La Macedonia e il razzismo dell'Occidente di MILCHO MANCEVSKI* Negli articoli sulla Macedonia si
pone per lo più l' accento sul "delicato equilibrio
etnico" del paese, di cui si paventerebbe lo
sconvolgimento in seguito all' arrivo dal Kosovo di
almeno 250.000 profughi. Un giudizio che non coglie nel
segno. Non si tratta di un problema di equilibrio etnico
ma di qualcosa di molto più semplice: la Macedonia è un
paese povero che si sente tradito. Nel marzo scorso,
prima che iniziasse l' esodo di massa, si riteneva che
non sarebbe stato necessario accogliere in Macedonia più
di ventimila profughi. IL Partito Democratico degli
Albanesi, una delle tre formazioni politiche che
compongono il governo macedone, aveva convinto gli altri
partiti della coalizione a riconoscere ai profughi lo
status di "ospiti". Così hanno potuto entrare
come turisti, con formalità di ingresso semplificate e
senza controlli sanitari, e sono stati alloggiati presso
famiglie che si erano offerte volontariamente di
accoglierli. Un trattamento che era sembrato più umano.
Mi ero recato al valico di confine di Blace con il mio
produttore, Domenico Procacci, il 28 marzo, quando
secondo le valutazioni l' aumento dei profughi era di
20:1 circa. Quando vi ritornai sei giorni dopo, si era
ormai ammassata nella zona a cavallo del confine una
folla di 30.000-50.000 profughi, alcuni ancora in Kosovo,
altri nella terra di nessuno e altri in salvo in
Macedonia. I trattori erano rimasti impantanati nel fango
e gli addetti locali venuti ad assistere i kosovari
distribuivano pane e acqua. I malati venivano portati via
su barelle improvvisate con coperte piegate in due.
Circolava la voce che la notte precedente una dozzina di
persone fossero morte nel campo. I poliziotti erano
confusi e insolitamente benevoli, forse perché colti
alla sprovvista di fronte a quella grande tragedia umana.
Mentre il numero totale dei rifugiati in Macedonia si
avviava rapidamente a superare i 200.000 - il decuplo del
previsto - appariva chiaro che il governo non aveva la
minima idea di come far fronte a una crisi di questa
portata. Il concetto di "ospiti" era ormai
ridicolo, ma poiché era questa l' idea prevalente prima
che la calamità esplodesse, i campi profughi non erano
stati approntati. Anche nei periodi migliori, la
Macedonia non brilla per capacità organizzativa; e oggi
stiamo vivendo un periodo tutt' altro che ideale. Non
importa che i profughi siano albanesi, serbi, macedoni,
francesi o americani. La popolazione di questo paese già
impoverito, che era di due milioni di abitanti, in sole
due settimane è aumentata del 10% a causa di quest'
immensa immigrazione forzata. E quella che era la fragile
economia macedone sembra appartenere ormai a un lontano
passato. Le bombe della Nato hanno fatto saltare le
strade verso il resto dell' Europa, e le società
jugoslave che commerciavano con la Macedonia non sono
più in grado di lavorare. Secondo i calcoli del governo,
le perdite dirette avranno superato alla fine dell' anno
un miliardo e mezzo di dollari, pari a più del 40% del
Pil dell' intera nazione. Dato che molte società
macedoni stanno licenziando personale, il tasso di
disoccupazione, già superiore al 30%, è in ulteriore
aumento. In Macedonia il Pil pro capite è pari a 1.900
dollari l' anno, una cifra inferiore di un terzo a quello
della Giamaica, tanto per fare un raffronto con un paese
occidentale. L' economia di questo paese non è in grado
di sostenere un numero così ingente di profughi, come
non lo è la sua struttura sociale. I macedoni si
chiedono se sia questo il premio per aver costituito l'
unico, luminoso esempio di tolleranza e cooperazione
etnica della regione. La Macedonia non conosceva la
violenza etnica. I partiti albanese e macedone si
dividono il potere, e vi sono ministri e ambasciatori di
entrambi i gruppi etnici. Dopo le elezioni, un nuovo
partito di etnia albanese ha sostituito quello che faceva
parte del precedente governo. Le minoranze sono tutelate
dalla costituzione, hanno le loro scuole, i loro teatri,
i loro giornali, i loro programmi televisivi. ---------------------------------------- La forza delle parole Chiedere di esprimersi
sulla guerra a persone il cui mestiere è pensare, non è
già cominciare ad aprire una terza via tra i
belligeranti, in grado forse di portare luce all' una e
all' altra parte? Spesso nel corso della Storia, i
filosofi e gli artisti hanno consigliato o ispirato i
politici. Sarebbe bene che le loro riflessioni aprissero
oggi nuove prospettive diplomatiche, più ampie, più
disinteressate, più attente alle diversità
politico-culturali esistenti tra i vari paesi, tra le
varie regioni. PROSPETTIVE che possano porre fine non
soltanto a questa guerra, ma a tutte le guerre, facendo
apparire come caduco, poco degno dell' umano, un tale
modo di risolvere i problemi. La parola sospesa. La
guerra, in effetti, è prima di tutto la rottura del
dialogo, l' assenza di parola, la perdita dell' umano in
quanto tale. Il passaggio dal discorso alla violenza muta
si verifica chiaramente tra i belligeranti, ma anche tra
tutti quanti gli altri: i cittadini stessi non si parlano
più. Non sanno quello che pensa l' altro, a quale clan
appartiene, e temono di suscitare un conflitto alla
minima parola pronunciata. Questa diffidenza tra
cittadini è peraltro mantenuta dai politici e dai media
i quali dettano quello che bisogna pensare e accusano
coloro che la pensano diversamente di "disubbidienza
civile", di "appartenenza a partiti"
condannabili in quanto "estremisti" di destra o
di sinistra, oppure di "anti-americanismo
primitivo", ecc. Ognuno è invitato ad aggregarsi al
coro dei sostenitori che applaudono a ogni colpo inferto.
E la vendetta inflitta sul nemico totalitario - che non
si sente mai parlare, cosa che aiuterebbe i cittadini a
formarsi una propria opinione - cala sui cittadini
effetti totalitari meno percepiti: il primo dei quali è
la costrizione a pensare come coloro che hanno deciso di
fare la guerra. E qualora uno si arrischi a disturbare il
punto di vista generale, i sondaggi prendono la parola in
sua vece, facendo tacere le sue proteste con l'
argomento, cosiddetto democratico, dei numeri. Come sono
calcolati i sondaggi, lo ignoro, ma mentre da essi
risulta che la maggioranza dei francesi interpellati
sarebbe "per la guerra", io non ho ancora
trovato una sola persona che lo sia veramente tra coloro
che ho interrogato: i miei vicini, i commercianti del mio
quartiere, gli stranieri incontrati in queste ultime
settimane, per non parlare dei miei amici. Ho invece
osservato che la gente è triste, che non ha capito un
granchè, che è preoccupata per le possibili
rappresaglie, che ha sempre più l' impressione di
ricevere delle informazioni insufficienti e di essere
intossicata da discorsi che l' obbligano a giudicare la
situazione in un certo modo e non in libertà. Nero o
bianco. ----------------------------------- Mondo moderno Voglio credere che la
tragedia dei Balcani sia l' ultima guerra del ventesimo
secolo. Credere che altre situazioni di conflitto, non
esclusa quella del Caucaso, del paese di cui sono
presidente, la Georgia, possano essere risolte in modo
pacifico. Spero molto e confido che nel prossimo secolo
la comunità mondiale, traendo insegnamento dalla lezione
di quello trascorso, uno dei più sanguinosi nella storia
dell' umanità, saprà elaborare meccanismi di sicurezza
che non siano causa di sofferenze per milioni di persone,
ma consentano di superare politicamente e in modo
pacifico le insorgenti contraddizioni e di instaurare un
ordine più giusto ovunque e laddove persistano o
compaiano pericolosi focolai capaci di alimentare nuovi
conflitti. RISULTATO ideale per la comunità mondiale,
per le organizzazioni internazionali come l' Onu e le
altre, per le alleanze politico-militari, Nato in primo
luogo, sarebbe quello di conferire loro capacità
effettive di estinguere i conflitti in embrione, di poter
costringere le parti avversarie a sedere immediatamente
al tavolo delle trattative. Su tutte queste politiche c'
è ancora da lavorare, però oggi non vedo obiettivo più
meritevole e importante per coloro che dedicano i propri
sforzi alla creazione di un mondo sicuro ed alla
liberazione dell' uomo dalla sindrome del terrore. Si
tratta, d' altra parte, di un compito abbastanza
difficile, un compito del futuro che, voglio pensare, sia
ormai prossimo. Per il momento, l' unico effettivo
meccanismo tra quelli esistenti, qualora pressanti azioni
diplomatiche non risultino sufficienti come misure di
persuasione, è il ricorso a misure di coercizione. E' in
questo senso che vanno viste le azioni Nato contro il
regime jugoslavo. Quelli con cui abbiamo a che fare oggi
non sono conflitti puri e semplici, ma fenomeni che in
molti casi tendono ad espandersi minacciosamente
superando i confini di un paese o di un continente. E'
sotto i nostri occhi la piega presa dagli avvenimenti in
Jugoslavia nel corso di alcuni anni e durante le ultime
settimane. Come uomo, e l' ho dichiarato in più di un'
occasione, sono contrario all' impiego della forza. Al
tempo in cui ricoprivo la carica di ministro degli Esteri
dell' Urss fu deciso, in linea con la nuova strategia di
pensiero proclamata dall' Unione Sovietica negli anni
della perestrojka, di ritirare le nostre truppe dall'
Afghanistan; purtroppo portare fuori sani e salvi da quel
paese tutti quelli che alla guerra avevano preso parte
non sarebbe stato possibile a nessuno. Questo io non
riesco ancora a dimenticarlo. Né mai dimenticherò
quanto è accaduto sei anni orsono in Abkhazia, il
quotidiano tributo di vite di georgiani e abkhazi. Allora
il regime separatista dei governanti abkhazi, forte dell'
appoggio politico e militare di forze reazionarie e di
conquista, commise una terribile rappresaglia sulla
popolazione innocente e pacifica di questa regione
soltanto perché si trattava di georgiani. Non ci fu in
Abkhazia una sola città o provincia in cui non si
verificarono azioni di vero e proprio genocidio. E'
evidente che simili azioni non possono rimanere impunite.
Nel corso degli ultimi sei anni il Consiglio di sicurezza
dell' Onu ha approvato quindici risoluzioni che non hanno
dato alcun risultato. Le valutazioni politiche e le
azioni pratiche dell' Onu si sono dimostrate fiacche,
prive di convinzione e inefficaci. Mi resta ancora
difficile comprendere dove risiedano le cause di questa
irresolutezza, di questa strana apatia politica. All' Onu
ha fatto difetto la determinazione a chiamare le cose con
il loro nome ed a condannare in modo adeguato una
evidente pulizia etnica. E questo a fronte del fatto che
l' Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in
Europa aveva ritenuto necessario riconoscere
ufficialmente che in Abkhazia erano effettivamente in
atto azioni di pulizia etnica. Sono sempre stato convinto
che, se le azioni criminose perpetrate dal regime
separatista e dai suoi protettori fossero state oggetto
di un' adeguata valutazione politica ed i principali
organizzatori del genocidio dei georgiani condannati e
puniti dalla comunità internazionale, i sanguinosi
avvenimenti in Cecenia avrebbero potuto essere evitati e
difficilmente l' Europa avrebbe assistito all' acuirsi
della crisi in Jugoslavia in seguito ai problemi del
Kosovo. Tanto più che già durante la prima fase del
conflitto abkhazo la Georgia aveva proposto che venissero
applicati quei criteri di composizione dei quali ho
parlato, riferendomi alla crisi jugoslava, durante la mia
recente visita di lavoro negli Usa, alla seduta del
Consiglio dell' alleanza atlantica a Washington e a
Strasburgo alla cerimonia di ingresso della Georgia nel
Consiglio d' Europa. E' interessante notare che qui i
punti di vista di Georgia e comunità internazionale
coincidono perfettamente. Purtroppo applicare i suddetti
criteri in Georgia alcuni anni fa risultò impossibile.
Gli avvenimenti di oggi confermano quanto sia errato
quell' atteggiamento passivo che rende in gran parte
possibile la nascita di nuovi focolai e in un certo senso
la loro propagazione a catena. Vale la pena di ricordare
che tutti questi elementi si ritrovano anche nelle
proposte che in questi giorni sono state avanzate dagli
otto paesi più sviluppati per risolvere i problemi del
Kosovo. Di conseguenza, nel dare come uomo politico un
giudizio sulle azioni della Nato in Jugoslavia, ed
essendo, ripeto, un oppositore obiettivo dell' uso della
forza, vedo chiaramente che questa via, questo metodo di
coercizione alla pace, rappresenta fra quelli possibili
l' unico in grado di influenzare efficacemente i processi
in corso. E non solo in Jugoslavia. Non mi pare vi sia
oggi altro modo di preservare l' Europa dalla diffusione
di certe metastasi politiche. Non credo di sbagliare: le
azioni criminose di alcuni regimi possono provocare gravi
conseguenze e la loro propagazione alle regioni
circostanti. Da questo punto di vista le misure
intraprese dalla Nato assumono un carattere di
inevitabilità, assolutamente privo di alternative e
giustificato da come si sono andati sviluppando gli
avvenimenti in precedenza. Ancora una volta e con
particolare drammaticità i fatti del Kosovo hanno
confermato quanto da tempo testimoniano altri conflitti
irrisolti o, come è uso chiamarli,
"congelati". E allora occorre applicarsi con
serietà e determinazione al perfezionamento dei
meccanismi di sicurezza oggi esistenti. Sebbene ancora a
disposizione delle organizzazioni internazionali, e dell'
Onu in particolare, essi non sono di alcuna reale
utilità. Si tratta di meccanismi nati in epoche e per
scopi completamente diversi. ---------------------------- Sarajevo, il passato Mi sono ricordato di un
giorno della mia vita. Il 5 febbraio del 1994. Ero a
Sarajevo, e ci fu la strage del mercato. Ma non è
questo: non solo questo. Devo cominciare dalla sera
prima. Non avevo ancora preso casa, ero all' Holiday Inn,
come i giornalisti. Avevo una telecamera amatoriale, mi
ero fatto prendere la mano, e avevo finito la scorta di
cassette. L' indomani mattina sarebbe partito un
convoglio di profughi dalla sinagoga, mi premeva
riprenderlo. C' era un operatore che lavorava per la Rai,
Miran Hrovatin. Era triestino come me, ma lui davvero, e
aveva una bella faccia cordiale. All' ora dell' ultimo
telegiornale andò al palazzo delle televisioni. CI
METTEMMO d' accordo: se non avesse fatto troppo tardi ci
saremmo rivisti, per una partita a scopa. Fece tardi, ma
aspettai. Si stava al buio, ad ascoltare gli scoppi, e
calcolare la distanza. Quando Miran tornò era ora di
andare a dormire - a provarci. Arrivò con due cassette
per la mia telecamera, se le era fatte regalare da un
collega americano. Miran sarebbe stato ucciso un mese
dopo a Mogadiscio insieme a Ilaria Alpi: aveva scelto di
tornare in Somalia per mettere una pausa fra sé e tutto
quel sangue jugoslavo. Il cielo della mattina del 5 era
tetro. C' era il rumore di fondo degli spari, e il rombo
degli aerei - sorvoli alti, facevano sentire la
lontananza, più che una presenza. La gente cominciò ad
arrivare molto presto. Sarajevo è tutta di saliscendi e
scalinate. Le persone si affacciavano alla salita, nella
nebbia, tenendo in due i manici di borsoni sgangherati.
Era un film in bianco e nero. Era un film girato a
Varsavia nel 1944, ed ero io a girarlo. L' esodo era
stato preparato dagli ebrei della Benevolencija, e
contrattato pazientemente con gli assedianti: tanti
ebrei, tanti serbi, tanti bosniaci musulmani. Vecchi e
malati per lo più, e qualche donna coi bambini.
Arrivavano davanti alla sinagoga, e le famiglie già si
separavano. Gli esuli entravano a sbrigare i documenti, i
parenti restavano fuori, tenuti dal lato opposto della
strada da una milizia cortese ma rigida. Per un paio d'
ore stettero così, a parlarsi da un marciapiede all'
altro, persone che non sapevano se si sarebbero mai più
viste, o anche solo a guardarsi in silenzio. Solo i cani
attraversavano inosservati, cani di Sarajevo, che si
erano abituati a perdere gli umani, e a esserne perduti.
Arrivarono le corriere, tre, malconce, e cominciò l'
appello dei partenti. Allora la folla composta si ruppe,
si alzarono grida, qualcuno spingeva per rubare un ultimo
abbraccio, e veniva ricacciato indietro. C' era una
ragazza alta, magra, molto giovane ma coi capelli di un
grigio ferro, in un vecchio cappotto grigio col bavero
alzato: fissava immobile, seria, la faccia di un uomo
dietro il vetro appannato della corriera. Me ne
innamorai. A Sarajevo mi sono innamorato di tutte le
donne che ho visto. Facevo andare la telecamera. Tenere
l' occhio dentro una telecamera è un espediente
prezioso, quando non bisogna piangere. Finì. Le corriere
scomparvero, la folla si sciolse, in un silenzio gonfio
di angoscia e quasi, chissà perché, di vergogna. O
forse era solo nostra, degli spettatori. Un peso
oscuramente simile a quello del visitatore di Auschwitz:
così mi parve. Fino a poco tempo fa, non avrei creduto
che al mio tempo potesse appartenere una mattina così.
Ma era ancora presto. C' era la prima di un film, alle
undici, in un teatro del centro. Il film di un giovane
regista, forte, pieno di rimandi letterari: l' incendio
di una biblioteca moresca di Sarajevo commentato con
citazioni di Dante e di Shakespeare. La sala era
strapiena, come sempre sotto le bombe. Uscii a guardare
la strada, il crocevia dei cecchini lì accanto, le corse
dei passanti. C' erano esplosioni di granate, vicine,
fragorose. Era normale. D' improvviso si sentirono i
clackson di tante auto, e un' agitazione inspiegata: un
contagio di facce spaventate e di corse affannose.
Saltammo su un' auto e corremmo verso il punto da cui
veniva lo spavento. Era vicino, ma bisognava fare un giro
di sensi unici e di cecchini. Alla curva del Ponte
Latino, sull' angolo delle rivoltellate di Gavrilo
Princip, qualcuno ci gridò: a Markale, il mercato della
città vecchia. Arrivammo in mezzo alla strage,
cominciavano appena a raccattare i corpi e i feriti. C'
era un rumore terribile di pianti, di urla, di richiami
concitati, di auto caricate alla rinfusa che sgommavano
via. C' era una gamba artificiale, staccata e diritta sul
suolo. C' erano scarpe, è incredibile come le scarpe si
spandano nelle carneficine. C' erano uomini grandi e
grossi che soccorrevano e piangevano a dirotto. Toni
Capuozzo si buttò nella falcidie, io non seppi fare
niente. Da giorni avevo adottato, e viceversa, una banda
di ragazzini che faceva capo a quella piazza del mercato.
Avevo appuntamento con loro là, ogni giorno fra le tre e
le quattro. Conoscevo ormai quasi una per una le persone
del mercato, le vecchie che vendevano calzettoni fatti a
mano e bacche selvatiche, il bambino che vendeva a
malincuore un gallo, i vecchi che vendevano rubinetti e
distintivi e medaglie, le fioraie: ero il più prodigo
compratore di fiori della città. Anche quando mancavano
il pane e le candele, a Sarajevo le case avevano voglia
di fiori; e poi tutti avevano qualche tomba fresca alla
quale destinare un fiore. I morti di Markale furono 68, i
feriti nessuno li ha contati. --------------------------------------- Ci vorrebbe un Roosevelt Sulla guerra ho una
persuasione, alcune perplessità e molte domande. La
persuasione è che Milosevic è uno dei grandi criminali
di questo secolo. Tutta la sua attività, da Vukovar a
Sarajevo al Kosovo è l'attività di qualcuno incapace
persino di comprendere il male che ha commesso. Non credo
che alcun crimine collettivo sia più grave della pulizia
etnica, che significa strage e persecuzioni specialmente
contro donne e bambini e non credo che il mondo civile
possa fingere di non sapere, di non vedere o di
"trattare". Che cosa trattiamo: il numero dei
morti, se c'è un limite allo stupro delle donne e
all'uccisione dei bambini, tollerando un simile governo
se non esagera? --------------------------------------- L'amaro prezzo Più si prolunga la guerra
nel Kosovo, e più le voci di accompagnamento degli
intellettuali suonano stridule e confuse. Sembra che le
accuse stiano rapidamente cambiando bersaglio. Più degli
assassinii, incendi e deportazioni a opera delle milizie
di Milosevic, sono al centro dell' attenzione gli
incessanti bombardamenti della Nato, che sempre più
spesso colpiscono la popolazione civile o sbagliano
obiettivo, e fanno precipitare la Jugoslavia al grado di
sviluppo del 1945. Il panico predomina nelle analisi come
nelle conclusioni. IL riflesso del "si salvi chi
può" assale le menti, e si scatena una sorta di
corsa all' innocenza, per essere tra coloro che avevano
pronosticato in tempo sia i massacri in Kosovo che il
disastro dell' intervento Nato. In definitiva, un modo
per non aiutare nessuno ma per aver avuto comunque
ragione. A tutto questo vorrei rispondere con due tesi.
1. Un intervento militare era legittimo, anzi
inevitabile. 2. Finora, l' intervento della Nato si è
dimostrato un insuccesso quasi totale, e porterà
probabilmente a una pace tarata, senza consentire il
ritorno degli albanesi del Kosovo alle proprie case.
Primo punto: nessuno è riuscito a produrre un argomento
credibile a sostegno dell' affermazione che la Nato
mirasse, con il suo intervento, a posizioni strategiche,
ricchezze naturali, espansione territoriale ecc. Chi fa
affermazioni del genere (come Bertinotti) si espone al
sospetto di essere molto più interessato alla conferma
della sua immagine del mondo (e della sua clientela
elettorale) che alla sorte dei kosovari oppressi. Con
questa guerra si è affermato un principio: la sovranità
degli Stati e il concetto di affari interni non
comportano il diritto di angariare sistematicamente i
propri cittadini, di cacciarli dalle loro case o di
trucidarli. Il rimprovero di chi ricorda, per criticare
l' intervento nel Kosovo, che nessuno si è mosso in
Ruanda o altrove, è in parte giustificato; ma sarebbe
assurdo desumerne il divieto a entrare in azione nel
Kosovo. Secondo punto: già da varie settimane è chiaro
che i lanci incessanti di bombe sulla Jugoslavia hanno
mancato il principale obiettivo della guerra. Lungi dal
porre fine alle deportazioni e ai massacri in Kosovo, i
bombardamenti li hanno anzi accelerati. |