La volontà della Nato


di JAVIER SOLANA*

Il mondo è cambiato in modo drammatico in mezzo secolo. La guerra fredda è passata. La globalizzazione ha influito su tutti gli aspetti della nostra vita. Il concetto di sicurezza riguarda gli aspetti economici, sociali e umanitari. Anche la Nato è cambiata: la nuova Nato che è emersa dal summit di Washington è pronta per il prossimo millennio.

In tutto questo rimangono saldi i nostri principi essenziali: nel 1949 i membri fondatori della Nato hanno firmato il Patto Atlantico per difendere la democrazia, la libertà individuale e il rispetto della legge. Questi sono ancor oggi d' attualità e proclamarli non è sufficiente. La crisi del Kosovo ci ha obbligato ad agire per difenderli. QUESTA sfida ha la stessa portata di quelle che abbiamo fronteggiato cinquant' anni fa.

Il nostro Nuovo Concetto Strategico approvato a Washington è d' aiuto alla Nato per affrontare queste nuove sfide. Abbiamo la responsabilità morale di agire in difesa dei nostri valori, dopo il fallimento dei tentativi diplomatici. E agiamo quindi con la determinazione che è diventata la nostra caratteristica dal 1949. Questo non è cambiato. La nostra azione nei Balcani è l' ultimissimo capitolo di una lunga storia di difesa di questi principi. Principi che aiuteranno ad assicurare all' Europa nel prossimo millennio un posto in cui regni la pace e la stabilità. Il summit di Washington ha approvato il proseguimento della nostra azione nel Kosovo. Ha evidenziato anche che la risoluzione della comunità internazionale sta diventando più determinata e questo ci ha incoraggiato a intensificare quest' azione con effetto immediato. Faremo così. E, ora più che mai, ho una totale fiducia nel nostro successo.

Abbiamo tre punti forti: unità di spirito, chiarezza di intenti e la giusta strategia. La nostra unità di spirito non potrebbe essere più salda. Al summit di Washington, più di quaranta Paesi erano solidali: non soltanto i diciannove alleati, ma anche i nostri partner, nei confronti dei quali una delle nostre principali priorità è approfondire i nostri rapporti di collaborazione. E i Paesi confinanti con la Jugoslavia ci hanno chiesto di proseguire nei nostri sforzi fino in fondo. Sono stanchi di vivere con la politica del regime di Milosevic ai loro confini. Apprezziamo l' aiuto che ci danno - sia sotto il profilo militare, sia sotto quello umanitario. è vitale per il successo della nostra operazione. Per questi motivi, la Nato risponderà a ogni sfida fatta loro dalla Jugoslavia. Le nostre intenzioni restano chiare. Il summit di Washington ha confermato la prosecuzione dell' impegno della Nato a loro favore. Accettiamo di buon grado i ripetuti sforzi diplomatici della comunità internazionale. Io sono in stretto contatto con Kofi Annan. Apprezzo anche gli sforzi di Viktor Cernomyrdin. La Russia sarà determinante per la soluzione durevole nei Balcani che stiamo cercando tutti. Ma vogliamo essere chiari: le decisioni che abbiamo espresso il 12 aprile non sono negoziabili. E la nostra strategia a più lungo termine resta il raggiungimento di una transazione politica definitiva, basata sull' accordo di Rambouillet. Dopo di che, attendo con ansia il giorno in cui potremo riaccogliere una Jugoslavia democratica nella famiglia europea, come parte di una regione balcanica stabile. La nostra strategia sta funzionando. Giorno dopo giorno, stiamo gradualmente indebolendo la macchina da guerra di Milosevic, smantellando la sua capacità di sostenere le sue forze in Kosovo. La campagna aerea, finora, ha avuto un impatto drammatico: le difese aeree sono deboli, le forze aeree non possono più prendere il volo - diversi apparecchi sono stati distrutti e il carburante sta per finire - uno dei principali serbatoi è stato distrutto. A Washington abbiamo dato un semplice messaggio a Milosevic: la risoluzione della Nato è irrevocabile. Milosevic ha la possibilità di porre fine alla campagna. Nel frattempo, questi danni alle infrastrutture del suo Paese e ogni disastro incidentale è sotto la sua responsabilità.

Ma i nostri obiettivi militari non ci distraggono dalla nostra missione umanitaria. In effetti, siamo impegnati ad aiutare quelli che hanno dovuto sopportare le conseguenze delle azioni di Milosevic. Oltre 700.000 profughi sono scampati a tutt' oggi alla pulizia etnica del Kosovo. Le nostre truppe continueranno a lavorare a sostegno dell' Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Politici e altre organizzazioni nei campi profughi. Dodicimila militari stanno svolgendo il loro compito umanitario in Macedonia, nella ex-Repubblica jugoslava, e cinquemila stanno facendo lo stesso in Albania. Hanno contribuito alla consegna di oltre 3.000 tonnellate di cibo, 800 tonnellate di medicinali e 1.500 tonnellate di tende. Gli alleati lavoreranno con il resto della comunità internazionale per reperire gli investimenti necessari alla ricostruzione del Kosovo, quando la crisi sarà finita: il Fondo Monetario Internazionale e il G7 sono fra quelli pronti a offrire aiuto finanziario ai Paesi di quella regione. Vogliamo contribuire a garantire un coordinamento adeguato degli aiuti e aiutare i Paesi a superare gli effetti della crisi.

Questo dovrà andare di pari passo con le necessarie riforme strutturali nei Paesi colpiti, con l' aiuto di un sostegno finanziario da parte della comunità internazionale. Il nostro obiettivo finale è quello di costruire una pace durevole nei Balcani. Stiamo già lavorando in tal senso. La Serbia è una parte integrante di questo sforzo. Deve essere al centro di ogni tentativo di riportare la stabilità in quella regione. Aiuteremo la popolazione serba a riprendersi dalle condizioni in cui l' hanno portata le azioni di Milosevic. La popolazione serba non è responsabile delle sue attuali condizioni. La colpa ricade pesantemente sulle spalle del regime di Milosevic. Grazie a un decennio di Milosevic e della sua politica che la Serbia, in condizioni di bancarotta, è oggi isolata dal mondo. Un' altra tragedia di questa crisi. Che diritto ha un solo uomo di condannare una nazione a questo destino? Il suo massacro in Kosovo rispecchia la distruzione sistematica del suo stesso Paese e del suo stesso popolo.

Devo ripetere ancora una volta al popolo serbo: la nostra guerra non è contro di voi, ma contro il vostro capo. Milosevic vi ha portato alla rovina economica e ha emarginato il vostro Paese dalla comunità internazionale. La Nato è decisa a ribaltare questa realtà. Per riuscirci, a Washington abbiamo deciso di intraprendere un' iniziativa indirizzata al Sud-Est europeo. Siamo determinati a svolgere fino in fondo la nostra parte per contribuire a creare relazioni solide e di cooperazione con e fra i Paesi della regione. A questo fine, l' Alleanza indirà un' assemblea consultiva per dibattere gli argomenti della sicurezza, relativi ai Paesi della regione, basandosi sull' Euro Atlantic Partnership Council e sulla Partnership for Peace. Questa comprenderà consultazioni approfondite fra il North Atlantic Council e ognuno dei Paesi della regione, l' incentivazione della cooperazione nella regione, programmi di cooperazione aventi come obiettivo la sicurezza, attività e funzioni della PfP mirate alla regione, e miglior definizione degli obiettivi e coordinamento dell' assistenza bilaterale degli alleati e dei partner alla regione. Apprezziamo gli sforzi dell' Unione Europea, e di altre organizzazioni internazionali, per creare una stabilità durevole nella regione.

In particolare, attendiamo con ansia l' imminente Conferenza dell' Ue sul patto di stabilità per il Sud-Est europeo, prevista per il 27 maggio. La coesione e il coordinamento di tutte le iniziative nella regione è d' importanza vitale. Dobbiamo lavorare tutti insieme per raggiungere l' obiettivo comune. Il summit di Washington ha mostrato che la Nato è pronta per il prossimo millennio. I valori che apprezzavamo nel 1949 sono gli stessi del prossimo millennio. Ora dobbiamo portare avanti una struttura e svolgere il nostro ruolo per garantire un' Europa sicura e stabile per il domani. In questo contesto la crisi del Kosovo è una sfida alla comunità internazionale, che ci impegna a trasformare le parole in fatti. Siamo determinati a vincere. La nostra unità e la nostra tenacia ci consentiranno di aiutare la regione balcanica a far parte a pieno diritto dell' Europa pacifica e stabile che stiamo costruendo per il prossimo secolo.

(Traduzione a cura del Gruppo Logos)

* L' autore è Segretario generale della Nato


(1 maggio 1999)

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I difficili confini
della liberale Europa



di RALF DAHRENDORF

Il tempo della guerra non è tempo di parole, neppure delle più perspicaci. Chi è contrario alla guerra in Jugoslavia può manifestare, firmare appelli, scrivere ai parlamentari; e chi è a favore può sperare in un esito ragionevole. Ma il grande dibattito potrà avere inizio solo in un secondo tempo, quando la scena avrà cessato di mutare ogni giorno. Perciò in questa fase sono riluttante a spendere molte parole. Con queste note vorrei più che altro indicare alcuni punti di riferimento per i dibattiti futuri. Il processo sistematico, spesso palese ma talvolta anche invisibile, di "epurazione" dei non serbi da vaste zone dell' ex Jugoslavia per stabilirvi una "pura" tirannia serba, è stato fin dall' inizio inaccettabile e insopportabile in termini umani. MA l' Occidente lo ha tollerato: prima con il riconoscimento di nuovi stati etnicamente "puliti" quali la Croazia, e quindi con il tentativo di imporre un ordine multietnico sostenibile in Bosnia-Erzegovina, attraverso gli accordi di Dayton. La questione del Kosovo è rimasta però in sospeso. Quando il regime di Milosevic ha dato inizio alla "pulizia etnica" nell' intera provincia e ai massacri dei kosovari di origine albanese, si è raggiunto un punto in cui dovevamo dire: "Basta!" A mio parere, se l' Occidente e l' Europa hanno un significato, intervenire era necessario e giustificato. La questione del rapporto tra gli obiettivi e i mezzi usati nella guerra in Jugoslavia è precisamente tra quelle che non ha senso discutere ora.

Conosceremo a tempo debito la risposta. C' è chi crede di conoscerla fin d' ora, e vorrebbe forse poter dire "io l' avevo detto", una volta che il risultato sarà noto. Ma dato che io non ho desideri di questo genere, non sento il bisogno di pronunciarmi in proposito. La guerra in Jugoslavia è stata definita la prima guerra della sinistra. è vero che i suoi obiettivi non assomigliano in nulla ai fini tradizionali degli interventi armati. La sicurezza dell' Europa non è direttamente minacciata dalle stragi e dall' espulsione di un parte della popolazione dei Balcani; e la Nato non ha fini di conquista, come non ne hanno i suoi membri. In termini geopolitici, questa guerra non ha molto senso. Perciò non sorprende il fatto che l' opposizione all' intervento armato provenga in buona parte dalla destra politica. Per la scuola di pensiero di Kissinger, questa è la guerra sbagliata. Si esita a usare il termine "umanitaria" per qualsiasi tipo di conflitto armato; ma gli obiettivi in questo caso sono chiaramente la salvezza e la sopravvivenza di esseri umani minacciati da un nazionalismo aggressivo. La guerra in Jugoslavia la dice lunga sull' Europa.

C' è da sospettare che senza la Nato - o piuttosto senza il presidente Clinton e gli Stati Uniti - l' Europa non si sarebbe spinta al di là di una certa soglia. Ora che è andata oltre, è accaduto qualcosa di cruciale in relazione alla sua stessa definizione del continente europeo. La discussione su dove incominci e dove finisca l' Europa è stata spesso di natura quasi metafisica. Chi sono i veri europei? Gli slavi sono europei? E i musulmani? Domande del genere sono praticamente prive di senso. Potremmo senz' altro convivere con una definizione geograficamente vaga dell' Europa, ma la sua definizione politica deve essere rigorosa. L' Europa comprende i paesi europei che hanno aderito ai principi dell' ordine liberale, dello stato di diritto, della democrazia e della convivenza civile. A questo riguardo, il Consiglio d' Europa ha disegnato i suoi confini con eccessiva generosità, mentre quelli tracciati dall' Unione Europea sono troppo restrittivi. Tra gli altri suoi effetti, la guerra avrà quello di definire i paesi balcanici, Serbia compresa, come appartenenti all' Europa sebbene abbiano ancora un lungo cammino da percorrere prima di poter essere considerati nel novero degli Stati che aderiscono ai principi di un ordine liberale. L' impegno dell' Europa comporta, quanto meno, la promessa di accogliere in futuro nell' Unione l' intera regione compresa tra l' Austria e la Grecia.

Una promessa di vasta portata. Parlare di piano Marshall è una tentazione, ma rischia anche di essere fuorviante. Le dimensioni dell' impegno necessario sono comunque analoghe. Per l' attuazione del Piano Marshall gli Stati Uniti hanno stanziato in favore dell' Europa il 2% del loro Pil. Ricordiamo che il costo totale dell' Unione Europea non raggiunge l' 1,2% del Pil dei suoi stati membri.

Una volta conclusa l' azione militare, saranno necessari aiuti massicci d' ogni genere, sia per le opere di ricostruzione in Serbia che per programmi di sviluppo in altre zone dell' ex Jugoslavia, compreso il Kosovo. Sarà questo il test reale della volontà dell' Europa di difendere i suoi valori. Uno dei primi atti qualificanti del nuovo presidente della Commissione, da quando è entrato nell' esercizio delle sue funzioni, è stato quello di nominare un Commissario con responsabilità speciali per i Balcani: un' iniziativa che dimostra - sia detto per inciso - la sua volontà di presiedere una Commissione più operativa che burocratica. Per i fautori di una società liberale si pone un problema molto allarmante. L' ordine liberale presuppone la convivenza pacifica tra popolazioni con opinioni, origini e confessioni diverse, in base alle norme del diritto e della democrazia. Per principio, ogni ordinamento liberale riconosce l' eterogeneità dei suoi cittadini, e da essa trae beneficio. Nel caso della Bosnia, si è tentato di affermare questo principio, anche se è lecito dubitare che il tentativo abbia avuto buon esito. Ma come si giustifica l' eventualità di proporre altrove, e in particolare in Kosovo, l' omogeneità etnica? L' Europa si prepara davvero a presiedere di fatto alla creazione di una provincia o di uno Stato deliberatamente omogeneo? Saremo proprio noi liberali europei a fare da guardiani alla "pulizia etnica"? Per ora si tratta di una domanda ipotetica, che però si può senz' altro presentare nella realtà, ed è in un certo senso già implicita nelle diverse formulazioni degli obiettivi della guerra. Probabilmente la risposta è affermativa: è a questo che stiamo mirando. Ed è una risposta preoccupante. I lettori di "Repubblica" non mancheranno di notare che in questi commenti ho evitato di affrontare i temi cruciali di cui si discute in Europa, nelle case come nei luoghi di lavoro e di incontro. è una scelta deliberata. Non credo che le elucubrazioni di intellettuali sulle prossime mosse da fare sul campo possano essere di grande utilità. Concluderò con un triste commento finale, in linea con le mie precedenti note. Si è affermato spesso che il processo di integrazione europea ha ottenuto almeno un risultato incontestabile: quello di rendere oramai impossibile una guerra in Europa. Per quanto mi riguarda, non l' ho mai detto, e neppure pensato. Nelle vicende umane bisogna usare molta cautela con la parola "impossibile". Sono pochissime le cose che erano possibili una volta, e oggi non lo sono più. Perciò è essenziale non dare nulla per scontato, e costruire un' Europa per ogni eventualità. L' ordine liberale è sempre minacciato. Ma è tuttora la cosa migliore in cui sperare.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

(1 maggio 1999)

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Il pantano
della guerra



di GIORGIO RUFFOLO

Questa guerra si sta avvitando. Ci chiediamo angosciosamente come ci si è potuti cacciare in questa impasse. C' è qualche cosa che, al di là dei catastrofici errori di valutazione e di previsione compiuti dalla Nato, ormai evidenti, rende questa vicenda imperscrutabile, nei fini e nei mezzi. I fini, anzitutto. I "realisti" ghignano quando si parla di "ingerenza umanitaria" come fattore determinante dell' intervento Nato in questa guerra. E tuttavia le spiegazioni alternative di tipo convenzionale, tratte dall' arsenale marxista o da quello opposto della realpolitik, risultano del tutto inattendibili. Le spiegazioni convenzionali sono di tre tipi. Ci sono quelle economiche: la guerra come sostegno dei mercati; la guerra per difendere aree strategiche, come le fonti petrolifere. DI tutta evidenza, non si tratta né dell' una né dell' altra. L' economia americana va a gonfie vele e nel Kosovo non c' è né petrolio né altra ricchezza che valga un solo Tornado. Ci sono quelle politico-strategiche: fiaccare i rivali.

In questo caso, chi può essere il rivale della strapotente Nato? La Serbia, non certo. La Russia, dice qualche celebrità politologica. Strano rivale, che Usa ed Europa stanno cercando di tenere in piedi! La Nato la indebolisce mentre il Fondo Monetario la rafforza? Non regge. Ci sono poi quelle psicologiche: come l' aggressività nazionalistica, etnica, religiosa, ideologica. C' è qualcuno che può metterle in campo? Dalla parte Nato, non certo: semmai, proprio dalla parte opposta! è stata evocata una spiegazione più deprimente (Piero Ottone su Repubblica del 27 aprile): che ci si sia precipitati nella guerra per una concatenazione di eventi incontrollabili. Nella storia il caso conta assai, ma non fino al punto da rendere improponibile ogni ipotesi logica e ogni discorso etico. Dunque, dobbiamo prendere sul serio l' "ingerenza umanitaria"? Credo proprio di sì, ma in termini meno angelici di quanto il termine potrebbe far credere. Si tratta di un fatto nuovo che si affaccia alla fine di questo secolo. Si tratta dell' emergere lento e faticoso ma chiaro e distinto di una nuova coscienza collettiva che non tollera la violazione di diritti umani fondamentali. Lento e faticoso e quindi contraddittorio, parziale. Siamo ancora lontani da una sua valenza generale. Se la spinta a un intervento repressivo dell' offesa non si fa concreta e cogente quando si tratta del Kosovo e non della Turchia, del Burundi, del Tibet è a causa di una prossimità geografica e storica che lo rende immediatamente percepibile e minaccioso. Quelle violazioni esplodono nel cuore dell' Europa: questa è la prossimità geografica. Ed esplodono nella forma del razzismo: questa è la prossimità storica. Il razzismo ha aperto in Europa e in tutto l' Occidente la tremenda ferita di Auschwitz. In Europa e negli Stati Uniti il risorgere del razzismo, nella forma della pulizia etnica appare, per una vasta parte dell' opinione pubblica europea e americana, capace di fondare un consenso politico saldo, non soltanto una ripugnante mostruosità ma anche una minaccia reale.

L' intervento mancato in Bosnia è stato avvertito come una vergogna. Quello in Kosovo come un dovere. Non solo per un impulso morale "generico". Ma perché ci si è sentiti in gioco. è vero. Quella reazione non è certo di tutti. Ma era di tutti la decisione di scatenare una guerra mondiale per fermare Hitler? è vero: Milosevic non è Hitler. Ma (a parte che Hitler non era Hitler quando rivendicava solo la Grande Germania) il punto concreto è se la nuova "pulizia etnica" è tollerabile nell' Europa di oggi. è vero: non si è intervenuti in tante altre occasioni: ma non sarebbe stato stolto e catastrofico non intervenire per Danzica solo perché non si era intervenuti per Praga? Quando si chiede la coerenza dell' intervento erga omnes si chiede in realtà il non intervento. Meglio dirlo. Si tratta invece di sfruttare questo varco aperto nel sacro recinto della sovranità nazionale per estendere e regolare il principio dell' "ingerenza umanitaria". è proprio a questo punto, però, che emerge il problema della coerenza morale e dell' efficacia pratica dei mezzi rispetto al fine. Quanto alla coerenza morale: non si tratta dell' antichissima questione della guerra giusta. Il fatto è che di solito questo principio è invocato contro un nostro aggressore. Oggi che sono scomparse le deterrenze automatiche insite nel sistema dell' equilibrio del terrore, e le microaggressioni si moltiplicano, quel principio si estende anche agli aggressori degli "altri". Non si invoca più la legittima difesa; ma anche la legittima offesa. è un aspetto della "globalizzazione".

Questo principio di legittima offesa, però, rischia di mandare in pezzi il grande feticcio della sovranità nazionale. I logici ci hanno spiegato che in ogni sistema c' è una domanda, paradossale, alla quale quel sistema non può rispondere senza rinnegarsi, e che può essere affrontata solo cambiando il sistema. Si chiama principio di indecidibilità. A quella istanza il nostro sistema non risponde. Per superare l' impasse bisogna cambiarlo. Bisogna istituire una sovranità superiore. L' Onu non è certo un governo mondiale. Somiglia più alla venerabile Società delle Nazioni, paralizzata dai veti. Pretendere di fondare l' ingerenza umanitaria sull' Onu è come avvitare un bullone nel vuoto. La sola cosa che si può fare, nel vuoto di legittimazione mondiale, è di sostituire quella legittimazione con una "scommessa arbitraria" sulla legittimità futura, come dice Umberto Eco (Repubblica, 26 aprile). Tutte le grandi innovazioni morali e rivoluzioni politiche sono state una scommessa. Questa è la scommessa della Nato. Si capisce allora che quel difetto di legittimità sia pagato in termini di efficienza dell' intervento. Richiamo ancora Eco: per attutire il trauma dell' intervento si inventa una neo-guerra, dove i morti e i feriti suscitano sorpresa e indignazione, dove si invoca l' immediata restituzione dei prigionieri, si pretende che le distruzioni siano asettiche, mentre i contendenti si scambiano visite tra le bombe: insomma, davvero una strana guerra. Ma la neoguerra non è risolutiva. Per esserlo, deve diventare prima o poi una paleoguerra attraverso una escalation. Il che risolve il paradosso del sistema, ma solo per ristabilirne la vecchia logica. Un' altra via per superare il paradosso dell' ingerenza - l' incompatibilità tra mezzi e fini - ci sarebbe. è quella prospettata audacemente da Eugenio Scalfari (Repubblica, 25 aprile). Ecco il suo "sogno". "Se (le organizzazioni umanitarie) varcassero i confini con le loro bandiere e con le televisioni di tutto il mondo ai loro fianchi come armi pacifiche di difesa e di messaggio, con le salmerie di soccorso dietro di loro e arrivassero in quei villaggi, in quelle città e invitassero la popolazione profuga a seguirle: non sarebbe questo il modo di superare lo stallo tra chi deve cominciare per primo a muovere un passo sulla via della pace?".

La logica di questo sogno sta nel fatto che si supera il paradosso dell' indecidibilità non attraverso la legittimazione del fine da parte di un governo mondiale ma attraverso l' umanizzazione dei mezzi. Si ristabilisce così l' equilibrio tra fini e mezzi. Si cambia il sistema nell' anima, prima che nelle regole. Non è affatto detto che un' iniziativa così gandhiana non possa accompagnarsi con altre misure repressive come un rigoroso embargo petrolifero; e con una vigorosa azione diplomatica che riconosca e rafforzi il ruolo di mediazione della Russia. E ciò senza in alcun modo incrinare la solidarietà della Nato nel pieno dell' intervento militare. Ma c' è anche bisogno di iniziative "sorprendenti" e inedite, cariche di immaginazione e di rischio. Iniziative che aprano un varco nel muro di un "realismo" che ci soffoca. Che ristabiliscano un limpido visibile credibile nesso tra il fine e i mezzi dell' operazione umanitaria. Che offrano un' occasione di impegno massiccio non al pacifismo folkloristico e "abusivo" (come lo chiama Adriano Sofri) ma al pacifismo generoso impavido e silenzioso. Certo, operazioni del genere comportano rischi grandi: anche la disponibilità ad affrontare, con un' armata disarmata, i rischi del sangue. Ma non si possono salvare vite umane senza rischiare la propria, in nome delle "mamme Cocciolone". E occorre soprattutto l' audacia dell' immaginazione, della quale non mi pare abbiano fatto molto uso la signora Albright e i generali della Nato, e di cui difettano singolarmente sia i grandi politologi alla Bismarck, sia quelli formato Stranamore.

(30 aprile 1999)

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Noi europei, complici
di una guerra ambigua



di JEAN BAUDRILLARD*

Bisognerebbe almeno far emergere le ragioni ciniche di questa "guerra", le ragioni inconfessate di questo intervento, che si dice essere un fiasco, una catastrofe sotto tutti gli aspetti. Ed è proprio su questo punto che ci viene un dubbio crudele su tutta questa messa in scena.

Tanti errori accumulati, tanto tergiversare e tante azioni mancate, debbono sicuramente avere un senso, e questo persistere nella confusione tattica, in questa guerra velleitaria che fallisce quasi deliberatamente il suo bersaglio (parlo degli occidentali: Milosevic non ha sbagliato il suo), tutto questo farebbe dubitare della definizione stessa della guerra: la prosecuzione della politica mediante altri mezzi.

Se questa definizione vale ancora, allora tutti i nostri strateghi e i nostri politici occidentali sono idioti - eventualità da non escludere - ma, prima di arrivare a questo estremo, ci domandiamo se non stanno, al contrario, portando avanti e attuando un' operazione perfettamente programmata, che, in ogni caso, si svolge come se lo fosse. Si dice: la Nato continua a commettere errori. L' Europa non è in grado di avere la minima politica concertata. Ma NO, è esattamente il contrario. Che cosa fa Milosevic? Elimina le sue minoranze, in particolare, ovviamente, la minoranza mussulmana, ed è per questo che tutta la Jugoslavia "bianca", cattolica od ortodossa, sta con lui. Ma non solamente la Jugoslavia. Tutta l' Europa sta con lui. Tutti gli Stati nazionali europei hanno problemi con le loro minoranze etniche o quelle immigrate, che non si sono affievoliti, anzi al contrario. Ovunque, le minoranze etniche, linguistiche, tutti gruppi isolati, sono in via di sparizione o di eliminazione. Milosevic è il portabandiera della purificazione, ma questa è presente ovunque in un' ottica politica al di là di tutte le spacconate sull' autonomia e i diritti dell' uomo; tutti gli Stati europei, in quanto tali (non parlo delle popolazioni, ma che cosa sono queste, se non la cassa di risonanza ideologica e umanitaria dell' informazione?) non possono che essere alla fin fine complici di Milosevic - a rischio di rifiutarlo come la cattiva coscienza e di far finta di punirlo perché egli fa troppo bene (vale dire troppo male, troppo brutalmente il suo sporco lavoro). Ma gli sarà stato lasciato tutto il tempo per farlo. Perché rimpiangere senza sosta di non essere intervenuti uno, due, tre anni prima (sono quindici anni che le cose vanno avanti così), e perché, per quale stupefacente ignoranza della situazione, la Nato ha impegnato le forze aeree senza preoccuparsi di quello che sarebbe avvenuto a terra (quando un' enormità di esperti ci ha pensato per mesi) e perché non bloccare immediatamente le forze serbe di terra nel Kosovo, invece di dispiegare una logistica aerea più o meno inutile? Ovvio - tutto appare chiaro se si immagina che forze aeree sono là per non intervenire da terra o per ritardare il più possibile questo intervento - quando tutto sarà finito. Solana l' ha detto a chiare lettere (senza preoccuparsi di tradire crudamente la verità politica di questa guerra): "Non riprenderemo le trattative con Milosevic (non si cerca più quindi di sbarazzarsene?) se non quando sarà posta fine alla pulizia etnica" - notate bene: quando sarà completata. Cosa che avviene implacabilmente.

In tal senso, questa guerra - o almeno l' operazione che, a quanto ci danno a vedere, è alla base di questa guerra - si svolge in modo ottimale, addirittura programmato. Perché Milosevic è l' esecutore della politica europea, la vera, la sola, quella di un' Europa bianca, pulita, depurata di tutte le minoranze - politica negativa, politica esclusiva e integralista. Ma perché farsi delle illusioni, l' Europa non ha alcuna idea positiva di se stessa, l' Europa è ossessionata dallo spettro dell' Europa - per tutte queste ragioni facciamo finta di combatterlo, ma sempre troppo tardi e male. A ogni modo non è finita: dopo il Kosovo, il Montenegro, come altrove il Kurdistan, la Palestina, eccetera (la tragicommedia del "processo di pace" in Medio Oriente è un perfetto esempio di questo "ritardo" indefinito e programmato).

Ma le cose sono ancora più complicate. Perché se l' Europa ha una politica determinata, se non deliberata, quella di una coalizione futura di entità nazionali, che hanno governato entro i loro confini (se no, come consolidarsi a livello mondiale agli occhi dell' America?) e non certo multiculturali e multirazziali, l' America, per mezzo della Nato, ha anch' essa una strategia altrettanto determinata. Dopo essere venuta a capo del comunismo, alla fine di una trentennale guerra fredda e scongelata mondiale, dopo aver neutralizzato l' altra potenza che la minacciava più da vicino, il Giappone, grazie a una destabilizzazione, anch' essa ampiamente programmata, delle piazze finanziarie asiatiche, l' Europa è ormai nel suo mirino e il suo obiettivo è quello di dare scacco per un tempo più lungo possibile alle velleità della coesione multinazionale europea, che costituirebbe una reale minaccia. Il modo migliore per raggiungere questo obiettivo è quello di destabilizzare l' Unione Europea, prendendola nella trappola di una guerra, che essa non vuole e che compromette le sue ultime possibilità, venendo eventualmente in soccorso delle minoranze (Bosnia, Kosovo, curdi, eccetera), con cui l' America personalmente non ha nulla a che fare, e di cui tutti vogliono nel loro intimo sbarazzarsi - essendo l' Islam e il fronte islamico, con ogni evidenza, il nemico mondiale numero uno, in quanto il solo profondamente refrattario alla globalizzazione in corso - in questo consiste il vero fronte della quarta guerra mondiale. Quindi, si negozierà inevitabilmente con Milosevic, lo si lascerà sopravvivere (esattamente come Saddam Hussein), in parte consolidare la pulizia etnica e in parte per intorbidare le acque dell' Europa. Anche la presenza a terra di una forza internazionale (di cui si rivela tutta l' ambiguità nella prosecuzione dei massacri in Bosnia) non cambierà nulla.

L' America sa dunque perfettamente quello che vuole - ci sarebbe da pensare che gli esperti del Pentagono siano dei geni (stessa politica per Israele: mantenere ovunque i bubboni di stabilizzazione e di destabilizzazione, fare la polizia facendo contemporaneamente i paladini delle vittime e i complici dei boia). Ma non è niente di tutto ciò: è il corso ineluttabile del Nuovo Ordine mondiale che lo richiede e loro non sono che gli esecutori. Quanto agli europei, coinvolti (ma abbiamo visto con quante riserve) nell' azione della Nato, che lavora alla loro disfatta, sono immersi in una situazione confusa e irrisolvibile. Ogni Stato si trova ad affrontare oggi due nemici fondamentali: le proprie minoranze e l' America. Gestire contemporaneamente il Nuovo Ordine mondiale per quello che lo riguarda (eliminare tutti gli elementi eterogenei e refrattari) e subire gli effetti di una globalizzazione su vasta scala, di cui l' Europa, come si profila, è al tempo stesso l' intermediaria e la vittima. Praticamente non esiste via d' uscita. Resta il rifugio della coalizione umanitaria, in mancanza di una coesione politica - altra patetica contraddizione, perché soccorrere le vittime in quanto tali non fa che consacrare il successo dell' operazione di pulizia etnica. Ma Benetton potrà trovare ispirazioni per la sua pubblicità e ciascuno "smettendo di fumare e devolvendo l' equivalente ai kosovari, potrà salvare due vite nello stesso tempo".

Esiste, dunque, in questa "guerra" un' ambiguità fondamentale, di cui l' aspetto minore non è quello di ingiungerci di essere a favore o contro. Niente consente di assumere una posizione in una guerra che è un' esca, che si combatte per altri motivi e i cui obiettivi sono mascherati, inconfessati e forse anche oscuri alla consapevolezza degli uni e degli altri. I commentatori ideologici, intellettuali e umanitari mascherano con ogni mezzo e in continuazione il fatto di essere vittime delle motivazioni ciniche e nascoste di questa guerra. Annientare Milosevic? Significa non vedere che siamo complici. Fermare tutto, andare fino in fondo a che cosa? Significa non vedere cosa sta sotto a questa guerra che non è mai veramente cominciata, dato che non la si è mai veramente voluta, e che non è che uno dei molteplici episodi che si presenteranno di un confronto, questa volta veramente reale. Di qui la difficoltà paradossale di mettere fine a una guerra che non è quella vera, la cui ambiguità è totale e i cui obiettivi non saranno nemmeno raggiunti - ma che si volge in realtà, dietro queste ambiguità e queste false manovre, esattamente come si deve svolgere. E' quindi assurdo, in mezzo agli imbrogli e alla disinformazione - che fa anch' essa parte della "catastrofe umanitaria" (che lapsus!: o questa catastrofe è umana o è l' umanitarismo stesso che fa parte della catastrofe)- essere a favore o contro. Quello che bisogna denunciare e portare alla luce, è prima di tutto l' illusione di questa guerra. Alla Realpolitik bisogna opporre una Realanalyse - il che non impedisce la violenza delle reazioni e dei sentimenti, che può provocare questa globalizzazione egemonica. Ma, per combatterla, bisogna sapere, dietro le peripezie ideologiche di cui la guerra e i media fanno parte, chi sono veramente nel mondo i buoni e i cattivi. Noi occidentali siamo dalla parte dei buoni. Onore a quelli che sono capitati dalla parte dei cattivi. Onore, e non compassione. Niente compassione per le vittime, ma niente pietà per gli altri.

(traduzione a cura del gruppo Logos)

*Jean Baudrillard è un sociologo e filosofo francese, nato nel 1929. Fra i suoi libri vanno ricordati Lo scambio simbolico e la morte (Feltrinelli), Le strategie fatali Feltrinelli), La sinistra divina (Feltrinelli), L' America (Feltrinelli). Lo scorso anno è uscito in Francia A l' ombre du millénaire ou le suspens de l'an 2000.

(29 aprile 1999)

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Disarmiamo gli animi
armiamo la ragione



di CARLO MARIA MARTINI*

In queste settimane di guerra nei Balcani due parole mi tornano alla mente. La prima è di Bertolt Brecht al termine del suo lavoro teatrale: La resistibile ascesa di Arturo Ui: "E voi imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava, una volta, per governare il mondo. I popoli lo spensero, ma ora non cantiamo vittoria troppo presto, il grembo da cui nacque è ancora fecondo".

Questa metafora del grembo ancora fecondo evoca una delle cause di quanto sta avvenendo. C' è una matrice dalla quale sono stati generati molti stermini, fino alla Shoah. Essa continua a generarne. I conflitti nelle terre dell' ex Jugoslavia, la "pulizia etnica", l' esodo forzato delle genti del Kosovo lo attestano, come pure tanti altri conflitti in altre regioni del mondo che, pur drammaticamente vivi, non fanno notizia. Tutto questo non è lontano da noi. Anche il nostro Paese ha conosciuto vergognose "leggi razziali". Altre "notti feroci" gravano sull' Europa, come Primo Levi ci aveva avvertiti. Avevamo sperato in un sempre più diffuso e radicato costume democratico e invece di nuovo rinascono forme di dittatura, di violenta privazione della libertà. Questo millennio si avvia alla conclusione tra incursioni aeree, bombardamenti, stragi.

La seconda parola a cui ripenso in questi giorni è stata pronunciata dall' Assemblea delle chiese cristiane europee a Basilea nel maggio 1989: "Abbiamo causato guerre e non siamo stati capaci di sfruttare tutte le opportunità di dialogo e di riconciliazione: abbiamo accettato e spesso giustificato con troppa facilità le guerre". Questa parola ci ricorda le responsabilità che portiamo anche come cristiani. Sulle ragioni possibili di alcuni atti di guerra (cioè sul tema di una eventuale "guerra giusta"), si è ragionato a lungo nei due millenni cristiani. Sant' Agostino scriveva: "Fare la guerra è una felicità per i malvagi, ma per i buoni una necessità... è ingiusta la guerra fatta contro popoli inoffensivi, per desiderio di nuocere, per sete di potere, per ingrandire un impero, per ottenere ricchezze e acquistare gloria. In tutti questi casi la guerra va considerata un "brigantaggio in grande stile"" (De Civitate Dei, IV, 6).

Ma Giovanni XXIII nella Pacem in terris, afferma: "Nell' era atomica è irrazionale (alienum est a ratione) pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di riparazione dei diritti violati". Il concetto di "guerra giusta" viene così superato. E il Concilio, che per lo più non ha voluto pronunciare anatemi, ha tuttavia su questo punto un parola ferma e dura: "Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato". Tra le ragioni che hanno portato al superamento della dottrina della guerra giusta, accanto alla percezione dei danni incalcolabili prodotti dalle "moderne armi scientifiche", vi è la progressiva adesione alla struttura politica di tipo democratico, con il riconoscimento dell' opinione pubblica come istanza di controllo e di guida nella gestione del potere politico. Anche sul piano internazionale, il progressivo consolidarsi di una istanza sovranazionale costituisce una (sia pur gracile) alternativa alla guerra mediante la mediazione politica. Con la condanna del ricorso alla guerra, la coscienza cristiana va progressivamente superando anche la logica della deterrenza. La deterrenza, afferma il Concilio, "non è via sicura per conservare saldamente la pace... le cause di guerre anziché venire eliminate da tale corsa minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente... mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente".

In queste settimane di guerra ci ha costantemente guidato il magistero coerente e coraggioso del papa Giovanni Paolo II. Non dimentico le sue parole il mattino del primo giorno della guerra nel Golfo, era il 17 gennaio 1991: "In queste ore di grandi pericoli, vorrei ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti tra le nazioni. Non lo è mai stato e non lo sarà mai. Continuo a sperare che ciò che è iniziato abbia fine al più presto. Prego affinché l' esperienza di questo primo giorno di conflitto sia sufficiente per far comprendere l' orrore di quanto sta succedendo e far capire la necessità che le aspirazioni e i diritti di tutti i popoli della regione siano oggetto di un particolare impegno della comunità internazionale. Si tratta di problemi la cui soluzione può essere ricercata solamente in un contesto internazionale, ove tutte le parti interessate siano presenti e cooperino con lealtà". "Declino dell' umanità, scacco della comunità internazionale, attentato ai valori più cari a tutte le religioni", così diceva il Papa a proposito della guerra nel Golfo. Parole che dobbiamo ancora ripetere per la guerra nei Balcani.

Dobbiamo instancabilmente cercare, pensare una alternativa all' uso delle armi, anche quando essa sembra impossibile. Come vescovo avverto l' urgenza di contribuire ad una educazione alla pace: solo scrutando le ragioni misteriose del male nella storia e nel cuore dell' uomo possiamo comprendere perché la pace sia problema sempre aperto. Il riconoscimento del male in tutte le sue forme, questa immane potenza del negativo che ha nella guerra la sua manifestazione più drammatica, non deve però indurci al pessimismo paralizzando la fiducia nelle risorse positive dell' uomo. Nasce di qui la tensione al dialogo come via privilegiata alla pace: "Ogni uomo, credente o no, pur restando prudente e lucido circa la possibile ostinazione del suo fratello, può e deve conservare una sufficiente fiducia nell' uomo, nella sua capacità di essere ragionevole, nel suo senso del bene, della giustizia, dell' equità, nella sua possibilità di amore fraterno e di speranza, mai totalmente pervertiti, per scommettere sul ricorso al dialogo e sulla sua possibile ripresa" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata della pace 1983). Questa fiducia nell' uomo è anzitutto fiducia nelle risorse della sua coscienza, soprattutto di quanti patiscono ingiustizia. Bisogna puntare "sulle forze di pace nascoste negli uomini e nei popoli che soffrono... così da sottoporre le forze oppressive a delle spinte efficaci di trasformazione, più efficaci di quelle fiammate di violenza che in genere non producono nulla, se non un futuro di sofferenze ancora più grandi" (Messaggio per la Giornata della pace, 1980). Alla forza della coscienza e non alla violenza è affidata la causa della pace. Sul versante politico, la pace richiede strutture politiche sovranazionali davvero efficaci nell' arginare le possibili sopraffazioni. Era già questo l' auspicio di Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite nel 1965: "Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni, di Poteri pubblici cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali poteri vengano istituiti... Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un' autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico?". In questi giorni di guerra ripenso al lungo, difficile cammino della coscienza cristiana durante due millenni nel giudicare la guerra e gli armamenti. Prima delle armi nucleari e chimiche il principio della legittima difesa poteva in certi casi condurre a parlare di guerra giusta.

Ora invece si è convinti della tragica inutilità e moralità di una guerra condotta con questi nuovi tipi di armamenti. Dobbiamo augurarci che la coscienza critica dei cristiani e di ogni uomo faccia ancora dei passi ulteriori. Intanto occorre che la mobilitazione contro il male sia accompagnata da un' opera progettuale, che dia nuova consistenza alla pace, alla sicurezza, alla stessa dissuasione. In tale linea: una ricerca di giustizia, di eguaglianza, di solidarietà, il potenziamento del dialogo, dei sistemi democratici, degli organismi di controllo internazionali. La stessa dissuasione dovrebbe fondarsi non già sulla minaccia rappresentata dagli arsenali, bensì su quelle risorse ben più degne dell' uomo che sono la solidarietà internazionale, le sanzioni giuridiche, l' isolamento di chi fa ricorso alla prepotenza e alla forza. Rassegnarsi alla logica della guerra o della dissuasione armata vuol dire accettare la spirale perversa degli armamenti e finire in una trappola mortale per l' umanità. Dal punto di vista progettuale, accanto alla proposta di studiare forme efficaci di difesa civile non violenta, sta il riconoscimento del valore della obiezione di coscienza, la denuncia di certe forme di ricerca scientifica subalterne a logiche di distruzione, lo scandalo rappresentato dal divario crescente Nord-Sud alimentato dal commercio delle armi. Sta l' appello alla mediazione politica come strumento di composizione dei conflitti; l' appello a disarmare gli animi, armando la ragione; l' appello a credere nella Parola: "Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo". (Isaia, 2,4).

*Il cardinale Carlo Maria Martini è arcivescovo di Milano

(29 aprile 1999)

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Protocollo per una guerra
che è ancora da vincere



di FREDERICK FORSYTH

Andare in guerra ha senso solo per uno scopo: vincere. Per farlo, in primo luogo è necessario rispondere a una serie di domande molto difficili. Ma la Nato rifiuta perfino di affrontare queste domande, e tanto più di trovare risposte realizzabili; è questo rifiuto che ha portato al pasticcio che ora abbiamo tutti di fronte.

La Domanda Numero Uno deve essere: perché andiamo in guerra? Qual è esattamente la nostra motivazione? Se siamo stati attaccati direttamente, la risposta è evidente: autodifesa. Se è stato attaccato un amico o un alleato: solidarietà. Se un tiranno ha invaso un vicino di casa di enorme importanza strategica per noi (Kuwait) la risposta è: interessi nazionali irrinunciabili. Nessuna di queste motivazioni vale per il Kosovo.

Ma c'è una quarta risposta: semplice compassione umana. In alcune circostanze è perfettamente giustificabile. Non abbiamo alcun dubbio che nei suoi dieci anni al potere Slobodan Milosevic sia stato ispiratore del genocidio puro, più di qualunque altro leader europeo dopo il 1945. Nella sua ricerca di una Grande Serbia etnicamente omogenea ha diffuso morte, malattie, fame, miseria, dolore ed esilio in tutta la ex Jugoslavia. Anche i non serbi hanno dato il loro contributo, ma per l'80 per cento il responsabile è Milosevic, che possiede la maggior parte delle armi pesanti.

Genocidio è una parola sporca, ora mascherata dall'eufemismo "epurazione etnica". I modi per realizzarlo sono cinque. Si possono massacrare le vittime fino all'ultimo uomo, donna e bambino. Si può distruggere il loro intero sistema di approvvigionamento finché non corrono a nascondersi nelle foreste e nelle montagne dove la Natura completerà l'opera con fame, freddo e malattie. Si possono costringere le vittime all'esilio al di là dei confini, in modo che una diaspora costante a livello mondiale assicuri che quella nazione non esista più. Si possono far lavorare fino alla morte come schiavi nei campi di lavoro, oppure si possono sterilizzare/annientare i giovani uomini in modo che non possano più procreare. Milosevic sta infierendo con i primi tre metodi.

In questo non c'è nulla di nuovo. I pogrom contro i kosovari hanno avuto inizio subito dopo la sua ascesa al potere dieci anni fa, e negli ultimi tre anni è stato un costante crescendo. Un centinaio di giorni fa, agenti britannici e americani a Belgrado hanno fornito ai loro padroni politici le prove, al di là di ogni dubbio, che questa primavera ed estate Milosevic aveva intenzione di realizzare la soluzione finale. È stato per questo che Clinton e Blair, in possesso di tali prove, hanno convinto gli altri diciassette leader nazionali che, in tutta coscienza, non potevamo starcene con le mani in mano a girarci i pollici. Non potrei biasimarli per quella decisione.

Ma poi si arriva alla Domanda Numero Due: qual è l'obiettivo dell'azione, qual è la mossa finale? E qui ormai si è già persa la strada. Ci è stato detto che avremmo impedito la distruzione del popolo kosovaro. Invece non è stato così. I kosovari vengono sistematicamente distrutti come gruppo etnico vitale proprio nel momento in cui leggete queste righe. Ci è stato detto che la guerra avrebbe costretto Milosevic ad accettare i termini di Rambouillet che aveva precedentemente rifiutato. Ma questi termini prevedevano che il Kosovo restasse nella Jugoslavia, sotto Milosevic, con diecimila poliziotti serbi a mantenere l'ordine.

Dopo quanto è già accaduto, tutti sanno che non c'è la minima possibilità che i kosovari tornino a casa a queste condizioni, né potremmo mai costringerli a farlo. Quindi Rambouillet è defunta; ora sarà necessario un mini-stato kosovaro separato, con confini difendibili e protezione della Nato. E dunque l'obiettivo dell'azione è già completamente diverso, e assolutamente inaccettabile per Belgrado. Un accordo in questo senso è escluso. Se l'affermazione di Blair ("la nostra sola via d'uscita è la vittoria") deve aver senso, dobbiamo cercare di sconfiggere, non di persuadere i serbi.

E infine la Domanda Numero Tre: come facciamo esattamente a raggiungere questo obiettivo finale? A questo punto i politici saggi interpellano i generali e li ascoltano. Clinton e Blair non lo hanno fatto. Avevano a disposizione gli uomini che avevano vinto in circostanze pazzesche alle Falkland e che avevano vinto in quattro giorni in Iraq. E loro, che non avevano mai indossato un'uniforme, sparato un colpo, schivato un proiettile o pilotato un aereo, si sono rifiutati di ascoltare. Questa guerra non sta andando male a causa dei guerrieri professionisti, ma per colpa di incompetenti interferenze politiche.

In poche ore hanno commesso quattro errori madornali. Il primo è stato di autoconvincersi che i bombardamenti da soli avrebbero funzionato. (Nessun generale dell'esercito o dell'aviazione da Roma a Washington ci credeva). Poi hanno annunciato pubblicamente che nessun soldato alleato avrebbe varcato il confine. È stato come dire a Milosevic: "Sbrigati, che forse ce la farai". E com'è naturale, Milosevic si è gentilmente prestato. In terzo luogo, hanno rifiutato di aspettare sessanta giorni che il cielo si rasserenasse. Risultato? Il sessanta per cento delle nostre missioni di bombardamento sono state interrotte a causa delle nuvole basse, i nostri piloti addestrati per l'attacco a bassa quota sul Kosovo stanno cercando di individuare cannoni e carri armati mimetizzati da un'altezza di 5000 metri (come ex pilota posso assicurarvi che non è possibile), gli squadroni della morte proseguono indisturbati la loro opera e abbiamo perfino colpito per sbaglio dei contadini kosovari.

Infine, i politici hanno rifiutato di tenere in serbo anche una sola tenda, una branda, una cucina da campo o una coperta per l'inevitabile fiumana di profughi. L'equivoco politico sulla situazione Belgrado/Kosovo è stato totale. Ora ci viene detto che il bombardamento della Serbia continuerà "per tutto il tempo che sarà necessario". Non basta. Il tempo scorre inesorabile. Fra altri 40 o forse 60 giorni non ci sarà più un Kosovo da liberare né una popolazione da riportare a casa.

Peggio ancora, nemmeno la Nato potrebbe durare altri sessanta giorni. A Roma, Parigi e Berlino, la Sinistra sta minacciando di far cadere i governi (strano, se pensiamo che stanno combattendo un regime fascista che compie massacri di massa); la Grecia sostiene la Serbia all'unanimità, almeno a livello popolare; tutti i governi tranne quello britannico continuano a rifiutare di credere a ciò che è ovvio: che il Kosovo non può essere liberato senza forze di terra, perché non si può bloccare la macchina del genocidio da cinquemila metri di altezza. Infine, a questo punto Milosevic non può arrendersi: verrebbe impiccato dai suoi estremisti se dicesse loro che la devastazione del loro paese è stata inutile.

C'è una sola via d'uscita da questo inferno: riversare 40.000 giovani volontari kosovari nel loro paese d'origine, equipaggiati con ogni arma che siano in grado di maneggiare; paracadutare armi alle decine di migliaia di altri giovani kosovari che si nascondono nelle montagne e nelle foreste del massiccio centrale; prestare loro alcuni dei nostri addestratissimi uomini delle forze speciali come addetti alle trasmissioni e alla localizzazione dei bersagli; fornire loro una copertura aerea totale. Non c'è la minima prova che i soldati e i poliziotti serbi, per non parlare dei paramilitari psicotici di Belgrado, siano migliori dei kosovari all'interno del loro paese. Milosevic inizierà a negoziare solo se comincerà a contare un numero rilevante di vittime e la perdita di qualche settore, come ha fatto quando, alla fine, ha incontrato i croati su un piede di parità.

Contemporaneamente, dovremmo fare pressione su Mosca perché svolga un ruolo di protagonista nella creazione di un Nuovo Kosovo sotto protezione della Nato e della Russia, più piccolo ma non più sotto il governo di Belgrado. Solo allora potremo persuadere l'ondata di profughi a tornare a casa e dar prova della nostra filantropia aiutandoli a ricostruire la loro terra distrutta.
(traduzione di Metella Paterlini)

Frederick Forsyth è uno dei più celebri scrittori inglesi di spy-story. Tra i suoi libri più famosi, "Il giorno dello sciacallo", "Dossier Odessa", "I mastini della guerra", "L'alternativa del diavolo", "Il quarto protocollo", "Il negoziatore", "Il pugno di Dio", tutti editi in Italia da Mondadori.

(28 aprile 1999)

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Quando la guerra
è un'arma spuntata



di UMBERTO ECO

Nel dicembre del 1993 si è svolto alla Sorbona, sotto l'egida della Academie Universelle des Cultures, un congresso sul concetto di intervento internazionale. C'erano non solo giuristi, politologi, militari, politici, ma anche filosofi e storici come Paul Ricoeur o Jacques Le Goff, medici senza frontiere come Bernard Koutchner, rappresentanti di minoranze un tempo perseguitate come Elie Wiesel, Ariel Dorfmann, Toni Morrison, vittime della repressione di vari dittatori, come Leszek Kolakowski o Bronislaw Geremek o Jorge Semprun, insomma molta gente a cui la guerra non piace, non è mai piaciuta e non vorrebbero vederne più. Si aveva paura a usare parole come "intervento", che sapeva troppo di ingerenza (anche Sagunto è stato un intervento, e ha permesso ai romani di fare fuori i cartaginesi), e si preferiva parlare di soccorso e di "azione internazionale". Pura ipocrisia? No, i romani che intervengono a favore di Sagunto sono romani, e basta.

In quel convegno invece si stava parlando di comunità internazionale, di un gruppo di paesi che ritengono che la situazione, in un punto qualsiasi del globo, abbia raggiunto l'intollerabile, e decidono di intervenire per porre fine a quello che la coscienza comune definisce un delitto. Ma quali paesi fanno parte della comunità internazionale, e quali sono i limiti della coscienza comune? Si può certo sostenere che per ogni civiltà uccidere sia un male, ma solo entro certi limiti. Noi europei e cristiani ammettiamo per esempio l'omicidio per legittima difesa, ma gli antichi abitanti del Centro e Sud America ammettevano il sacrificio umano rituale, e gli attuali abitanti degli Stati Uniti ammettono la pena di morte.

Una delle conclusioni di quel tormentatissimo convegno era stata che, come avviene in chirurgia, intervenire significa agire energicamente per interrompere o eliminare un male. La chirurgia vuole il bene, ma i suoi metodi sono violenti. È consentita una chirurgia internazionale? Tutta la filosofia politica moderna ci dice che, per evitare la guerra di tutti contro tutti, lo Stato deve esercitare una certa violenza sugli individui. Ma quegli individui hanno sottoscritto un contratto sociale.

Che cosa avviene tra stati che non hanno sottoscritto un contratto comune? Di solito una comunità, che si ritiene depositaria di valori molto diffusi (diciamo i paesi democratici) stabilisce i limiti di ciò che essa giudica intollerabile. Non è tollerabile condannare a morte per reati d' opinione. Non è tollerabile il genocidio. Non è tollerabile l'infibulazione (almeno, se praticata a casa nostra). Pertanto si decide di difendere coloro che sono danneggiati ai limiti dell'intollerabile.

Ma sia chiaro che quell'intollerabile è intollerabile per noi, non per "loro".Chi siamo noi? I cristiani? Non necessariamente, cristiani rispettabilissimi, anche se non cattolici, appoggiano Milosevic. Il bello è che questo "noi"(anche se è definito da un trattato, come quello nord-atlantico) è un Noi impreciso. È una Comunità che si riconosce su alcuni valori. Dunque quando si decide di intervenire in base ai valori di una Comunità, si fa una scommessa: che i nostri valori, e il nostro senso dei limiti tra tollerabile e intollerabile, siano giusti. Si tratta di una sorta di scommessa storica non diversa da quella che legittima le rivoluzioni, o i tirannicidi: chi mi dice che io abbia diritto di esercitare la violenza (e che violenza, talora) per ristabilire quella che ritengo una giustizia violata? Non c'è nulla che legittimi una rivoluzione, per chi l'avversa: semplicemente chi vi si impegna crede, scommette, che ciò che fa sia giusto. Non diversamente accade per la decisione di un intervento internazionale. È questa situazione quella che spiega l'angoscia che afferra tutti in questi giorni. C'è un male terribile a cui opporsi (la pulizia etnica): è l'intervento bellico lecito o no? Si deve fare una guerra per impedire una ingiustizia? Secondo giustizia sì. E secondo carità? Ancora una volta si ripropone il problema della scommessa: se con una violenza minima avrò impedito una ingiustizia enorme, avrò agito secondo carità, come fa il poliziotto che spara al pazzo assassino per salvare la vita a molti innocenti.

Ma la scommessa è duplice. Da un lato si scommette che noi siamo in accordo col senso comune, che quello che vogliamo reprimere è qualche cosa di universalmente intollerabile (e peggio per chi non lo capisce e ammette ancora). Dall'altro si scommette che la violenza che giustifichiamo riuscirà a prevenire violenze maggiori. Sono due problemi assolutamente diversi. Ora provo a dare per scontato il primo, che scontato non è, ma vorrei ricordare a tutti che questo non è un trattato di etica, bensì un articolo di giornale, sordidamente ricattato da esigenze di spazio e di comprensibilità. In altre parole, il primo problema è così grave, e angoscioso, che non può, anzi non deve essere trattato sulle gazzette. Diciamo allora che è giusto, per impedire un delitto come la pulizia etnica (foriero di altri delitti e di altre atrocità che il nostro secolo ha conosciuto), ricorrere alla violenza.

Ma la seconda domanda è se la forma di violenza che esercitiamo possa davvero prevenire violenze maggiori. Qui non siamo più di fronte a un problema etico bensì a un problema tecnico, il quale ha tuttavia un risvolto etico: se l'ingiustizia a cui mi piego non prevenisse l'ingiustizia maggiore, sarebbe stato lecito usarla? Questo equivale a fare un discorso sulla utilità della guerra, nel senso di guerra guerreggiata, di guerra tradizionale, che ha per fine l'annientamento finale del nemico e la vittoria del vincitore. Il discorso sulla inutilità della guerra è difficile perché pare che chi lo fa parli in favore dell'ingiustizia che la guerra cerca di sanare. Ma questo è un ricatto psicologico. Se qualcuno per esempio dicesse che tutti i guai della Serbia derivano dalla dittatura di Milosevic, e che se i servizi segreti occidentali riuscissero a uccidere Milosevic tutto si risolverebbe in un giorno, questo qualcuno criticherebbe la guerra come strumento utile per risolvere il problema del Kosovo, ma non sarebbe pro-Milosevic. D'accordo? Perché nessuno adotta questa posizione? Per due ragioni. Una, che i servizi segreti di tutto il mondo sono per definizione inefficienti, non sono stati capaci di fare ammazzare né Castro né Saddam ed è vergognoso che si consideri ancora giusto sperperare per essi pubblico denaro. L'altro è che non è affatto vero che quello che fanno i serbi sia dovuto alla follia di un dittatore, ma dipende da odi etnici millenari, che coinvolgono e loro e altre etnie balcaniche, il che rende il problema ancora più drammatico. Torniamo allora al discorso sulla utilità della guerra. Qual è stato nel corso dei secoli il fine di quella che chiameremo paleo- guerra? Sconfiggere l'avversario in modo da trarre un beneficio dalla sua perdita. Questo imponeva tre condizioni: che al nemico dovessero essere tenute segrete le nostre forze e le nostre intenzioni, in modo da poterlo prendere di sorpresa; che ci fosse una forte solidarietà nel fronte interno; che infine tutte le forze a disposizione fossero utilizzate per distruggere il nemico. Per questo nella paleo-guerra (compresa la guerra fredda) si stroncavano coloro che dall'interno del fronte amico trasmettevano informazioni al fronte nemico (fucilazione di Mata Hari, i Rosenberg sulla sedia elettrica), si impediva la propaganda del fronte avverso (si metteva in prigione chi ascoltava Radio Londra, McCarthy condannava i filocomunisti di Hollywood), e si punivano coloro che, dall'interno del fronte nemico, lavoravano contro il proprio paese (impiccagione di John Amery, segregazione a vita di Ezra Pound) perché non si doveva fiaccare lo spirito dei cittadini. E infine si insegnava a tutti che il nemico andava ucciso, e i bollettini di guerra esultavano quando le forze nemiche venivano sterminate.

Queste condizioni sono entrate in crisi con la prima neo-guerra, quella del Golfo, ma si attribuiva ancora la smagliatura alla stupidità dei popoli di colore, che ammettevano i giornalisti americani a Bagdad, forse per vanità, o per corruzione. Ora non ci sono più equivoci, l'Italia invia aerei in Serbia ma mantiene relazioni diplomatiche con la Jugoslavia, le televisioni della Nato comunicano ora per ora ai serbi quali aerei Nato stanno lasciando Aviano, agenti serbi sostengono le ragioni del governo avversario dagli schermi della televisione di stato, giornalisti italiani trasmettono da Belgrado con l'appoggio delle autorità locali. Ma è guerra questa, col nemico in casa che fa propaganda per i suoi? Nella neo-guerra ciascun belligerante ha il nemico nelle retrovie e, dando continuamente la parola all'avversario, i media demoralizzano i cittadini (mentre Clausewitz ricordava che condizione della vittoria è la coesione morale di tutti i combattenti).

D'altra parte, quand'anche i media fossero imbavagliati, le nuove tecnologie della comunicazione permettono flussi d'informazione inarrestabili - e non so quanto Milosevic possa bloccare non dico Internet ma le trasmissioni radio da paesi nemici.

Tutte le cose che ho detto sembrano contraddire il bell'articolo di Furio Colombo su Repubblica del 19 aprile scorso, dove si sostiene che il Villaggio Globale di McLuhaniana memoria sarebbe morto il 13 aprile 1999, quando in un mondo di media, cellulari, satelliti, spie spaziali e così via, si dovette dipendere dal telefonino da campo di un funzionario di agenzia internazionale, incapace di chiarire se davvero fosse avvenuta una infiltrazione serba in territorio albanese. "Noi non sappiamo nulla dei serbi. I serbi non sanno nulla di noi. Gli albanesi non riescono a vedere sopra il mare di teste che li sta invadendo. La Macedonia scambia i profughi per nemici e li massacra di botte". Ma allora, questa è una guerra dove ciascuno sa tutto degli altri o dove nessuno sa niente? Tutte e due le cose.

Il fronte interno è trasparente, mentre la frontiera è opaca. Gli agenti di Milosevic parlano nelle trasmissioni di Gad Lerner, mentre sul fronte, là dove i generali di un tempo esploravano col binocolo, e sapevano benissimo dove si appostava il nemico, oggi non si sa niente. Questo accade perché, se il fine della paleo- guerra era distruggere quanti più nemici fosse possibile, pare tipico della neo-guerra cercare di ucciderne il meno possibile, perché a ucciderne troppi si incorrerebbe nella riprovazione dei media. Nella neo-guerra non si è ansiosi di distruggere il nemico, perché i media ci rendono vulnerabili di fronte alla sua morte - non più evento lontano e impreciso, ma evidenza visiva insostenibile. Nella neo-guerra ogni armata si muove all'insegna del vittimismo. Milosevic accusa orribili perdite (Mussolini se ne sarebbe vergognato), e basta che un aviatore della Nato caschi a terra che tutti si commuovono. Insomma, nella neo- guerra perde, di fronte all'opinione pubblica, chi ha ammazzato troppo. E dunque è giusto che alla frontiera nessuno si affronti e nessuno sappia niente dell'altro.

In fondo la neo- guerra è all'insegna della "bomba intelligente", che dovrebbe distruggere il nemico senza ammazzarlo, e si capiscono i nostri ministri che dicono: noi, scontri col nemico? ma niente affatto! Che poi un sacco di gente muoia lo stesso è tecnicamente irrilevante. Anzi, il difetto della neo- guerra è che muore della gente, ma non si vince.

Ma possibile che nessuno sappia condurre una neo-guerra? Nessuno, è naturale. L'equilibrio del terrore aveva preparato gli strateghi a una guerra atomica ma non a una terza guerra mondiale, dove si dovessero spezzare le reni alla Serbia. É come se i migliori laureati del Politecnico fossero stati tenuti per cinquant'anni a fare videogiochi. Vi fidereste a lasciargli fare ora un ponte? Ma infine, l' ultima beffa della neo-guerra non è che non ci sia nessuno oggi in servizio che sia vecchio abbastanza da avere imparato a fare una guerra - e non ci potrebbe essere in ogni caso, perché la neo-guerra è un gioco dove per definizione si perde sempre, anche perché la tecnologia che viene usata è più complessa del cervello di coloro che la manovrano e un semplice computer, benché fondamentalmente idiota, può giocare più scherzi di quanti ne immagini colui che lo manovra.. Bisogna intervenire contro il delitto del nazionalismo serbo, ma forse la guerra è un' arma spuntata. Forse l'unica speranza è nell'avidità umana. Se la vecchia guerra ingrassava i mercanti di cannoni, e questo guadagno faceva passare in secondo piano l'arresto provvisorio di alcuni scambi commerciali, la neo-guerra, se pure permette di smerciare un surplus di armamenti prima che diventino obsoleti, mette in crisi i trasporti aerei, il turismo, gli stessi media (che perdono pubblicità commerciale) e in genere tutta l'industria del superfluo. Se l'industria degli armamenti ha bisogno di tensione, quella del superfluo ha bisogno di pace. Prima o poi qualcuno più potente di Clinton e di Milosevic dirà basta, e tutti e due ci staranno a perdere un poco di faccia, pur di salvare il resto. È triste, ma almeno è vero.

(27 aprile 1999)

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Mai più la guerra
Mai più Auschwitz



di ADRIANO SOFRI

Con la "guerra" per il Kosovo viene al pettine il nodo irrisolto del 1945: fra la lezione che suona "mai più la guerra" e quella che suona "mai più Auschwitz". Quei due fili si ingarbugliarono e oggi, quando è diventato urgente ridipanarli, ce ne troviamo in mano uno solo alla volta. D'altro canto, la "guerra" fa appello al "nuovo diritto internazionale", mettendone alla prova insieme la concezione ispiratrice, e i modi di attuazione.

La differenza fra i modi è offuscata, finché l'attenzione continua a fissarsi su pretese linee di principio, pacifismo o interventismo: e invece è decisiva, come mostra giorno dopo giorno la strategia dei raid aerei. Quest'ultima ha una storia e un carico simbolico, che non mi sembra meno importante di quello strettamente militare.

Menzionando la promessa "Mai più Auschwitz", non intendo né paragonare la deportazione e gli eccidi in Kosovo alla Shoah, né Milosevic a Hitler - che può essere solo un generico, e allora meritato, insulto. Inoltre, nel "Mai più Auschwitz", è contenuto il "Mai più Gulag", benché questa connessione abbia tardato molto a farsi riconoscere.

I giudici di Norimberga, e le potenze vincitrici che li avevano insediati, affrontarono due questioni maggiori: la prima, la preservazione futura della pace, e dunque i "crimini contro la pace"; e l'altra, i "crimini contro l'umanità", incunabolo dell'odierno diritto all'ingerenza. Fu la prima a prevalere, al punto che buona parte dell'accusa si improntò alla nozione (giuridicamente dubbia) di "cospirazione" per provocare e attuare la guerra d'aggressione. I crimini contro l'umanità, "l'assassinio, lo sterminio, la schiavizzazione, la deportazione, e ogni atto inumano commesso contro tutte le popolazioni civili, o le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi..." furono largamente assorbiti dai "crimini di guerra", i quali erano invece codificati nel diritto internazionale dall'inizio del secolo. Lo stesso sterminio degli ebrei, cuore della nuova figura di crimine contro l' umanità, venne inizialmente trattato come parte del piano per la guerra aggressiva, e della sua esecuzione. Il processo finì nell'ottobre del 1946, e tuttavia il peso cruciale di Auschwitz - almeno un milione e 100.000 uccisi, più del 90 per cento ebrei - non vi fu sentito.

Quanto alla parola genocidio, coniata da Raphael Lemkin solo nel 1944, non comparve agli atti del Tribunale militare di Norimberga, e dovette attendere il processo a Eichmann, 1960, per occupare il centro dell'accusa. L'attenzione soverchiante al tema della guerra e della pace nei confronti di quello dei diritti umani, manifesta nell'orientamento giuridico di Norimberga, ha una faccia civile drammatica e nota, benché mai abbastanza.

Vi ricordate del sogno - l'incubo - del superstite di Auschwitz, raccontato in "Se questo è un uomo", di tornare e non essere creduto. Di non essere neanche ascoltato. (Bisogna ricordarsene ora, ascoltando con cautela i racconti di Kukes). Comprensibile, no? In fondo tutti sono usciti da una tragedia, come è stata la guerra, e non hanno orecchie per il racconto altrui, e oltretutto vogliono dimenticare e ricominciare a vivere. A un tale sentimento appartenne anche l'amara difficoltà di "Se questo è un uomo" a farsi pubblicare, e riconoscere.

Ma che spazio trovasse, alla lettera, la Shoah nell'Europa liberata, lo mostrarono i campi cintati di filo spinato e vigliati con le armi in cui le migliaia di ebrei superstiti vennero rinchiusi, "displaced persons", gente fuori luogo, dagli Alleati, col generale Patton in testa, prima che Eisenhower lo destituisse. "Fuori posto", in Europa. Fra i due impegni - mai più guerra, mai più Auschwitz - l'Europa delle autorità e quella della gente comune non ebbero dubbi, ammesso che intuissero il problema.

All'altro capo della sconfitta, in Giappone, si svolse una vicenda parallela, con due o tre differenze capitali. Intanto, i giapponesi avevano commesso atrocità enormi nel corso delle loro lunga guerra (fin dalla Manciuria 1931), ma senza un equivalente dell'antisemitismo e della Shoah. Inoltre il Giappone non fu occupato da un gruppo di potenze vincitrici, come la Germania, bensì dai soli Stati Uniti e anzi da un plenipotenziario assoluto, fino al 1952, Mac Arthur. Soprattutto, sul Giappone erano state sganciate le bombe atomiche. Hiroshima e Nagasaki furono sentite da ciascuno come un passaggio epocale, benché i bombardamenti convenzionali della Seconda Guerra, la "tempesta incendiaria" su Amburgo o Berlino, o Dresda (luglio '43, decine di migliaia di morti nel giro di 14 ore), o a Tokyo (84.000 morti in una notte) avessero causato un numero maggiore di vittime. Il B29 su Hiroshima ne uccise 71.379. Ma a Hiroshima l'onnipotenza di una scienza che si rivaleva sulla creazione divina con la distruzione nel nulla, fece strage di persone e cose, ma più ancora rovesciò l'orizzonte simbolico del mondo.

Molti degli stessi giapponesi vollero sentirvi, più che il colpo schiacciante del nemico americano, una specie di vampata sacrificale, nella quale rimuovere le proprie colpe, ed espiare per l'intero genere umano, tramutando la disfatta in una missione di testimonianza antimilitarista e pacifista. Nel Tribunale militare di Tokyo, gemello di quello di Norimberga, si condannò la cospirazione della cricca militarista e le atrocità (gli eccidi, gli stupri di massa, le schiavizzazioni delle popolazioni asiatiche conquistate, le sevizie ai prigionieri): i "crimini contro l'umanità" furono assimilati del tutto ai crimini di guerra.

La posta dichiarata era la capacità di prevenire la guerra. A Norimberga era stato vietato alle difese dei gerarchi nazisti di rinfacciare i crimini alleati, e soprattutto i bombardamenti delle città; così a Tokyo per Hiroshima. (Benché il giudice indiano, Pal, considerasse l'atomica come il vero crimine contro l'umanità). Ma non influì solo il drastico divieto americano. È stupefacente, di quel Giappone, scoprire come da un giorno all'altro - i giorni di Hiroshima e dell'inaudito discorso di resa di Hirohito - un mondo di mentalità e abitudini che sembravano ferree crolli e si capovolga in un'adesione al modo di vita del vincitore. Il quale portò, con l'"arrogante idealismo" (o, in un'altra definizione, l'"imperialismo sentimentale") che gli era ed è proprio, non solo la manifestazione della sua superpotenza economica a un paese agonizzante di fame, ma anche una radicale riforma democratica della vita associata (diritti delle donne, liberazione dei prigionieri politici, essenzialmente di sinistra, regole elettorali ecc.).

Questo complesso di innovazioni fu chiamato, e largamente applaudito, come "rivoluzione dall'alto". (Ho appena letto John W. Dower, "Embracing Defeat. Japan in the Wake of World War II", New York 1999, cavandone scoperte forti quanto la mia ignoranza). Non è sconvolgente che nel paese di Hiroshima venga adottata l'immagine di un "alto" da cui arriva il bene? L'esplosione riuscita ad Alamogordo è del luglio. Hiroshima del 6 agosto.

Tempo a parte, avrebbero gli americani sganciato l'atomica sulla Germania, in Europa? I giudizi più affidabili riconoscono una vena di disprezzo razziale nella scelta del Giappone. Quel colpo ebbe comunque una serie di ripercussioni decisive su tutto il mondo. In primo luogo, associò definitivamente (e, in larga misura, abusivamente) gli americani all'idea di un egoismo così cinico da far scegliere un olocausto atomico di civili, militarmente superfluo, per non mettere a repentaglio vite americane. Inoltre, eclissò ogni altro giuramento ("mai più Auschwitz") figurando, da allora in poi, una distruttività totale della guerra, che ne esigeva la trasformazione in un tabù, e della pace in un imperativo senza alternativa.

Il mondo si sarebbe spartito d'ora in poi in un prima e un dopo la bomba. Qualcuno sentiva che il mondo si era diviso in un prima e un dopo Auschwitz. (E le stesse parole si evocavano per Auschwitz e Hiroshima: impensabile, indicibile...). Ma come arrestarsi davanti alla fine di un mondo, quando si annunciava la fine del mondo?

L'atomica - tanto più nel colpo raddoppiato di Nagasaki - era stata impiegata anche per avvertire l'Urss, la quale si gettò al recupero del ritardo, e in pubblico levava la bandiera della difesa della pace contro la potenza aggressiva dell'America. Il pacifismo apparso universalmente come la lezione da tirare dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, sarebbe stato segnato dall'ipoteca sovietica. Più in generale, Hiroshima sarebbe diventata, per un grande e sincero numero di intellettuali e persone comuni in tutto il mondo, l'argomento da opporre in pubblico all'anticomunismo, e da mormorarsi in cuor proprio per giustificare le nefandezze dell' Urss. ***

Nel momento dell'amministrazione congiunta della vittoria, America e Urss preparavano il terreno della futura sfida. Nella quale un altro fattore era destinato a giocare una parte simbolica rilevante. Alla fine, la Seconda Guerra Mondiale era stata vinta soprattutto da due forze complementari (così appariva): la superiorità economica e tecnologica degli Stati Uniti, e la resistenza umana del popolo russo. La seconda portava il nome glorioso di Stalingrado, la prima il nome terribile di Hiroshima. Una aveva l'aspetto dell'aviatore, potente di una potenza distante, che colpiva dall' alto; l'altra le fattezze antiche del fante Ivan, del contadino russo attaccato alla terra, e inestirpabile fino alla morte. (L'armata degli Ivan nella sua controffensiva fino al centro di Berlino commise, incitata, un numero incomparabile di stupri: questo si seppe meno, o si "capì").

Un tocco peculiare si aggiunge alle immagini opposte, e dà loro il suggello che può dare un libro quando diventa lo schermo attraverso cui riconosciamo il mondo: è il Tolstoj di Guerra e Pace. Sulla sua filigrana si imprime l'epopea di Stalingrado. (E vi si ricalca "Vita e destino", la grande opera di Vasilij Grossman su Stalingrado, gloria di un popolo e insieme del suo tiranno, e anche sugli inferni paralleli di Auschwitz e dei campi "di lavoro" russi). Sui suoi personaggi gli intellettuali e i lettori comuni di tanta parte del mondo leggono i nuovi personaggi: Napoleone e Hitler, Kutuzov e i marescialli di Stalin, il soldato contadino Platon Karatajev e le donne e gli uomini difensori del Volga. (Anche il recente "Stalingrado" dello storico militare Antony Beevor, Rizzoli, viene pubblicizzato col richiamo a Guerra e Pace). Primo Levi, cui non sfuggiva la "vergogna del Gulag", vive e racconta la propria storia attraverso quel filtro. "... i buoni soldati dell'Armata Rossa, gli uomini valenti della Russia vecchia e nuova, miti in pace e atroci in guerra...". E l'incontro con il maresciallo Timosenko: "Semjon Konstantinovic Timosenko, l'eroe della rivoluzione bolscevica, della Carelia e di Stalingrado... Si intrattenne alla buona con noi italiani, simile al rozzo Kutuzov di Guerra e pace, sul prato, in mezzo alle pentole col pesce in cottura e alla biancheria stesa..." (È "La tregua").

Su questa idea non posso fermarmi qui: se non per concludere provvisoriamente che vi si trova un'altra spiegazione dell'ostinato e dannato attaccamento di tanti a Stalin stesso, e comunque all'Urss - alla Russia - e alla resistenza invincibile del suo popolo contro l'invasore. Non era stato Tolstoj, del resto, a "rendere poetica l'idea della guerra del popolo" (Grossman)?

Nella Seconda Guerra, al tempo delle incursioni angloamericane (la Raf tenne allora il primo posto) sulle città tedesche, la propaganda nazista non aveva tardato a sfruttare l'argomento. (Che ora Bossi è andato a ripetere a memoria ad Aviano). Nel 1943 Goebbels aveva parlato del "terrorismo aereo... prodotto dalle menti malate dei plutocratici distruttori del mondo". Gli americani furono a lungo riluttanti. Il primo gennaio 1945 il generale Eaker disse: "Non dobbiamo permettere che la storia ci accusi di aver gettato il bombardiere strategico contro l' uomo della strada". Più tardi, quell'anno, un deputato laburista inglese osservò polemicamente che i russi facevano bombardamenti "tattici" e non a "tappeto", e che ciò li avrebbe autorizzati un giorno ad accusare l'Occidente capitalistico di macchiarsi di quella viltà.

Dal '45 in poi, questo stereotipo (che è tale nonostante sia parzialmente fondato) si è confermato, sul versante americano: sprofondato com'è il versante opposto. Gli americani hanno combattuto altre guerre lontane: per tenere i confini dell'impero, o per difendere una fede civile. La stessa distanza - malvista dagli altri come il privilegio di chi non subisce la guerra a casa propria, o ammirata come una generosità che li porta a morire lontano da casa - appare come una conferma della loro prepotenza: americani, quasi marziani. Arrivano dall'alto, bombardano: come in Corea (benché ne siano morti 35.000), come in Vietnam (58.000), come, teatralmente, in Iraq, come, provvidenzialmente, in Bosnia. In Vietnam, erano i B52 del napalm e le falcidie degli elicotteri.

(Un giorno il generale Westmoreland, informato della presenza di Giap in una località nordvietnamita, le aveva fatto sganciare sopra mille tonnellate di bombe. Per un uomo piccolo come Giap... Non è un caso che in questi giorni i vietnamiti abbiamo mandato ai serbi messaggi e auguri in cui si identificano con loro. Su questa immagine - la bomba in alto, il piccolo combattente in basso - si modellò il terzomondismo).

L'evoluzione della tecnologia (gli aerei "invisibili", culmine di questa simbolica sottrazione possente e codarda al corpo a corpo) e dello spirito pubblico, non ha fatto che accentuare la distanza dal campo di battaglia. In Iraq la sproporzione è stata madornale: però, dove doveva valere a proteggere le vite stesse del nemico, approdò a una carneficina, benché a cifre differite. Ma le stesse ragioni che spingono in questo senso - il progresso scientifico, il valore assegnato alla vita dei singoli "nostri" - esigono anche di radicalizzare la differenza fra una guerra che si vuole "giusta", o piuttosto inevitabile, e una ingiusta. Differenza che non può esaurirsi nel movente, né nel fine: ma sta altrettanto nel modo in cui viene condotta. Se no, la generazione "del Vietnam" nei governi rischia di ridursi alla novità di una sinistra che firma ora lei le cose di destra. Ogni scelta militare è contemporaneamente una comunicazione rivolta a chi la sostiene, e a maggior ragione a chi la subisce, cui dichiara per quale idea, per quale convivenza si sta combattendo.

Non sono capace di valutare i termini militari di un problema. Al tempo stesso sento che non posso eluderlo: non si può restare alla convenzione per cui, una volta accettata la necessità della guerra, tutto passa nelle mani dei militari. Con tutta la timidezza, i termini militari della "guerra" iniziata il 24 marzo, sembrano anche a me, convinto della necessità dell'impiego della forza per il Kosovo, amaramente insoddisfacenti. La guerra, una volta intrapresa, esige il prossimo passo con la ineluttabilità del fatto compiuto. Contati i morti e la devastazione nel campo "nostro" e "nemico", e tanto più il disastro vergognoso dei deportati e fuggiaschi: chi di noi, il primo giorno, vi avrebbe acconsentito?

Non io: neanche, credo, il generale Clark. Ora il punto è questo, e duro, perché non si tratta di non perdere la faccia - fra i privilegi invidiabili della libertà e della democrazia c'è la disponibilità a perdere la faccia, persino volentieri - ma di ratificare il deserto del Kosovo, le vittime di cui è seminato, i cacciati, e l'impunità della gang di Belgrado.

In termini nient'affatto militari, io penso che né gli americani, né noi, possiamo sottovalutare il costo dello stereotipo della guerra asettica (per chi la conduce), dei raid e dei bombardamenti aerei, senza faccia e senza nome, salvo qualche incidente sacrilego, come l'abbattimento dello Stealth, e la danza tribale sulla sua carcassa della razza di chi rimane a terra. C'è un solo punto in cui le due promesse ("mai più guerra", e "mai più Auschwitz") possono ricongiungersi: e sta nel modo in cui il mondo del "nuovo diritto" sceglie di battersi.

Il mondo libero non seppe e non volle bombardare Oswiecim, e non potrà esserne perdonato. Quanto alla legittimità, "quando la casa brucia, non è il caso di chiedere la legittimità dei pompieri" (Günther Anders). Ma non è detto che debba ora ridursi all'intransigenza del bombardamento celeste. Ha scritto, ferocemente, Pierre Vidal- Naquet: "Fare la guerra senza prendersi i propri rischi, vuol dire aggravare il fossato fra il mondo dei ricchi e quello dei poveri; non è combattere, è praticare una specie di tortura aerea: parla, o ti colpisco...". Joschka Fischer, sul quale pesa la prova più delicata della nuova classe dirigente europea, ha detto: "Noi siamo la generazione che si è promessa "Mai più guerra" e "Mai più Auschwitz"". Così dovrebbe essere, ma è un po' più complicato. Nelle mani dei pacifisti, sinceri o abusivi, rischia di restare solo il filo del NO alla guerra, a costo dell'omissione di soccorso. Nelle nostre mani, l'urgenza del soccorso rischia di delegare per intero il problema ai pompieri, che a volte, per deformazione professionale, sono incendiari.

(26 aprile 1999)