Non chiamatela guerra


di ADRIANO SOFRI

Qualcuno di noi ha perso il filo. Forse tutti. Ufficialmente, questa non è una guerra, e non dev'esserlo. I generali la conducono come una guerra. I commentatori, fautori o avversari, la chiamano senz'altro guerra: manuali di polemologia, Clausewitz. Ufficialmente, si chiama "azione militare": un igienismo. Javier Solana la chiama "campagna", poi si distrae un momento e dice: "La nostra guerra". Capisco bene che, arduo com'è fermare la guerra, sia ancora più arduo fermare l'abitudine a chiamarla così. Ma bisogna provare.

E' una guerra questa? A chiamarla con l'altro nome - "azione militare" - si rischia l'eufemismo, cinico o minimizzatore. Però è vero anche il contrario: che a chiamarla guerra le si riconosce un'autorizzazione a metodi spinti molto oltre quelli consentiti da un'azione di polizia internazionale. Non è un caso che da "falchi" americani sia venuta la richiesta a Clinton di dichiarare formalmente la guerra alla Jugoslavia. Un'azione di polizia condotta attraverso bombardamenti aerei sull'intero territorio è una boutade. Un'azione di polizia che si inauguri abbandonando il terreno, e le persone indifese da tutelare, alle bande criminali, è una pazzia, se non una colpa grave. (Quando si scopriranno le tombe dentro il Kosovo, allora sarà il tempo della vergogna).

La distinzione non è una mia fisima. In Parlamento, D'Alema ha insistito: "Ho ascoltato quanti hanno espresso dissenso verso l'azione militare della Nato, valutandola come un atto di guerra, anzi come la guerra. Personalmente, non condivido questo giudizio... Non credo che questi attacchi militari configurino l'inizio di una nuova guerra". Nei dibattiti, la distinzione non è stata neanche presa in considerazione. Chiamarla guerra è pressoché inevitabile: ma la sovrapposizione del significato comune a quello specifico comporta conseguenze enormi.

1. Gli scopi dell'intervento. Si è discusso su quali fossero gli scopi iniziali veri dell'intervento. Due soprattutto, direi. Il primo: punire Milosevic. Attribuisco questa intenzione specialmente agli americani, e a un loro peculiare moralismo (non diverso da quello che sta dietro all'attaccamento alla pena di morte). Esso predilige la prova di forza, piuttosto che la sanzione del Tribunale internazionale. Il secondo scopo: proteggere le vite dei kosovari, a sventare l'epurazione etnica (tecnicamente: il tentato genocidio; così per Kofi Annan) in corso. Non occorre ripetere che il secondo scopo è stato mancato, e anzi rovesciato nel suo contrario. Il primo scopo, quello del castigo, non è dichiarabile, e non è definibile nella categoria dei moventi di una guerra né di un'azione di polizia. Il secondo scopo - impedire il tentato genocidio - rientra nei compiti caratteristici di un'azione di polizia.

2. La polizia internazionale. La nozione di "ingerenza umanitaria", che appare azzardata a molti, attaccati al tabù della "sovranità statale" (o, impropriamente, "nazionale"), è in realtà una nozione timida. Si pronunciano anche formule temerarie, ma ancora in un senso allusivo, come quella di "governo del mondo". La tendenza è a un esercizio della forza legittima, un giorno sulla scala planetaria, e intanto su una scala multinazionale, contro violazioni intollerabili, sia per la loro gravità rispetto a diritti fondamentali universalmente riconosciuti, sia per i loro effetti nocivi oltre i confini in cui sono compiute. Ora, l'esercizio della forza legittima richiede la polizia e il tribunale.

Perché c'è una riluttanza a parlare di polizia, piuttosto che di guerra? Per una doppia ragione. Di abitudine, intanto. Il problema della criminalità degli Stati è stato pensato come il problema della guerra e della pace. La limitazione alle sovranità statuali è stata intesa come una prevenzione della guerra, e l'impiego della forza come una guerra giusta contro la guerra ingiusta, d'aggressione. Nella discussione filosofica le categorie di guerra giusta e ingiusta sono restate dominanti: e lo sono ancora nella discussione di questi giorni. La confusione fra ricorso alla guerra e funzione di polizia sovrastatuale non è una questione nominale. La guerra è una sospensione terribile della legalità: una specie di superemergenza. Se si tratta di guerra, passa in second'ordine l'attenzione al controllo di legalità da esercitare sulla funzione di polizia internazionale (come su quella nazionale). La frase "Sono contro tutte le guerre" (a parte l'incongruità: e la guerra antinazista?) taglia corto al problema rimuovendolo: non è altrettanto facile pronunciare la frase "Sono contro tutte le polizie".

3. Controversie internazionali? Dice Kofi Annan: "Non possiamo né vogliamo accettare una situazione in cui un popolo sia brutalizzato dietro i confini di un paese". La Costituzione italiana vuole che l'Italia ripudi la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e fa bene. Ma è una "controversia internazionale" la pulizia etnica nel Kosovo? È una "controversia internazionale" il (riuscito) genocidio dei Tutsi da parte degli Hutu? Lo è il tentato genocidio di cristiani e animisti nel Sud del Sudan? (Nella guerra del Golfo, formalmente c'era, dopo l'invasione del Kuwait, una "controversia internazionale"). Mi pare che la "controversia internazionale" riguardi un conflitto fra Stati. La caratteristica dei genocidi (e delle violazioni dei diritti umani) è di essere soprattutto l'opera di Stati contro gruppi di popolazione chiusi nei loro confini. La Costituzione italiana non dice che l'Italia ripudia il ricorso a una legittima forza di polizia internazionale dove siano gravemente colpiti la vita e i diritti fondamentali di popoli e gruppi.

Le violazioni gravi dei diritti umani da parte degli Stati equivalgono, sulla scala internazionale, a permanenze di giustizia tribale, di sangue, di vendetta, contro le quali deve intervenire un'autorità "terza". La Jugoslavia della pulizia etnica del Kosovo sta alla legalità internazionale come una enclave del "doppio stato" mafioso, o un Nord di ronde armate padane stanno allo Stato italiano e alla sua legalità.

4. Il pregiudizio sulla "polizia". C'è una riluttanza ad affrontare il tema della polizia internazionale. Nessuno (più o meno) obietta all'esistenza della polizia all'interno dei singoli Stati. Tuttavia l'accettazione non va senza preoccupazioni e diffidenze, tutt'altro che infondate. Si fa una decisiva differenza fra uno Stato democratico e uno Stato di polizia. Il linguaggio - parole come "sbirro" - serba la memoria di una ostilità allo Stato e al suo monopolio della forza. Del resto, è recente da noi la rivendicazione del disarmo della polizia, risposta a uno storico abuso della polizia al servizio del privilegio sociale. Il corrispondente internazionale dello "sbirro" è il "gendarme del mondo". Cioè: la polizia del mondo. Lo slittamento lessicale segnala una differenza essenziale, fra una prepotenza che vuole dettare la legge del più forte, e una potenza volta a far rispettare una legge. Che nella pratica (compresa la pratica di questi giorni) le due aspirazioni si confondano pesantemente, non è una ragione per non distinguerle: anzi. L'avversione "antimperialista" contro la nozione di gendarme del mondo non può continuare a riparare nel tabù della sovranità statuale. Il controllo di legalità dei comportamenti della polizia, così vitale per la civiltà degli Stati, lo è altrettanto per le relazioni internazionali. C'è un rapporto fra il "modello Rudolph Giuliani" e la conduzione militare americana della "guerra" contro la Serbia.

5. Il "contratto sociale". Nessuno può sottovalutare i pericoli provenienti dal monopolio e dall'esercizio smargiasso o stupido di una forza internazionale. Ma si tratta dei pericoli che democrazia e civiltà corrono in ogni Stato l'eventuale abuso delle forze di polizia, o militari, o della giustizia. Né sono superiori ai pericoli che comporta la rinuncia a una prevenzione e sanzione internazionale delle sopraffazioni più gravi contro gruppi umani indifesi.

Una simile regolazione deve ricevere, prima ancora che una legittimazione formale, una giustificazione sostanziale nella volontà delle persone, dei cittadini. Equivalente a quella che, nel corso di secoli, filosofi e giuristi hanno immaginato per spiegare la formazione dello Stato e della legge. Per un profano come me, le più affascinanti fra queste spiegazioni sono anche le più fantasiose: la teoria del "contratto sociale", di un patto attraverso il quale gli umani escono da uno stato di natura ed entrano in un volontario vincolo sociale, fra loro, e di tutti con un sovrano. Questa descrizione è stata a volte considerata realisticamente dai pensatori, che si innamorano di una costruzione mitologica (e dei suoi fini, democratici o autoritari) al punto di immaginarla come una cosa avvenuta davvero.

Oggi noi assistiamo, rispetto alla formazione di una legalità internazionale e dei suoi istituti, al processo, in parte intenzionale, in parte (maggiore) incontrollato e caotico, di un nuovo "contratto sociale". Si ripetono, rispetto all'autorità internazionale, divisioni che hanno opposto le concezioni dello Stato; fra fautori della sovranità e della volontà popolare, o invece della sovranità dello Stato giustificato da se stesso, della potenza come razionalità e fonte di diritto. Noi siamo meno intelligenti dei sapienti antichi. Però sappiamo, a nostre spese, qualcosa di più sugli umani e gli altri animali. Vantaggio che può indurci a tener stretto l'amore per la democrazia e la libertà, senza farci illusioni. Dunque a perseguire comportamenti giusti, conoscendo la distanza fra propositi ed effetti, e la forza d'inerzia delle cose.

E' l'esperienza di questi giorni, salvo che per chi fugga dalla prova dei fatti: il "pacifismo" dell'ideologia, e il cinismo del principio "à la guerre comme à la guerre". Abbiamo fatto esperienza della necessità (mancata) di una prevenzione, quella cui si dà il nome fittizio di "interposizione", e che corrisponde alla presenza di una polizia sul territorio; della trasformazione precipitosa dell'intervento di protezione e di repressione in una guerra unilaterale e schiacciante. In un'azione di polizia, il principio della proporzione fra mezzi e fini è decisivo. Il principio della prevenzione - dunque, dell'interposizione necessaria e non effimera - altrettanto. Le strategie scelte non potranno restare succubi del calcolo delle vite proprie da risparmiare, al costo della dissipazione di vite altrui.

Se, in un paese, dei sequestratori prendono degli ostaggi, e se ne fanno scudo, è difficile ammettere che la polizia dia loro un ultimatum, li avverta che qualunque conseguenza sugli innocenti ricadrà moralmente su loro, e attacchi a tappeto ammazzando gli uni e gli altri. (Benché possa succedere, purtroppo). Perché un simile atteggiamento dovrebbe essere ammesso quando si tratta di una polizia nord-atlantica che si misura con il criminale Milosevic e i suoi scudi umani? La sede di una televisione non si deve bombardare, non per rispetto della libertà di informazione, che lì è una caricatura, bensì per salvaguardare le persone che ci stanno dentro. Lo stesso vale per la Zastava, se gli operai la presidiano. Quelli che parlano della guerra, spiegano che la guerra non si può fare con un braccio legato dietro la schiena. Se si smette di giocare alle guerre, e ci si propone un'azione di polizia, il braccio legato dietro la schiena non è altro che il vincolo della legalità: la vera differenza fra le bande degli epuratori dei villaggi e la "comunità internazionale".

(7 maggio 1999)

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I diritti del Kosovo


di NOEL MALCOLM*

Slobodan Milosevic è un politico astuto, ma il 24 marzo potrebbe aver compiuto il più grande errore della sua carriera. Immaginate quanto diversa avrebbe potuto essere la sua tattica: dopo l' esplosione del primo missile Cruise, avrebbe potuto sospendere tutte le operazioni in Kosovo, inviare autobus carichi di giornalisti stranieri nella provincia a caccia delle vittime albanesi delle bombe Nato e concentrare tutta la sua abilità diplomatica per creare una frattura fra gli alleati occidentali.

Nell'arco di una settimana, il già precario consenso all' interno della Nato si sarebbe definitivamente incrinato, e la politica occidentale avrebbe dovuto necessariamente bloccarsi. Invece, Milosevic ha ordinato alle sue forze nel Kosovo di scatenare una campagna di terrore che sembra aver superato in velocità e dimensioni persino la "pulizia" della Bosnia orientale e settentrionale del 1992. Non è stata, ovviamente, soltanto una reazione spontanea agli attacchi aerei. I segnali di una programmazione erano visibili da diversi mesi; essi includevano non soltanto il rafforzamento militare, che ha portato più di 15.000 soldati jugoslavi nella zona, ma anche l' integrazione delle unità dell' esercito e della polizia, con il chiaro compito di agire contro la popolazione civile.

Eppure, Milosevic avrebbe ancora potuto sospendere questo progetto. Invece ha scelto di accelerarlo. è così accaduto che la politica Nato, che al lancio dei primi missili era apparsa assai poco convincente, ha acquisito la coesione e la chiarezza di intenti che le erano così smaccatamente mancate. Era risultata incerta, quella politica, perché basata su una miscela fragilissima di mezzi e finalità: la minaccia di distruzione militare di Milosevic accompagnata al proclama che l' obiettivo Nato era tenere il Kosovo sotto il governo di Milosevic (come una "provincia autonoma della Serbia"). L' obiettivo è ora invece semplice: rendere possibile il ritorno di tutti i rifugiati kosovari alle loro case. L' opinione pubblica occidentale lo ha compreso ed approvato e nei principali Paesi della Nato è stato dato il consenso per compiere qualunque passo necessario per raggiungere lo scopo della missione, incluso l' impiego di truppe di terra. A chi sostiene che la Nato stessa è responsabile di aver provocato la campagna di pulizia etnica, si deve rispondere che se anche fosse vero in parte - e solo in parte, visti i segnali dei preparativi già ricordati - ciò va ad aggiungersi all' obbligo morale dei governi dell' Alleanza di assicurare la sconfitta totale della politica di Milosevic. Inoltre, i timori che da molto tempo l' occidente nutre sulla destabilizzazione della Macedonia, sono amplificati dalla marea di rifugiati in quel Paese. E, infine, ora c' è la necessità di mantenere la credibilità stessa della Nato - considerazione non irrilevante per coloro che in Occidente si prendono cura della sicurezza mondiale. Per tutte queste ragioni, quindi, gli obiettivi della politica Nato, e la necessità di trasparenza, sono diventati molto chiari. Resta da precisare ancora un elemento essenziale: la natura della risoluzione politica a lungo termine con cui questi obiettivi potrebbero essere realizzati. La continua confusione su questo punto sta ostacolando l' iniziativa politica occidentale e può persino essere d' intralcio ai governi nell' adozione di quelle misure militari che dovrebbero prendere per far prevalere la loro politica. Ufficialmente, i governi occidentali sono ancora impegnati a raggiungere un accordo secondo le linee delle proposte di Rambouillet: un Kosovo autonomo all' interno della Serbia, con la sicurezza interna garantita da una forza di pace a guida Nato. Ma ufficiosamente, i diplomatici sanno che Rambouillet è morto e che non si potrà mai dire ai kosovari di ritornare in un territorio sotto il governo sovrano della Serbia. L' ovvia conclusione - al Kosovo deve essere garantita l' indipendenza - viene trattata ancora come un tabù. Perché? Politici e diplomatici hanno due risposte standard. La prima è che l' indipendenza del Kosovo porterebbe gli albanesi della Macedonia a richiedere la spartizione territoriale del loro Stato. Questa è sempre stata un' affermazione poco convincente: i politici albanesi della Macedonia non hanno mai voluto una simile spartizione, perché perderebbero la capitale Skopje, dove vivono 200.000 albanesi. Ma oggi l' obiezione è ancor meno credibile: per la salvaguardia della sua stabilità, la Macedonia chiede che i rifugiati del Kosovo tornino alle loro case, e questi lo faranno soltanto quando saranno convinti che la futura indipendenza del Kosovo sarà garantita. L' altra risposta standard è che l' indipendenza per il Kosovo costituirebbe un pericoloso precedente, che potrebbe essere seguito da altri gruppi - curdi, baschi, o chiunque altro. Chi sostiene questa tesi, non ha ancora capito su quali basi si regge la rivendicazione del Kosovo. La sua indipendenza potrebbe rappresentare non un nuovo precedente, ma il ripetersi di qualcosa già accaduto in Slovenia, in Croazia, in Macedonia e in Bosnia, nel 1991-1992. Ciò che accadde durante quei due anni non fu la secessione da uno Stato jugoslavo che continuava a esistere, ma lo smembramento completo della Federazione jugoslava nelle regioni che la costituivano. Il Kosovo era, sotto il profilo legale, una regione federale della ex-Jugoslavia e godeva di quasi tutti gli stessi diritti delle altre repubbliche. Pertanto avrebbe dovuto essergli garantito lo stesso diritto all' indipendenza. è strano che molti di coloro che abitualmente mettevano in guardia da precedenti pericolosi, ora si dilettino con una proposta che scoperchierebbe davvero un vaso di Pandora: la spartizione.

L' idea sarebbe che Milosevic, per la sua campagna di terrore, venisse ricompensato con almeno una parte - nella maggioranza delle proposte, la metà o il terzo settentrionale del Paese - dell' area che ha ripulito. Lord Owen è andato addirittura oltre e ha suggerito che Milosevic dovrebbe essere ricompensato con una considerevole parte della Bosnia orientale, epurata dalle sue truppe nel 1992. La spartizione del Kosovo non soltanto non è auspicabile sul piano del precedente, ma non è nemmeno giustificabile in termini di geografia dello stesso Kosovo. La parte settentrionale del Kosovo è (o era) esattamente un' area di maggioranza albanese quanto la metà meridionale. In mancanza di una qualsiasi giustificazione di questo tipo, i separatisti si aggrappano a pretesti culturali, quali la presenza di monasteri o di campi di battaglia storici. Ed è ben strano riscontrare tanta sensibilità nei confronti delle esigenze monastiche dei serbi da parte di commentatori che non hanno aperto bocca di fronte alla deliberata distruzione delle moschee più importanti della Bosnia nel 1992.

La politica occidentale dovrebbe impegnarsi per un Kosovo indipendente ed integro, liberandosi così dal peso morto dell' accordo di Rambouillet e permettendo alla Nato di compiere un nuovo passo decisivo: la fornitura di armi alle forze di liberazione del Kosovo. L' accordo di Rambouillet prevedeva il disarmo dell' UCK e l' intervento delle truppe Nato come forze neutrali di pace. Ma un Kosovo indipendente avrebbe bisogno di un suo esercito di cui l' attuale UCK costituirebbe la base. La reiterata riluttanza ad armare l' UCK è uno degli aspetti più strani della politica dei governi occidentali. Le forze aeree da sole non possono sconfiggere un' armata sul terreno. Ma la loro efficacia viene potenziata se le forze nemiche sono impegnate in una guerra di terra, che li obblighi a tirar fuori i loro mezzi corazzati, concentrandoli in formazioni offensive o difensive.

A breve termine, anche se un UCK ben armato non potrebbe sconfiggere l' armata serba, potrebbe renderla molto più vulnerabile agli attacchi aerei; a lungo termine, potrebbe addirittura sconfiggerla sul terreno. Perché dunque i governi occidentali sono così ostentatamente freddi nei confronti dell' UCK? Il problema principale è di ordine politico: l' occidente pensa che l' UCK sia una pericolosa organizzazione di sinistra. Il suo radicalismo è però enormemente sopravvalutato: è l' impressione data dai piccolissimi gruppi che originariamente fondarono il movimento. L' anno scorso, in realtà, l' azione di Milosevic ha fatto confluire nell' UCK molte migliaia di kosovari; in alcune zone, i rappresentanti locali del partito moderato di Ibrahim Rugova sono semplicemente passati all' UCK, e i componenti di questo "esercito" sono attualmente una parte rappresentativa della gente comune. La paura di aiutare forze politiche di sinistra a raggiungere il potere ha giocato un ruolo importante nella guerra fredda: ma questa limitazione, oggi, non ha più motivo di essere. Inoltre, la gente del Kosovo non vuole un governo di sinistra radicale. E un Kosovo indipendente, istituito con l' aiuto della Nato, avrebbe un sistema democratico. Quello che i kosovari vogliono veramente, più di ogni altra cosa, è tornare nelle loro case. Se le potenze occidentali condividono questo obiettivo, dovrebbero impegnarsi non soltanto politicamente, ma anche attuando tutte le misure necessarie per raggiungerlo.

(Copyright Noel Malcolm 1999 / The Daily Telegraph. Traduzione Logos)

*L' autore è docente alla Harvard University e autore di numerosi saggi e libri storici, tra i quali il recente Kosovo: A Short History.


(6 maggio 1999)

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Ma i morti non ritornano


di NADINE GORDIMER

Che dire di questa guerra che sembra spazzar via tutto ciò che in questo secolo si era guadagnato in umanità? È stato il secolo più violento mai registrato, e si sta concludendo con un altro spaventoso tracollo delle relazioni umane, nonostante i tanti celebrati progressi delle tecnologie della comunicazione.

A cosa mai servono Internet, la posta elettronica, i collegamenti via satellite tra individui e paesi, se anziché tollerare le differenze e risolverle pacificamente facendo uso della conoscenza, gli esseri umani si perseguitano a vicenda, e non si è trovato altro mezzo internazionale per farli smettere che distruggere a colpi di bombe la vita di tutti?

Io deploro l'offensiva della Nato in Kosovo, perché non porta a una soluzione agli orrori commessi da Milosevic. ma l'aspetto tremendo del problema è che quanti tra noi sono convinti di questo non hanno però un'altra soluzione da proporre. Forse la nuova iniziativa diplomatica apre uno spiraglio, anche se finora la diplomazia ha vergognosamente fallito. ma quale che sia la soluzione, i morti non torneranno indietro. E il trauma dei campi profughi non potrà essere cancellato da questa fine millennio.

L'autrice è premio Nobel per la letteratura.

(5 maggio 1999)

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Quelle guerre
così diverse



di GIORGIO BOCCA

Che cosa è questa guerra jugoslava? Che cosa erano le guerre di chi ci è passato? Sempre qualcosa di raccontato da chi è sopravvissuto, non dai morti, i morti della guerra partigiana visti da Cesare Pavese in una vigna, muti con il loro mistero. Guerre raccontate dai sopravvissuti di generazioni diverse, a volte diversissime. La precedente alla mia, almeno gli intellettuali, era andata alla prima guerra mondiale come a una prova di redenzione e di palingenesi, la guerra "sola igiene del mondo". IL "lavacro" dopo di cui, diceva Mussolini, "nulla sarebbe più stato come prima", una reazione individualistica alla rivoluzione industriale di massa, una rivincita del cuore, della volontà rispetto alle merci e alle macchine. Anche un' esperienza estetica la bella morte raccontata da Junger sui prati "irrorati di sangue". E poi si era trovata impantanata per anni nel fango delle trincee, finché le masse e le macchine e le merci avevano deciso la vittoria. Le guerre non solo vengono raccontate dai sopravvissuti, ma nella versione ufficiale, dominante, da quelli che comandano nel regime che alla guerra è sopravvissuto. Ecco perché quelli della mia generazione seppero poco e male della prima guerra mondiale anche se erano passati solo venti anni: niente di Caporetto, niente delle stragi sull' Isonzo, niente delle decimazioni dei fuggiaschi e del Piave solo la retorica dell' ufficio propaganda del Regio esercito "meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora" scritto, pensa te, da un fante ignoto con chi sa quale carboncino. Ho capito cosa era stata quella guerra due decenni dopo in una marcia del corso allievi ufficiali sull' altipiano di Asiago, all' Ortigara: la cima si era abbassata di otto metri sotto le cannonate, nelle trincee c' erano ancora, nonostante i venti inverni, brandelli di divise, scarponi di alpini, ossa di alpini, mostrine, giberne di alpini. Già, la guerra è una delle cose umane in cui capisci meglio che il caso è il vero padrone della nostra esistenza. Nella mia il caso decise che uno nato nel secondo semestre del 1920 fosse richiamato solo nel ' 42 e uno del primo semestre invece si facesse il fronte occidentale contro la Francia e poi l' Albania; sempre il caso decise che alcuni passassero l' intera giovinezza in guerra, prima in Etiopia, poi in Spagna, poi in Jugoslavia, poi in Russia, poi con i partigiani sicché i loro parenti si erano quasi dimenticati che faccia avessero. Una guerra è ciò che raccontano i sopravvissuti secondo i loro casi. La nostra fu la conferma di qualcosa che si era intuito ma che si stentava a credere: non avevamo un esercito pronto a farla anzi pronto a volerla fare. Si era nel ' 42, la guerra aveva già preso per noi una brutta piega ma nella caserma di Bassano del Grappa corso allievi ufficiali della guerra non arrivava nessuna eco, passavamo i giorni in un mondo chiuso fermo alle armi e agli addestramenti della prima guerra mondiale, montare e smontare il fucile, fare ordine chiuso, ascoltare il tenente Del Grosso che ci spiegava il regolamento.

Perché nessuno parlava della guerra? Perché nessuno sembrava interessato a trarre delle lezioni dalla guerra in corso? Che prova aveva dato quello sputafuoco del cannoncino anticarro 47/32? Come avevano funzioni i vecchi fucili 91, quasi gli stessi della prima guerra d' Africa? Anche al fronte i fucili mitragliatori si inceppavano ogni dieci colpi? Niente, neppure l' ascolto dei bollettini di guerra, tutto fermo alla marcia del principe Eugenio e al regolamento del magico libretto che garantiva la burocrazia militare, la copriva da ogni responsabilità. Un cielo di un azzurro un po' estenuato, adriatico, stava sopra le campagne morbide di Ezzelino da Romano che salivano verso il massiccio protettivo del Monte Grappa, sacro alla patria e la guerra non c' era mentre marciavamo come pensiero, come progetto. Nove su dieci non avevamo mai guidato un' automobile e non saremmo stati capaci di far muovere un carro armato, non sapevamo come si montava un ponte, come si radiotelegrafava, segnalavamo ancora con le bandiere a strisce rosse e bianche. Alle cose tecniche avrebbe pensato il Genio che nessuno di noi aveva mai incontrato. La guerra vera, quella che si combatteva in Albania e in Russia, per noi non esisteva. Noi simulavamo una guerra che non c' era mai stata, una finta guerra di venti anni prima sulle pietraie del Grappa o di Arco vicino al Lago di Garda, tatticando come prevedeva il regolamento ma che sarebbe stato suicida in una guerra vera: avanti il primo plotone coperto dal fuoco degli altri due, non a forza di gomiti come i tedeschi, ma di corsa destinati a essere falciati da una mitragliatrice nemica che però non c' era. Non c' era altro nella nostra preparazione guerriera: il grido dell' assalto finale, Savoia contro il nemico inesistente e poi la marcia del principe Eugenio, i tamburi e le trombe del generale sabaudo che dall' alto di Superga guarda Torino assediata dai francesi e poi dà ordine alle truppe austriache con cui ha sconfitto i turchi davanti a Vienna di scendere a liberare la città, battaglioni che avanzano a passo ritmato e scendono come i fiumi e i torrenti del Piemonte. E allora noi marciavamo per Bassano la dolce come se fossimo granatieri reduci dall' Assietta.

Poi per tutti noi in qualche terra straniera africana o russa sarebbe arrivata l' ora orrenda della guerra vera che i sopravvissuti raccontano e che rimane come un periodo folgorante nella loro memoria, perché non c' è altro che esalti e renda indimenticabile un evento più che la paura della morte che è di tutti. Mai visto in guerra uno che sotto il fuoco nemico non si sentisse schiacciare il petto e stringere la gola da quella paura che fa anche delle guerre più stupide, più feroci, qualcosa di unico, di assoluto. La guerra continuava interminabile e casuale come una lenta ma incontrollabile mola che si portava via uno dopo l' altro gli amici di gioventù. E anche il lutto aveva effetti casuali, di alcuni che pure ci erano stati molto amici ci importava poco, di altri ci ferivano al cuore aspetti magari minimi per una guerra. Era il caso che oltre la paura della morte segnava quei lunghi mesi senza sbocco: il sapere che era il caso a decidere e che non avresti potuto far nulla per evitarlo; il caso di una cartolina precetto, o di un ordine che un giorno sarebbe arrivato: si va in Russia, si va a El Alamein, chi deve andare va, chi deve morire muore. La guerra non è sempre orrenda per tutti: puoi passare dei mesi come l' Hemingway convalescente a guardare gli alberi oltre il fiume e a corteggiare le infermiere, puoi essere uno dei milioni di sfollati che ogni sera prendono la bicicletta e vanno a dormire in campagna o in cerca di farina e di burro, puoi essere uno dei milioni che riscoprono la campagna e guardano dal treno come cresce il grano e si angosciano se la grandine ha piegato le messi. Ma la guerra è una macina che schiaccia man mano tutto, che devasta il mondo in cui sei cresciuto. Arrivavi a Torino, a Milano e trovavi un mare di macerie, viaggiavi sui carri merci in piedi o su delle panche, e ti sentivi risuonare negli orecchi il suono lacerante delle sirene. Credo che molti di noi siano saliti in montagna come per una liberazione dalla guerra del caso, dove sei una pedina nelle mani del caso, per fare una guerra senza costrizioni, una guerra di libertà in cui puoi morire ma nessuno ti costringe a morire, in cui non ci sono libretti del regolamento, e un' arma non è un peso ma un tuo custode, un tuo alter ego. L' unica guerra che gli italiani sanno fare.

(4 maggio 1999)

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Le nuove regole
del mondo globale



di TONY BLAIR

Chiunque, in Occidente, abbia assistito agli eventi del Kosovo non può dubitare che l' azione della Nato sia giustificata. In una delle sue frasi celebri, Bismarck aveva detto che i Balcani non valevano le ossa di un solo granatiere della Pomerania. Ma chi ha visto i volti rigati di lacrime di centinaia di migliaia di rifugiati mentre attraversavano il confine, o ascoltato i loro strazianti racconti di atrocità, o immaginato il destino di chi è rimasto indietro, sa che Bismarck era in errore. Questa è una guerra giusta, basata non su ambizioni territoriali ma su valori.

Noi non possiamo permettere che continui l' orrore della pulizia etnica. Non dobbiamo fermarci finché non si sarà invertita questa rotta. Abbiamo appreso per ben due volte, nel corso di questo secolo, che la pacificazione non serve. Se lasciassimo che un dittatore perverso spadroneggi incontrastato, alla fine dovremmo spargere infinitamente più sangue e più risorse per fermarlo. Ma la gente non chiede soltanto se avevamo ragione di intraprendere quest' azione; vuole sapere anche se i nostri obiettivi erano chiari, e se riusciremo a conseguirli. I nostri obiettivi sono cinque: la cessazione verificabile di tutte le attività belliche e dei massacri; il ritiro delle forze militari, paramilitari e di polizia serbe dal Kosovo; il dispiegamento di una forza militare internazionale; il ritorno di tutti i profughi e il libero accesso di aiuti umanitari; e infine, un quadro politico per il Kosovo, basato sugli accordi di Rambouillet. Non negozieremo su questi obiettivi. Milosevic deve accettarli. Con la nostra campagna aerea abbiamo distrutto la maggior parte delle forze aeree operative di Milosevic, un quarto dei suoi sistemi radar Sam (mentre la parte restante non viene utilizzata per timore della sua distruzione), le sue raffinerie di petrolio e le vie di comunicazione verso il Kosovo, le sue infrastrutture militari, compresi gli strumenti di comando e di comunicazione, e buona parte dei suoi depositi di munizioni.

Il morale dell' esercito jugoslavo sta incominciando a crollare. Mentre l' Uck è ora più forte, e gode di un sostegno più ampio di quando Milosevic iniziò la sua campagna. Abbiamo sempre detto chiaramente che questa campagna richiederà tempo. Non potremo riportare il successo finché non siano entrate in Kosovo forze internazionali, che consentano ai profughi di far ritorno nelle loro case. Milosevic non potrà opporre un veto all' ingresso di questa forza internazionale. Così come a mio parere non vi erano alternative all' azione militare, ora che è iniziata non vi sono alternative al suo successo. Quella del successo è l' unica strategia d' uscita che sono disposto a prendere in considerazione. Ora dobbiamo incominciare a lavorare per ciò che verrà dopo il nostro successo in Kosovo. Quello che serve è un nuovo Piano Marshall per il Kosovo, così come per la Macedonia, l' Albania e la stessa Serbia, se passerà alla democrazia. è necessario un nuovo quadro per la sicurezza dell' intera regione dei Balcani. Dovremo inoltre assistere il Tribunale per i crimini di guerra per portare davanti alla giustizia chi ha commesso questi spaventosi crimini. Vent' anni fa, non ci saremmo battuti nel Kosovo. Gli avremmo voltato le spalle. Il nostro impegno è il risultato di un' ampia serie di cambiamenti: la fine della guerra fredda, il cambiamento tecnologico, la diffusione della democrazia. Ma i cambiamenti sono anche maggiori. Io credo che il mondo sia mutato in un senso più fondamentale. La globalizzazione ha trasformato le nostre economie e il nostro modo di lavorare. Ma la globalizzazione non è soltanto economica. è un fenomeno che investe anche la politica e i problemi della sicurezza. Molti dei nostri problemi interni hanno origine in un' altra parte del mondo.

L' instabilità finanziaria in Asia distrugge posti di lavoro sia a Chicago che nella mia circoscrizione elettorale, nella Contea di Durham. L' indigenza nei Caraibi fa aumentare la droga per le strade di Washington e di Londra. Il conflitto nei Balcani accresce l' afflusso dei profughi in Germania e negli Stati Uniti. Tutti questi problemi possono essere affrontati soltanto attraverso la cooperazione internazionale. Oggi siamo tutti internazionalisti, che ci piaccia o meno. Non possiamo rifiutare di partecipare al mercato internazionale se vogliamo la prosperità. Non possiamo ignorare le nuove idee politiche di altri paesi, se vogliamo innovare. Non possiamo voltare le spalle ai conflitti e alle violazioni dei diritti umani in altri paesi, se vogliamo rimanere al sicuro. Alla vigilia del nuovo millennio, viviamo ormai in un nuovo mondo. Abbiamo bisogno di nuove regole per la cooperazione internazionale, di nuove forme di organizzazione delle nostre istituzioni internazionali.

Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo creato una serie di istituzioni internazionali per affrontare lo sforzo della ricostruzione di un mondo devastato: Bretton Woods, le Nazioni Unite, la Nato. Già allora era chiaro che il mondo stava diventando sempre più interdipendente. La dottrina dell' isolazionismo è caduta vittima di una guerra mondiale, quando gli Stati Uniti (insieme ad altri) si resero conto infine che quella di assistere passivamente non era una scelta da prendere in considerazione. Oggi, l' impulso all' interdipendenza è incommensurabilmente più forte. Stiamo assistendo al sorgere di una nuova dottrina sulla comunità internazionale. Mi riferisco con ciò all' implicito riconoscimento del fatto che oggi siamo reciprocamente dipendenti, più di quanto lo siamo mai stati in passato, e che gli interessi nazionali sono governati in misura significativa dalla collaborazione internazionale; si avverte quindi la necessità di un dibattito chiaro e coerente sulla direzione in cui questa dottrina ci conduce in ogni campo dell' impegno internazionale. Tuttavia, finora abbiamo sempre affrontato i problemi caso per caso. Siamo continuamente alle prese con il rischio di lasciare che dovunque siano le scene inquadrate dalla Cnn nei suoi continui spostamenti a fare da pungolo per indurci a prendere sul serio un conflitto globale. Abbiamo ormai dieci anni di esperienza dalla fine della guerra fredda. è stato certo un periodo meno facile di quanto molti avessero sperato, nell' euforia seguita al crollo del muro di Berlino. Le nostre forze armate hanno avuto più che mai da fare per fornire aiuti umanitari, svolgere azioni deterrenti contro aggressioni a popolazioni indifese, sostenere le risoluzioni dell' Onu e impegnarsi occasionalmente in guerre di più vasta portata, come quella del Golfo del 1991 e l' attuale impegno nei Balcani. Possiamo vedere nelle difficoltà di quest' ultimo decennio semplici ripercussioni della fine della guerra fredda? La situazione si stabilizzerà tra breve, o prefigura invece un modello destinato a estendersi in futuro?

Molti dei nostri problemi sono stati causati da due uomini pericolosi e spietati: Saddam Hussein e Slobodan Milosevic. Entrambi erano pronti a scatenare aggressioni perverse contro settori della propria comunità. Come risultato di queste politiche distruttive, entrambi hanno attirato calamità sulle proprie popolazioni. L' Iraq, che pure avrebbe potuto mettere a frutto le proprie ricchezze petrolifere, è stato ridotto all' indigenza, e le intimidazioni hanno soffocato la sua vita politica. Milosevic era alla testa di uno Stato etnicamente variegato, con notevoli risorse e buone possibilità di trarre vantaggio dalle nuove opportunità economiche. Ma a causa della sua ossessione per la concentrazione etnica, si ritrova oggi con un paese molto ridimensionato, un' economia distrutta e presto anche un apparato militare azzerato. Una delle ragioni per le quali ora è tanto importante vincere il conflitto è assicurare che altri non commettano lo stesso errore in futuro. Questo è di per sé della massima importanza per assicurare che nel prossimo decennio e nel prossimo secolo vi siano minori difficoltà che in passato. Se la Nato dovesse fallire nel Kosovo, un dittatore che in futuro fosse minacciato di un intervento militare potrebbe non credere nella nostra risoluzione di dare attuazione alla minaccia. La fine di questo secolo vede emergere gli Usa come lo Stato di gran lunga più potente. Questo paese non sogna conquiste mondiali, né sta cercando di colonizzare terre. Gli americani sono fin troppo inclini a non vedere alcuna necessità di farsi coinvolgere negli affari del resto del mondo. Per i suoi alleati, la disponibilità dell' America a farsi carico degli oneri e delle responsabilità inerenti al suo status di unica superpotenza è sempre motivo di sollievo e di gratificazione. Noi comprendiamo di non avere il diritto di dare per scontata questa disponibilità, e di dover contribuire a questo sforzo con il nostro impegno.

Da questa base ha preso le mosse una mia recente iniziativa, in accordo con il presidente francese Jacques Chirac, per migliorare l' assetto difensivo dell' Europa. Dobbiamo ora stabilire un nuovo quadro. La nostra esistenza in quanto Stati non è più minacciata. Oggi le nostre azioni sono guidate da una più sottile commistione tra i nostri propri e reciproci interessi e l' intento di difendere i valori morali che ci stanno a cuore. In definitiva, i valori e gli interessi si fondono. Se possiamo stabilire e diffondere i valori della libertà, dello stato di diritto, dei diritti umani e di una società aperta, ciò corrisponde anche ai nostri interessi nazionali. La diffusione dei nostri valori ci garantisce una maggiore sicurezza. Come ebbe a dire John Kennedy, "la libertà è indivisibile. Se un solo uomo è schiavo, chi può dirsi libero?". Il problema di politica estera più pressante è quello di identificare le circostanze nelle quali saremo attivamente coinvolti nei conflitti di altri popoli. La non interferenza è stata considerata a lungo un principio importante dell' ordine internazionale. Non è un principio che si possa gettare a mare troppo facilmente. Uno Stato non può ritenersi in diritto di cambiare il sistema politico di un altro Stato, o di fomentare la sovversione, o di impossessarsi di parti di un territorio sul quale ritenga di avere dei diritti. Ma il principio della non interferenza deve essere qualificato per alcuni aspetti importanti. Atti di genocidio non possono mai costituire una questione puramente interna. Se uno stato di oppressione dà luogo a un flusso massiccio di profughi, tale da destabilizzare i paesi vicini, si può parlare a ragione di una "minaccia alla sicurezza internazionale". Se un regime è dominato da una minoranza, perde la propria legittimità: si pensi al caso del Sudafrica. Se ci guardiamo intorno, nelle varie parti del mondo vediamo molti regimi antidemocratici, che commettono atti di barbarie. Se volessimo raddrizzare tutte le storture cui assistiamo nel mondo moderno, praticamente non potremmo più far altro che intervenire negli affari di altri paesi; e non saremmo in grado di far fronte a tutto. Quindi, come decidere quando e se intervenire? Io penso che dobbiamo attenerci a cinque principali considerazioni. Prima di tutto, siamo sicuri di ciò che sosteniamo? La guerra è uno strumento imperfetto per porre rimedio a drammi umani; ma le forze armate costituiscono a volte il solo mezzo per affrontare un dittatore. In secondo luogo, sono state esaurite tutte le possibilità della diplomazia? Dobbiamo sempre dare ogni opportunità alla pace, come abbiamo fatto in questo caso per il Kosovo. Terzo: a fronte di una valutazione pratica delle situazioni, quali operazioni militari possiamo intraprendere su basi di ragionevolezza e di prudenza? Quarto: siamo pronti al lungo termine? In passato abbiamo parlato troppo di strategie d' uscita. Ma avendo preso un impegno, non possiamo semplicemente andarcene dopo la battaglia; meglio rimanere con una forza militare ridotta che dover tornare a ripetere azioni con un impegno militare maggiore. E infine, i nostri interessi nazionali sono coinvolti? L' espulsione di massa della popolazione albanese dal Kosovo esigeva l' attenzione del resto del mondo. Ma il fatto che ciò stia avvenendo in una parte così infiammabile del mondo modifica i termini del problema? Non intendo affermare che questi criteri debbano avere carattere assoluto; ma sono queste le questioni sulle quali dobbiamo riflettere al momento di decidere, in futuro, quando e se intervenire. Nuove regole potranno comunque essere funzionali soltanto quando avremo riformato le istituzioni internazionali che provvederanno alla loro applicazione. Se vogliamo un mondo fondato sul diritto e sulla cooperazione internazionale, dobbiamo sostenere l' Onu come pilastro centrale. Ma è necessario trovare un modo nuovo per far funzionare l' Onu e il Consiglio di Sicurezza, se non vogliamo tornare alla situazione di stallo che ha eroso l' efficacia del Consiglio di Sicurezza durante la guerra fredda. Questo compito dovrà essere affrontato dai cinque membri permanenti del Consiglio una volta concluso il conflitto nel Kosovo. La Terza Via è un tentativo da parte dei governi di centro e di centro-sinistra di ridefinire un programma politico diverso rispetto alla vecchia sinistra come rispetto alla destra degli anni 80. Anche in campo politico, le idee si stanno globalizzando. Nella misura in cui i vari problemi - competitività, cambiamento tecnologico, criminalità, droga, crisi della famiglia - acquistano carattere globale, lo stesso deve avvenire per quanto riguarda la ricerca di soluzioni. Nelle mie conversazioni con i leader di altri paesi, non mi sono tanto sorpreso delle differenze quanto dei punti che abbiamo in comune. Ci troviamo tutti ad affrontare gli stessi problemi: come conseguire la prosperità in un mondo in rapida trasformazione economica e tecnologica, o la stabilità sociale, a fronte dei cambiamenti nella famiglia e nella comunità; il ruolo dei governi, in un' era in cui abbiamo imparato che le cose funzionano male quando lo Stato è ipertrofico, ma ancora peggio quando è inesistente. La decisione più importante che dovremo affrontare nei prossimi due decenni è il rapporto della Gran Bretagna con l' Europa. Per troppo tempo, l' ambivalenza britannica nei confronti dell' Ue ha reso irrilevante la nostra posizione in Europa, e di conseguenza ha sminuito la nostra importanza anche nei rapporti con gli Stati Uniti. Abbiamo finalmente sgombrato il campo da una falsa pregiudiziale: quella di dover scegliere tra due strade divergenti, vale a dire tra il rapporto transatlantico o l' Europa. Per la prima volta da tre decenni, abbiamo un governo a un tempo europeista e filo-americano. Io credo fermamente che questo sia nell' interesse della Gran Bretagna, ma anche in quello degli Usa e dell' Europa.

(4 maggio 1999)

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Quello strano duello
tra Sade e De Amicis



di ALBERTO ARBASINO

"Siamo tutti piccoli albanesi", ce lo insegnavano da bambini a scuola, perfino a Voghera. Negli anni Quaranta, quando Vittorio Emanuele III era "re d' Italia e d' Albania", e il Duce ribattezzava "Porto Edda" lo scalo albanese di Santi Quaranta, in onore della figlia, consorte del ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano. Però siamo stati spesso alleati anche dei serbi. Questo lo si imparava al ginnasio.

Anzi, uno storico mi segnala un albo di Aldo Carpi: Serbia eroica ("impressioni pittoriche sulla ritirata dell' esercito serbo sull' Adriatico"), edito da Alfieri e Lacroix a Milano, nel 1917, insieme a una pubblicazione dell' Ufficio Speciale del Ministero della Marina, Per l' esercito serbo, con fotografie, nella collana "La Marina italiana nella Guerra europea". Aldo Carpi era un notissimo pittore milanese, direttore dell' Accademia di Brera e deportato per antifascismo nei lager di Mauthausen e Gusen, da cui riportò anche un diario e una serie di disegni, molto rinomati a Milano. Nella prima guerra mondiale si era arruolato volontario, aveva assistito al salvataggio dell' eroico esercito serbo (sconfitto dagli austriaci) da parte della nostra eroica marina, che dai soliti porti albanesi l' aveva trasportato a combattere i turchi sul fronte di Salonicco e Gallipoli. E ne aveva tratto questi impressionanti disegni, che dovrebbero trovarsi ancora a Roma, nel Museo del Risorgimento al Vittoriano. Naturalmente, molti di noi hanno studiato quei lontani eventi (oggi così attuali) nei vecchi licei. E si può sempre consultare la Treccani:

"Il conflitto si annunziava disuguale: 330.000 Austro- bulgaro-tedeschi contro 250.000 Serbi; 1400 cannoni contro 634. Ai primi di nov. 1915, il corpo di spedizione anglo-francese inviato a Salonicco dagli Alleati, allora formato da soli 80.000 uomini, compì un tentativo di soccorso in territorio serbo, dove però potenti forze bulgare costrinsero le colonne alleate a battere in ritirata su Salonicco. Per sfuggire alla distruzione, dopo la sconfitta subita nella battaglia di Kosovo, ai Serbi non rimase che piegare verso Ovest; solo 94.000 uomini a metà dicembre raggiunsero le rive dell' Adriatico, donde navi da guerra e da trasporto dell' Intesa, per la maggior parte italiane, li trassero in salvo a Corfù e in Italia". E proviamo magari a chiedere in giro, dato che molti smarrimenti nel presente nascono da una disinformazione sull' intero passato. Ma quanti, fra noi e anche altrove, ricordano le varie e alterne guerre balcaniche e italiane del nostro secolo breve, per capire e giudicare meglio i tanti dubbi ed errori attuali? Anche ai livelli più importanti, dove si è deciso lo scoppio così a sorpresa di questa guerra, evidentemente non molto pensata né preparata con la storia e la geografia. (Lo dimostrano il suo svolgimento, e il suo protrarsi). E anche quando si rifanno i paragoni quotidiani con Hitler e Mussolini e Auschwitz e Mauthausen: eventi personaggi che nel loro tempo non si paragonavano davvero a nient' altro. E Mao, allora? Certamente, quando si tratta poi di sentire e affermare che la pace e i vivi e le trattative sono molto meglio della guerra e dei morti e dei missili, i Premi Nobel si trovano d' accordo con le casalinghe di Voghera. Tutti insieme inorriditi e angosciati per gli esiti disastrosi: quando invece di festeggiare l' Euro e il Giubileo e l' ingresso della Mitteleuropa nella Nato ora il diritto naturale e quello internazionale - e tutti i diritti umanitari e comunitari e di intervento, nonché il fondamentale "diritto dei popoli a disporre di sé medesimi" - si trovano davanti a questo bubbone proprio nella "portineria" (come direbbe Sade) dell' Europa. E in piena voga giovane della violenza e della provocazione e del "noir", riecco trionfare i più classici precetti di De Amicis: nelle atroci sventure, sempre mettere in primo piano la bontà d' animo compassionevole per i poveri bambini, mutilatini e morticini all' ombra dei Caduti e dei Martiri.

Ma poi? Considerando gli effetti, c' è stata impreparazione storica? Leggerezza geografica? Disinformazione etnologica? Approssimazione strategica e meteorologica? Scarso senso politico, proprio quando la generazione post-Beatles va al potere, e i pacifisti si fanno più aggressivi? Anche nostre notevoli inibizioni - democratiche, benpensanti, politically correct, cristiane... - nel considerare con umile e studiosa Realpolitik professionale soprattutto la fisiologia e patologia obiettiva dei dati umani, oltre che i fatti storici e geografici. Dunque, gli odi atavici e la ferocia ancestrale comune ai capi e ai popoli (di volta in volta carnefici e vittime, con atrocità analoghe), in una regione costantemente descritta fin dagli storici antichi come una "polveriera" montagnosa e sanguinosa e piratesca che ha sempre prodotto più intrighi politici e stragi militari e predonerie marittime che non trovate culturali e commerciali, o successi umanitari o finanziari.

E dove tradizionalmente occorrono le armi pesanti o il terrore di regime per imporre una convivenza multietnica di casa in casa. Altro che il famoso "melting pot". La nostra coscienza dabbene si rifiuta naturalmente di considerare talune etnie più barbare o sprovvedute o malvagie di altre più "buone". Ma mentre si accettano correntemente vari luoghi comuni sui greci e i romani e gli ebrei e gli arabi e i giapponesi, forse può apparire razzista indicare appunto nei razzismi locali il Male dei Balcani? E la ferocia che ne risulta, con le vendette secolari a catena. (Gli "illirici" venivano giudicati tremendi, per terra e per mare, già dagli storici latini). Ed ecco la tentazione internazionale di lasciare che i popoli dispongano di sé medesimi, secondo la propria identità e cultura... Così, chi dirà "lasciamo che le belve si ammazzino fra loro, noi interveniamo soltanto col dialogo"? Sade, o De Amicis? E quale dei due dirà che in nome della bontà d' animo e dei poveri bambini bisogna tirare tonnellate di bombe? E cosa commenterebbero qui Talleyrand o Mitterrand?

Oltre tutto, neanche nella più religiosa Palestina, così gremita di sacri testi autorevolissimi, paiono molti i fedeli credenti disposti a osservare certi millenari precetti di buonismo assoluto. E benché in diminuzione, parecchi europei ripetono come cent' anni fa "Right or wrong, my England", perché l' Inghilterra è il riferimento che ha sempre ragione: tanto più quando Blair si identifica con Churchill e con la Thatcher. Però, nell' inconscio, molti forse ritengono che i massacri, riprovevoli ovunque, sono particolarmente intollerabili nell' Europa del Giubileo e dell' Euro e delle elezioni imminenti, anche senza l' alibi delle guerre per il petrolio asiatico, o per altre ricchezze. Il movente economico delle guerre rimane tuttavia fortissimo, e non c' è bisogno di Brecht per sottolinearlo, perché l' industria degli armamenti deve smerciare e rinnovare i suoi prodotti che scadono. E ai tempi di Mata Hari erano celebri i mercanti di cannoni per i Balcani, con sede a Montecarlo come il leggendario Basil Zaharoff, rinomato e temuto come oggi George Soros o Billy Gates. Mentre oggi le fabbriche belliche tipo l' Oto-Melara e l' Agusta e l' Alenia appartengono piuttosto alle partecipazioni statali; e negli Stati Uniti le dimensioni e gli interessi sono colossali.

Allora, visto il gran successo anglosassone dei nuovi storici "virtuali" che rielaborano le grandi guerre del secolo in base a dei "come se" un po' giocherelloni ma basati su dati rigorosissimi, proviamo a riprendere le provocazioni universitarie che partivano da Berkeley durante la guerra in Vietnam. Se dunque la guerra viene spinta da esigenze industriali e commerciali - con milioni di lavoratori occupati dietro - e inoltre viene vissuta come un immenso videogioco dell' audience planetaria... allora, perché non rovesciare sul "nemico" non migliaia di tonnellate di bombe, ma un carico e un valore equivalente di beni di consumo? Cioè: quantitativi colossali di cibi da supermarket, lattine di bibite, stecche di sigarette, compact e videocassette, jeans e magliette e berrettini e orecchini, elettrodomestici e gadget elettronici e tutto. E naturalmente agevolando i gruppi di volontari pronti a recarsi sui teatri dei conflitti per fumare gli spinelli, piantare le piantine, offrire gratuitamente i prodotti più cari ai ragazzi da discoteca, bypassando la piaga degli spacciatori. Nessuna utopia o poesia tipo mettere i fiori nei cannoni o suonare le chitarre a vuoto, dunque. Al contrario, industrie che lavorano a pieno regime per sostenere un simile sforzo bellico. Con spese certamente non superiori al bilancio delle offensive convenzionali; e ricadute, anche di immagine, per niente inferiori. (Ma forse non si è mai calcolato seriamente l' impatto politico e l' effetto materiale e spirituale di tali strategie, in epoche così mediatiche). E insomma: quanti fra noi gradiscono ancora, ogni volta che si guarda la televisione, vedere alternarsi i premi di milioni per chi indovina che Cristoforo si chiama Colombo, e le migliaia di mani che si tendono dalle rovine per afferrare un pezzo di pane? Non sarebbe più civile (invece che tirargli il pane come ai selvaggi) vedere i montanari e gli scafisti e i bambini che buttano le sigarette e le bibite e le cassette nelle discariche, perché non sanno più dove metterle? (Intanto però i guasti si propagano anche al nostro interno, e minacciano di riuscir duraturi).

(3 maggio 1999)

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La vecchia sindrome
che scuote i Balcani



di ISMAIL KADARÈ

I crimini in generale, ma soprattutto i grandi crimini, richiedono una lunga preparazione. La soppressione del popolo albanese, qualcosa di cui il mondo intero è oggi testimone, è un vecchio sogno della Serbia. Classe politica e militari di questo paese, funzionari esaltati, compresi capi di Stato, accademici, vescovi, giornalisti, scrittori, intere moltitudini, sono state e continuano a essere influenzate dalla sindrome antialbanese.

Un accademico serbo come Vaso Cubrilovic, che nel 1937 ha scritto un trattato su come far sparire gli albanesi dalla faccia della terra - un mostro che qualunque paese incarcererebbe come criminale - è morto qualche anno fa con tutti gli onori, quasi come un eroe spirituale della Serbia. Per far capire a quali estremi è potuta arrivare la malattia antialbanese, possiamo ricordare che anche uno scrittore di fama come Ivo Andric ha infangato gravemente la sua stessa coscienza firmando un Draft on Albania, nel quale si dice nero su bianco che "la separazione (sparizione) dell'Albania dalla mappa dei Balcani è un male necessario".

Questi e decine di esempi simili dimostrano che il crimine serbo ha radici profonde. Una vera vergogna per la Serbia, dove la casta stalinista-fascista di Milosevic gode della solidarietà di una parte del paese. Dopo aver constatato l'assenza totale di sensibilità di fronte alla tragedia albanese, dopo aver assistito all'estasi perversa che questa tragedia provoca, si può parlare senza timore di una responsabilità collettiva della Serbia in questo orrore. Sono disponibili numerosissime testimonianze per confermare che l'eliminazione degli albanesi del Kosovo è stata lungamente preparata, con brutalità, con cinismo e con una sete bestiale di sangue. Sono stati presentati tutti gli avvertimenti necessari sul massacro imminente. Sono rimasti depositati negli uffici di presidenti, istituzioni pubbliche, nelle redazioni dei giornali, in alcuni libri. Ma questi avvertimenti non sono stati presi in considerazione. Un silenzio vergognoso è stato la risposta a tutti quelli che hanno tentato di svegliare la coscienza dell'Europa e del mondo. Ecco il risultato.

Ora nel Kosovo i criminali trionfano. Il mondo conosce solo la punta dell'iceberg. Presto resterà sconvolto dall'apprendere la completa verità. Che non tarderà ad arrivare, e allora ci saranno molte persone che non potranno dormire tranquille.

Nessun crimine di questo tipo si può portare a compimento senza un esercito di collaboratori. E il brutale nazionalismo serbo dispone di loro, all'interno del paese e all'esterno. Una moltitudine di intellettuali e pseudointellettuali, con sembianze di politici, scrittori, membri di commissioni, presidenti di sottocommissioni, hanno offerto i loro servigi alla barbarie. Le ragioni di simile comportamento non possono essere più oscure, cominciando con la nostalgia stalinista, il razzismo attentamente mascherato, l'odio contro altre credenze, le ricompense economiche, fino a includere le inclinazioni criminali. Vedono villaggi e città bruciare e tacciono. Vedono carovane interminabili di deportati, come nei treni dell'Olocausto, e non aprono bocca. Vedono donne e bambini massacrati e continuano a non farsi sentire. E il silenzio è solo la metà del male. Dopo aver mantenuto un vergognoso silenzio alcuni alzano la voce per difendere i carnefici.

A questo punto risultano ormai intollerabili le sfilate in tv di presunti ex oppositori serbi, con la dichiarazione imparata a memoria: "Fino a ieri ero contrario a Milosevic, ma ora sto al cento per cento con lui a causa dei bombardamenti della Nato". A queste persone bisogna dire: signori, voi non siete mai stati contrari al dittatore. Voi siete stati sempre al suo servizio. Non può più ingannare nessuno l'ipocrisia dei Draskovic e dei Comnenic di oggi, sulle cui coscienze pesano i crimini della Serbia attuale, allo stesso modo che sulle coscienze di tutta la nomenklatura stalinista.

Come un microbo proveniente da un'altra epoca che trova condizioni adeguate di sviluppo al giorno d'oggi, l'inganno medievale serbo è arrivato a disorientare una parte dell'opinione pubblica. Quest'inganno sotto forma di racconto per bambini (il Kosovo culla della nazione serba, la battaglia del Kosovo, la nostalgia serba) ripetuto decine di migliaia di volte come sottotitolo di ogni notizia, di ogni informazione o analisi sul Kosovo, ha svolto un ruolo di primaria importanza nella preparazione del crimine che in questo momento si sta compiendo.

Non è per niente eccessivo affermare che se l'Europa, attraverso le sue istituzioni culturali, i suoi archivi, le accademie, gli storici e gli analisti, avesse prestato attenzione al chiarimento, foss'anche solo nelle sue linee generali, della storia dei Balcani, parecchie disgrazie si sarebbero potute evitare in tempo e il corso degli eventi potrebbe essere oggi ben diverso. Il problema del Kosovo è in fase di sviluppo. Non è mai troppo tardi per fare ciò che si sarebbe dovuto fare prima, a maggior ragione se si considera il fatto che lo statuto del Kosovo continua ad apparire all'orizzonte come una questione di primaria importanza. E quando si comincerà a negoziare sul futuro statuto, la storia tornerà a essere invocata. Per questo è necessario che il mondo conosca la verità.

La visione che hanno i serbi della loro storia e, di conseguenza, di una parte dei Balcani, è completamente falsa. Grosso modo, si presenta così: il Kosovo è la culla della nazione serba. Nel 1389 i serbi vi intrapresero una battaglia con la quale pretendevano di difendere la cristianità europea dall'avanzata ottomana. Dopo la sconfitta serba in questa guerra, gli albanesi - alleati dei turchi - convertiti in musulmani, entrarono in Kosovo. I serbi, umiliati sotto il doppio tallone (ottomano e albanese) diminuiscono di numero. Il Kosovo fa parte dell'Albania per quasi sei secoli. Nel 1918, finalmente, si pone riparo alla secolare ingiustizia: il Kosovo è consegnato alla Jugoslavia.

Ed ecco l'altra versione, che può essere verificata in tutti i libri di storia. Il Kosovo è territorio illirico-albanese fino al VII secolo, quando gli slavi arrivano nei Balcani. Sotto la pressione slava si trasforma in territorio comune dei suoi abitanti originari, gli albanesi, e dei suoi nuovi abitanti, i serbi. Gli albanesi continuano a essere sempre maggioranza. La battaglia del Kosovo, nel 1389, è lo scontro tra una coalizione cristiano-balcanica e l'impero ottomano: in essa combatterono insieme i serbi, i bosniaci, gli albanesi, i romeni e altri popoli dei Balcani. Non un solo albanese si schierò con i turchi. Al contrario, una parte dell'esercito serbo tradì i Balcani e combattè al fianco dei turchi.

Una delle basi della strategia serba contro gli albanesi è stata la loro religione. Certi che l'Europa cristiana avrebbe comunque appoggiato i serbi ortodossi contro gli "albanesi musulmani", hanno fatto tutto il possibile perché la colorazione musulmana degli albanesi venisse messa in grandissimo risalto. E questo veniva accompagnato dallo sforzo contrario: minimizzare, e se possibile far sparire, la fede originale degli albanesi, il cristianesimo. Il fatto che né l'Europa né gli Stati Uniti siano caduti in questa trappola barbara costituisce una vittoria della civiltà occidentale, che si è svincolata con coraggio dai criminali serbi, salvando così la coscienza della cristianità europea da una grave macchia. Questo atto di emancipazione euro-americano avrà apprezzabili conseguenze positive nei rapporti dell'Occidente attuale con tutto il mondo musulmano. E forse non è casuale il fatto che all'origine di questo atto ci sia il popolo albanese, questo popolo che può essere criticato per molte cose, ma non smetterà mai di essere elogiato per una ragione meravigliosa: la tolleranza religiosa. Gli albanesi hanno tre religioni: sono cattolici, musulmani e ortodossi. Da autentici balcanici quali sono, possono essersi scontrati per tanti motivi, ma mai per la religione. Questa immagine di civilizzazione risultava eccessivamente fastidiosa per i progetti antialbanesi dei serbi: perciò hanno fatto tutti gli sforzi possibili per romperla.

Chi abbia visto sugli schermi televisivi la deportazione degli albanesi non può aver fatto a meno di osservare che questa immensa tragedia è prima di tutto una tragedia dei bambini. Erano 250 mila fino a pochi giorni fa i bambini, colpiti fisicamente e psicologicamente, che cercavano di fuggire dall'inferno. Domani potranno essere mezzo milione. E altrettanti soffrono all'interno del Kosovo, senza che li veda occhio umano alcuno, senza che nessun orecchio li ascolti. Questo succede ogni giorno e a ogni ora, mentre da qualche parte, lontano, c'è ancora gente che discute se la parola genocidio è prematura per il Kosovo.

(3 maggio 1999)