L'Occidente nel labirinto
di ARTHUR SCHLESINGER Come s'è ficcata l'
Europa in questo pasticcio? Se avessimo saputo prima ciò
che sappiamo oggi dei piani e degli scopi di Milosevic,
la Nato avrebbe potuto far cessare la pulizia etnica
serba qualche tempo fa. Il guaio, come ha sottolineato
Henry Kissinger in un contesto diverso, è che
"quando lo spazio per agire è massimo, la
conoscenza su cui basare l' azione è limitata o
precaria. Quando la conoscenza diventa disponibile, la
capacità di incidere sugli eventi è di solito al
minimo". Quando abbiamo cominciato a capire quali
erano le intenzioni di Milosevic, il ventaglio delle
scelte aperte dinanzi a noi era ormai drammaticamente
ristretto. Appare arduo immaginare che cos' altro si
sarebbe potuto fare negli ultimi tre anni. LA diplomazia
non ha fermato Milosevic, e lo stesso è vero della
minaccia delle bombe e, finora, delle bombe stesse. Negli
Stati Uniti, il Kosovo fa esplodere un dibattito svoltosi
per molto tempo in sordina, che riguarda il futuro del
ruolo statunitense negli affari mondiali. Benché si
tratti in effetti di una nuova fase in un dibattito
antico tra isolazionisti e internazionalisti, la
posizione dell' America in quanto l' unica superpotenza
rimasta conferisce a una vecchia controversia un peso e
un' intensità nuovi. La tesi contraria all' intervento
nel Kosovo è argomentata con chiarezza e vigore da Pat
Buchanan, un ex scrittore di discorsi per Richard Nixon,
nonché un perenne candidato alla nomination
presidenziale repubblicana e un isolazionista classico
della vecchia scuola. Gli Stati Uniti, afferma Buchanan,
non hanno nessun interesse nazionale a scendere in campo
in una guerra civile nei Balcani. In ogni caso, non
abbiamo nessun diritto di interferire negli affari
interni di altre nazioni; e quando lo facciamo l' unico
risultato che otteniamo è di peggiorare le cose per
coloro che ci proponiamo di aiutare, come è
innegabilmente avvenuto nel Kosovo. Le nostre bombe hanno
unito i serbi dietro l' esecrabile Milosevic, facilitando
la sua pulizia etnica e provocando vittime innocenti, il
cui numero cresce ogni giorno che passa. Che i Balcani
cuociano nel loro brodo: è questa l' dea degli
isolazionisti. Quando si stancheranno di ammazzarsi a
vicenda, emergerà la pace. Non possiamo imporre con la
forza la pace a una terra satura di odio e di storia.
Come ha detto una volta James Baker, il Segretario di
Stato di George Bush: "Non abbiamo nessuna posta in
giuoco in questa battaglia". Perché mai - domandano
gli isolazionisti - i ragazzi americani dovrebbero morire
per il Kosovo? Storicamente, gli Stati Uniti si sono
fatti strappare dal loro tradizionale isolazionismo
soltanto quando sono emerse minacce dirette e tangibili
alla loro sicurezza nazionale. Una sfida del genere fu
rappresentata dalla Germania nella Grande Guerra, dalla
Germania e dal Giappone nella seconda guerra mondiale e
dall' Unione Sovietica nella Guerra Fredda. è ridicolo
pensare che la Jugoslavia di Milosevic rappresenti una
minaccia comparabile. Inoltre, aggiungono gli
isolazionisti, quando noi americani mettiamo in campo il
nostro peso e agiamo come il giudice, la giuria e il
gendarme del mondo, le altre nazioni guardano a noi con
una diffidenza e un' avversione crescenti. Cosa più
grave, ci mostriamo infedeli alle nostre migliori
tradizioni, e così facendo corrompiamo noi stessi.
Buchanan è nella tradizione di John Quincy Adams, un
grande Segretario di Stato del primo Ottocento.
"Ovunque è stata - o sarà - innalzata la bandiera
della libertà e dell' indipendenza", disse
memorabilmente Adams nel 1821, "là sarà il cuore
<dell' America&, là saranno le sue benedizioni e
le sue preghiere. Ma essa non esce dai suoi confini in
cerca di mostri da distruggere". Se lo facesse,
"rischierebbe di diventare il dittatore del mondo.
Non sarebbe più la padrona del suo proprio
spirito". Questo tipo di ragionamento esercita un'
attrazione potente su molti americani. Giudicando dalle
votazioni recenti, nel Congresso gli isolazionisti
occulti abbondano. Il 28 aprile la Camera dei
Rappresentanti ha bocciato una risoluzione che
autorizzava la guerra aerea della Nato contro la
Jugoslavia. Il 4 aprile il Senato aveva bocciato una
risoluzione che chiedeva l' impiego nel Kosovo di
"tutta la forza necessaria". Nell' interpretare
queste votazioni occorre tuttavia una certa cautela.
Accanto all' isolazionismo hanno giocato parecchi altri
fattori, e specialmente, tra i conservatori, la
perdurante irritazione post-impeachment contro Clinton, e
tra i liberals le obiezioni di carattere costituzionale
alle iniziative belliche presidenziali. Inoltre, tanto i
conservatori quanto i liberals sono sgomenti di fronte
all' incompetenza tecnica con cui l' azione è stata
condotta. L' idea che le minacce, e poi le bombe
avrebbero fermato Milosevic rivela una stupefacente
ignoranza della capacità dei bombardamenti di rafforzare
il morale di tutti coloro che non vengono uccisi o
mutilati. Le assicurazioni ufficiali che non c' era
nessuna intenzione di impiegare forze di terra si sono
risolte in un invito a Milosevic a tener duro e ad
adottare la "strategia del riccio", ossia a
guadagnare tempo in attesa che giunga la sua ora. La
mancanza di preparativi per la messa in campo di forze
terrestri, e il fatto che non sia stata prevista l'
espulsione in massa dei kosovari, sollevano ulteriori
perplessità circa l' efficienza del processo
decisionale. L' attrattiva della strategia dei
bombardamenti è che minimizza le perdite americane. Ma
se il presidente lo chiede, non c' è dubbio che il
Congresso autorizzerà l' impiego di forze terrestri. I
sondaggi d' opinione rivelano un atteggiamento favorevole
a questa linea d' azione. Dopo tutto, la maggioranza
degli americani rifiuta l' isolazionismo. La televisione
mostra i volti disperati dei profughi kosovari, e gli
americani sentono che è necessario fare qualcosa per
fermare la pulizia etnica e punire i responsabili. E,
diversamente dagli isolazionisti, pensano che nei Balcani
siano in gioco vitali interessi nazionali. Come ha detto
l' ex senatore Robert Dole, il candidato presidenziale
repubblicano nel 1996: "è nell' interesse dell'
America avere un' Europa stabile, democratica e
prospera". In effetti, in America la tesi favorevole
all' intervento militare ha trovato il suo difensore più
energico nel primo ministro britannico Tony Blair, in
occasione di un suo recente discorso a Chicago. Per l'
Europa, sostiene Blair, è una vergogna tollerare
atrocità come la guerra di Milosevic contro i kosovari.
Il Kosovo è un banco di prova della capacità dell'
Europa di ritrovare se stessa. Il futuro dell' unità
europea non dipende soltanto dall' euro; esso dipende, in
una misura molto maggiore, dalla capacità di agire
collettivamente in difesa dei valori di civiltà del
continente. Se l' Europa fallisce questo test, il prezzo
sarà l' aumento della discordia, dell' instabilità e
del terrorismo. è giusto demonizzare Milosevic. è stato
lui, e soltanto lui, a provocare la tragedia della
Jugoslavia. Ma è sbagliato demonizzare il popolo serbo.
Anche i serbi sono stati vittime. Durante la seconda
guerra mondiale, il più efferato movimento fascista
(dopo i nazisti) fu quello degli ustascia di Ante Pavelic
in Croazia. Gli ustascia assassinarono centinaia di
migliaia di serbi. E ancora nel 1995 i croati del
presidente Tudjman hanno praticato la pulizia etnica
nella Krajina, scacciando 200.000 serbi con una
spietatezza paragonabile a quella che ha presieduto all'
espulsione dei kosovari. Allora, la Nato non reagì come
sta reagendo adesso. Quale strada imboccare a questo
punto? Una guerra terrestre presenta difficoltà
logistiche, e minaccia di provocare perdite pesanti, di
prolungarsi fino ai rigori dell' inverno e di portare i
combattimenti fino a Belgrado. Non sappiamo decidere se
rovesciare Milosevic e processarlo come criminale di
guerra, oppure trattarlo come una controparte negoziale.
Mentre cresce il desiderio di porre fine al conflitto e i
russi entrano in scena, è probabile che Milosevic
sopravviva, e il futuro rimane comunque oscuro. Al
momento, tutte le opzioni sono terribili. La tragedia del
Kosovo è uno di quei labirinti medievali che non
sembrano offrire via d' uscita. (Traduzione del Gruppo
Logos) ***Schlesinger è stato assistente del presidente
Kennedy, professore di Storia alla CUNY e autore di vari
saggi. Attualmente sta scrivendo le sue memorie.
(13 maggio 1999)
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Sotto le bombe
di Radio Guerra
di ALBERTO ARBASINO
Le guerre postmoderne appaiono
cambiatissime, perché si combattono tra le funzioni
avanzate nelle tecnologie delle armi contro quelle dei
media. Però la gente in gran parte cambia poco, e dunque
i danni psicologici e spirituali rimangono più o meno
gli stessi.
Come ai tempi delle baionette del Duce e dei cinegiornali
Luce. Mentre la Storia si rivela una maestra sempre più
inutile, per chi non ha memoria. Malgrado quei fantasmi
che poi ritornano intatti, come nella psicoanalisi da
film di Hitchcock. Basta un po' di povere rimembranze
infantili. Come si vive, cosa si prova e si pensa, sotto
le bombe in testa? Chi ci ha passato mesi e anni, piccolo
pseudo-vincitore e poi disgraziato sconfitto,
improvvisamente ricorda tutto. Poveri bambini in cantina,
fra le esplosioni, ridacchiando come coglioncini su
"Re Giorgetto d' Inghilterra / per paura della
guerra / chiede aiuto e protezione / al ministro
Ciurcillone". MENTRE gli studenti più grandi e alla
moda saltavano le lezioni e sfilavano in corteo
applauditi dalle ragazze più moderne quando scandivano:
"Nizza, Savoia, Corsica fatal, Malta baluardo di
romanità!". E poi gli "eia, eia, alalà!"
in aggregazione e coinvolgimento, con gli inni dei
sommergibili rapidi ed invincibili (o forse invisibili),
e tutte le Canzoni del Tempo di guerra trasmesse ogni
sera dopo il Giornale Radio. Un immenso successo tra i
giovani: ci si passavano i fascicoli con parole tipo
"colpir, e seppellir, ogni nemico che si incontra
sul cammino". Mentre i più
"sophisticated" mondani, sotto le bombe di
Roosevelt, invocavano la "Blue Moon" e le
stelle d' America, in italiano: "Ma tu, pallida luna
perché... In questa polvere di stelle vedo te"...
(Ma solo i più ammirati gagà sussurravano che quella
star dust era cocaina: "un leggendario lusso per
nababbi!"). Tutte le casalinghe si ripetevano, nelle
portinerie: "Siamo nelle mani di una manica di...
Bocca mia taci! Chissà se quelli ci pensano, a quello
che fanno. Qui ci vanno di mezzo i bambini. E i figli
sono figli. E chi muore giace. Signora mia, se tutti i
grandi della terra si potessero riunire una volta nel mio
tinello, gustando il mio famoso sformato si metterebbero
d' accordo in quattro e quattr' otto". (E le nonne:
brave, arrivano loro). La radio lodava sempre la buona
tenuta del Fronte Interno, attentissima nell'
assegnazione di aggettivi-chiave come glorioso, fraterno,
miserabile, immancabile, immutabile, immarcescibile; e si
abbandonava a continue mazurche, popolari e autarchiche,
e a ritornelli sulla fortuna di vincere al Lotto.
Dicevano gli spiritosi da caffè: "Ottimo, disse il
presentatore assaggiando il surrogato. Indi vomitò e
svenne". Gli intellettuali si dividevano da sé in
caratteristiche categorie d' epoca: strateghi da
tavolino, mormoratori disfattisti, fautori del regime,
panciafichisti, pericolosi estremisti, pseudo-idealisti,
ascoltatori di radio nemiche (cioè alleate). I giornali
erano pieni di "calorose adesioni". Quanto si
aderiva. Soprattutto a "radiose giornate" con
sfilate di camerati, legionari, squadristi, militi,
massaie rurali, cappellani militari, vedove di guerra,
ciechi di guerra, squadre di "baldi giovani"
desiderosi di "menare le mani" sotto i labari e
i fasci e i gagliardetti e le aquile dei prodi
battaglioni universitari e dei brillanti ingegni
littoriali. E giù bombe, intanto. Le discussioni nel
"fronte interno" erano accanitissime. Ben
vengano le bombe alleate perfino su Montecassino e sulla
Scala (perdite rimediabili) pur di liberare la Patria
dall' infausto regime e consegnarla ai sei partiti
democratici. Gli italiani sono remissivi e buoni, bisogna
aiutarli a liberarsi di quel buffone, anche a costo di
distruggere il Paese. I tedeschi no, sono tutti complici
di Hitler, dunque si meritano la distruzione totale.
Frattanto, andando e tornando da scuola in bicicletta, si
incappava sempre nei rastrellamenti e mitragliamenti
tedeschi lungo le strade, nelle sparatorie alleate dai
caccia in picchiata (col tipico sibilo, seguito dal
ta-ta-ta e dal rimbalzo dei bossoli) e nelle vendette
porta a porta dei fascisti locali. Dunque si andava a
lezione d' inglese, ci si chiedeva se i cugini irlandesi
(che avevano sempre mandato gli auguri di Natale)
abitassero ancora a Londra dopo il blitz, e se per i
prossimi corsi d' inglese sul posto le pensioni più
convenienti sarebbero ancora a Notting Hill Gate; e per
non portarsi dietro i soldi, se non sarebbe stato il caso
di combinare dei cambi "au pair" con i primi
conoscenti inglesi in arrivo dopo la guerra. Scarse le
differenze con l' oggi. Hitler lo si vedeva nei
cinegiornali, anche più spesso di Mao negli anni
sessanta, ogni volta che si andava a un film con Alida
Valli o Amedeo Nazzari o Totò; e non veniva in mente di
paragonarlo a nessun altro. L' Eiar faceva in pratica da
sé un blob fra guerra e varietà e canzoncine
pubblicitarie, come in ogni zapping attuale. Mancavano i
complessini musicali che invocano la pace sotto sigle
tipo "Attack" o "Kombat". E gli
intellettuali dell' ancorché e del benché non facevano
la fila per sottoscrivere i loro sebbene e quantunque.
Anzi, la cacciata del Duce da parte del Gran Consiglio
(allora liquidata dalle brave nonne con "finalmente
un briciolo di buon senso, santa Madonna")
diventerà un gesto fra i più coraggiosi del Novecento
italiano, fra giganti della disobbedienza civile come
Eduardo ("nun me piace o' presepe") e Montale
("ciò che non siamo, ciò che non vogliamo").
(12 maggio 1999)
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L'impotenza del Cristianesimo
di OLIVIER CLEMENT*
Ha un senso il processo che viene fatto
all' ortodossia in rapporto alla guerra in corso? In ogni
uomo, in ogni società, esiste una pulsione di morte, e
quando lo Stato l' incoraggia, può accadere che essa si
scateni. è ciò che Milosevic (che è un criminale) fa
nel Kosovo. Ma al principio degli anni Quaranta gli
ustascia croati massacrarono tre o quattrocentomila
serbi, costringendone altri centoquarantamila a
ribattezzarsi. A mio giudizio, tutto questo non è una
buona ragione per mettere in questione né l' ortodossia
né il cattolicesimo. Ciò che clamorosamente si
manifesta qui è l' impotenza del cristianesimo, e la sua
utilizzazione da parte di quella forma d' idolatria che
è il nazionalismo. Che cos' è d' altronde, oggi, la
"religione" nei Balcani? Se si eccettuano le
rare figure propriamente evangeliche, di cui riparlerò,
la "religione" designa un' appartenenza
psico-sociologica, il cui criterio è la nascita.
L'Eroe del romanzo di Draskovic, "Il coltello",
allevato nella comunità musulmana, scopre, sconvolto,
che è "cristiano", perché cristiani erano i
suoi genitori. I due terzi dei serbi non sono battezzati,
e gli altri sono assai poco praticanti. Molti di questi
"ortodossi" si dichiarano atei. Il nazionalismo
in panni religiosi è in realtà la forma balcanica della
secolarizzazione. Perché allora questa
quasi-identificazione, nel mondo ortodosso, della
dimensione nazionale e di quella religiosa? Si risponde
spesso: perché l' impero bizantino, la matrice di questo
mondo, praticava un cesaropapismo integrale, nel cui
quadro l' ortodossia non era nient' altro che l'
ornamento e lo strumento dello Stato. Ma gli studi più
recenti mostrano che le cose non stavano affatto così, e
che la società bizantina era in realtà
"bipolare": a un polo stavano l' imperatore e
tutta una tradizione romana e umanistica, con la
codificazione del diritto romano, il culto letterario di
Omero e l' università imperiale che proteggeva la libera
ricerca filosofica; all' altro polo c' erano i monaci,
difensori indomiti dell' indipendenza spirituale della
Chiesa.
Nel XIV secolo, all' epoca del "rinascimento dei
Paleologhi", queste due correnti, per lungo tempo
antagoniste, confluirono in una straordinaria forma di
umanesimo cristiano: "Tutto è nella coscienza e
nella libertà", diceva un Nicola Cabasilas. I
monaci, come più tardi, in Russia, i "folli in
Cristo", seppero prendere le difese degli umili. Ai
vescovi, usciti dal monachesimo, era riconosciuto un
diritto di rimostranza e di intercessione. Fu la
posizione di san Filippo da Mosca davanti a Ivan Il
Terribile, ed è oggi quella del vescovo del Kosovo,
Artemio, davanti a Milosevic. Nella realtà profonda
dell' ortodossia si è verificata una lacerazione non
dichiarata: alcuni hanno aderito alla concezione
"olistica" di una Chiesa di Stato, altri sono
rimasti legati all' idea che la Chiesa, pur fecondando la
storia, la supera e può giudicarla. Ma sull' ascesa
delle nazionalità, alla fine del Medioevo, quando l'
Impero "romano" d' Oriente si disgregava, pesò
un duplice handicap. Da un lato il sogno di assumere la
vocazione imperiale, ossia la protezione della "vera
fede". Fu il sogno effimero della Serbia, vasto
regno aperto tanto all' Occidente quanto all' Oriente,
costruito attorno al Kosovo, di cui una stupefacente rete
di chiese di villaggio, di monasteri, di templi funerari
principeschi, di eremitaggi trogloditici faceva una sorta
di "terra santa"; un sogno schiacciato dagli
Ottomani nel 1389.
L'eredità di Bisanzio passò durevolmente alla Russia,
che combatté durante tre secoli per respingere i due
avversari dell' ortodossia: il cattolicesimo (soprattutto
nella forma dell' uniatismo) e l' Islam. D' altra parte,
i Balcani furono integrati in un impero multinazionale
musulmano - l' impero ottomano - la cui dominazione durò
cinque o sei secoli, impedendo per lungo tempo ogni
sviluppo intellettuale. I turchi trapiantarono in Europa
l' organizzazione che era la loro nelle steppe dell' Asia
centrale: uomini-greggi-cani. Il gregge - il raa - era
formato dai cristiani, i cani erano i giannizzeri. Ci s'
impadroniva dei ragazzi più belli e vigorosi del raa,
perché crescessero in un Islam mistico e guerriero e
diventassero dei giannizzeri. Un' "imposta del
sangue", di cui Ivo Andric, per fare un esempio, ha
saputo parlare mirabilmente. In questo contesto, la
Chiesa fu il rifugio delle nazionalità cristiane, di cui
salvò le lingue, le usanze e talvolta (in Montenegro) l'
indipendenza. Tanto più che secondo la concezione
unitaria dell' Islam, vescovi e patriarchi erano
responsabili sul terreno civile del "millat"
ortodosso. Quando, alla fine del XVIII secolo, questo
sistema s' indebolì, l' ortodossia conobbe un profondo
rinascimento spirituale, il movimento
"filocalico" (Filocalia, ossia "amore
della bellezza", è il titolo di una grande
antologia pubblicata a Venezia nel 1782). Ma questo
movimento ebbe conseguenze specificamente culturali
soltanto in Russia (e in minor misura nei territori
romeni). Nelle élites balcaniche prevalse invece il
"movimento dei lumi", che comportava il diritto
dei popoli a disporre di se stessi; un diritto di cui si
avvalsero con una violenza tanto maggiore, in quanto
erano stati oppressi per più di cinquecento anni.
Presero forma Stati nazionali, e ciascuno di essi, sul
modello luterano, organizzò la sua Chiesa sulla base di
una quasi-indipendenza (l' autocefalia), e l' integrò
nell' apparato statale. La Chiesa, in cui il monachesimo
aveva perso il suo vigore di un tempo, fu in parte
strumentalizzata dallo Stato. Ma solo in parte, giacché
affermò la sua specifica vocazione da un lato con il
concilio del 1872, e dall' altro con le grandi creazioni
russe, da Dostoevskij alla filosofia religiosa; e, nei
Balcani, con le grandi sintesi dogmatiche serbe e romene
(Popovic, Staniloea).
Quanto al resto, fino alla seconda guerra mondiale i
Balcani conobbero una cultura "laica"
pienamente europea; e in specie i serbi ebbero scrittori,
artisti e cineasti di livello comparabile a quello dell'
Europa occidentale, e che dettero spesso prova di un
umorismo surrealista che oggi, in questa guerra folle,
diventa una colossale derisione. La grande preoccupazione
politica era d' altronde quella di unire gli slavi del
Sud ("jugoslavi"), qualunque fosse la loro
"etnia" e la loro "religione". Ma, di
nuovo, tutto fu annientato dall' integrazione di questi
paesi nella sfera marxista: certo, l' "eresia"
titoista appassionò per un breve momento l'
intellighenzia di sinistra occidentale, ma schiacciò le
Chiese e l' Islam, accelerò la secolarizzazione e
trasformò le comunità religiose in "etnie".
Dopo il crollo generale del comunismo, i dirigenti si
rifiutarono di abbandonare il potere, e credettero di
trovare nel nazionalismo un' ideologia sostitutiva.
Milosevic si adoperò a risuscitare vecchi miti, a
riattizzare vecchi odii; e tutto si cristallizza nel
problema del Kosovo, la culla della nazione occupata da
una maggioranza albanofona - da lungo tempo gli albanesi
erano diventati nella loro stragrande maggioranza
musulmani, ed erano stati i collaboratori degli Ottomani.
Per Milosevic è stato facilissimo fare di questi
kosovari dei capri espiatori (un elemento indispensabile
a ogni concezione passionale). Qual è, in tutto questo,
la responsabilità dell' ortodossia? Certo, esistono
vescovi ultranazionalisti che hanno contribuito all'
esaltazione mitica del Kosovo. Ma molti altri sono dei
moderati, rispettosi dei diritti dell' uomo. E l'
episcopato serbo non ha mai chiesto l' espulsione dei
kosovari "musulmani". Vicina a Milosevic quando
si trattava di riunire in un unico Stato tutti i serbi,
compresi quelli di Bosnia, la Chiesa se ne è ora
radicalmente distaccata; e la moglie di Milosevic ha
moltiplicato gli attacchi anticristiani. Anche oggi,
quando le incursioni aeree cementano questo popolo fiero,
i vescovi serbi chiedono che tutti gli abitanti del
Kosovo possano vivere insieme nella giustizia e nel
reciproco rispetto.
Il vescovo del Kosovo, Artemio, e il monaco Sava, della
stessa regione, hanno preso energicamente le difese dei
kosovari, e dal canto suo il primate della piccola Chiesa
ortodossa d' Albania, Anastasio, un uomo di grande
cultura e di alta spiritualità, si spende senza
risparmio, sino allo sfinimento, per soccorrere i
profughi. Forse questa crisi aiuterà l' ortodossia del
Vangelo e della Filocalia a prevalere definitivamente
sull' ortodossia del nazionalismo. Infine, dobbiamo
pensare che esistano due Europe, di cui l' altra non
sarebbe del resto davvero europea? Io credo che esistano
piuttosto degli scarti temporali, provocati dalle due
lunghe parentesi (in Oriente) ottomana e comunista.
Questi scarti, con un po' di pazienza, saranno superati,
e cesseranno di alimentare in Oriente un complesso d'
inferiorità/superiorità, e in Occidente un sentimento
di estraneità ("loro" e "noi") e di
disprezzo. Nell' Ottocento e nella prima metà del nostro
secolo, il nichilismo ancora celato dell' Occidente è
stato smascherato dalla cultura "ortodossa", la
quale - da Dostoevskij a Berdjaev - ha cominciato a
elaborare delle risposte in termini non di rifiuto ma di
superamento. In Italia, per fare un esempio, compaiono in
continuazione ottimi studi sui grandi filosofi russi. La
Filocalia viene tradotta dappertutto, e l' icona registra
un' analoga diffusione. In entrambi i campi il tema
centrale del pensiero è la persona, con un'
accentuazione più individualistica in Occidente e più
comunitaria in Oriente. Le due cose non si escludono, ma
si completano reciprocamente. Un contadino dell' Italia
meridionale è più vicino a un contadino greco che a un
imprenditore agricolo inglese o svedese. In realtà, non
esistono due Europe, ma molte Europe. Ed è meglio così.
L' Europa non deve diventare americana. Essa deve invece
assumere la sua propria diversità. Per una civiltà non
del vuoto e del sesso, ma dell' essere e del volto.
*L' autore è un teologo ortodosso
(12 maggio 1999)
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Storia di un etnocidio
di JUAN GOYTISOLO
A motivo di circostanze personali,
nessuno più di me può detestare i bombardamenti aerei,
compresi quelli che secondo l'alto comando alleato
provocano un minimo di "danni collaterali"
(leggi: perdite di vite umane tra la popolazione civile).
Eppure, credo che in mezzo alla discordante sequela di
voci e all'incessante flusso di immagini della tragedia
del Kosovo, corriamo il rischio di confondere effetti e
cause, il problema umano dei profughi e la pulizia
etnica, pianificata sin dalla firma del Trattato di
Versailles, nel 1919, con la creazione del Regno dei
Serbi, dei Croati e degli Sloveni.
Lo spirito cetnico (l'ultranazionalismo serbo, al quale
ha fatto riscontro il clone degli ustascia croati) ha
impregnato la Jugoslavia, quale era tra il 1919 e il
1941, del suo misticismo slavo-ortodosso e della sua
affermazione identitaria. La sola presenza di musulmani,
bosniaci o kosovari albanesi sul sacro suolo della patria
perpetuava l'"offesa storica" dell'invasione
ottomana del XIV secolo e l'epica sconfitta del principe
Lazaro.
Dopo l'aggressione nazista - con la complicità dei
fascisti croati - i partigiani di Tito si sono imposti,
nella lotta contro l'invasore, ai cetnici, consentendo
così la creazione della Federazione Jugoslava, che ha
retto alla meno peggio, in un precario equilibrio, per
quattro decenni. Con la morte del dittatore e la
successiva ascesa al potere di Milosevic nella Repubblica
serba, la situazione interetnica si è andata fatalmente
evolvendo verso un confronto generalizzato.
L'abolizione dello statuto di autonomia del Kosovo e
della Vojvodina, nel 1989, è stato il primo passo sulla
via dei successivi disastri che hanno provocato
l'implosione della Federazione Jugoslava, l'indipendenza
della Slovenia, della Croazia e della Bosnia, la
distruzione di Vukovar e di Sarajevo, il brutale assedio
di Mostar, il genocidio di Srebrenica.
Per chi conosce l'ideologia ultranazionalista serba,
abbracciata da Milosevic, a tutto danno del suo proprio
popolo, per conquistare e mantenere il potere,
l'etnocidio del Kosovo era scritto fin dal 1992. Perciò
è sconvolgente la miopia della classe politica europea,
la sua ineffabile sorpresa di fronte
all'"ostinazione" di Milosevic nel portare
avanti i suoi piani.
Ricordo l'impressione che ho provato, fin dall'inizio
della smodata campagna propagandistica panserba, vedendo
una trasmissione dedicata al grande ras di ciò che resta
della Federazione Jugoslava. Le parole di questo
Milosevic tuttora comunista avrebbero potuto essere
quelle di un qualsiasi vescovo o capo falangista, durante
la "Crociata della Salvezza" del Generalissimo
Franco. La sua retorica, con il ricorso rozzo e
aggressivo a una mitologia infarcita di simboli identici
a quelli del cattolicesimo nazionalista spagnolo, mi
hanno ridestato il ricordo di esperienze amare; e ho
scoperto che Rodrigo, il Guadalete, Covadonga, Santiago,
la distruzione della Sacra Spagna, la resurrezione della
patria a opera di un pugno di eroi ecc. avevano l'esatto
equivalente in versione serba.
Se tre anni dopo sono andato a condividere con i bosniaci
gli orrori dell'aggressione serba, è stato per obbedire
a una motivazione, a un'urgenza che avevano radici
profonde. Il discorso irrazionale, anzi delirante di
Milosevic, carico d'odio e di disprezzo per i bosniaci
musulmani e i kosovari albanesi, non differivano di molto
dalle diatribe antisemite dei nazisti, né da quelle di
Le Pen contro gli immigrati. Per questo, è difficile
comprendere quelli che oggi protestano contro la barbarie
della Nato, anche perché non hanno aperto bocca quando
Sarajevo subiva un assedio medievale, ma condotto con
armi moderne, durato tre anni e mezzo. Le loro
proclamazioni pacifiste di facciata mettono sullo stesso
piano gli aguzzini e le vittime, gli assedianti e gli
assediati.
Davvero questi virtuosi filistei credono che centinaia di
migliaia di kosovari stiano fuggendo per paura dei
bombardamenti? Ignorano ancora che tutto questo era stato
accuratamente programmato dai nazionalisti serbi, diversi
anni prima che esplodesse il prevedibilissimo conflitto?
Quale virus si è infiltrato nel ragionamento di questa
"Izquierda Hundida" che sfila con l'innocenza
di una colomba, o con odiosa ipocrisia, al grido di
"pace, pace"? Non ci si rende conto che questa
pace, la pace reclamata ora da Milosevic, è quella dei
cimiteri?
Se spiace dover constatare il crescente travaso di voti
comunisti francesi nel Fronte Nazionale, è vergognoso
veder manifestare i residuali Pc della penisola iberica a
fianco di calciatori serbi miliardari, protetti dal
tristemente celebre Arkan. E'vero che il caos ideologico
e sociale creato dal Nuovo Ordine Mondiale e dai
conseguenti sconquassi promuove fenomeni di questo
genere. Tre anni fa, a un comizio elettorale a Mosca, ho
visto il pubblico brandire a un tempo ritratti di Stalin
e icone di San Basilio, mentre alcuni zelatori
distribuivano il Manifesto di Marx e Engels e il
Protocollo dei saggi di Sion. Gli estremi, non contenti
di toccarsi, si accoppiano e generano nuovi spauracchi e
mostri.
Spesso le descrizioni e le diagnosi più acute dei mali
che ci colpiscono sono quelle degli autori più lontani
dalla politica. È il caso del romanziere Manuel Puig, la
cui percezione letteraria degli orrori della dittatura
militare argentina vale quanto cento discorsi e analisi
sociopolitiche. E lo stesso può dirsi di due annotazioni
di Borges, di sorprendente attualità. Nella prima,
contenuta in un commento dell'opera di Wells "Guide
to the New World", lo scrittore ci offre una
descrizione ante litteram dei naufraghi della
"Izquierda Hundida": "Questi vindici della
democrazia, che si credono molto diversi da Goebbels,
esortano i loro lettori, usando lo stesso gergo del
nemico, ad ascoltare i palpiti di un cuore che raccoglie
gli ultimi comandi del sangue e della terra." La
seconda sembra una descrizione di Milosevic - di
"quel povero Milosevic", compatito ancora
recentemente da un distinto commentatore, in questi
giorni di orrore e di indignazione per gli avvenimenti
del Kosovo (compresi i bombardamenti della Nato).
"Mi azzardo a una congettura - scriveva Borges il 23
agosto 1944 - che Hitler collaborasse ciecamente con gli
inevitabili eserciti che dovevano annichilirlo, così
come misteriosamente gli avvoltoi metallici e il drago
collaboravano con Ercole". Non so quanto la
patologica megalomania di Hitler sia comparabile a quella
di Milosevic, il quale forse non vorrà spingere le sue
"prodezze" fino al culmine di un grandioso
suicidio con accompagnamento di musica di Wagner. E'più
probabile che concluda la sua carriera davanti al
Tribunale internazionale dell'Aja, insieme ai suoi
accoliti serbo-bosniaci e ai massacratori croati. Ma le
rispettive macchine propagandistiche e i loro metodi di
eliminazione delle etnie indesiderabili si assomigliano.
Certo, sul piano dell'efficienza, il mattatoio
industriale di Hitler superava di molto la polizia e
l'esercito serbi. Ma in quel caso come in questo, un
popolo che soccombe alla magniloquenza di un barbaro
discorso di glorificazione di sé e di demolizione
dell'altro può salvarsi solo con l'uscita di scena del
capo che lo ha sprofondato nell'abisso. Il cieco amor
patrio - sintesi letale tra una terra astratta e un dato
gruppo sanguigno - conduce a volte ad assurdità come
quella di una canzone che dice: "L'ho uccisa perché
era mia".
Juan Goytisolo è uno scrittore di Barcellona. In
Italia ha pubblicato: Giochi di mano, Fiesta, Lutto
in paradiso, Don Juan e L'isola
(11 maggio 1999)
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Franco, Stalin e Milosevic
di DANIEL PENNAC
Franco è morto nel suo letto, Salazar
è morto nel suo letto, Stalin è morto nel suo letto,
Mao è morto nel suo letto, Pol Pot è morto nel suo
letto, Pinochet, Videla, Baby Doc, Amin Dada, Saddam
Hussein moriranno nel loro letto, e Milosevic...
Milosevic morirà nel suo letto.
Ecco perché non voglio scrivere del Kosovo. Questa
guerra - una delle più abominevoli - è oggi possibile
solo perché noi, democratici, umanisti, modelli di
civiltà, lucidi analisti, virtuosi gaudenti, prefiche
irreprensibili ma eccellenti mercanti d'armi, abbiamo
permesso che i più atroci Milosevic di questo secolo
vivessero e morissero nel loro letto, rimboccando le loro
coperte.
D'accordo, esagero... Forse un giorno Milosevic verrà
processato, o eliminato dai suoi amici. Non perché sia
più cattivo dei suoi fratelli maggiori, ma solo più
stupido, troppo vistoso per la nostra sensibilità di
guardoni.
Nel frattempo, alcuni popoli scompariranno.
La televisione filmerà la loro agonia.
E si continuerà a domandare ai romanzieri che cosa
pensino della guerra, della televisione e dei popoli che
muoiono sulle strade.
(11 maggio 1999)
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Ma la guerra pulita
può essere inutile
di MARIO VARGAS LLOSA
La "guerra etica" del Kosovo,
come l'ha chiamata Tony Blair, intrapresa dalla Nato e
sostenuta dall'opinione pubblica dei paesi occidentali
per impedire il genocidio del popolo kosovaro albanese,
sta prendendo una deriva che, assurdamente, potrebbe
culminare con la disfatta morale dell'Alleanza Atlantica
e con il consolidamento della tirannia di Milosevic.
Cos'è andato storto? Non la decisione di attaccare il
dittatore serbo. L'intransigenza di questo, il suo
rifiuto di fare la minima concessione sul Kosovo a
Rambouillet e la mobilitazione dell'esercito jugoslavo
per iniziare la pulizia etnica non lasciavano
alternativa.
Orbene, le guerre si dichiarano per vincerle e con un
obiettivo perfettamente definito. Il sostegno che
l'iniziativa militare della Nato aveva ricevuto da tutte
le democrazie del mondo partiva dal presupposto che
questa azione bellica avrebbe messo fine alla tirannia di
Milosevic, ostacolo principale per una pace negoziata nel
Kosovo nonché maggiore responsabile della tragedia dei
Balcani. Dopo quello che era accaduto in Bosnia, nessuno
poteva avere il minimo dubbio che, finché il dittatore
serbo avesse conservato la sua forza operativa, non ci
sarebbe stata una soluzione duratura per il problema del
Kosovo e che ogni accordo sarebbe stato precario e
vigente soltanto finché un'enorme e costosa forza
internazionale spiegata sul territorio l'avesse fatto
rispettare.
A quasi un mese e mezzo dall'inizio dei bombardamenti
della Nato, i governi occidentali non parlano più di far
cadere Milosevic, né di distruggere il suo esercito. Al
contrario, Clinton, nella sua visita alle truppe
americane in Germania, ha affermato che quella misura non
faceva parte degli obiettivi della Nato e il primo
ministro francese, Lionel Jospin, ha moltiplicato in
questi giorni i gesti di pacificazione verso Milosevic,
offrendosi di fermare gli attacchi se il leader serbo
dovesse iniziare il ritiro delle sue truppe dal Kosovo.
La spiegazione apparente di questo cambiamento di
atteggiamento è quella di sostenere gli sforzi mediatori
della Russia, rimasta offesa dall'olimpico fare a meno
del Cremlino mostrato dall'Alleanza Atlantica. Ma, in
realtà, la nuovissima moderazione di Clinton, Jospin e
sicuramente di altri dirigenti dei paesi della Nato, è
dovuta al fatto che l'opinione pubblica ora non appoggia
più questa guerra come all' inizio. Gli oppositori
aumentano da tutte le parti e, anche tra coloro che
continuano a sostenerla perché la considerano il male
minore, si moltiplicano le critiche alla confusione e
agli errori che caratterizzano la conduzione militare e
politica dell'intervento alleato.
In effetti, che razza di guerra è questa nella quale le
sofferenze e le violenze che essa causa non sembrano
destinate a distruggere l'esercito nemico bensì,
fondamentalmente, a evitare che le truppe alleate
subiscano una sola perdita? Pur con tutta la ripugnanza e
il disprezzo che può ispirare la satrapia di Milosevic,
è difficile avere la sensazione che quei piloti alleati
i quali, per non essere raggiunti dall' artiglieria
antiaerea serba, scaricano le loro bombe da diecimila
metri di altezza, facendo saltare a volte treni, autobus,
carri, case e polverizzando pacifici contadini, lottano
per una causa giusta. Il trionfo della battaglia
pubblicitaria di Milosevic è stato finora totale. Sugli
schermi televisivi e nei giornali occidentali i morti
innocenti della bombardata Jugoslavia appaiono,
quotidianamente, come simboli dell'arroganza prepotente e
della codardia e della stupidità di una strategia che
non sa cosa vuole né come raggiungerla.
L'idea di una "guerra pulita" è
concettualmente uno sproposito, a meno che non si traduca
nel disegno apocalittico di annientare ogni forma di vita
sul territorio nemico con bombe atomiche. Sì, in teoria,
questa sarebbe una forma di guerra pulita, con vittime e
morti da una sola delle parti in causa. Ma fare una
guerra soltanto con bombe convenzionali, dalle nuvole,
non ha finora sconfitto mai un regime. Contrariamente, è
servito a rafforzare le dittature com'è accaduto con
Saddam Hussein in Iraq e sta accadendo ora con Milosevic
in Jugoslavia. Non c'è nessuno come i tiranni per
istigare i sentimenti nazionalisti e vittimisti di un
popolo sotto le bombe, per diventare il collante
dell'unità nazionale e il difensore della sovranità
minacciata dal nemico straniero.
Invece d'indebolire la dittatura, la guerra pulita della
Nato ha permesso a Milosevic di eliminare e di mettere a
tacere i suoi avversari all'interno e di presentarsi come
una vittima, come un piccolo Davide eroico che resiste
alla macchina militare più potente della storia. E,
d'altronde, i bombardamenti non solo non hanno evitato la
feroce repressione del popolo kosovaro albanese, ma
l'hanno accelerata, giacché, utilizzando come pretesto
le azioni alleate aeree, l'esercito serbo ha sterminato,
strappato dai loro villaggi e obbligato a partire verso
l'estero, privi di tutti i loro beni - inclusi i
documenti d'identità - più di un milione e mezzo di
albanesi del Kosovo. La "guerra pulita" è
stata, così, uno strumento validissimo nella strategia -
questa sì perfettamente chiara e implacabilmente
perseguita - della dittatura serba per "pulire"
il Kosovo.
Rifiutare l'utilizzo di truppe di terra e annunciarlo è
stato un errore gravissimo che la Nato sta pagando caro.
Ha dato mani libere a Milosevic per consumare i suoi
sinistri disegni di pulizia etnica e per rappresentare il
ruolo della vittima. Presumere che la pressione delle
bombe lo avrebbe distrutto moralmente e spinto nuovamente
al tavolo delle trattative con un atteggiamento più
docile, era un'ipotesi arrischiata che, qualora non si
fosse avverata, avrebbe potuto portare con sé l'effetto
contrario: porre la Nato nella situazione impossibile in
cui si trova ora. Perché impossibile? Perché questa
guerra, nel modo in cui la conduce, non la vincerà. E
ogni giorno la perde un po' in termini psicologici e
morali, apparendo sempre più davanti all'opinione
pubblica mondiale come una forza che aggredisce, che
maltratta un piccolo paese debole e causa innumerevoli
morti innocenti, che allo stesso tempo è incapace di
porre fine, o persino di alleggerire, l'orribile via
crucis del popolo kosovaro albanese.
Non stupisce che, in queste circostanze, i dirigenti
dell'Alleanza Atlantica abbiano ricordato che la Russia,
dopotutto, esiste e che abbiano concesso subito un ruolo
protagonista al risuscitato Victor Cernomyrdin, inviato
di Eltsin, che va e viene tra Belgrado e Washington, con
messaggi di amicizia del presidente Milosevic. E si
sentono già i commenti concilianti nelle cancellerie. È
costui così malvagio come si credeva? Forse non tanto.
Ha fatto o non ha fatto certe concessioni a Dayton? E
proprio ora, non ha ricevuto a braccia aperte il
reverendo Jackson, l'amico di Hillary e di Bill Clinton?
Non ha pregato per la pace abbracciato a lui? Non gli ha
consegnato i tre prigionieri statunitensi perché li
riporti alle loro famiglie? Forse il reverendo Jackson
non sbaglia quando chiede al governo degli Stati Uniti di
rispondere con un gesto di comprensione agli impegni
riconciliatori e pacifisti dello statista serbo.
Per questa sinistra strada si vede spuntare, lontano, un
possibile finale per il Kosovo simile ai famosi accordi
di Dayton, celebrati in tutto il mondo come un trionfo
del buonsenso salomonico e che, in realtà, sono serviti
per legittimare la pulizia etnica in Bosnia, redimere
Milosevic da ogni responsabilità nella tragedia che ha
causato duecentomila morti nei Balcani, dargli carta
bianca per rafforzare il suo predominio autoritario in
Jugoslavia e pianificare l'operazione anti-albanese in
Kosovo. Come, attualmente, l'unica cosa che sembra avere
chiara la Nato è che i bombardamenti non danno il
risultato aspettato, né lo daranno in un futuro
immediato, e che, al contrario, stanno minando ogni
giorno di più il suo prestigio e la sua credibilità -
qualcosa di assolutamente certo -, la tentazione di
uscire dal pantano con qualche sotterfugio è molto
grande e si riflette in quel nuovo tono adottato da
Washington, Parigi e Bonn, dal quale potrebbe risultare,
in effetti, una veloce trattativa, alla maniera di
Dayton. L'Onu sarebbe la levatrice della pace e la Russia
la madrina della creatura.
Con un gesto di generosità nobilissimo, alla ricerca
della pace, Milosevic accetterebbe la spartizione del
Kosovo e si terrebbe soltanto la metà del territorio
kosovaro che confina con la Jugoslavia (guarda caso il
più prospero e moderno della provincia). I paesi
occidentali si assumerebbero il compito di tirare fuori i
dollari e i soldati della forza di pace necessaria -
sotto la bandiera dell'Onu, ovviamente - per
ridistribuire nell'altra metà i kosovari sfollati dai
loro villaggi con la forza e condannati all' abbandono e
alla miseria. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea
risarciranno in qualche modo le vittime dei bombardamenti
della Nato. Alla testa del suo popolo, come Saddam
Hussein in Iraq, Slobodan Milosevic, più forte e
imbattibile che mai, inizierà immediatamente la
ricostruzione della Jugoslavia.
(Traduzione di Guiomar Parada)
Mario Vargas Llosa, 1999 - El Pais SA e El Pais
Internacional SA
(10 maggio 1999)
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