersaglio. Più degli assassinii, incendi e deportazioni a opera delle milizie di Milosevic, sono al centro dell' attenzione gli incessanti bombardamenti della Nato, che sempre più spesso colpiscono la popolazione civile o sbagliano obiettivo, e fanno precipitare la Jugoslavia al grado di sviluppo del 1945. Il panico predomina nelle analisi come nelle conclusioni. IL riflesso del "si salvi chi può" assale le menti, e si scatena una sorta di corsa all' innocenza, per essere tra coloro che avevano pronosticato in tempo sia i massacri in Kosovo che il disastro dell' intervento Nato. In definitiva, un modo per non aiutare nessuno ma per aver avuto comunque ragione. A tutto questo vorrei rispondere con due tesi. 1. Un intervento militare era legittimo, anzi inevitabile. 2. Finora, l' intervento della Nato si è dimostrato un insuccesso quasi totale, e porterà probabilmente a una pace tarata, senza consentire il ritorno degli albanesi del Kosovo alle proprie case. Primo punto: nessuno è riuscito a produrre un argomento credibile a sostegno dell' affermazione che la Nato mirasse, con il suo intervento, a posizioni strategiche, ricchezze naturali, espansione territoriale ecc. Chi fa affermazioni del genere (come Bertinotti) si espone al sospetto di essere molto più interessato alla conferma della sua immagine del mondo (e della sua clientela elettorale) che alla sorte dei kosovari oppressi. Con questa guerra si è affermato un principio: la sovranità degli Stati e il concetto di affari interni non comportano il diritto di angariare sistematicamente i propri cittadini, di cacciarli dalle loro case o di trucidarli. Il rimprovero di chi ricorda, per criticare l' intervento nel Kosovo, che nessuno si è mosso in Ruanda o altrove, è in parte giustificato; ma sarebbe assurdo desumerne il divieto a entrare in azione nel Kosovo. Secondo punto: già da varie settimane è chiaro che i lanci incessanti di bombe sulla Jugoslavia hanno mancato il principale obiettivo della guerra. Lungi dal porre fine alle deportazioni e ai massacri in Kosovo, i bombardamenti li hanno anzi accelerati.

Non è giustificabile, a lungo andare, che si aggravi ulteriormente una tragedia umana nell' intento di arginarla. Ed è insopportabile che praticamente non si sia distrutto neppure un carro armato dell' esercito jugoslavo, mentre sono stati colpiti quasi tutti i ponti sul Danubio, le vie di comunicazione, gli impianti industriali, le centrali elettriche ecc. Non si può punire un intero popolo per il fatto di essere ostaggio di un tiranno, e per non essere stato in grado di rovesciarlo.

La Nato avrà almeno tentato di spiegare alla popolazione della Jugoslavia perché diciannove democrazie siano entrate in guerra contro questo paese? E inoltre ci troviamo di fronte a un fatto incontestabile: i bombardamenti hanno ridotto a zero gli spazi degli oppositori del regime. A tutt' oggi, il bilancio del pur giustificato intervento in Kosovo è disastroso. Anche la guerra ha ovviamente una sua morale. Un intervento che non raggiunga i suoi obiettivi, e si dimostri controproducente, non tarda a diventare discutibile sul piano etico. Resta da chiedersi perché la potenza bellica più moderna e agguerrita del mondo non riesca a pacificare un territorio non più grande della metà del Lazio. Temo che la risposta sia piuttosto semplice.

L' Occidente ha cercato pervicacemente di ignorare la tremenda scommessa di un massacratore e giocatore di poker come Milosevic: "Noi mettiamo in gioco la nostra vita, siamo pronti a morire. Mentre voi volete fare la guerra senza farla. Stiamo a vedere chi ha il fiato più lungo". Fin dalla guerra di Bosnia si è visto che un giocatore deciso a tutto può praticamente neutralizzare la più potente macchina militare, se ha motivo di credere che la disponibilità dei suoi detentori a utilizzarla sia legata alla condizione che l' intervento non richieda il sacrificio di vite umane. E' proprio questa la debolezza che la Nato ha rivelato a Milosevic, quando ha escluso il dispiegamento di truppe di terra: un annuncio che non obbediva alle regole dell' arte bellica, bensì a quelle della ricerca del consenso in una democrazia occidentale. Viviamo in un mondo che ha sempre più emarginato dall' orizzonte del pensiero e dell' azione, se non addirittura dimenticato la possibilità di un ribaltamento, di un crollo subitaneo, il pericolo di ripiombare improvvisamente nella barbarie. Tanto che se qualcuno chiedesse a me, o a chiunque altro: "Sei disposto a rischiare la pelle per gli albanesi del Kosovo?" la domanda verrebbe percepita come retorica; così come appare scontata la conclusione che non si possa aspettarsi dagli altri la disponibilità ad accettare un rischio, quando noi stessi non siamo disposti a correrlo.

Supponiamo di trovarci in un caffè, a Francoforte o a Roma, e di assistere all' irruzione di un' orda di uomini armati che trascinano via tutte le persone dai capelli rossi per caricarle su un camion. Alcuni tra noi scatteranno forse spontaneamente per fermare gli aggressori. Ma in maggioranza resteremmo seduti, fidando nell' intervento armato delle forze dell' ordine al servizio della democrazia. E non saremmo disposti a rinunciare a quest' aspettativa neppure se qualcuno ci rinfacciasse di non essere entrati in azione correndo gli stessi rischi. E se la polizia non fosse stata immediatamente raggiungibile, o non fosse intervenuta? Avremmo partecipato a un' azione civile contro i violenti? Di fronte a quest' ultima domanda potremmo esitare, ma non rispondere negativamente adducendo ragioni di principio. Può accadere che il mandato per la difesa ricada su chi lo ha conferito, vale a dire sui cittadini. Con quest' esempio intendo dimostrare che i cittadini di una comunità, compresi quelli delle nostre democrazie del benessere, danno per scontato che le regole della convivenza civile siano tutelate, anche quando la loro difesa comporti il rischio della vita. In un mondo sempre più interdipendente, sarà sempre meno possibile garantire questa tutela solo all' interno dei confini nazionali. I capi della Nato hanno omesso di chiedere ai cittadini dei rispettivi paesi in quale misura fossero disposti a impegnarsi per il conseguimento degli obiettivi proclamati di questa guerra. Probabilmente i cittadini non avrebbero acconsentito all' intervento, se fossero stati informati del prezzo da pagare per il successo. Ma ciò non avrebbe eliminato il problema. Non sarà questa l' ultima volta che i cittadini delle democrazie saranno confrontati alla sfida di un oppressore capace di dire: Io mi posso permettere di camminare sopra i cadaveri. Voi no.

(traduzione di Elisabetta Horvat)

*Peter Schneider è uno scrittore tedesco. Tra le sue opere, ricordiamo Lenz e Il saltatore del muro.