L'Occidente nel labirinto


di ARTHUR SCHLESINGER

Come s'è ficcata l' Europa in questo pasticcio? Se avessimo saputo prima ciò che sappiamo oggi dei piani e degli scopi di Milosevic, la Nato avrebbe potuto far cessare la pulizia etnica serba qualche tempo fa. Il guaio, come ha sottolineato Henry Kissinger in un contesto diverso, è che "quando lo spazio per agire è massimo, la conoscenza su cui basare l' azione è limitata o precaria. Quando la conoscenza diventa disponibile, la capacità di incidere sugli eventi è di solito al minimo". Quando abbiamo cominciato a capire quali erano le intenzioni di Milosevic, il ventaglio delle scelte aperte dinanzi a noi era ormai drammaticamente ristretto. Appare arduo immaginare che cos' altro si sarebbe potuto fare negli ultimi tre anni. LA diplomazia non ha fermato Milosevic, e lo stesso è vero della minaccia delle bombe e, finora, delle bombe stesse. Negli Stati Uniti, il Kosovo fa esplodere un dibattito svoltosi per molto tempo in sordina, che riguarda il futuro del ruolo statunitense negli affari mondiali. Benché si tratti in effetti di una nuova fase in un dibattito antico tra isolazionisti e internazionalisti, la posizione dell' America in quanto l' unica superpotenza rimasta conferisce a una vecchia controversia un peso e un' intensità nuovi. La tesi contraria all' intervento nel Kosovo è argomentata con chiarezza e vigore da Pat Buchanan, un ex scrittore di discorsi per Richard Nixon, nonché un perenne candidato alla nomination presidenziale repubblicana e un isolazionista classico della vecchia scuola. Gli Stati Uniti, afferma Buchanan, non hanno nessun interesse nazionale a scendere in campo in una guerra civile nei Balcani. In ogni caso, non abbiamo nessun diritto di interferire negli affari interni di altre nazioni; e quando lo facciamo l' unico risultato che otteniamo è di peggiorare le cose per coloro che ci proponiamo di aiutare, come è innegabilmente avvenuto nel Kosovo. Le nostre bombe hanno unito i serbi dietro l' esecrabile Milosevic, facilitando la sua pulizia etnica e provocando vittime innocenti, il cui numero cresce ogni giorno che passa. Che i Balcani cuociano nel loro brodo: è questa l' dea degli isolazionisti. Quando si stancheranno di ammazzarsi a vicenda, emergerà la pace. Non possiamo imporre con la forza la pace a una terra satura di odio e di storia. Come ha detto una volta James Baker, il Segretario di Stato di George Bush: "Non abbiamo nessuna posta in giuoco in questa battaglia". Perché mai - domandano gli isolazionisti - i ragazzi americani dovrebbero morire per il Kosovo? Storicamente, gli Stati Uniti si sono fatti strappare dal loro tradizionale isolazionismo soltanto quando sono emerse minacce dirette e tangibili alla loro sicurezza nazionale. Una sfida del genere fu rappresentata dalla Germania nella Grande Guerra, dalla Germania e dal Giappone nella seconda guerra mondiale e dall' Unione Sovietica nella Guerra Fredda. è ridicolo pensare che la Jugoslavia di Milosevic rappresenti una minaccia comparabile. Inoltre, aggiungono gli isolazionisti, quando noi americani mettiamo in campo il nostro peso e agiamo come il giudice, la giuria e il gendarme del mondo, le altre nazioni guardano a noi con una diffidenza e un' avversione crescenti. Cosa più grave, ci mostriamo infedeli alle nostre migliori tradizioni, e così facendo corrompiamo noi stessi. Buchanan è nella tradizione di John Quincy Adams, un grande Segretario di Stato del primo Ottocento. "Ovunque è stata - o sarà - innalzata la bandiera della libertà e dell' indipendenza", disse memorabilmente Adams nel 1821, "là sarà il cuore <dell' America&, là saranno le sue benedizioni e le sue preghiere. Ma essa non esce dai suoi confini in cerca di mostri da distruggere". Se lo facesse, "rischierebbe di diventare il dittatore del mondo. Non sarebbe più la padrona del suo proprio spirito". Questo tipo di ragionamento esercita un' attrazione potente su molti americani. Giudicando dalle votazioni recenti, nel Congresso gli isolazionisti occulti abbondano. Il 28 aprile la Camera dei Rappresentanti ha bocciato una risoluzione che autorizzava la guerra aerea della Nato contro la Jugoslavia. Il 4 aprile il Senato aveva bocciato una risoluzione che chiedeva l' impiego nel Kosovo di "tutta la forza necessaria". Nell' interpretare queste votazioni occorre tuttavia una certa cautela. Accanto all' isolazionismo hanno giocato parecchi altri fattori, e specialmente, tra i conservatori, la perdurante irritazione post-impeachment contro Clinton, e tra i liberals le obiezioni di carattere costituzionale alle iniziative belliche presidenziali. Inoltre, tanto i conservatori quanto i liberals sono sgomenti di fronte all' incompetenza tecnica con cui l' azione è stata condotta. L' idea che le minacce, e poi le bombe avrebbero fermato Milosevic rivela una stupefacente ignoranza della capacità dei bombardamenti di rafforzare il morale di tutti coloro che non vengono uccisi o mutilati. Le assicurazioni ufficiali che non c' era nessuna intenzione di impiegare forze di terra si sono risolte in un invito a Milosevic a tener duro e ad adottare la "strategia del riccio", ossia a guadagnare tempo in attesa che giunga la sua ora. La mancanza di preparativi per la messa in campo di forze terrestri, e il fatto che non sia stata prevista l' espulsione in massa dei kosovari, sollevano ulteriori perplessità circa l' efficienza del processo decisionale. L' attrattiva della strategia dei bombardamenti è che minimizza le perdite americane. Ma se il presidente lo chiede, non c' è dubbio che il Congresso autorizzerà l' impiego di forze terrestri. I sondaggi d' opinione rivelano un atteggiamento favorevole a questa linea d' azione. Dopo tutto, la maggioranza degli americani rifiuta l' isolazionismo. La televisione mostra i volti disperati dei profughi kosovari, e gli americani sentono che è necessario fare qualcosa per fermare la pulizia etnica e punire i responsabili. E, diversamente dagli isolazionisti, pensano che nei Balcani siano in gioco vitali interessi nazionali. Come ha detto l' ex senatore Robert Dole, il candidato presidenziale repubblicano nel 1996: "è nell' interesse dell' America avere un' Europa stabile, democratica e prospera". In effetti, in America la tesi favorevole all' intervento militare ha trovato il suo difensore più energico nel primo ministro britannico Tony Blair, in occasione di un suo recente discorso a Chicago. Per l' Europa, sostiene Blair, è una vergogna tollerare atrocità come la guerra di Milosevic contro i kosovari. Il Kosovo è un banco di prova della capacità dell' Europa di ritrovare se stessa. Il futuro dell' unità europea non dipende soltanto dall' euro; esso dipende, in una misura molto maggiore, dalla capacità di agire collettivamente in difesa dei valori di civiltà del continente. Se l' Europa fallisce questo test, il prezzo sarà l' aumento della discordia, dell' instabilità e del terrorismo. è giusto demonizzare Milosevic. è stato lui, e soltanto lui, a provocare la tragedia della Jugoslavia. Ma è sbagliato demonizzare il popolo serbo. Anche i serbi sono stati vittime. Durante la seconda guerra mondiale, il più efferato movimento fascista (dopo i nazisti) fu quello degli ustascia di Ante Pavelic in Croazia. Gli ustascia assassinarono centinaia di migliaia di serbi. E ancora nel 1995 i croati del presidente Tudjman hanno praticato la pulizia etnica nella Krajina, scacciando 200.000 serbi con una spietatezza paragonabile a quella che ha presieduto all' espulsione dei kosovari. Allora, la Nato non reagì come sta reagendo adesso. Quale strada imboccare a questo punto? Una guerra terrestre presenta difficoltà logistiche, e minaccia di provocare perdite pesanti, di prolungarsi fino ai rigori dell' inverno e di portare i combattimenti fino a Belgrado. Non sappiamo decidere se rovesciare Milosevic e processarlo come criminale di guerra, oppure trattarlo come una controparte negoziale. Mentre cresce il desiderio di porre fine al conflitto e i russi entrano in scena, è probabile che Milosevic sopravviva, e il futuro rimane comunque oscuro. Al momento, tutte le opzioni sono terribili. La tragedia del Kosovo è uno di quei labirinti medievali che non sembrano offrire via d' uscita. (Traduzione del Gruppo Logos) ***Schlesinger è stato assistente del presidente Kennedy, professore di Storia alla CUNY e autore di vari saggi. Attualmente sta scrivendo le sue memorie.

(13 maggio 1999)

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Sotto le bombe
di Radio Guerra



di ALBERTO ARBASINO

Le guerre postmoderne appaiono cambiatissime, perché si combattono tra le funzioni avanzate nelle tecnologie delle armi contro quelle dei media. Però la gente in gran parte cambia poco, e dunque i danni psicologici e spirituali rimangono più o meno gli stessi.
Come ai tempi delle baionette del Duce e dei cinegiornali Luce. Mentre la Storia si rivela una maestra sempre più inutile, per chi non ha memoria. Malgrado quei fantasmi che poi ritornano intatti, come nella psicoanalisi da film di Hitchcock. Basta un po' di povere rimembranze infantili. Come si vive, cosa si prova e si pensa, sotto le bombe in testa? Chi ci ha passato mesi e anni, piccolo pseudo-vincitore e poi disgraziato sconfitto, improvvisamente ricorda tutto. Poveri bambini in cantina, fra le esplosioni, ridacchiando come coglioncini su "Re Giorgetto d' Inghilterra / per paura della guerra / chiede aiuto e protezione / al ministro Ciurcillone". MENTRE gli studenti più grandi e alla moda saltavano le lezioni e sfilavano in corteo applauditi dalle ragazze più moderne quando scandivano: "Nizza, Savoia, Corsica fatal, Malta baluardo di romanità!". E poi gli "eia, eia, alalà!" in aggregazione e coinvolgimento, con gli inni dei sommergibili rapidi ed invincibili (o forse invisibili), e tutte le Canzoni del Tempo di guerra trasmesse ogni sera dopo il Giornale Radio. Un immenso successo tra i giovani: ci si passavano i fascicoli con parole tipo "colpir, e seppellir, ogni nemico che si incontra sul cammino". Mentre i più "sophisticated" mondani, sotto le bombe di Roosevelt, invocavano la "Blue Moon" e le stelle d' America, in italiano: "Ma tu, pallida luna perché... In questa polvere di stelle vedo te"... (Ma solo i più ammirati gagà sussurravano che quella star dust era cocaina: "un leggendario lusso per nababbi!"). Tutte le casalinghe si ripetevano, nelle portinerie: "Siamo nelle mani di una manica di... Bocca mia taci! Chissà se quelli ci pensano, a quello che fanno. Qui ci vanno di mezzo i bambini. E i figli sono figli. E chi muore giace. Signora mia, se tutti i grandi della terra si potessero riunire una volta nel mio tinello, gustando il mio famoso sformato si metterebbero d' accordo in quattro e quattr' otto". (E le nonne: brave, arrivano loro). La radio lodava sempre la buona tenuta del Fronte Interno, attentissima nell' assegnazione di aggettivi-chiave come glorioso, fraterno, miserabile, immancabile, immutabile, immarcescibile; e si abbandonava a continue mazurche, popolari e autarchiche, e a ritornelli sulla fortuna di vincere al Lotto. Dicevano gli spiritosi da caffè: "Ottimo, disse il presentatore assaggiando il surrogato. Indi vomitò e svenne". Gli intellettuali si dividevano da sé in caratteristiche categorie d' epoca: strateghi da tavolino, mormoratori disfattisti, fautori del regime, panciafichisti, pericolosi estremisti, pseudo-idealisti, ascoltatori di radio nemiche (cioè alleate). I giornali erano pieni di "calorose adesioni". Quanto si aderiva. Soprattutto a "radiose giornate" con sfilate di camerati, legionari, squadristi, militi, massaie rurali, cappellani militari, vedove di guerra, ciechi di guerra, squadre di "baldi giovani" desiderosi di "menare le mani" sotto i labari e i fasci e i gagliardetti e le aquile dei prodi battaglioni universitari e dei brillanti ingegni littoriali. E giù bombe, intanto. Le discussioni nel "fronte interno" erano accanitissime. Ben vengano le bombe alleate perfino su Montecassino e sulla Scala (perdite rimediabili) pur di liberare la Patria dall' infausto regime e consegnarla ai sei partiti democratici. Gli italiani sono remissivi e buoni, bisogna aiutarli a liberarsi di quel buffone, anche a costo di distruggere il Paese. I tedeschi no, sono tutti complici di Hitler, dunque si meritano la distruzione totale. Frattanto, andando e tornando da scuola in bicicletta, si incappava sempre nei rastrellamenti e mitragliamenti tedeschi lungo le strade, nelle sparatorie alleate dai caccia in picchiata (col tipico sibilo, seguito dal ta-ta-ta e dal rimbalzo dei bossoli) e nelle vendette porta a porta dei fascisti locali. Dunque si andava a lezione d' inglese, ci si chiedeva se i cugini irlandesi (che avevano sempre mandato gli auguri di Natale) abitassero ancora a Londra dopo il blitz, e se per i prossimi corsi d' inglese sul posto le pensioni più convenienti sarebbero ancora a Notting Hill Gate; e per non portarsi dietro i soldi, se non sarebbe stato il caso di combinare dei cambi "au pair" con i primi conoscenti inglesi in arrivo dopo la guerra. Scarse le differenze con l' oggi. Hitler lo si vedeva nei cinegiornali, anche più spesso di Mao negli anni sessanta, ogni volta che si andava a un film con Alida Valli o Amedeo Nazzari o Totò; e non veniva in mente di paragonarlo a nessun altro. L' Eiar faceva in pratica da sé un blob fra guerra e varietà e canzoncine pubblicitarie, come in ogni zapping attuale. Mancavano i complessini musicali che invocano la pace sotto sigle tipo "Attack" o "Kombat". E gli intellettuali dell' ancorché e del benché non facevano la fila per sottoscrivere i loro sebbene e quantunque. Anzi, la cacciata del Duce da parte del Gran Consiglio (allora liquidata dalle brave nonne con "finalmente un briciolo di buon senso, santa Madonna") diventerà un gesto fra i più coraggiosi del Novecento italiano, fra giganti della disobbedienza civile come Eduardo ("nun me piace o' presepe") e Montale ("ciò che non siamo, ciò che non vogliamo").

(12 maggio 1999)

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L'impotenza del Cristianesimo


di OLIVIER CLEMENT*

Ha un senso il processo che viene fatto all' ortodossia in rapporto alla guerra in corso? In ogni uomo, in ogni società, esiste una pulsione di morte, e quando lo Stato l' incoraggia, può accadere che essa si scateni. è ciò che Milosevic (che è un criminale) fa nel Kosovo. Ma al principio degli anni Quaranta gli ustascia croati massacrarono tre o quattrocentomila serbi, costringendone altri centoquarantamila a ribattezzarsi. A mio giudizio, tutto questo non è una buona ragione per mettere in questione né l' ortodossia né il cattolicesimo. Ciò che clamorosamente si manifesta qui è l' impotenza del cristianesimo, e la sua utilizzazione da parte di quella forma d' idolatria che è il nazionalismo. Che cos' è d' altronde, oggi, la "religione" nei Balcani? Se si eccettuano le rare figure propriamente evangeliche, di cui riparlerò, la "religione" designa un' appartenenza psico-sociologica, il cui criterio è la nascita.

L'Eroe del romanzo di Draskovic, "Il coltello", allevato nella comunità musulmana, scopre, sconvolto, che è "cristiano", perché cristiani erano i suoi genitori. I due terzi dei serbi non sono battezzati, e gli altri sono assai poco praticanti. Molti di questi "ortodossi" si dichiarano atei. Il nazionalismo in panni religiosi è in realtà la forma balcanica della secolarizzazione. Perché allora questa quasi-identificazione, nel mondo ortodosso, della dimensione nazionale e di quella religiosa? Si risponde spesso: perché l' impero bizantino, la matrice di questo mondo, praticava un cesaropapismo integrale, nel cui quadro l' ortodossia non era nient' altro che l' ornamento e lo strumento dello Stato. Ma gli studi più recenti mostrano che le cose non stavano affatto così, e che la società bizantina era in realtà "bipolare": a un polo stavano l' imperatore e tutta una tradizione romana e umanistica, con la codificazione del diritto romano, il culto letterario di Omero e l' università imperiale che proteggeva la libera ricerca filosofica; all' altro polo c' erano i monaci, difensori indomiti dell' indipendenza spirituale della Chiesa.

Nel XIV secolo, all' epoca del "rinascimento dei Paleologhi", queste due correnti, per lungo tempo antagoniste, confluirono in una straordinaria forma di umanesimo cristiano: "Tutto è nella coscienza e nella libertà", diceva un Nicola Cabasilas. I monaci, come più tardi, in Russia, i "folli in Cristo", seppero prendere le difese degli umili. Ai vescovi, usciti dal monachesimo, era riconosciuto un diritto di rimostranza e di intercessione. Fu la posizione di san Filippo da Mosca davanti a Ivan Il Terribile, ed è oggi quella del vescovo del Kosovo, Artemio, davanti a Milosevic. Nella realtà profonda dell' ortodossia si è verificata una lacerazione non dichiarata: alcuni hanno aderito alla concezione "olistica" di una Chiesa di Stato, altri sono rimasti legati all' idea che la Chiesa, pur fecondando la storia, la supera e può giudicarla. Ma sull' ascesa delle nazionalità, alla fine del Medioevo, quando l' Impero "romano" d' Oriente si disgregava, pesò un duplice handicap. Da un lato il sogno di assumere la vocazione imperiale, ossia la protezione della "vera fede". Fu il sogno effimero della Serbia, vasto regno aperto tanto all' Occidente quanto all' Oriente, costruito attorno al Kosovo, di cui una stupefacente rete di chiese di villaggio, di monasteri, di templi funerari principeschi, di eremitaggi trogloditici faceva una sorta di "terra santa"; un sogno schiacciato dagli Ottomani nel 1389.

L'eredità di Bisanzio passò durevolmente alla Russia, che combatté durante tre secoli per respingere i due avversari dell' ortodossia: il cattolicesimo (soprattutto nella forma dell' uniatismo) e l' Islam. D' altra parte, i Balcani furono integrati in un impero multinazionale musulmano - l' impero ottomano - la cui dominazione durò cinque o sei secoli, impedendo per lungo tempo ogni sviluppo intellettuale. I turchi trapiantarono in Europa l' organizzazione che era la loro nelle steppe dell' Asia centrale: uomini-greggi-cani. Il gregge - il raa - era formato dai cristiani, i cani erano i giannizzeri. Ci s' impadroniva dei ragazzi più belli e vigorosi del raa, perché crescessero in un Islam mistico e guerriero e diventassero dei giannizzeri. Un' "imposta del sangue", di cui Ivo Andric, per fare un esempio, ha saputo parlare mirabilmente. In questo contesto, la Chiesa fu il rifugio delle nazionalità cristiane, di cui salvò le lingue, le usanze e talvolta (in Montenegro) l' indipendenza. Tanto più che secondo la concezione unitaria dell' Islam, vescovi e patriarchi erano responsabili sul terreno civile del "millat" ortodosso. Quando, alla fine del XVIII secolo, questo sistema s' indebolì, l' ortodossia conobbe un profondo rinascimento spirituale, il movimento "filocalico" (Filocalia, ossia "amore della bellezza", è il titolo di una grande antologia pubblicata a Venezia nel 1782). Ma questo movimento ebbe conseguenze specificamente culturali soltanto in Russia (e in minor misura nei territori romeni). Nelle élites balcaniche prevalse invece il "movimento dei lumi", che comportava il diritto dei popoli a disporre di se stessi; un diritto di cui si avvalsero con una violenza tanto maggiore, in quanto erano stati oppressi per più di cinquecento anni. Presero forma Stati nazionali, e ciascuno di essi, sul modello luterano, organizzò la sua Chiesa sulla base di una quasi-indipendenza (l' autocefalia), e l' integrò nell' apparato statale. La Chiesa, in cui il monachesimo aveva perso il suo vigore di un tempo, fu in parte strumentalizzata dallo Stato. Ma solo in parte, giacché affermò la sua specifica vocazione da un lato con il concilio del 1872, e dall' altro con le grandi creazioni russe, da Dostoevskij alla filosofia religiosa; e, nei Balcani, con le grandi sintesi dogmatiche serbe e romene (Popovic, Staniloea).

Quanto al resto, fino alla seconda guerra mondiale i Balcani conobbero una cultura "laica" pienamente europea; e in specie i serbi ebbero scrittori, artisti e cineasti di livello comparabile a quello dell' Europa occidentale, e che dettero spesso prova di un umorismo surrealista che oggi, in questa guerra folle, diventa una colossale derisione. La grande preoccupazione politica era d' altronde quella di unire gli slavi del Sud ("jugoslavi"), qualunque fosse la loro "etnia" e la loro "religione". Ma, di nuovo, tutto fu annientato dall' integrazione di questi paesi nella sfera marxista: certo, l' "eresia" titoista appassionò per un breve momento l' intellighenzia di sinistra occidentale, ma schiacciò le Chiese e l' Islam, accelerò la secolarizzazione e trasformò le comunità religiose in "etnie". Dopo il crollo generale del comunismo, i dirigenti si rifiutarono di abbandonare il potere, e credettero di trovare nel nazionalismo un' ideologia sostitutiva. Milosevic si adoperò a risuscitare vecchi miti, a riattizzare vecchi odii; e tutto si cristallizza nel problema del Kosovo, la culla della nazione occupata da una maggioranza albanofona - da lungo tempo gli albanesi erano diventati nella loro stragrande maggioranza musulmani, ed erano stati i collaboratori degli Ottomani. Per Milosevic è stato facilissimo fare di questi kosovari dei capri espiatori (un elemento indispensabile a ogni concezione passionale). Qual è, in tutto questo, la responsabilità dell' ortodossia? Certo, esistono vescovi ultranazionalisti che hanno contribuito all' esaltazione mitica del Kosovo. Ma molti altri sono dei moderati, rispettosi dei diritti dell' uomo. E l' episcopato serbo non ha mai chiesto l' espulsione dei kosovari "musulmani". Vicina a Milosevic quando si trattava di riunire in un unico Stato tutti i serbi, compresi quelli di Bosnia, la Chiesa se ne è ora radicalmente distaccata; e la moglie di Milosevic ha moltiplicato gli attacchi anticristiani. Anche oggi, quando le incursioni aeree cementano questo popolo fiero, i vescovi serbi chiedono che tutti gli abitanti del Kosovo possano vivere insieme nella giustizia e nel reciproco rispetto.

Il vescovo del Kosovo, Artemio, e il monaco Sava, della stessa regione, hanno preso energicamente le difese dei kosovari, e dal canto suo il primate della piccola Chiesa ortodossa d' Albania, Anastasio, un uomo di grande cultura e di alta spiritualità, si spende senza risparmio, sino allo sfinimento, per soccorrere i profughi. Forse questa crisi aiuterà l' ortodossia del Vangelo e della Filocalia a prevalere definitivamente sull' ortodossia del nazionalismo. Infine, dobbiamo pensare che esistano due Europe, di cui l' altra non sarebbe del resto davvero europea? Io credo che esistano piuttosto degli scarti temporali, provocati dalle due lunghe parentesi (in Oriente) ottomana e comunista. Questi scarti, con un po' di pazienza, saranno superati, e cesseranno di alimentare in Oriente un complesso d' inferiorità/superiorità, e in Occidente un sentimento di estraneità ("loro" e "noi") e di disprezzo. Nell' Ottocento e nella prima metà del nostro secolo, il nichilismo ancora celato dell' Occidente è stato smascherato dalla cultura "ortodossa", la quale - da Dostoevskij a Berdjaev - ha cominciato a elaborare delle risposte in termini non di rifiuto ma di superamento. In Italia, per fare un esempio, compaiono in continuazione ottimi studi sui grandi filosofi russi. La Filocalia viene tradotta dappertutto, e l' icona registra un' analoga diffusione. In entrambi i campi il tema centrale del pensiero è la persona, con un' accentuazione più individualistica in Occidente e più comunitaria in Oriente. Le due cose non si escludono, ma si completano reciprocamente. Un contadino dell' Italia meridionale è più vicino a un contadino greco che a un imprenditore agricolo inglese o svedese. In realtà, non esistono due Europe, ma molte Europe. Ed è meglio così. L' Europa non deve diventare americana. Essa deve invece assumere la sua propria diversità. Per una civiltà non del vuoto e del sesso, ma dell' essere e del volto.

*L' autore è un teologo ortodosso

(12 maggio 1999)

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Storia di un etnocidio


di JUAN GOYTISOLO

A motivo di circostanze personali, nessuno più di me può detestare i bombardamenti aerei, compresi quelli che secondo l'alto comando alleato provocano un minimo di "danni collaterali" (leggi: perdite di vite umane tra la popolazione civile). Eppure, credo che in mezzo alla discordante sequela di voci e all'incessante flusso di immagini della tragedia del Kosovo, corriamo il rischio di confondere effetti e cause, il problema umano dei profughi e la pulizia etnica, pianificata sin dalla firma del Trattato di Versailles, nel 1919, con la creazione del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni.

Lo spirito cetnico (l'ultranazionalismo serbo, al quale ha fatto riscontro il clone degli ustascia croati) ha impregnato la Jugoslavia, quale era tra il 1919 e il 1941, del suo misticismo slavo-ortodosso e della sua affermazione identitaria. La sola presenza di musulmani, bosniaci o kosovari albanesi sul sacro suolo della patria perpetuava l'"offesa storica" dell'invasione ottomana del XIV secolo e l'epica sconfitta del principe Lazaro.

Dopo l'aggressione nazista - con la complicità dei fascisti croati - i partigiani di Tito si sono imposti, nella lotta contro l'invasore, ai cetnici, consentendo così la creazione della Federazione Jugoslava, che ha retto alla meno peggio, in un precario equilibrio, per quattro decenni. Con la morte del dittatore e la successiva ascesa al potere di Milosevic nella Repubblica serba, la situazione interetnica si è andata fatalmente evolvendo verso un confronto generalizzato.

L'abolizione dello statuto di autonomia del Kosovo e della Vojvodina, nel 1989, è stato il primo passo sulla via dei successivi disastri che hanno provocato l'implosione della Federazione Jugoslava, l'indipendenza della Slovenia, della Croazia e della Bosnia, la distruzione di Vukovar e di Sarajevo, il brutale assedio di Mostar, il genocidio di Srebrenica.

Per chi conosce l'ideologia ultranazionalista serba, abbracciata da Milosevic, a tutto danno del suo proprio popolo, per conquistare e mantenere il potere, l'etnocidio del Kosovo era scritto fin dal 1992. Perciò è sconvolgente la miopia della classe politica europea, la sua ineffabile sorpresa di fronte all'"ostinazione" di Milosevic nel portare avanti i suoi piani.

Ricordo l'impressione che ho provato, fin dall'inizio della smodata campagna propagandistica panserba, vedendo una trasmissione dedicata al grande ras di ciò che resta della Federazione Jugoslava. Le parole di questo Milosevic tuttora comunista avrebbero potuto essere quelle di un qualsiasi vescovo o capo falangista, durante la "Crociata della Salvezza" del Generalissimo Franco. La sua retorica, con il ricorso rozzo e aggressivo a una mitologia infarcita di simboli identici a quelli del cattolicesimo nazionalista spagnolo, mi hanno ridestato il ricordo di esperienze amare; e ho scoperto che Rodrigo, il Guadalete, Covadonga, Santiago, la distruzione della Sacra Spagna, la resurrezione della patria a opera di un pugno di eroi ecc. avevano l'esatto equivalente in versione serba.

Se tre anni dopo sono andato a condividere con i bosniaci gli orrori dell'aggressione serba, è stato per obbedire a una motivazione, a un'urgenza che avevano radici profonde. Il discorso irrazionale, anzi delirante di Milosevic, carico d'odio e di disprezzo per i bosniaci musulmani e i kosovari albanesi, non differivano di molto dalle diatribe antisemite dei nazisti, né da quelle di Le Pen contro gli immigrati. Per questo, è difficile comprendere quelli che oggi protestano contro la barbarie della Nato, anche perché non hanno aperto bocca quando Sarajevo subiva un assedio medievale, ma condotto con armi moderne, durato tre anni e mezzo. Le loro proclamazioni pacifiste di facciata mettono sullo stesso piano gli aguzzini e le vittime, gli assedianti e gli assediati.

Davvero questi virtuosi filistei credono che centinaia di migliaia di kosovari stiano fuggendo per paura dei bombardamenti? Ignorano ancora che tutto questo era stato accuratamente programmato dai nazionalisti serbi, diversi anni prima che esplodesse il prevedibilissimo conflitto? Quale virus si è infiltrato nel ragionamento di questa "Izquierda Hundida" che sfila con l'innocenza di una colomba, o con odiosa ipocrisia, al grido di "pace, pace"? Non ci si rende conto che questa pace, la pace reclamata ora da Milosevic, è quella dei cimiteri?

Se spiace dover constatare il crescente travaso di voti comunisti francesi nel Fronte Nazionale, è vergognoso veder manifestare i residuali Pc della penisola iberica a fianco di calciatori serbi miliardari, protetti dal tristemente celebre Arkan. E'vero che il caos ideologico e sociale creato dal Nuovo Ordine Mondiale e dai conseguenti sconquassi promuove fenomeni di questo genere. Tre anni fa, a un comizio elettorale a Mosca, ho visto il pubblico brandire a un tempo ritratti di Stalin e icone di San Basilio, mentre alcuni zelatori distribuivano il Manifesto di Marx e Engels e il Protocollo dei saggi di Sion. Gli estremi, non contenti di toccarsi, si accoppiano e generano nuovi spauracchi e mostri.

Spesso le descrizioni e le diagnosi più acute dei mali che ci colpiscono sono quelle degli autori più lontani dalla politica. È il caso del romanziere Manuel Puig, la cui percezione letteraria degli orrori della dittatura militare argentina vale quanto cento discorsi e analisi sociopolitiche. E lo stesso può dirsi di due annotazioni di Borges, di sorprendente attualità. Nella prima, contenuta in un commento dell'opera di Wells "Guide to the New World", lo scrittore ci offre una descrizione ante litteram dei naufraghi della "Izquierda Hundida": "Questi vindici della democrazia, che si credono molto diversi da Goebbels, esortano i loro lettori, usando lo stesso gergo del nemico, ad ascoltare i palpiti di un cuore che raccoglie gli ultimi comandi del sangue e della terra." La seconda sembra una descrizione di Milosevic - di "quel povero Milosevic", compatito ancora recentemente da un distinto commentatore, in questi giorni di orrore e di indignazione per gli avvenimenti del Kosovo (compresi i bombardamenti della Nato).

"Mi azzardo a una congettura - scriveva Borges il 23 agosto 1944 - che Hitler collaborasse ciecamente con gli inevitabili eserciti che dovevano annichilirlo, così come misteriosamente gli avvoltoi metallici e il drago collaboravano con Ercole". Non so quanto la patologica megalomania di Hitler sia comparabile a quella di Milosevic, il quale forse non vorrà spingere le sue "prodezze" fino al culmine di un grandioso suicidio con accompagnamento di musica di Wagner. E'più probabile che concluda la sua carriera davanti al Tribunale internazionale dell'Aja, insieme ai suoi accoliti serbo-bosniaci e ai massacratori croati. Ma le rispettive macchine propagandistiche e i loro metodi di eliminazione delle etnie indesiderabili si assomigliano. Certo, sul piano dell'efficienza, il mattatoio industriale di Hitler superava di molto la polizia e l'esercito serbi. Ma in quel caso come in questo, un popolo che soccombe alla magniloquenza di un barbaro discorso di glorificazione di sé e di demolizione dell'altro può salvarsi solo con l'uscita di scena del capo che lo ha sprofondato nell'abisso. Il cieco amor patrio - sintesi letale tra una terra astratta e un dato gruppo sanguigno - conduce a volte ad assurdità come quella di una canzone che dice: "L'ho uccisa perché era mia".

Juan Goytisolo è uno scrittore di Barcellona. In Italia ha pubblicato: Giochi di mano, Fiesta, Lutto in paradiso, Don Juan e L'isola

(11 maggio 1999)

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Franco, Stalin e Milosevic


di DANIEL PENNAC

Franco è morto nel suo letto, Salazar è morto nel suo letto, Stalin è morto nel suo letto, Mao è morto nel suo letto, Pol Pot è morto nel suo letto, Pinochet, Videla, Baby Doc, Amin Dada, Saddam Hussein moriranno nel loro letto, e Milosevic... Milosevic morirà nel suo letto.

Ecco perché non voglio scrivere del Kosovo. Questa guerra - una delle più abominevoli - è oggi possibile solo perché noi, democratici, umanisti, modelli di civiltà, lucidi analisti, virtuosi gaudenti, prefiche irreprensibili ma eccellenti mercanti d'armi, abbiamo permesso che i più atroci Milosevic di questo secolo vivessero e morissero nel loro letto, rimboccando le loro coperte.

D'accordo, esagero... Forse un giorno Milosevic verrà processato, o eliminato dai suoi amici. Non perché sia più cattivo dei suoi fratelli maggiori, ma solo più stupido, troppo vistoso per la nostra sensibilità di guardoni.

Nel frattempo, alcuni popoli scompariranno.
La televisione filmerà la loro agonia.
E si continuerà a domandare ai romanzieri che cosa pensino della guerra, della televisione e dei popoli che muoiono sulle strade.

(11 maggio 1999)

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Ma la guerra pulita
può essere inutile



di MARIO VARGAS LLOSA

La "guerra etica" del Kosovo, come l'ha chiamata Tony Blair, intrapresa dalla Nato e sostenuta dall'opinione pubblica dei paesi occidentali per impedire il genocidio del popolo kosovaro albanese, sta prendendo una deriva che, assurdamente, potrebbe culminare con la disfatta morale dell'Alleanza Atlantica e con il consolidamento della tirannia di Milosevic. Cos'è andato storto? Non la decisione di attaccare il dittatore serbo. L'intransigenza di questo, il suo rifiuto di fare la minima concessione sul Kosovo a Rambouillet e la mobilitazione dell'esercito jugoslavo per iniziare la pulizia etnica non lasciavano alternativa.

Orbene, le guerre si dichiarano per vincerle e con un obiettivo perfettamente definito. Il sostegno che l'iniziativa militare della Nato aveva ricevuto da tutte le democrazie del mondo partiva dal presupposto che questa azione bellica avrebbe messo fine alla tirannia di Milosevic, ostacolo principale per una pace negoziata nel Kosovo nonché maggiore responsabile della tragedia dei Balcani. Dopo quello che era accaduto in Bosnia, nessuno poteva avere il minimo dubbio che, finché il dittatore serbo avesse conservato la sua forza operativa, non ci sarebbe stata una soluzione duratura per il problema del Kosovo e che ogni accordo sarebbe stato precario e vigente soltanto finché un'enorme e costosa forza internazionale spiegata sul territorio l'avesse fatto rispettare.

A quasi un mese e mezzo dall'inizio dei bombardamenti della Nato, i governi occidentali non parlano più di far cadere Milosevic, né di distruggere il suo esercito. Al contrario, Clinton, nella sua visita alle truppe americane in Germania, ha affermato che quella misura non faceva parte degli obiettivi della Nato e il primo ministro francese, Lionel Jospin, ha moltiplicato in questi giorni i gesti di pacificazione verso Milosevic, offrendosi di fermare gli attacchi se il leader serbo dovesse iniziare il ritiro delle sue truppe dal Kosovo. La spiegazione apparente di questo cambiamento di atteggiamento è quella di sostenere gli sforzi mediatori della Russia, rimasta offesa dall'olimpico fare a meno del Cremlino mostrato dall'Alleanza Atlantica. Ma, in realtà, la nuovissima moderazione di Clinton, Jospin e sicuramente di altri dirigenti dei paesi della Nato, è dovuta al fatto che l'opinione pubblica ora non appoggia più questa guerra come all' inizio. Gli oppositori aumentano da tutte le parti e, anche tra coloro che continuano a sostenerla perché la considerano il male minore, si moltiplicano le critiche alla confusione e agli errori che caratterizzano la conduzione militare e politica dell'intervento alleato.

In effetti, che razza di guerra è questa nella quale le sofferenze e le violenze che essa causa non sembrano destinate a distruggere l'esercito nemico bensì, fondamentalmente, a evitare che le truppe alleate subiscano una sola perdita? Pur con tutta la ripugnanza e il disprezzo che può ispirare la satrapia di Milosevic, è difficile avere la sensazione che quei piloti alleati i quali, per non essere raggiunti dall' artiglieria antiaerea serba, scaricano le loro bombe da diecimila metri di altezza, facendo saltare a volte treni, autobus, carri, case e polverizzando pacifici contadini, lottano per una causa giusta. Il trionfo della battaglia pubblicitaria di Milosevic è stato finora totale. Sugli schermi televisivi e nei giornali occidentali i morti innocenti della bombardata Jugoslavia appaiono, quotidianamente, come simboli dell'arroganza prepotente e della codardia e della stupidità di una strategia che non sa cosa vuole né come raggiungerla.

L'idea di una "guerra pulita" è concettualmente uno sproposito, a meno che non si traduca nel disegno apocalittico di annientare ogni forma di vita sul territorio nemico con bombe atomiche. Sì, in teoria, questa sarebbe una forma di guerra pulita, con vittime e morti da una sola delle parti in causa. Ma fare una guerra soltanto con bombe convenzionali, dalle nuvole, non ha finora sconfitto mai un regime. Contrariamente, è servito a rafforzare le dittature com'è accaduto con Saddam Hussein in Iraq e sta accadendo ora con Milosevic in Jugoslavia. Non c'è nessuno come i tiranni per istigare i sentimenti nazionalisti e vittimisti di un popolo sotto le bombe, per diventare il collante dell'unità nazionale e il difensore della sovranità minacciata dal nemico straniero.

Invece d'indebolire la dittatura, la guerra pulita della Nato ha permesso a Milosevic di eliminare e di mettere a tacere i suoi avversari all'interno e di presentarsi come una vittima, come un piccolo Davide eroico che resiste alla macchina militare più potente della storia. E, d'altronde, i bombardamenti non solo non hanno evitato la feroce repressione del popolo kosovaro albanese, ma l'hanno accelerata, giacché, utilizzando come pretesto le azioni alleate aeree, l'esercito serbo ha sterminato, strappato dai loro villaggi e obbligato a partire verso l'estero, privi di tutti i loro beni - inclusi i documenti d'identità - più di un milione e mezzo di albanesi del Kosovo. La "guerra pulita" è stata, così, uno strumento validissimo nella strategia - questa sì perfettamente chiara e implacabilmente perseguita - della dittatura serba per "pulire" il Kosovo.

Rifiutare l'utilizzo di truppe di terra e annunciarlo è stato un errore gravissimo che la Nato sta pagando caro. Ha dato mani libere a Milosevic per consumare i suoi sinistri disegni di pulizia etnica e per rappresentare il ruolo della vittima. Presumere che la pressione delle bombe lo avrebbe distrutto moralmente e spinto nuovamente al tavolo delle trattative con un atteggiamento più docile, era un'ipotesi arrischiata che, qualora non si fosse avverata, avrebbe potuto portare con sé l'effetto contrario: porre la Nato nella situazione impossibile in cui si trova ora. Perché impossibile? Perché questa guerra, nel modo in cui la conduce, non la vincerà. E ogni giorno la perde un po' in termini psicologici e morali, apparendo sempre più davanti all'opinione pubblica mondiale come una forza che aggredisce, che maltratta un piccolo paese debole e causa innumerevoli morti innocenti, che allo stesso tempo è incapace di porre fine, o persino di alleggerire, l'orribile via crucis del popolo kosovaro albanese.

Non stupisce che, in queste circostanze, i dirigenti dell'Alleanza Atlantica abbiano ricordato che la Russia, dopotutto, esiste e che abbiano concesso subito un ruolo protagonista al risuscitato Victor Cernomyrdin, inviato di Eltsin, che va e viene tra Belgrado e Washington, con messaggi di amicizia del presidente Milosevic. E si sentono già i commenti concilianti nelle cancellerie. È costui così malvagio come si credeva? Forse non tanto. Ha fatto o non ha fatto certe concessioni a Dayton? E proprio ora, non ha ricevuto a braccia aperte il reverendo Jackson, l'amico di Hillary e di Bill Clinton? Non ha pregato per la pace abbracciato a lui? Non gli ha consegnato i tre prigionieri statunitensi perché li riporti alle loro famiglie? Forse il reverendo Jackson non sbaglia quando chiede al governo degli Stati Uniti di rispondere con un gesto di comprensione agli impegni riconciliatori e pacifisti dello statista serbo.

Per questa sinistra strada si vede spuntare, lontano, un possibile finale per il Kosovo simile ai famosi accordi di Dayton, celebrati in tutto il mondo come un trionfo del buonsenso salomonico e che, in realtà, sono serviti per legittimare la pulizia etnica in Bosnia, redimere Milosevic da ogni responsabilità nella tragedia che ha causato duecentomila morti nei Balcani, dargli carta bianca per rafforzare il suo predominio autoritario in Jugoslavia e pianificare l'operazione anti-albanese in Kosovo. Come, attualmente, l'unica cosa che sembra avere chiara la Nato è che i bombardamenti non danno il risultato aspettato, né lo daranno in un futuro immediato, e che, al contrario, stanno minando ogni giorno di più il suo prestigio e la sua credibilità - qualcosa di assolutamente certo -, la tentazione di uscire dal pantano con qualche sotterfugio è molto grande e si riflette in quel nuovo tono adottato da Washington, Parigi e Bonn, dal quale potrebbe risultare, in effetti, una veloce trattativa, alla maniera di Dayton. L'Onu sarebbe la levatrice della pace e la Russia la madrina della creatura.

Con un gesto di generosità nobilissimo, alla ricerca della pace, Milosevic accetterebbe la spartizione del Kosovo e si terrebbe soltanto la metà del territorio kosovaro che confina con la Jugoslavia (guarda caso il più prospero e moderno della provincia). I paesi occidentali si assumerebbero il compito di tirare fuori i dollari e i soldati della forza di pace necessaria - sotto la bandiera dell'Onu, ovviamente - per ridistribuire nell'altra metà i kosovari sfollati dai loro villaggi con la forza e condannati all' abbandono e alla miseria. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea risarciranno in qualche modo le vittime dei bombardamenti della Nato. Alla testa del suo popolo, come Saddam Hussein in Iraq, Slobodan Milosevic, più forte e imbattibile che mai, inizierà immediatamente la ricostruzione della Jugoslavia.
(Traduzione di Guiomar Parada)
Mario Vargas Llosa, 1999 - El Pais SA e El Pais Internacional SA

(10 maggio 1999)