Non chiamatela guerra
di ADRIANO SOFRI Qualcuno di noi ha
perso il filo. Forse tutti. Ufficialmente, questa non è
una guerra, e non dev'esserlo. I generali la conducono
come una guerra. I commentatori, fautori o avversari, la
chiamano senz'altro guerra: manuali di polemologia,
Clausewitz. Ufficialmente, si chiama "azione
militare": un igienismo. Javier Solana la chiama
"campagna", poi si distrae un momento e dice:
"La nostra guerra". Capisco bene che, arduo
com'è fermare la guerra, sia ancora più arduo fermare
l'abitudine a chiamarla così. Ma bisogna provare.
E' una guerra questa? A chiamarla con l'altro nome -
"azione militare" - si rischia l'eufemismo,
cinico o minimizzatore. Però è vero anche il contrario:
che a chiamarla guerra le si riconosce un'autorizzazione
a metodi spinti molto oltre quelli consentiti da
un'azione di polizia internazionale. Non è un caso che
da "falchi" americani sia venuta la richiesta a
Clinton di dichiarare formalmente la guerra alla
Jugoslavia. Un'azione di polizia condotta attraverso
bombardamenti aerei sull'intero territorio è una
boutade. Un'azione di polizia che si inauguri
abbandonando il terreno, e le persone indifese da
tutelare, alle bande criminali, è una pazzia, se non una
colpa grave. (Quando si scopriranno le tombe dentro il
Kosovo, allora sarà il tempo della vergogna).
La distinzione non è una mia fisima. In Parlamento,
D'Alema ha insistito: "Ho ascoltato quanti hanno
espresso dissenso verso l'azione militare della Nato,
valutandola come un atto di guerra, anzi come la guerra.
Personalmente, non condivido questo giudizio... Non credo
che questi attacchi militari configurino l'inizio di una
nuova guerra". Nei dibattiti, la distinzione non è
stata neanche presa in considerazione. Chiamarla guerra
è pressoché inevitabile: ma la sovrapposizione del
significato comune a quello specifico comporta
conseguenze enormi.
1. Gli scopi dell'intervento. Si è discusso su quali
fossero gli scopi iniziali veri dell'intervento. Due
soprattutto, direi. Il primo: punire Milosevic.
Attribuisco questa intenzione specialmente agli
americani, e a un loro peculiare moralismo (non diverso
da quello che sta dietro all'attaccamento alla pena di
morte). Esso predilige la prova di forza, piuttosto che
la sanzione del Tribunale internazionale. Il secondo
scopo: proteggere le vite dei kosovari, a sventare
l'epurazione etnica (tecnicamente: il tentato genocidio;
così per Kofi Annan) in corso. Non occorre ripetere che
il secondo scopo è stato mancato, e anzi rovesciato nel
suo contrario. Il primo scopo, quello del castigo, non è
dichiarabile, e non è definibile nella categoria dei
moventi di una guerra né di un'azione di polizia. Il
secondo scopo - impedire il tentato genocidio - rientra
nei compiti caratteristici di un'azione di polizia.
2. La polizia internazionale. La nozione di
"ingerenza umanitaria", che appare azzardata a
molti, attaccati al tabù della "sovranità
statale" (o, impropriamente, "nazionale"),
è in realtà una nozione timida. Si pronunciano anche
formule temerarie, ma ancora in un senso allusivo, come
quella di "governo del mondo". La tendenza è a
un esercizio della forza legittima, un giorno sulla scala
planetaria, e intanto su una scala multinazionale, contro
violazioni intollerabili, sia per la loro gravità
rispetto a diritti fondamentali universalmente
riconosciuti, sia per i loro effetti nocivi oltre i
confini in cui sono compiute. Ora, l'esercizio della
forza legittima richiede la polizia e il tribunale.
Perché c'è una riluttanza a parlare di polizia,
piuttosto che di guerra? Per una doppia ragione. Di
abitudine, intanto. Il problema della criminalità degli
Stati è stato pensato come il problema della guerra e
della pace. La limitazione alle sovranità statuali è
stata intesa come una prevenzione della guerra, e
l'impiego della forza come una guerra giusta contro la
guerra ingiusta, d'aggressione. Nella discussione
filosofica le categorie di guerra giusta e ingiusta sono
restate dominanti: e lo sono ancora nella discussione di
questi giorni. La confusione fra ricorso alla guerra e
funzione di polizia sovrastatuale non è una questione
nominale. La guerra è una sospensione terribile della
legalità: una specie di superemergenza. Se si tratta di
guerra, passa in second'ordine l'attenzione al controllo
di legalità da esercitare sulla funzione di polizia
internazionale (come su quella nazionale). La frase
"Sono contro tutte le guerre" (a parte
l'incongruità: e la guerra antinazista?) taglia corto al
problema rimuovendolo: non è altrettanto facile
pronunciare la frase "Sono contro tutte le
polizie".
3. Controversie internazionali? Dice Kofi Annan:
"Non possiamo né vogliamo accettare una situazione
in cui un popolo sia brutalizzato dietro i confini di un
paese". La Costituzione italiana vuole che l'Italia
ripudi la guerra come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali, e fa bene. Ma è una
"controversia internazionale" la pulizia etnica
nel Kosovo? È una "controversia
internazionale" il (riuscito) genocidio dei Tutsi da
parte degli Hutu? Lo è il tentato genocidio di cristiani
e animisti nel Sud del Sudan? (Nella guerra del Golfo,
formalmente c'era, dopo l'invasione del Kuwait, una
"controversia internazionale"). Mi pare che la
"controversia internazionale" riguardi un
conflitto fra Stati. La caratteristica dei genocidi (e
delle violazioni dei diritti umani) è di essere
soprattutto l'opera di Stati contro gruppi di popolazione
chiusi nei loro confini. La Costituzione italiana non
dice che l'Italia ripudia il ricorso a una legittima
forza di polizia internazionale dove siano gravemente
colpiti la vita e i diritti fondamentali di popoli e
gruppi.
Le violazioni gravi dei diritti umani da parte degli
Stati equivalgono, sulla scala internazionale, a
permanenze di giustizia tribale, di sangue, di vendetta,
contro le quali deve intervenire un'autorità
"terza". La Jugoslavia della pulizia etnica del
Kosovo sta alla legalità internazionale come una enclave
del "doppio stato" mafioso, o un Nord di ronde
armate padane stanno allo Stato italiano e alla sua
legalità.
4. Il pregiudizio sulla "polizia". C'è una
riluttanza ad affrontare il tema della polizia
internazionale. Nessuno (più o meno) obietta
all'esistenza della polizia all'interno dei singoli
Stati. Tuttavia l'accettazione non va senza
preoccupazioni e diffidenze, tutt'altro che infondate. Si
fa una decisiva differenza fra uno Stato democratico e
uno Stato di polizia. Il linguaggio - parole come
"sbirro" - serba la memoria di una ostilità
allo Stato e al suo monopolio della forza. Del resto, è
recente da noi la rivendicazione del disarmo della
polizia, risposta a uno storico abuso della polizia al
servizio del privilegio sociale. Il corrispondente
internazionale dello "sbirro" è il
"gendarme del mondo". Cioè: la polizia del
mondo. Lo slittamento lessicale segnala una differenza
essenziale, fra una prepotenza che vuole dettare la legge
del più forte, e una potenza volta a far rispettare una
legge. Che nella pratica (compresa la pratica di questi
giorni) le due aspirazioni si confondano pesantemente,
non è una ragione per non distinguerle: anzi.
L'avversione "antimperialista" contro la
nozione di gendarme del mondo non può continuare a
riparare nel tabù della sovranità statuale. Il
controllo di legalità dei comportamenti della polizia,
così vitale per la civiltà degli Stati, lo è
altrettanto per le relazioni internazionali. C'è un
rapporto fra il "modello Rudolph Giuliani" e la
conduzione militare americana della "guerra"
contro la Serbia.
5. Il "contratto sociale". Nessuno può
sottovalutare i pericoli provenienti dal monopolio e
dall'esercizio smargiasso o stupido di una forza
internazionale. Ma si tratta dei pericoli che democrazia
e civiltà corrono in ogni Stato l'eventuale abuso delle
forze di polizia, o militari, o della giustizia. Né sono
superiori ai pericoli che comporta la rinuncia a una
prevenzione e sanzione internazionale delle sopraffazioni
più gravi contro gruppi umani indifesi.
Una simile regolazione deve ricevere, prima ancora che
una legittimazione formale, una giustificazione
sostanziale nella volontà delle persone, dei cittadini.
Equivalente a quella che, nel corso di secoli, filosofi e
giuristi hanno immaginato per spiegare la formazione
dello Stato e della legge. Per un profano come me, le
più affascinanti fra queste spiegazioni sono anche le
più fantasiose: la teoria del "contratto
sociale", di un patto attraverso il quale gli umani
escono da uno stato di natura ed entrano in un volontario
vincolo sociale, fra loro, e di tutti con un sovrano.
Questa descrizione è stata a volte considerata
realisticamente dai pensatori, che si innamorano di una
costruzione mitologica (e dei suoi fini, democratici o
autoritari) al punto di immaginarla come una cosa
avvenuta davvero.
Oggi noi assistiamo, rispetto alla formazione di una
legalità internazionale e dei suoi istituti, al
processo, in parte intenzionale, in parte (maggiore)
incontrollato e caotico, di un nuovo "contratto
sociale". Si ripetono, rispetto all'autorità
internazionale, divisioni che hanno opposto le concezioni
dello Stato; fra fautori della sovranità e della
volontà popolare, o invece della sovranità dello Stato
giustificato da se stesso, della potenza come
razionalità e fonte di diritto. Noi siamo meno
intelligenti dei sapienti antichi. Però sappiamo, a
nostre spese, qualcosa di più sugli umani e gli altri
animali. Vantaggio che può indurci a tener stretto
l'amore per la democrazia e la libertà, senza farci
illusioni. Dunque a perseguire comportamenti giusti,
conoscendo la distanza fra propositi ed effetti, e la
forza d'inerzia delle cose.
E' l'esperienza di questi giorni, salvo che per chi fugga
dalla prova dei fatti: il "pacifismo"
dell'ideologia, e il cinismo del principio "à la
guerre comme à la guerre". Abbiamo fatto esperienza
della necessità (mancata) di una prevenzione, quella cui
si dà il nome fittizio di "interposizione", e
che corrisponde alla presenza di una polizia sul
territorio; della trasformazione precipitosa
dell'intervento di protezione e di repressione in una
guerra unilaterale e schiacciante. In un'azione di
polizia, il principio della proporzione fra mezzi e fini
è decisivo. Il principio della prevenzione - dunque,
dell'interposizione necessaria e non effimera -
altrettanto. Le strategie scelte non potranno restare
succubi del calcolo delle vite proprie da risparmiare, al
costo della dissipazione di vite altrui.
Se, in un paese, dei sequestratori prendono degli
ostaggi, e se ne fanno scudo, è difficile ammettere che
la polizia dia loro un ultimatum, li avverta che
qualunque conseguenza sugli innocenti ricadrà moralmente
su loro, e attacchi a tappeto ammazzando gli uni e gli
altri. (Benché possa succedere, purtroppo). Perché un
simile atteggiamento dovrebbe essere ammesso quando si
tratta di una polizia nord-atlantica che si misura con il
criminale Milosevic e i suoi scudi umani? La sede di una
televisione non si deve bombardare, non per rispetto
della libertà di informazione, che lì è una
caricatura, bensì per salvaguardare le persone che ci
stanno dentro. Lo stesso vale per la Zastava, se gli
operai la presidiano. Quelli che parlano della guerra,
spiegano che la guerra non si può fare con un braccio
legato dietro la schiena. Se si smette di giocare alle
guerre, e ci si propone un'azione di polizia, il braccio
legato dietro la schiena non è altro che il vincolo
della legalità: la vera differenza fra le bande degli
epuratori dei villaggi e la "comunità
internazionale".
(7 maggio 1999)
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I diritti del Kosovo
di NOEL MALCOLM*
Slobodan Milosevic è un politico
astuto, ma il 24 marzo potrebbe aver compiuto il più
grande errore della sua carriera. Immaginate quanto
diversa avrebbe potuto essere la sua tattica: dopo l'
esplosione del primo missile Cruise, avrebbe potuto
sospendere tutte le operazioni in Kosovo, inviare autobus
carichi di giornalisti stranieri nella provincia a caccia
delle vittime albanesi delle bombe Nato e concentrare
tutta la sua abilità diplomatica per creare una frattura
fra gli alleati occidentali.
Nell'arco di una settimana, il già precario consenso
all' interno della Nato si sarebbe definitivamente
incrinato, e la politica occidentale avrebbe dovuto
necessariamente bloccarsi. Invece, Milosevic ha ordinato
alle sue forze nel Kosovo di scatenare una campagna di
terrore che sembra aver superato in velocità e
dimensioni persino la "pulizia" della Bosnia
orientale e settentrionale del 1992. Non è stata,
ovviamente, soltanto una reazione spontanea agli attacchi
aerei. I segnali di una programmazione erano visibili da
diversi mesi; essi includevano non soltanto il
rafforzamento militare, che ha portato più di 15.000
soldati jugoslavi nella zona, ma anche l' integrazione
delle unità dell' esercito e della polizia, con il
chiaro compito di agire contro la popolazione civile.
Eppure, Milosevic avrebbe ancora potuto sospendere questo
progetto. Invece ha scelto di accelerarlo. è così
accaduto che la politica Nato, che al lancio dei primi
missili era apparsa assai poco convincente, ha acquisito
la coesione e la chiarezza di intenti che le erano così
smaccatamente mancate. Era risultata incerta, quella
politica, perché basata su una miscela fragilissima di
mezzi e finalità: la minaccia di distruzione militare di
Milosevic accompagnata al proclama che l' obiettivo Nato
era tenere il Kosovo sotto il governo di Milosevic (come
una "provincia autonoma della Serbia"). L'
obiettivo è ora invece semplice: rendere possibile il
ritorno di tutti i rifugiati kosovari alle loro case. L'
opinione pubblica occidentale lo ha compreso ed approvato
e nei principali Paesi della Nato è stato dato il
consenso per compiere qualunque passo necessario per
raggiungere lo scopo della missione, incluso l' impiego
di truppe di terra. A chi sostiene che la Nato stessa è
responsabile di aver provocato la campagna di pulizia
etnica, si deve rispondere che se anche fosse vero in
parte - e solo in parte, visti i segnali dei preparativi
già ricordati - ciò va ad aggiungersi all' obbligo
morale dei governi dell' Alleanza di assicurare la
sconfitta totale della politica di Milosevic. Inoltre, i
timori che da molto tempo l' occidente nutre sulla
destabilizzazione della Macedonia, sono amplificati dalla
marea di rifugiati in quel Paese. E, infine, ora c' è la
necessità di mantenere la credibilità stessa della Nato
- considerazione non irrilevante per coloro che in
Occidente si prendono cura della sicurezza mondiale. Per
tutte queste ragioni, quindi, gli obiettivi della
politica Nato, e la necessità di trasparenza, sono
diventati molto chiari. Resta da precisare ancora un
elemento essenziale: la natura della risoluzione politica
a lungo termine con cui questi obiettivi potrebbero
essere realizzati. La continua confusione su questo punto
sta ostacolando l' iniziativa politica occidentale e può
persino essere d' intralcio ai governi nell' adozione di
quelle misure militari che dovrebbero prendere per far
prevalere la loro politica. Ufficialmente, i governi
occidentali sono ancora impegnati a raggiungere un
accordo secondo le linee delle proposte di Rambouillet:
un Kosovo autonomo all' interno della Serbia, con la
sicurezza interna garantita da una forza di pace a guida
Nato. Ma ufficiosamente, i diplomatici sanno che
Rambouillet è morto e che non si potrà mai dire ai
kosovari di ritornare in un territorio sotto il governo
sovrano della Serbia. L' ovvia conclusione - al Kosovo
deve essere garantita l' indipendenza - viene trattata
ancora come un tabù. Perché? Politici e diplomatici
hanno due risposte standard. La prima è che l'
indipendenza del Kosovo porterebbe gli albanesi della
Macedonia a richiedere la spartizione territoriale del
loro Stato. Questa è sempre stata un' affermazione poco
convincente: i politici albanesi della Macedonia non
hanno mai voluto una simile spartizione, perché
perderebbero la capitale Skopje, dove vivono 200.000
albanesi. Ma oggi l' obiezione è ancor meno credibile:
per la salvaguardia della sua stabilità, la Macedonia
chiede che i rifugiati del Kosovo tornino alle loro case,
e questi lo faranno soltanto quando saranno convinti che
la futura indipendenza del Kosovo sarà garantita. L'
altra risposta standard è che l' indipendenza per il
Kosovo costituirebbe un pericoloso precedente, che
potrebbe essere seguito da altri gruppi - curdi, baschi,
o chiunque altro. Chi sostiene questa tesi, non ha ancora
capito su quali basi si regge la rivendicazione del
Kosovo. La sua indipendenza potrebbe rappresentare non un
nuovo precedente, ma il ripetersi di qualcosa già
accaduto in Slovenia, in Croazia, in Macedonia e in
Bosnia, nel 1991-1992. Ciò che accadde durante quei due
anni non fu la secessione da uno Stato jugoslavo che
continuava a esistere, ma lo smembramento completo della
Federazione jugoslava nelle regioni che la costituivano.
Il Kosovo era, sotto il profilo legale, una regione
federale della ex-Jugoslavia e godeva di quasi tutti gli
stessi diritti delle altre repubbliche. Pertanto avrebbe
dovuto essergli garantito lo stesso diritto all'
indipendenza. è strano che molti di coloro che
abitualmente mettevano in guardia da precedenti
pericolosi, ora si dilettino con una proposta che
scoperchierebbe davvero un vaso di Pandora: la
spartizione.
L' idea sarebbe che Milosevic, per la sua campagna di
terrore, venisse ricompensato con almeno una parte -
nella maggioranza delle proposte, la metà o il terzo
settentrionale del Paese - dell' area che ha ripulito.
Lord Owen è andato addirittura oltre e ha suggerito che
Milosevic dovrebbe essere ricompensato con una
considerevole parte della Bosnia orientale, epurata dalle
sue truppe nel 1992. La spartizione del Kosovo non
soltanto non è auspicabile sul piano del precedente, ma
non è nemmeno giustificabile in termini di geografia
dello stesso Kosovo. La parte settentrionale del Kosovo
è (o era) esattamente un' area di maggioranza albanese
quanto la metà meridionale. In mancanza di una qualsiasi
giustificazione di questo tipo, i separatisti si
aggrappano a pretesti culturali, quali la presenza di
monasteri o di campi di battaglia storici. Ed è ben
strano riscontrare tanta sensibilità nei confronti delle
esigenze monastiche dei serbi da parte di commentatori
che non hanno aperto bocca di fronte alla deliberata
distruzione delle moschee più importanti della Bosnia
nel 1992.
La politica occidentale dovrebbe impegnarsi per un Kosovo
indipendente ed integro, liberandosi così dal peso morto
dell' accordo di Rambouillet e permettendo alla Nato di
compiere un nuovo passo decisivo: la fornitura di armi
alle forze di liberazione del Kosovo. L' accordo di
Rambouillet prevedeva il disarmo dell' UCK e l'
intervento delle truppe Nato come forze neutrali di pace.
Ma un Kosovo indipendente avrebbe bisogno di un suo
esercito di cui l' attuale UCK costituirebbe la base. La
reiterata riluttanza ad armare l' UCK è uno degli
aspetti più strani della politica dei governi
occidentali. Le forze aeree da sole non possono
sconfiggere un' armata sul terreno. Ma la loro efficacia
viene potenziata se le forze nemiche sono impegnate in
una guerra di terra, che li obblighi a tirar fuori i loro
mezzi corazzati, concentrandoli in formazioni offensive o
difensive.
A breve termine, anche se un UCK ben armato non potrebbe
sconfiggere l' armata serba, potrebbe renderla molto più
vulnerabile agli attacchi aerei; a lungo termine,
potrebbe addirittura sconfiggerla sul terreno. Perché
dunque i governi occidentali sono così ostentatamente
freddi nei confronti dell' UCK? Il problema principale è
di ordine politico: l' occidente pensa che l' UCK sia una
pericolosa organizzazione di sinistra. Il suo radicalismo
è però enormemente sopravvalutato: è l' impressione
data dai piccolissimi gruppi che originariamente
fondarono il movimento. L' anno scorso, in realtà, l'
azione di Milosevic ha fatto confluire nell' UCK molte
migliaia di kosovari; in alcune zone, i rappresentanti
locali del partito moderato di Ibrahim Rugova sono
semplicemente passati all' UCK, e i componenti di questo
"esercito" sono attualmente una parte
rappresentativa della gente comune. La paura di aiutare
forze politiche di sinistra a raggiungere il potere ha
giocato un ruolo importante nella guerra fredda: ma
questa limitazione, oggi, non ha più motivo di essere.
Inoltre, la gente del Kosovo non vuole un governo di
sinistra radicale. E un Kosovo indipendente, istituito
con l' aiuto della Nato, avrebbe un sistema democratico.
Quello che i kosovari vogliono veramente, più di ogni
altra cosa, è tornare nelle loro case. Se le potenze
occidentali condividono questo obiettivo, dovrebbero
impegnarsi non soltanto politicamente, ma anche attuando
tutte le misure necessarie per raggiungerlo.
(Copyright Noel Malcolm 1999 / The Daily Telegraph.
Traduzione Logos)
*L' autore è docente alla Harvard University e autore di
numerosi saggi e libri storici, tra i quali il recente
Kosovo: A Short History.
(6 maggio 1999)
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Ma i morti non ritornano
di NADINE GORDIMER
Che dire di questa guerra che sembra
spazzar via tutto ciò che in questo secolo si era
guadagnato in umanità? È stato il secolo più violento
mai registrato, e si sta concludendo con un altro
spaventoso tracollo delle relazioni umane, nonostante i
tanti celebrati progressi delle tecnologie della
comunicazione.
A cosa mai servono Internet, la posta elettronica, i
collegamenti via satellite tra individui e paesi, se
anziché tollerare le differenze e risolverle
pacificamente facendo uso della conoscenza, gli esseri
umani si perseguitano a vicenda, e non si è trovato
altro mezzo internazionale per farli smettere che
distruggere a colpi di bombe la vita di tutti?
Io deploro l'offensiva della Nato in Kosovo, perché non
porta a una soluzione agli orrori commessi da Milosevic.
ma l'aspetto tremendo del problema è che quanti tra noi
sono convinti di questo non hanno però un'altra
soluzione da proporre. Forse la nuova iniziativa
diplomatica apre uno spiraglio, anche se finora la
diplomazia ha vergognosamente fallito. ma quale che sia
la soluzione, i morti non torneranno indietro. E il
trauma dei campi profughi non potrà essere cancellato da
questa fine millennio.
L'autrice è premio Nobel per la letteratura.
(5 maggio 1999)
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Quelle guerre
così diverse
di GIORGIO BOCCA
Che cosa è questa guerra jugoslava?
Che cosa erano le guerre di chi ci è passato? Sempre
qualcosa di raccontato da chi è sopravvissuto, non dai
morti, i morti della guerra partigiana visti da Cesare
Pavese in una vigna, muti con il loro mistero. Guerre
raccontate dai sopravvissuti di generazioni diverse, a
volte diversissime. La precedente alla mia, almeno gli
intellettuali, era andata alla prima guerra mondiale come
a una prova di redenzione e di palingenesi, la guerra
"sola igiene del mondo". IL "lavacro"
dopo di cui, diceva Mussolini, "nulla sarebbe più
stato come prima", una reazione individualistica
alla rivoluzione industriale di massa, una rivincita del
cuore, della volontà rispetto alle merci e alle
macchine. Anche un' esperienza estetica la bella morte
raccontata da Junger sui prati "irrorati di
sangue". E poi si era trovata impantanata per anni
nel fango delle trincee, finché le masse e le macchine e
le merci avevano deciso la vittoria. Le guerre non solo
vengono raccontate dai sopravvissuti, ma nella versione
ufficiale, dominante, da quelli che comandano nel regime
che alla guerra è sopravvissuto. Ecco perché quelli
della mia generazione seppero poco e male della prima
guerra mondiale anche se erano passati solo venti anni:
niente di Caporetto, niente delle stragi sull' Isonzo,
niente delle decimazioni dei fuggiaschi e del Piave solo
la retorica dell' ufficio propaganda del Regio esercito
"meglio vivere un giorno da leone che cento anni da
pecora" scritto, pensa te, da un fante ignoto con
chi sa quale carboncino. Ho capito cosa era stata quella
guerra due decenni dopo in una marcia del corso allievi
ufficiali sull' altipiano di Asiago, all' Ortigara: la
cima si era abbassata di otto metri sotto le cannonate,
nelle trincee c' erano ancora, nonostante i venti
inverni, brandelli di divise, scarponi di alpini, ossa di
alpini, mostrine, giberne di alpini. Già, la guerra è
una delle cose umane in cui capisci meglio che il caso è
il vero padrone della nostra esistenza. Nella mia il caso
decise che uno nato nel secondo semestre del 1920 fosse
richiamato solo nel ' 42 e uno del primo semestre invece
si facesse il fronte occidentale contro la Francia e poi
l' Albania; sempre il caso decise che alcuni passassero
l' intera giovinezza in guerra, prima in Etiopia, poi in
Spagna, poi in Jugoslavia, poi in Russia, poi con i
partigiani sicché i loro parenti si erano quasi
dimenticati che faccia avessero. Una guerra è ciò che
raccontano i sopravvissuti secondo i loro casi. La nostra
fu la conferma di qualcosa che si era intuito ma che si
stentava a credere: non avevamo un esercito pronto a
farla anzi pronto a volerla fare. Si era nel ' 42, la
guerra aveva già preso per noi una brutta piega ma nella
caserma di Bassano del Grappa corso allievi ufficiali
della guerra non arrivava nessuna eco, passavamo i giorni
in un mondo chiuso fermo alle armi e agli addestramenti
della prima guerra mondiale, montare e smontare il
fucile, fare ordine chiuso, ascoltare il tenente Del
Grosso che ci spiegava il regolamento.
Perché nessuno parlava della guerra? Perché nessuno
sembrava interessato a trarre delle lezioni dalla guerra
in corso? Che prova aveva dato quello sputafuoco del
cannoncino anticarro 47/32? Come avevano funzioni i
vecchi fucili 91, quasi gli stessi della prima guerra d'
Africa? Anche al fronte i fucili mitragliatori si
inceppavano ogni dieci colpi? Niente, neppure l' ascolto
dei bollettini di guerra, tutto fermo alla marcia del
principe Eugenio e al regolamento del magico libretto che
garantiva la burocrazia militare, la copriva da ogni
responsabilità. Un cielo di un azzurro un po' estenuato,
adriatico, stava sopra le campagne morbide di Ezzelino da
Romano che salivano verso il massiccio protettivo del
Monte Grappa, sacro alla patria e la guerra non c' era
mentre marciavamo come pensiero, come progetto. Nove su
dieci non avevamo mai guidato un' automobile e non
saremmo stati capaci di far muovere un carro armato, non
sapevamo come si montava un ponte, come si
radiotelegrafava, segnalavamo ancora con le bandiere a
strisce rosse e bianche. Alle cose tecniche avrebbe
pensato il Genio che nessuno di noi aveva mai incontrato.
La guerra vera, quella che si combatteva in Albania e in
Russia, per noi non esisteva. Noi simulavamo una guerra
che non c' era mai stata, una finta guerra di venti anni
prima sulle pietraie del Grappa o di Arco vicino al Lago
di Garda, tatticando come prevedeva il regolamento ma che
sarebbe stato suicida in una guerra vera: avanti il primo
plotone coperto dal fuoco degli altri due, non a forza di
gomiti come i tedeschi, ma di corsa destinati a essere
falciati da una mitragliatrice nemica che però non c'
era. Non c' era altro nella nostra preparazione
guerriera: il grido dell' assalto finale, Savoia contro
il nemico inesistente e poi la marcia del principe
Eugenio, i tamburi e le trombe del generale sabaudo che
dall' alto di Superga guarda Torino assediata dai
francesi e poi dà ordine alle truppe austriache con cui
ha sconfitto i turchi davanti a Vienna di scendere a
liberare la città, battaglioni che avanzano a passo
ritmato e scendono come i fiumi e i torrenti del
Piemonte. E allora noi marciavamo per Bassano la dolce
come se fossimo granatieri reduci dall' Assietta.
Poi per tutti noi in qualche terra straniera africana o
russa sarebbe arrivata l' ora orrenda della guerra vera
che i sopravvissuti raccontano e che rimane come un
periodo folgorante nella loro memoria, perché non c' è
altro che esalti e renda indimenticabile un evento più
che la paura della morte che è di tutti. Mai visto in
guerra uno che sotto il fuoco nemico non si sentisse
schiacciare il petto e stringere la gola da quella paura
che fa anche delle guerre più stupide, più feroci,
qualcosa di unico, di assoluto. La guerra continuava
interminabile e casuale come una lenta ma incontrollabile
mola che si portava via uno dopo l' altro gli amici di
gioventù. E anche il lutto aveva effetti casuali, di
alcuni che pure ci erano stati molto amici ci importava
poco, di altri ci ferivano al cuore aspetti magari minimi
per una guerra. Era il caso che oltre la paura della
morte segnava quei lunghi mesi senza sbocco: il sapere
che era il caso a decidere e che non avresti potuto far
nulla per evitarlo; il caso di una cartolina precetto, o
di un ordine che un giorno sarebbe arrivato: si va in
Russia, si va a El Alamein, chi deve andare va, chi deve
morire muore. La guerra non è sempre orrenda per tutti:
puoi passare dei mesi come l' Hemingway convalescente a
guardare gli alberi oltre il fiume e a corteggiare le
infermiere, puoi essere uno dei milioni di sfollati che
ogni sera prendono la bicicletta e vanno a dormire in
campagna o in cerca di farina e di burro, puoi essere uno
dei milioni che riscoprono la campagna e guardano dal
treno come cresce il grano e si angosciano se la grandine
ha piegato le messi. Ma la guerra è una macina che
schiaccia man mano tutto, che devasta il mondo in cui sei
cresciuto. Arrivavi a Torino, a Milano e trovavi un mare
di macerie, viaggiavi sui carri merci in piedi o su delle
panche, e ti sentivi risuonare negli orecchi il suono
lacerante delle sirene. Credo che molti di noi siano
saliti in montagna come per una liberazione dalla guerra
del caso, dove sei una pedina nelle mani del caso, per
fare una guerra senza costrizioni, una guerra di libertà
in cui puoi morire ma nessuno ti costringe a morire, in
cui non ci sono libretti del regolamento, e un' arma non
è un peso ma un tuo custode, un tuo alter ego. L' unica
guerra che gli italiani sanno fare.
(4 maggio 1999)
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Le nuove regole
del mondo globale
di TONY BLAIR
Chiunque, in Occidente, abbia assistito
agli eventi del Kosovo non può dubitare che l' azione
della Nato sia giustificata. In una delle sue frasi
celebri, Bismarck aveva detto che i Balcani non valevano
le ossa di un solo granatiere della Pomerania. Ma chi ha
visto i volti rigati di lacrime di centinaia di migliaia
di rifugiati mentre attraversavano il confine, o
ascoltato i loro strazianti racconti di atrocità, o
immaginato il destino di chi è rimasto indietro, sa che
Bismarck era in errore. Questa è una guerra giusta,
basata non su ambizioni territoriali ma su valori.
Noi non possiamo permettere che continui l' orrore della
pulizia etnica. Non dobbiamo fermarci finché non si
sarà invertita questa rotta. Abbiamo appreso per ben due
volte, nel corso di questo secolo, che la pacificazione
non serve. Se lasciassimo che un dittatore perverso
spadroneggi incontrastato, alla fine dovremmo spargere
infinitamente più sangue e più risorse per fermarlo. Ma
la gente non chiede soltanto se avevamo ragione di
intraprendere quest' azione; vuole sapere anche se i
nostri obiettivi erano chiari, e se riusciremo a
conseguirli. I nostri obiettivi sono cinque: la
cessazione verificabile di tutte le attività belliche e
dei massacri; il ritiro delle forze militari,
paramilitari e di polizia serbe dal Kosovo; il
dispiegamento di una forza militare internazionale; il
ritorno di tutti i profughi e il libero accesso di aiuti
umanitari; e infine, un quadro politico per il Kosovo,
basato sugli accordi di Rambouillet. Non negozieremo su
questi obiettivi. Milosevic deve accettarli. Con la
nostra campagna aerea abbiamo distrutto la maggior parte
delle forze aeree operative di Milosevic, un quarto dei
suoi sistemi radar Sam (mentre la parte restante non
viene utilizzata per timore della sua distruzione), le
sue raffinerie di petrolio e le vie di comunicazione
verso il Kosovo, le sue infrastrutture militari, compresi
gli strumenti di comando e di comunicazione, e buona
parte dei suoi depositi di munizioni.
Il morale dell' esercito jugoslavo sta incominciando a
crollare. Mentre l' Uck è ora più forte, e gode di un
sostegno più ampio di quando Milosevic iniziò la sua
campagna. Abbiamo sempre detto chiaramente che questa
campagna richiederà tempo. Non potremo riportare il
successo finché non siano entrate in Kosovo forze
internazionali, che consentano ai profughi di far ritorno
nelle loro case. Milosevic non potrà opporre un veto
all' ingresso di questa forza internazionale. Così come
a mio parere non vi erano alternative all' azione
militare, ora che è iniziata non vi sono alternative al
suo successo. Quella del successo è l' unica strategia
d' uscita che sono disposto a prendere in considerazione.
Ora dobbiamo incominciare a lavorare per ciò che verrà
dopo il nostro successo in Kosovo. Quello che serve è un
nuovo Piano Marshall per il Kosovo, così come per la
Macedonia, l' Albania e la stessa Serbia, se passerà
alla democrazia. è necessario un nuovo quadro per la
sicurezza dell' intera regione dei Balcani. Dovremo
inoltre assistere il Tribunale per i crimini di guerra
per portare davanti alla giustizia chi ha commesso questi
spaventosi crimini. Vent' anni fa, non ci saremmo battuti
nel Kosovo. Gli avremmo voltato le spalle. Il nostro
impegno è il risultato di un' ampia serie di
cambiamenti: la fine della guerra fredda, il cambiamento
tecnologico, la diffusione della democrazia. Ma i
cambiamenti sono anche maggiori. Io credo che il mondo
sia mutato in un senso più fondamentale. La
globalizzazione ha trasformato le nostre economie e il
nostro modo di lavorare. Ma la globalizzazione non è
soltanto economica. è un fenomeno che investe anche la
politica e i problemi della sicurezza. Molti dei nostri
problemi interni hanno origine in un' altra parte del
mondo.
L' instabilità finanziaria in Asia distrugge posti di
lavoro sia a Chicago che nella mia circoscrizione
elettorale, nella Contea di Durham. L' indigenza nei
Caraibi fa aumentare la droga per le strade di Washington
e di Londra. Il conflitto nei Balcani accresce l'
afflusso dei profughi in Germania e negli Stati Uniti.
Tutti questi problemi possono essere affrontati soltanto
attraverso la cooperazione internazionale. Oggi siamo
tutti internazionalisti, che ci piaccia o meno. Non
possiamo rifiutare di partecipare al mercato
internazionale se vogliamo la prosperità. Non possiamo
ignorare le nuove idee politiche di altri paesi, se
vogliamo innovare. Non possiamo voltare le spalle ai
conflitti e alle violazioni dei diritti umani in altri
paesi, se vogliamo rimanere al sicuro. Alla vigilia del
nuovo millennio, viviamo ormai in un nuovo mondo. Abbiamo
bisogno di nuove regole per la cooperazione
internazionale, di nuove forme di organizzazione delle
nostre istituzioni internazionali.
Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo creato una serie
di istituzioni internazionali per affrontare lo sforzo
della ricostruzione di un mondo devastato: Bretton Woods,
le Nazioni Unite, la Nato. Già allora era chiaro che il
mondo stava diventando sempre più interdipendente. La
dottrina dell' isolazionismo è caduta vittima di una
guerra mondiale, quando gli Stati Uniti (insieme ad
altri) si resero conto infine che quella di assistere
passivamente non era una scelta da prendere in
considerazione. Oggi, l' impulso all' interdipendenza è
incommensurabilmente più forte. Stiamo assistendo al
sorgere di una nuova dottrina sulla comunità
internazionale. Mi riferisco con ciò all' implicito
riconoscimento del fatto che oggi siamo reciprocamente
dipendenti, più di quanto lo siamo mai stati in passato,
e che gli interessi nazionali sono governati in misura
significativa dalla collaborazione internazionale; si
avverte quindi la necessità di un dibattito chiaro e
coerente sulla direzione in cui questa dottrina ci
conduce in ogni campo dell' impegno internazionale.
Tuttavia, finora abbiamo sempre affrontato i problemi
caso per caso. Siamo continuamente alle prese con il
rischio di lasciare che dovunque siano le scene
inquadrate dalla Cnn nei suoi continui spostamenti a fare
da pungolo per indurci a prendere sul serio un conflitto
globale. Abbiamo ormai dieci anni di esperienza dalla
fine della guerra fredda. è stato certo un periodo meno
facile di quanto molti avessero sperato, nell' euforia
seguita al crollo del muro di Berlino. Le nostre forze
armate hanno avuto più che mai da fare per fornire aiuti
umanitari, svolgere azioni deterrenti contro aggressioni
a popolazioni indifese, sostenere le risoluzioni dell'
Onu e impegnarsi occasionalmente in guerre di più vasta
portata, come quella del Golfo del 1991 e l' attuale
impegno nei Balcani. Possiamo vedere nelle difficoltà di
quest' ultimo decennio semplici ripercussioni della fine
della guerra fredda? La situazione si stabilizzerà tra
breve, o prefigura invece un modello destinato a
estendersi in futuro?
Molti dei nostri problemi sono stati causati da due
uomini pericolosi e spietati: Saddam Hussein e Slobodan
Milosevic. Entrambi erano pronti a scatenare aggressioni
perverse contro settori della propria comunità. Come
risultato di queste politiche distruttive, entrambi hanno
attirato calamità sulle proprie popolazioni. L' Iraq,
che pure avrebbe potuto mettere a frutto le proprie
ricchezze petrolifere, è stato ridotto all' indigenza, e
le intimidazioni hanno soffocato la sua vita politica.
Milosevic era alla testa di uno Stato etnicamente
variegato, con notevoli risorse e buone possibilità di
trarre vantaggio dalle nuove opportunità economiche. Ma
a causa della sua ossessione per la concentrazione
etnica, si ritrova oggi con un paese molto
ridimensionato, un' economia distrutta e presto anche un
apparato militare azzerato. Una delle ragioni per le
quali ora è tanto importante vincere il conflitto è
assicurare che altri non commettano lo stesso errore in
futuro. Questo è di per sé della massima importanza per
assicurare che nel prossimo decennio e nel prossimo
secolo vi siano minori difficoltà che in passato. Se la
Nato dovesse fallire nel Kosovo, un dittatore che in
futuro fosse minacciato di un intervento militare
potrebbe non credere nella nostra risoluzione di dare
attuazione alla minaccia. La fine di questo secolo vede
emergere gli Usa come lo Stato di gran lunga più
potente. Questo paese non sogna conquiste mondiali, né
sta cercando di colonizzare terre. Gli americani sono fin
troppo inclini a non vedere alcuna necessità di farsi
coinvolgere negli affari del resto del mondo. Per i suoi
alleati, la disponibilità dell' America a farsi carico
degli oneri e delle responsabilità inerenti al suo
status di unica superpotenza è sempre motivo di sollievo
e di gratificazione. Noi comprendiamo di non avere il
diritto di dare per scontata questa disponibilità, e di
dover contribuire a questo sforzo con il nostro impegno.
Da questa base ha preso le mosse una mia recente
iniziativa, in accordo con il presidente francese Jacques
Chirac, per migliorare l' assetto difensivo dell' Europa.
Dobbiamo ora stabilire un nuovo quadro. La nostra
esistenza in quanto Stati non è più minacciata. Oggi le
nostre azioni sono guidate da una più sottile
commistione tra i nostri propri e reciproci interessi e
l' intento di difendere i valori morali che ci stanno a
cuore. In definitiva, i valori e gli interessi si
fondono. Se possiamo stabilire e diffondere i valori
della libertà, dello stato di diritto, dei diritti umani
e di una società aperta, ciò corrisponde anche ai
nostri interessi nazionali. La diffusione dei nostri
valori ci garantisce una maggiore sicurezza. Come ebbe a
dire John Kennedy, "la libertà è indivisibile. Se
un solo uomo è schiavo, chi può dirsi libero?". Il
problema di politica estera più pressante è quello di
identificare le circostanze nelle quali saremo
attivamente coinvolti nei conflitti di altri popoli. La
non interferenza è stata considerata a lungo un
principio importante dell' ordine internazionale. Non è
un principio che si possa gettare a mare troppo
facilmente. Uno Stato non può ritenersi in diritto di
cambiare il sistema politico di un altro Stato, o di
fomentare la sovversione, o di impossessarsi di parti di
un territorio sul quale ritenga di avere dei diritti. Ma
il principio della non interferenza deve essere
qualificato per alcuni aspetti importanti. Atti di
genocidio non possono mai costituire una questione
puramente interna. Se uno stato di oppressione dà luogo
a un flusso massiccio di profughi, tale da destabilizzare
i paesi vicini, si può parlare a ragione di una
"minaccia alla sicurezza internazionale". Se un
regime è dominato da una minoranza, perde la propria
legittimità: si pensi al caso del Sudafrica. Se ci
guardiamo intorno, nelle varie parti del mondo vediamo
molti regimi antidemocratici, che commettono atti di
barbarie. Se volessimo raddrizzare tutte le storture cui
assistiamo nel mondo moderno, praticamente non potremmo
più far altro che intervenire negli affari di altri
paesi; e non saremmo in grado di far fronte a tutto.
Quindi, come decidere quando e se intervenire? Io penso
che dobbiamo attenerci a cinque principali
considerazioni. Prima di tutto, siamo sicuri di ciò che
sosteniamo? La guerra è uno strumento imperfetto per
porre rimedio a drammi umani; ma le forze armate
costituiscono a volte il solo mezzo per affrontare un
dittatore. In secondo luogo, sono state esaurite tutte le
possibilità della diplomazia? Dobbiamo sempre dare ogni
opportunità alla pace, come abbiamo fatto in questo caso
per il Kosovo. Terzo: a fronte di una valutazione pratica
delle situazioni, quali operazioni militari possiamo
intraprendere su basi di ragionevolezza e di prudenza?
Quarto: siamo pronti al lungo termine? In passato abbiamo
parlato troppo di strategie d' uscita. Ma avendo preso un
impegno, non possiamo semplicemente andarcene dopo la
battaglia; meglio rimanere con una forza militare ridotta
che dover tornare a ripetere azioni con un impegno
militare maggiore. E infine, i nostri interessi nazionali
sono coinvolti? L' espulsione di massa della popolazione
albanese dal Kosovo esigeva l' attenzione del resto del
mondo. Ma il fatto che ciò stia avvenendo in una parte
così infiammabile del mondo modifica i termini del
problema? Non intendo affermare che questi criteri
debbano avere carattere assoluto; ma sono queste le
questioni sulle quali dobbiamo riflettere al momento di
decidere, in futuro, quando e se intervenire. Nuove
regole potranno comunque essere funzionali soltanto
quando avremo riformato le istituzioni internazionali che
provvederanno alla loro applicazione. Se vogliamo un
mondo fondato sul diritto e sulla cooperazione
internazionale, dobbiamo sostenere l' Onu come pilastro
centrale. Ma è necessario trovare un modo nuovo per far
funzionare l' Onu e il Consiglio di Sicurezza, se non
vogliamo tornare alla situazione di stallo che ha eroso
l' efficacia del Consiglio di Sicurezza durante la guerra
fredda. Questo compito dovrà essere affrontato dai
cinque membri permanenti del Consiglio una volta concluso
il conflitto nel Kosovo. La Terza Via è un tentativo da
parte dei governi di centro e di centro-sinistra di
ridefinire un programma politico diverso rispetto alla
vecchia sinistra come rispetto alla destra degli anni 80.
Anche in campo politico, le idee si stanno globalizzando.
Nella misura in cui i vari problemi - competitività,
cambiamento tecnologico, criminalità, droga, crisi della
famiglia - acquistano carattere globale, lo stesso deve
avvenire per quanto riguarda la ricerca di soluzioni.
Nelle mie conversazioni con i leader di altri paesi, non
mi sono tanto sorpreso delle differenze quanto dei punti
che abbiamo in comune. Ci troviamo tutti ad affrontare
gli stessi problemi: come conseguire la prosperità in un
mondo in rapida trasformazione economica e tecnologica, o
la stabilità sociale, a fronte dei cambiamenti nella
famiglia e nella comunità; il ruolo dei governi, in un'
era in cui abbiamo imparato che le cose funzionano male
quando lo Stato è ipertrofico, ma ancora peggio quando
è inesistente. La decisione più importante che dovremo
affrontare nei prossimi due decenni è il rapporto della
Gran Bretagna con l' Europa. Per troppo tempo, l'
ambivalenza britannica nei confronti dell' Ue ha reso
irrilevante la nostra posizione in Europa, e di
conseguenza ha sminuito la nostra importanza anche nei
rapporti con gli Stati Uniti. Abbiamo finalmente
sgombrato il campo da una falsa pregiudiziale: quella di
dover scegliere tra due strade divergenti, vale a dire
tra il rapporto transatlantico o l' Europa. Per la prima
volta da tre decenni, abbiamo un governo a un tempo
europeista e filo-americano. Io credo fermamente che
questo sia nell' interesse della Gran Bretagna, ma anche
in quello degli Usa e dell' Europa.
(4 maggio 1999)
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Quello strano duello
tra Sade e De Amicis
di ALBERTO ARBASINO
"Siamo tutti piccoli
albanesi", ce lo insegnavano da bambini a scuola,
perfino a Voghera. Negli anni Quaranta, quando Vittorio
Emanuele III era "re d' Italia e d' Albania", e
il Duce ribattezzava "Porto Edda" lo scalo
albanese di Santi Quaranta, in onore della figlia,
consorte del ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano. Però
siamo stati spesso alleati anche dei serbi. Questo lo si
imparava al ginnasio.
Anzi, uno storico mi segnala un albo di Aldo Carpi:
Serbia eroica ("impressioni pittoriche sulla
ritirata dell' esercito serbo sull' Adriatico"),
edito da Alfieri e Lacroix a Milano, nel 1917, insieme a
una pubblicazione dell' Ufficio Speciale del Ministero
della Marina, Per l' esercito serbo, con fotografie,
nella collana "La Marina italiana nella Guerra
europea". Aldo Carpi era un notissimo pittore
milanese, direttore dell' Accademia di Brera e deportato
per antifascismo nei lager di Mauthausen e Gusen, da cui
riportò anche un diario e una serie di disegni, molto
rinomati a Milano. Nella prima guerra mondiale si era
arruolato volontario, aveva assistito al salvataggio
dell' eroico esercito serbo (sconfitto dagli austriaci)
da parte della nostra eroica marina, che dai soliti porti
albanesi l' aveva trasportato a combattere i turchi sul
fronte di Salonicco e Gallipoli. E ne aveva tratto questi
impressionanti disegni, che dovrebbero trovarsi ancora a
Roma, nel Museo del Risorgimento al Vittoriano.
Naturalmente, molti di noi hanno studiato quei lontani
eventi (oggi così attuali) nei vecchi licei. E si può
sempre consultare la Treccani:
"Il conflitto si annunziava disuguale: 330.000
Austro- bulgaro-tedeschi contro 250.000 Serbi; 1400
cannoni contro 634. Ai primi di nov. 1915, il corpo di
spedizione anglo-francese inviato a Salonicco dagli
Alleati, allora formato da soli 80.000 uomini, compì un
tentativo di soccorso in territorio serbo, dove però
potenti forze bulgare costrinsero le colonne alleate a
battere in ritirata su Salonicco. Per sfuggire alla
distruzione, dopo la sconfitta subita nella battaglia di
Kosovo, ai Serbi non rimase che piegare verso Ovest; solo
94.000 uomini a metà dicembre raggiunsero le rive dell'
Adriatico, donde navi da guerra e da trasporto dell'
Intesa, per la maggior parte italiane, li trassero in
salvo a Corfù e in Italia". E proviamo magari a
chiedere in giro, dato che molti smarrimenti nel presente
nascono da una disinformazione sull' intero passato. Ma
quanti, fra noi e anche altrove, ricordano le varie e
alterne guerre balcaniche e italiane del nostro secolo
breve, per capire e giudicare meglio i tanti dubbi ed
errori attuali? Anche ai livelli più importanti, dove si
è deciso lo scoppio così a sorpresa di questa guerra,
evidentemente non molto pensata né preparata con la
storia e la geografia. (Lo dimostrano il suo svolgimento,
e il suo protrarsi). E anche quando si rifanno i paragoni
quotidiani con Hitler e Mussolini e Auschwitz e
Mauthausen: eventi personaggi che nel loro tempo non si
paragonavano davvero a nient' altro. E Mao, allora?
Certamente, quando si tratta poi di sentire e affermare
che la pace e i vivi e le trattative sono molto meglio
della guerra e dei morti e dei missili, i Premi Nobel si
trovano d' accordo con le casalinghe di Voghera. Tutti
insieme inorriditi e angosciati per gli esiti disastrosi:
quando invece di festeggiare l' Euro e il Giubileo e l'
ingresso della Mitteleuropa nella Nato ora il diritto
naturale e quello internazionale - e tutti i diritti
umanitari e comunitari e di intervento, nonché il
fondamentale "diritto dei popoli a disporre di sé
medesimi" - si trovano davanti a questo bubbone
proprio nella "portineria" (come direbbe Sade)
dell' Europa. E in piena voga giovane della violenza e
della provocazione e del "noir", riecco
trionfare i più classici precetti di De Amicis: nelle
atroci sventure, sempre mettere in primo piano la bontà
d' animo compassionevole per i poveri bambini, mutilatini
e morticini all' ombra dei Caduti e dei Martiri.
Ma poi? Considerando gli effetti, c' è stata
impreparazione storica? Leggerezza geografica?
Disinformazione etnologica? Approssimazione strategica e
meteorologica? Scarso senso politico, proprio quando la
generazione post-Beatles va al potere, e i pacifisti si
fanno più aggressivi? Anche nostre notevoli inibizioni -
democratiche, benpensanti, politically correct,
cristiane... - nel considerare con umile e studiosa
Realpolitik professionale soprattutto la fisiologia e
patologia obiettiva dei dati umani, oltre che i fatti
storici e geografici. Dunque, gli odi atavici e la
ferocia ancestrale comune ai capi e ai popoli (di volta
in volta carnefici e vittime, con atrocità analoghe), in
una regione costantemente descritta fin dagli storici
antichi come una "polveriera" montagnosa e
sanguinosa e piratesca che ha sempre prodotto più
intrighi politici e stragi militari e predonerie
marittime che non trovate culturali e commerciali, o
successi umanitari o finanziari.
E dove tradizionalmente occorrono le armi pesanti o il
terrore di regime per imporre una convivenza multietnica
di casa in casa. Altro che il famoso "melting
pot". La nostra coscienza dabbene si rifiuta
naturalmente di considerare talune etnie più barbare o
sprovvedute o malvagie di altre più "buone".
Ma mentre si accettano correntemente vari luoghi comuni
sui greci e i romani e gli ebrei e gli arabi e i
giapponesi, forse può apparire razzista indicare appunto
nei razzismi locali il Male dei Balcani? E la ferocia che
ne risulta, con le vendette secolari a catena. (Gli
"illirici" venivano giudicati tremendi, per
terra e per mare, già dagli storici latini). Ed ecco la
tentazione internazionale di lasciare che i popoli
dispongano di sé medesimi, secondo la propria identità
e cultura... Così, chi dirà "lasciamo che le belve
si ammazzino fra loro, noi interveniamo soltanto col
dialogo"? Sade, o De Amicis? E quale dei due dirà
che in nome della bontà d' animo e dei poveri bambini
bisogna tirare tonnellate di bombe? E cosa
commenterebbero qui Talleyrand o Mitterrand?
Oltre tutto, neanche nella più religiosa Palestina,
così gremita di sacri testi autorevolissimi, paiono
molti i fedeli credenti disposti a osservare certi
millenari precetti di buonismo assoluto. E benché in
diminuzione, parecchi europei ripetono come cent' anni fa
"Right or wrong, my England", perché l'
Inghilterra è il riferimento che ha sempre ragione:
tanto più quando Blair si identifica con Churchill e con
la Thatcher. Però, nell' inconscio, molti forse
ritengono che i massacri, riprovevoli ovunque, sono
particolarmente intollerabili nell' Europa del Giubileo e
dell' Euro e delle elezioni imminenti, anche senza l'
alibi delle guerre per il petrolio asiatico, o per altre
ricchezze. Il movente economico delle guerre rimane
tuttavia fortissimo, e non c' è bisogno di Brecht per
sottolinearlo, perché l' industria degli armamenti deve
smerciare e rinnovare i suoi prodotti che scadono. E ai
tempi di Mata Hari erano celebri i mercanti di cannoni
per i Balcani, con sede a Montecarlo come il leggendario
Basil Zaharoff, rinomato e temuto come oggi George Soros
o Billy Gates. Mentre oggi le fabbriche belliche tipo l'
Oto-Melara e l' Agusta e l' Alenia appartengono piuttosto
alle partecipazioni statali; e negli Stati Uniti le
dimensioni e gli interessi sono colossali.
Allora, visto il gran successo anglosassone dei nuovi
storici "virtuali" che rielaborano le grandi
guerre del secolo in base a dei "come se" un
po' giocherelloni ma basati su dati rigorosissimi,
proviamo a riprendere le provocazioni universitarie che
partivano da Berkeley durante la guerra in Vietnam. Se
dunque la guerra viene spinta da esigenze industriali e
commerciali - con milioni di lavoratori occupati dietro -
e inoltre viene vissuta come un immenso videogioco dell'
audience planetaria... allora, perché non rovesciare sul
"nemico" non migliaia di tonnellate di bombe,
ma un carico e un valore equivalente di beni di consumo?
Cioè: quantitativi colossali di cibi da supermarket,
lattine di bibite, stecche di sigarette, compact e
videocassette, jeans e magliette e berrettini e
orecchini, elettrodomestici e gadget elettronici e tutto.
E naturalmente agevolando i gruppi di volontari pronti a
recarsi sui teatri dei conflitti per fumare gli spinelli,
piantare le piantine, offrire gratuitamente i prodotti
più cari ai ragazzi da discoteca, bypassando la piaga
degli spacciatori. Nessuna utopia o poesia tipo mettere i
fiori nei cannoni o suonare le chitarre a vuoto, dunque.
Al contrario, industrie che lavorano a pieno regime per
sostenere un simile sforzo bellico. Con spese certamente
non superiori al bilancio delle offensive convenzionali;
e ricadute, anche di immagine, per niente inferiori. (Ma
forse non si è mai calcolato seriamente l' impatto
politico e l' effetto materiale e spirituale di tali
strategie, in epoche così mediatiche). E insomma: quanti
fra noi gradiscono ancora, ogni volta che si guarda la
televisione, vedere alternarsi i premi di milioni per chi
indovina che Cristoforo si chiama Colombo, e le migliaia
di mani che si tendono dalle rovine per afferrare un
pezzo di pane? Non sarebbe più civile (invece che
tirargli il pane come ai selvaggi) vedere i montanari e
gli scafisti e i bambini che buttano le sigarette e le
bibite e le cassette nelle discariche, perché non sanno
più dove metterle? (Intanto però i guasti si propagano
anche al nostro interno, e minacciano di riuscir
duraturi).
(3 maggio 1999)
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La vecchia sindrome
che scuote i Balcani
di ISMAIL KADARÈ
I crimini in generale, ma soprattutto i
grandi crimini, richiedono una lunga preparazione. La
soppressione del popolo albanese, qualcosa di cui il
mondo intero è oggi testimone, è un vecchio sogno della
Serbia. Classe politica e militari di questo paese,
funzionari esaltati, compresi capi di Stato, accademici,
vescovi, giornalisti, scrittori, intere moltitudini, sono
state e continuano a essere influenzate dalla sindrome
antialbanese.
Un accademico serbo come Vaso Cubrilovic, che nel 1937 ha
scritto un trattato su come far sparire gli albanesi
dalla faccia della terra - un mostro che qualunque paese
incarcererebbe come criminale - è morto qualche anno fa
con tutti gli onori, quasi come un eroe spirituale della
Serbia. Per far capire a quali estremi è potuta arrivare
la malattia antialbanese, possiamo ricordare che anche
uno scrittore di fama come Ivo Andric ha infangato
gravemente la sua stessa coscienza firmando un Draft
on Albania, nel quale si dice nero su bianco che
"la separazione (sparizione) dell'Albania dalla
mappa dei Balcani è un male necessario".
Questi e decine di esempi simili dimostrano che il
crimine serbo ha radici profonde. Una vera vergogna per
la Serbia, dove la casta stalinista-fascista di Milosevic
gode della solidarietà di una parte del paese. Dopo aver
constatato l'assenza totale di sensibilità di fronte
alla tragedia albanese, dopo aver assistito all'estasi
perversa che questa tragedia provoca, si può parlare
senza timore di una responsabilità collettiva della
Serbia in questo orrore. Sono disponibili numerosissime
testimonianze per confermare che l'eliminazione degli
albanesi del Kosovo è stata lungamente preparata, con
brutalità, con cinismo e con una sete bestiale di
sangue. Sono stati presentati tutti gli avvertimenti
necessari sul massacro imminente. Sono rimasti depositati
negli uffici di presidenti, istituzioni pubbliche, nelle
redazioni dei giornali, in alcuni libri. Ma questi
avvertimenti non sono stati presi in considerazione. Un
silenzio vergognoso è stato la risposta a tutti quelli
che hanno tentato di svegliare la coscienza dell'Europa e
del mondo. Ecco il risultato.
Ora nel Kosovo i criminali trionfano. Il mondo conosce
solo la punta dell'iceberg. Presto resterà sconvolto
dall'apprendere la completa verità. Che non tarderà ad
arrivare, e allora ci saranno molte persone che non
potranno dormire tranquille.
Nessun crimine di questo tipo si può portare a
compimento senza un esercito di collaboratori. E il
brutale nazionalismo serbo dispone di loro, all'interno
del paese e all'esterno. Una moltitudine di intellettuali
e pseudointellettuali, con sembianze di politici,
scrittori, membri di commissioni, presidenti di
sottocommissioni, hanno offerto i loro servigi alla
barbarie. Le ragioni di simile comportamento non possono
essere più oscure, cominciando con la nostalgia
stalinista, il razzismo attentamente mascherato, l'odio
contro altre credenze, le ricompense economiche, fino a
includere le inclinazioni criminali. Vedono villaggi e
città bruciare e tacciono. Vedono carovane interminabili
di deportati, come nei treni dell'Olocausto, e non aprono
bocca. Vedono donne e bambini massacrati e continuano a
non farsi sentire. E il silenzio è solo la metà del
male. Dopo aver mantenuto un vergognoso silenzio alcuni
alzano la voce per difendere i carnefici.
A questo punto risultano ormai intollerabili le sfilate
in tv di presunti ex oppositori serbi, con la
dichiarazione imparata a memoria: "Fino a ieri ero
contrario a Milosevic, ma ora sto al cento per cento con
lui a causa dei bombardamenti della Nato". A queste
persone bisogna dire: signori, voi non siete mai stati
contrari al dittatore. Voi siete stati sempre al suo
servizio. Non può più ingannare nessuno l'ipocrisia dei
Draskovic e dei Comnenic di oggi, sulle cui coscienze
pesano i crimini della Serbia attuale, allo stesso modo
che sulle coscienze di tutta la nomenklatura stalinista.
Come un microbo proveniente da un'altra epoca che trova
condizioni adeguate di sviluppo al giorno d'oggi,
l'inganno medievale serbo è arrivato a disorientare una
parte dell'opinione pubblica. Quest'inganno sotto forma
di racconto per bambini (il Kosovo culla della nazione
serba, la battaglia del Kosovo, la nostalgia serba)
ripetuto decine di migliaia di volte come sottotitolo di
ogni notizia, di ogni informazione o analisi sul Kosovo,
ha svolto un ruolo di primaria importanza nella
preparazione del crimine che in questo momento si sta
compiendo.
Non è per niente eccessivo affermare che se l'Europa,
attraverso le sue istituzioni culturali, i suoi archivi,
le accademie, gli storici e gli analisti, avesse prestato
attenzione al chiarimento, foss'anche solo nelle sue
linee generali, della storia dei Balcani, parecchie
disgrazie si sarebbero potute evitare in tempo e il corso
degli eventi potrebbe essere oggi ben diverso. Il
problema del Kosovo è in fase di sviluppo. Non è mai
troppo tardi per fare ciò che si sarebbe dovuto fare
prima, a maggior ragione se si considera il fatto che lo
statuto del Kosovo continua ad apparire all'orizzonte
come una questione di primaria importanza. E quando si
comincerà a negoziare sul futuro statuto, la storia
tornerà a essere invocata. Per questo è necessario che
il mondo conosca la verità.
La visione che hanno i serbi della loro storia e, di
conseguenza, di una parte dei Balcani, è completamente
falsa. Grosso modo, si presenta così: il Kosovo è la
culla della nazione serba. Nel 1389 i serbi vi
intrapresero una battaglia con la quale pretendevano di
difendere la cristianità europea dall'avanzata ottomana.
Dopo la sconfitta serba in questa guerra, gli albanesi -
alleati dei turchi - convertiti in musulmani, entrarono
in Kosovo. I serbi, umiliati sotto il doppio tallone
(ottomano e albanese) diminuiscono di numero. Il Kosovo
fa parte dell'Albania per quasi sei secoli. Nel 1918,
finalmente, si pone riparo alla secolare ingiustizia: il
Kosovo è consegnato alla Jugoslavia.
Ed ecco l'altra versione, che può essere verificata in
tutti i libri di storia. Il Kosovo è territorio
illirico-albanese fino al VII secolo, quando gli slavi
arrivano nei Balcani. Sotto la pressione slava si
trasforma in territorio comune dei suoi abitanti
originari, gli albanesi, e dei suoi nuovi abitanti, i
serbi. Gli albanesi continuano a essere sempre
maggioranza. La battaglia del Kosovo, nel 1389, è lo
scontro tra una coalizione cristiano-balcanica e l'impero
ottomano: in essa combatterono insieme i serbi, i
bosniaci, gli albanesi, i romeni e altri popoli dei
Balcani. Non un solo albanese si schierò con i turchi.
Al contrario, una parte dell'esercito serbo tradì i
Balcani e combattè al fianco dei turchi.
Una delle basi della strategia serba contro gli albanesi
è stata la loro religione. Certi che l'Europa cristiana
avrebbe comunque appoggiato i serbi ortodossi contro gli
"albanesi musulmani", hanno fatto tutto il
possibile perché la colorazione musulmana degli albanesi
venisse messa in grandissimo risalto. E questo veniva
accompagnato dallo sforzo contrario: minimizzare, e se
possibile far sparire, la fede originale degli albanesi,
il cristianesimo. Il fatto che né l'Europa né gli Stati
Uniti siano caduti in questa trappola barbara costituisce
una vittoria della civiltà occidentale, che si è
svincolata con coraggio dai criminali serbi, salvando
così la coscienza della cristianità europea da una
grave macchia. Questo atto di emancipazione
euro-americano avrà apprezzabili conseguenze positive
nei rapporti dell'Occidente attuale con tutto il mondo
musulmano. E forse non è casuale il fatto che
all'origine di questo atto ci sia il popolo albanese,
questo popolo che può essere criticato per molte cose,
ma non smetterà mai di essere elogiato per una ragione
meravigliosa: la tolleranza religiosa. Gli albanesi hanno
tre religioni: sono cattolici, musulmani e ortodossi. Da
autentici balcanici quali sono, possono essersi scontrati
per tanti motivi, ma mai per la religione. Questa
immagine di civilizzazione risultava eccessivamente
fastidiosa per i progetti antialbanesi dei serbi: perciò
hanno fatto tutti gli sforzi possibili per romperla.
Chi abbia visto sugli schermi televisivi la deportazione
degli albanesi non può aver fatto a meno di osservare
che questa immensa tragedia è prima di tutto una
tragedia dei bambini. Erano 250 mila fino a pochi giorni
fa i bambini, colpiti fisicamente e psicologicamente, che
cercavano di fuggire dall'inferno. Domani potranno essere
mezzo milione. E altrettanti soffrono all'interno del
Kosovo, senza che li veda occhio umano alcuno, senza che
nessun orecchio li ascolti. Questo succede ogni giorno e
a ogni ora, mentre da qualche parte, lontano, c'è ancora
gente che discute se la parola genocidio è prematura per
il Kosovo.
(3 maggio 1999)
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