La volontà della Nato
di JAVIER SOLANA* Il mondo è cambiato
in modo drammatico in mezzo secolo. La guerra fredda è
passata. La globalizzazione ha influito su tutti gli
aspetti della nostra vita. Il concetto di sicurezza
riguarda gli aspetti economici, sociali e umanitari.
Anche la Nato è cambiata: la nuova Nato che è emersa
dal summit di Washington è pronta per il prossimo
millennio.
In tutto questo rimangono saldi i nostri principi
essenziali: nel 1949 i membri fondatori della Nato hanno
firmato il Patto Atlantico per difendere la democrazia,
la libertà individuale e il rispetto della legge. Questi
sono ancor oggi d' attualità e proclamarli non è
sufficiente. La crisi del Kosovo ci ha obbligato ad agire
per difenderli. QUESTA sfida ha la stessa portata di
quelle che abbiamo fronteggiato cinquant' anni fa.
Il nostro Nuovo Concetto Strategico approvato a
Washington è d' aiuto alla Nato per affrontare queste
nuove sfide. Abbiamo la responsabilità morale di agire
in difesa dei nostri valori, dopo il fallimento dei
tentativi diplomatici. E agiamo quindi con la
determinazione che è diventata la nostra caratteristica
dal 1949. Questo non è cambiato. La nostra azione nei
Balcani è l' ultimissimo capitolo di una lunga storia di
difesa di questi principi. Principi che aiuteranno ad
assicurare all' Europa nel prossimo millennio un posto in
cui regni la pace e la stabilità. Il summit di
Washington ha approvato il proseguimento della nostra
azione nel Kosovo. Ha evidenziato anche che la
risoluzione della comunità internazionale sta diventando
più determinata e questo ci ha incoraggiato a
intensificare quest' azione con effetto immediato. Faremo
così. E, ora più che mai, ho una totale fiducia nel
nostro successo.
Abbiamo tre punti forti: unità di spirito, chiarezza di
intenti e la giusta strategia. La nostra unità di
spirito non potrebbe essere più salda. Al summit di
Washington, più di quaranta Paesi erano solidali: non
soltanto i diciannove alleati, ma anche i nostri partner,
nei confronti dei quali una delle nostre principali
priorità è approfondire i nostri rapporti di
collaborazione. E i Paesi confinanti con la Jugoslavia ci
hanno chiesto di proseguire nei nostri sforzi fino in
fondo. Sono stanchi di vivere con la politica del regime
di Milosevic ai loro confini. Apprezziamo l' aiuto che ci
danno - sia sotto il profilo militare, sia sotto quello
umanitario. è vitale per il successo della nostra
operazione. Per questi motivi, la Nato risponderà a ogni
sfida fatta loro dalla Jugoslavia. Le nostre intenzioni
restano chiare. Il summit di Washington ha confermato la
prosecuzione dell' impegno della Nato a loro favore.
Accettiamo di buon grado i ripetuti sforzi diplomatici
della comunità internazionale. Io sono in stretto
contatto con Kofi Annan. Apprezzo anche gli sforzi di
Viktor Cernomyrdin. La Russia sarà determinante per la
soluzione durevole nei Balcani che stiamo cercando tutti.
Ma vogliamo essere chiari: le decisioni che abbiamo
espresso il 12 aprile non sono negoziabili. E la nostra
strategia a più lungo termine resta il raggiungimento di
una transazione politica definitiva, basata sull' accordo
di Rambouillet. Dopo di che, attendo con ansia il giorno
in cui potremo riaccogliere una Jugoslavia democratica
nella famiglia europea, come parte di una regione
balcanica stabile. La nostra strategia sta funzionando.
Giorno dopo giorno, stiamo gradualmente indebolendo la
macchina da guerra di Milosevic, smantellando la sua
capacità di sostenere le sue forze in Kosovo. La
campagna aerea, finora, ha avuto un impatto drammatico:
le difese aeree sono deboli, le forze aeree non possono
più prendere il volo - diversi apparecchi sono stati
distrutti e il carburante sta per finire - uno dei
principali serbatoi è stato distrutto. A Washington
abbiamo dato un semplice messaggio a Milosevic: la
risoluzione della Nato è irrevocabile. Milosevic ha la
possibilità di porre fine alla campagna. Nel frattempo,
questi danni alle infrastrutture del suo Paese e ogni
disastro incidentale è sotto la sua responsabilità.
Ma i nostri obiettivi militari non ci distraggono dalla
nostra missione umanitaria. In effetti, siamo impegnati
ad aiutare quelli che hanno dovuto sopportare le
conseguenze delle azioni di Milosevic. Oltre 700.000
profughi sono scampati a tutt' oggi alla pulizia etnica
del Kosovo. Le nostre truppe continueranno a lavorare a
sostegno dell' Alto Commissario delle Nazioni Unite per i
Rifugiati Politici e altre organizzazioni nei campi
profughi. Dodicimila militari stanno svolgendo il loro
compito umanitario in Macedonia, nella ex-Repubblica
jugoslava, e cinquemila stanno facendo lo stesso in
Albania. Hanno contribuito alla consegna di oltre 3.000
tonnellate di cibo, 800 tonnellate di medicinali e 1.500
tonnellate di tende. Gli alleati lavoreranno con il resto
della comunità internazionale per reperire gli
investimenti necessari alla ricostruzione del Kosovo,
quando la crisi sarà finita: il Fondo Monetario
Internazionale e il G7 sono fra quelli pronti a offrire
aiuto finanziario ai Paesi di quella regione. Vogliamo
contribuire a garantire un coordinamento adeguato degli
aiuti e aiutare i Paesi a superare gli effetti della
crisi.
Questo dovrà andare di pari passo con le necessarie
riforme strutturali nei Paesi colpiti, con l' aiuto di un
sostegno finanziario da parte della comunità
internazionale. Il nostro obiettivo finale è quello di
costruire una pace durevole nei Balcani. Stiamo già
lavorando in tal senso. La Serbia è una parte integrante
di questo sforzo. Deve essere al centro di ogni tentativo
di riportare la stabilità in quella regione. Aiuteremo
la popolazione serba a riprendersi dalle condizioni in
cui l' hanno portata le azioni di Milosevic. La
popolazione serba non è responsabile delle sue attuali
condizioni. La colpa ricade pesantemente sulle spalle del
regime di Milosevic. Grazie a un decennio di Milosevic e
della sua politica che la Serbia, in condizioni di
bancarotta, è oggi isolata dal mondo. Un' altra tragedia
di questa crisi. Che diritto ha un solo uomo di
condannare una nazione a questo destino? Il suo massacro
in Kosovo rispecchia la distruzione sistematica del suo
stesso Paese e del suo stesso popolo.
Devo ripetere ancora una volta al popolo serbo: la nostra
guerra non è contro di voi, ma contro il vostro capo.
Milosevic vi ha portato alla rovina economica e ha
emarginato il vostro Paese dalla comunità
internazionale. La Nato è decisa a ribaltare questa
realtà. Per riuscirci, a Washington abbiamo deciso di
intraprendere un' iniziativa indirizzata al Sud-Est
europeo. Siamo determinati a svolgere fino in fondo la
nostra parte per contribuire a creare relazioni solide e
di cooperazione con e fra i Paesi della regione. A questo
fine, l' Alleanza indirà un' assemblea consultiva per
dibattere gli argomenti della sicurezza, relativi ai
Paesi della regione, basandosi sull' Euro Atlantic
Partnership Council e sulla Partnership for Peace. Questa
comprenderà consultazioni approfondite fra il North
Atlantic Council e ognuno dei Paesi della regione, l'
incentivazione della cooperazione nella regione,
programmi di cooperazione aventi come obiettivo la
sicurezza, attività e funzioni della PfP mirate alla
regione, e miglior definizione degli obiettivi e
coordinamento dell' assistenza bilaterale degli alleati e
dei partner alla regione. Apprezziamo gli sforzi dell'
Unione Europea, e di altre organizzazioni internazionali,
per creare una stabilità durevole nella regione.
In particolare, attendiamo con ansia l' imminente
Conferenza dell' Ue sul patto di stabilità per il
Sud-Est europeo, prevista per il 27 maggio. La coesione e
il coordinamento di tutte le iniziative nella regione è
d' importanza vitale. Dobbiamo lavorare tutti insieme per
raggiungere l' obiettivo comune. Il summit di Washington
ha mostrato che la Nato è pronta per il prossimo
millennio. I valori che apprezzavamo nel 1949 sono gli
stessi del prossimo millennio. Ora dobbiamo portare
avanti una struttura e svolgere il nostro ruolo per
garantire un' Europa sicura e stabile per il domani. In
questo contesto la crisi del Kosovo è una sfida alla
comunità internazionale, che ci impegna a trasformare le
parole in fatti. Siamo determinati a vincere. La nostra
unità e la nostra tenacia ci consentiranno di aiutare la
regione balcanica a far parte a pieno diritto dell'
Europa pacifica e stabile che stiamo costruendo per il
prossimo secolo.
(Traduzione a cura del Gruppo Logos)
* L' autore è Segretario generale della Nato
(1 maggio 1999)
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I difficili confini
della liberale Europa
di RALF DAHRENDORF
Il tempo della guerra non è tempo di
parole, neppure delle più perspicaci. Chi è contrario
alla guerra in Jugoslavia può manifestare, firmare
appelli, scrivere ai parlamentari; e chi è a favore può
sperare in un esito ragionevole. Ma il grande dibattito
potrà avere inizio solo in un secondo tempo, quando la
scena avrà cessato di mutare ogni giorno. Perciò in
questa fase sono riluttante a spendere molte parole. Con
queste note vorrei più che altro indicare alcuni punti
di riferimento per i dibattiti futuri. Il processo
sistematico, spesso palese ma talvolta anche invisibile,
di "epurazione" dei non serbi da vaste zone
dell' ex Jugoslavia per stabilirvi una "pura"
tirannia serba, è stato fin dall' inizio inaccettabile e
insopportabile in termini umani. MA l' Occidente lo ha
tollerato: prima con il riconoscimento di nuovi stati
etnicamente "puliti" quali la Croazia, e quindi
con il tentativo di imporre un ordine multietnico
sostenibile in Bosnia-Erzegovina, attraverso gli accordi
di Dayton. La questione del Kosovo è rimasta però in
sospeso. Quando il regime di Milosevic ha dato inizio
alla "pulizia etnica" nell' intera provincia e
ai massacri dei kosovari di origine albanese, si è
raggiunto un punto in cui dovevamo dire:
"Basta!" A mio parere, se l' Occidente e l'
Europa hanno un significato, intervenire era necessario e
giustificato. La questione del rapporto tra gli obiettivi
e i mezzi usati nella guerra in Jugoslavia è
precisamente tra quelle che non ha senso discutere ora.
Conosceremo a tempo debito la risposta. C' è chi crede
di conoscerla fin d' ora, e vorrebbe forse poter dire
"io l' avevo detto", una volta che il risultato
sarà noto. Ma dato che io non ho desideri di questo
genere, non sento il bisogno di pronunciarmi in
proposito. La guerra in Jugoslavia è stata definita la
prima guerra della sinistra. è vero che i suoi obiettivi
non assomigliano in nulla ai fini tradizionali degli
interventi armati. La sicurezza dell' Europa non è
direttamente minacciata dalle stragi e dall' espulsione
di un parte della popolazione dei Balcani; e la Nato non
ha fini di conquista, come non ne hanno i suoi membri. In
termini geopolitici, questa guerra non ha molto senso.
Perciò non sorprende il fatto che l' opposizione all'
intervento armato provenga in buona parte dalla destra
politica. Per la scuola di pensiero di Kissinger, questa
è la guerra sbagliata. Si esita a usare il termine
"umanitaria" per qualsiasi tipo di conflitto
armato; ma gli obiettivi in questo caso sono chiaramente
la salvezza e la sopravvivenza di esseri umani minacciati
da un nazionalismo aggressivo. La guerra in Jugoslavia la
dice lunga sull' Europa.
C' è da sospettare che senza la Nato - o piuttosto senza
il presidente Clinton e gli Stati Uniti - l' Europa non
si sarebbe spinta al di là di una certa soglia. Ora che
è andata oltre, è accaduto qualcosa di cruciale in
relazione alla sua stessa definizione del continente
europeo. La discussione su dove incominci e dove finisca
l' Europa è stata spesso di natura quasi metafisica. Chi
sono i veri europei? Gli slavi sono europei? E i
musulmani? Domande del genere sono praticamente prive di
senso. Potremmo senz' altro convivere con una definizione
geograficamente vaga dell' Europa, ma la sua definizione
politica deve essere rigorosa. L' Europa comprende i
paesi europei che hanno aderito ai principi dell' ordine
liberale, dello stato di diritto, della democrazia e
della convivenza civile. A questo riguardo, il Consiglio
d' Europa ha disegnato i suoi confini con eccessiva
generosità, mentre quelli tracciati dall' Unione Europea
sono troppo restrittivi. Tra gli altri suoi effetti, la
guerra avrà quello di definire i paesi balcanici, Serbia
compresa, come appartenenti all' Europa sebbene abbiano
ancora un lungo cammino da percorrere prima di poter
essere considerati nel novero degli Stati che aderiscono
ai principi di un ordine liberale. L' impegno dell'
Europa comporta, quanto meno, la promessa di accogliere
in futuro nell' Unione l' intera regione compresa tra l'
Austria e la Grecia.
Una promessa di vasta portata. Parlare di piano Marshall
è una tentazione, ma rischia anche di essere fuorviante.
Le dimensioni dell' impegno necessario sono comunque
analoghe. Per l' attuazione del Piano Marshall gli Stati
Uniti hanno stanziato in favore dell' Europa il 2% del
loro Pil. Ricordiamo che il costo totale dell' Unione
Europea non raggiunge l' 1,2% del Pil dei suoi stati
membri.
Una volta conclusa l' azione militare, saranno necessari
aiuti massicci d' ogni genere, sia per le opere di
ricostruzione in Serbia che per programmi di sviluppo in
altre zone dell' ex Jugoslavia, compreso il Kosovo. Sarà
questo il test reale della volontà dell' Europa di
difendere i suoi valori. Uno dei primi atti qualificanti
del nuovo presidente della Commissione, da quando è
entrato nell' esercizio delle sue funzioni, è stato
quello di nominare un Commissario con responsabilità
speciali per i Balcani: un' iniziativa che dimostra - sia
detto per inciso - la sua volontà di presiedere una
Commissione più operativa che burocratica. Per i fautori
di una società liberale si pone un problema molto
allarmante. L' ordine liberale presuppone la convivenza
pacifica tra popolazioni con opinioni, origini e
confessioni diverse, in base alle norme del diritto e
della democrazia. Per principio, ogni ordinamento
liberale riconosce l' eterogeneità dei suoi cittadini, e
da essa trae beneficio. Nel caso della Bosnia, si è
tentato di affermare questo principio, anche se è lecito
dubitare che il tentativo abbia avuto buon esito. Ma come
si giustifica l' eventualità di proporre altrove, e in
particolare in Kosovo, l' omogeneità etnica? L' Europa
si prepara davvero a presiedere di fatto alla creazione
di una provincia o di uno Stato deliberatamente omogeneo?
Saremo proprio noi liberali europei a fare da guardiani
alla "pulizia etnica"? Per ora si tratta di una
domanda ipotetica, che però si può senz' altro
presentare nella realtà, ed è in un certo senso già
implicita nelle diverse formulazioni degli obiettivi
della guerra. Probabilmente la risposta è affermativa:
è a questo che stiamo mirando. Ed è una risposta
preoccupante. I lettori di "Repubblica" non
mancheranno di notare che in questi commenti ho evitato
di affrontare i temi cruciali di cui si discute in
Europa, nelle case come nei luoghi di lavoro e di
incontro. è una scelta deliberata. Non credo che le
elucubrazioni di intellettuali sulle prossime mosse da
fare sul campo possano essere di grande utilità.
Concluderò con un triste commento finale, in linea con
le mie precedenti note. Si è affermato spesso che il
processo di integrazione europea ha ottenuto almeno un
risultato incontestabile: quello di rendere oramai
impossibile una guerra in Europa. Per quanto mi riguarda,
non l' ho mai detto, e neppure pensato. Nelle vicende
umane bisogna usare molta cautela con la parola
"impossibile". Sono pochissime le cose che
erano possibili una volta, e oggi non lo sono più.
Perciò è essenziale non dare nulla per scontato, e
costruire un' Europa per ogni eventualità. L' ordine
liberale è sempre minacciato. Ma è tuttora la cosa
migliore in cui sperare.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
(1 maggio 1999)
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Il pantano
della guerra
di GIORGIO RUFFOLO
Questa guerra si sta avvitando. Ci
chiediamo angosciosamente come ci si è potuti cacciare
in questa impasse. C' è qualche cosa che, al di là dei
catastrofici errori di valutazione e di previsione
compiuti dalla Nato, ormai evidenti, rende questa vicenda
imperscrutabile, nei fini e nei mezzi. I fini, anzitutto.
I "realisti" ghignano quando si parla di
"ingerenza umanitaria" come fattore
determinante dell' intervento Nato in questa guerra. E
tuttavia le spiegazioni alternative di tipo
convenzionale, tratte dall' arsenale marxista o da quello
opposto della realpolitik, risultano del tutto
inattendibili. Le spiegazioni convenzionali sono di tre
tipi. Ci sono quelle economiche: la guerra come sostegno
dei mercati; la guerra per difendere aree strategiche,
come le fonti petrolifere. DI tutta evidenza, non si
tratta né dell' una né dell' altra. L' economia
americana va a gonfie vele e nel Kosovo non c' è né
petrolio né altra ricchezza che valga un solo Tornado.
Ci sono quelle politico-strategiche: fiaccare i rivali.
In questo caso, chi può essere il rivale della
strapotente Nato? La Serbia, non certo. La Russia, dice
qualche celebrità politologica. Strano rivale, che Usa
ed Europa stanno cercando di tenere in piedi! La Nato la
indebolisce mentre il Fondo Monetario la rafforza? Non
regge. Ci sono poi quelle psicologiche: come l'
aggressività nazionalistica, etnica, religiosa,
ideologica. C' è qualcuno che può metterle in campo?
Dalla parte Nato, non certo: semmai, proprio dalla parte
opposta! è stata evocata una spiegazione più deprimente
(Piero Ottone su Repubblica del 27 aprile): che ci si sia
precipitati nella guerra per una concatenazione di eventi
incontrollabili. Nella storia il caso conta assai, ma non
fino al punto da rendere improponibile ogni ipotesi
logica e ogni discorso etico. Dunque, dobbiamo prendere
sul serio l' "ingerenza umanitaria"? Credo
proprio di sì, ma in termini meno angelici di quanto il
termine potrebbe far credere. Si tratta di un fatto nuovo
che si affaccia alla fine di questo secolo. Si tratta
dell' emergere lento e faticoso ma chiaro e distinto di
una nuova coscienza collettiva che non tollera la
violazione di diritti umani fondamentali. Lento e
faticoso e quindi contraddittorio, parziale. Siamo ancora
lontani da una sua valenza generale. Se la spinta a un
intervento repressivo dell' offesa non si fa concreta e
cogente quando si tratta del Kosovo e non della Turchia,
del Burundi, del Tibet è a causa di una prossimità
geografica e storica che lo rende immediatamente
percepibile e minaccioso. Quelle violazioni esplodono nel
cuore dell' Europa: questa è la prossimità geografica.
Ed esplodono nella forma del razzismo: questa è la
prossimità storica. Il razzismo ha aperto in Europa e in
tutto l' Occidente la tremenda ferita di Auschwitz. In
Europa e negli Stati Uniti il risorgere del razzismo,
nella forma della pulizia etnica appare, per una vasta
parte dell' opinione pubblica europea e americana, capace
di fondare un consenso politico saldo, non soltanto una
ripugnante mostruosità ma anche una minaccia reale.
L' intervento mancato in Bosnia è stato avvertito come
una vergogna. Quello in Kosovo come un dovere. Non solo
per un impulso morale "generico". Ma perché ci
si è sentiti in gioco. è vero. Quella reazione non è
certo di tutti. Ma era di tutti la decisione di scatenare
una guerra mondiale per fermare Hitler? è vero:
Milosevic non è Hitler. Ma (a parte che Hitler non era
Hitler quando rivendicava solo la Grande Germania) il
punto concreto è se la nuova "pulizia etnica"
è tollerabile nell' Europa di oggi. è vero: non si è
intervenuti in tante altre occasioni: ma non sarebbe
stato stolto e catastrofico non intervenire per Danzica
solo perché non si era intervenuti per Praga? Quando si
chiede la coerenza dell' intervento erga omnes si chiede
in realtà il non intervento. Meglio dirlo. Si tratta
invece di sfruttare questo varco aperto nel sacro recinto
della sovranità nazionale per estendere e regolare il
principio dell' "ingerenza umanitaria". è
proprio a questo punto, però, che emerge il problema
della coerenza morale e dell' efficacia pratica dei mezzi
rispetto al fine. Quanto alla coerenza morale: non si
tratta dell' antichissima questione della guerra giusta.
Il fatto è che di solito questo principio è invocato
contro un nostro aggressore. Oggi che sono scomparse le
deterrenze automatiche insite nel sistema dell'
equilibrio del terrore, e le microaggressioni si
moltiplicano, quel principio si estende anche agli
aggressori degli "altri". Non si invoca più la
legittima difesa; ma anche la legittima offesa. è un
aspetto della "globalizzazione".
Questo principio di legittima offesa, però, rischia di
mandare in pezzi il grande feticcio della sovranità
nazionale. I logici ci hanno spiegato che in ogni sistema
c' è una domanda, paradossale, alla quale quel sistema
non può rispondere senza rinnegarsi, e che può essere
affrontata solo cambiando il sistema. Si chiama principio
di indecidibilità. A quella istanza il nostro sistema
non risponde. Per superare l' impasse bisogna cambiarlo.
Bisogna istituire una sovranità superiore. L' Onu non è
certo un governo mondiale. Somiglia più alla venerabile
Società delle Nazioni, paralizzata dai veti. Pretendere
di fondare l' ingerenza umanitaria sull' Onu è come
avvitare un bullone nel vuoto. La sola cosa che si può
fare, nel vuoto di legittimazione mondiale, è di
sostituire quella legittimazione con una "scommessa
arbitraria" sulla legittimità futura, come dice
Umberto Eco (Repubblica, 26 aprile). Tutte le grandi
innovazioni morali e rivoluzioni politiche sono state una
scommessa. Questa è la scommessa della Nato. Si capisce
allora che quel difetto di legittimità sia pagato in
termini di efficienza dell' intervento. Richiamo ancora
Eco: per attutire il trauma dell' intervento si inventa
una neo-guerra, dove i morti e i feriti suscitano
sorpresa e indignazione, dove si invoca l' immediata
restituzione dei prigionieri, si pretende che le
distruzioni siano asettiche, mentre i contendenti si
scambiano visite tra le bombe: insomma, davvero una
strana guerra. Ma la neoguerra non è risolutiva. Per
esserlo, deve diventare prima o poi una paleoguerra
attraverso una escalation. Il che risolve il paradosso
del sistema, ma solo per ristabilirne la vecchia logica.
Un' altra via per superare il paradosso dell' ingerenza -
l' incompatibilità tra mezzi e fini - ci sarebbe. è
quella prospettata audacemente da Eugenio Scalfari
(Repubblica, 25 aprile). Ecco il suo "sogno".
"Se (le organizzazioni umanitarie) varcassero i
confini con le loro bandiere e con le televisioni di
tutto il mondo ai loro fianchi come armi pacifiche di
difesa e di messaggio, con le salmerie di soccorso dietro
di loro e arrivassero in quei villaggi, in quelle città
e invitassero la popolazione profuga a seguirle: non
sarebbe questo il modo di superare lo stallo tra chi deve
cominciare per primo a muovere un passo sulla via della
pace?".
La logica di questo sogno sta nel fatto che si supera il
paradosso dell' indecidibilità non attraverso la
legittimazione del fine da parte di un governo mondiale
ma attraverso l' umanizzazione dei mezzi. Si ristabilisce
così l' equilibrio tra fini e mezzi. Si cambia il
sistema nell' anima, prima che nelle regole. Non è
affatto detto che un' iniziativa così gandhiana non
possa accompagnarsi con altre misure repressive come un
rigoroso embargo petrolifero; e con una vigorosa azione
diplomatica che riconosca e rafforzi il ruolo di
mediazione della Russia. E ciò senza in alcun modo
incrinare la solidarietà della Nato nel pieno dell'
intervento militare. Ma c' è anche bisogno di iniziative
"sorprendenti" e inedite, cariche di
immaginazione e di rischio. Iniziative che aprano un
varco nel muro di un "realismo" che ci soffoca.
Che ristabiliscano un limpido visibile credibile nesso
tra il fine e i mezzi dell' operazione umanitaria. Che
offrano un' occasione di impegno massiccio non al
pacifismo folkloristico e "abusivo" (come lo
chiama Adriano Sofri) ma al pacifismo generoso impavido e
silenzioso. Certo, operazioni del genere comportano
rischi grandi: anche la disponibilità ad affrontare, con
un' armata disarmata, i rischi del sangue. Ma non si
possono salvare vite umane senza rischiare la propria, in
nome delle "mamme Cocciolone". E occorre
soprattutto l' audacia dell' immaginazione, della quale
non mi pare abbiano fatto molto uso la signora Albright e
i generali della Nato, e di cui difettano singolarmente
sia i grandi politologi alla Bismarck, sia quelli formato
Stranamore.
(30 aprile 1999)
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Noi europei, complici
di una guerra ambigua
di JEAN BAUDRILLARD*
Bisognerebbe almeno far emergere le
ragioni ciniche di questa "guerra", le ragioni
inconfessate di questo intervento, che si dice essere un
fiasco, una catastrofe sotto tutti gli aspetti. Ed è
proprio su questo punto che ci viene un dubbio crudele su
tutta questa messa in scena.
Tanti errori accumulati, tanto tergiversare e tante
azioni mancate, debbono sicuramente avere un senso, e
questo persistere nella confusione tattica, in questa
guerra velleitaria che fallisce quasi deliberatamente il
suo bersaglio (parlo degli occidentali: Milosevic non ha
sbagliato il suo), tutto questo farebbe dubitare della
definizione stessa della guerra: la prosecuzione della
politica mediante altri mezzi.
Se questa definizione vale ancora, allora tutti i nostri
strateghi e i nostri politici occidentali sono idioti -
eventualità da non escludere - ma, prima di arrivare a
questo estremo, ci domandiamo se non stanno, al
contrario, portando avanti e attuando un' operazione
perfettamente programmata, che, in ogni caso, si svolge
come se lo fosse. Si dice: la Nato continua a commettere
errori. L' Europa non è in grado di avere la minima
politica concertata. Ma NO, è esattamente il contrario.
Che cosa fa Milosevic? Elimina le sue minoranze, in
particolare, ovviamente, la minoranza mussulmana, ed è
per questo che tutta la Jugoslavia "bianca",
cattolica od ortodossa, sta con lui. Ma non solamente la
Jugoslavia. Tutta l' Europa sta con lui. Tutti gli Stati
nazionali europei hanno problemi con le loro minoranze
etniche o quelle immigrate, che non si sono affievoliti,
anzi al contrario. Ovunque, le minoranze etniche,
linguistiche, tutti gruppi isolati, sono in via di
sparizione o di eliminazione. Milosevic è il
portabandiera della purificazione, ma questa è presente
ovunque in un' ottica politica al di là di tutte le
spacconate sull' autonomia e i diritti dell' uomo; tutti
gli Stati europei, in quanto tali (non parlo delle
popolazioni, ma che cosa sono queste, se non la cassa di
risonanza ideologica e umanitaria dell' informazione?)
non possono che essere alla fin fine complici di
Milosevic - a rischio di rifiutarlo come la cattiva
coscienza e di far finta di punirlo perché egli fa
troppo bene (vale dire troppo male, troppo brutalmente il
suo sporco lavoro). Ma gli sarà stato lasciato tutto il
tempo per farlo. Perché rimpiangere senza sosta di non
essere intervenuti uno, due, tre anni prima (sono
quindici anni che le cose vanno avanti così), e perché,
per quale stupefacente ignoranza della situazione, la
Nato ha impegnato le forze aeree senza preoccuparsi di
quello che sarebbe avvenuto a terra (quando un' enormità
di esperti ci ha pensato per mesi) e perché non bloccare
immediatamente le forze serbe di terra nel Kosovo, invece
di dispiegare una logistica aerea più o meno inutile?
Ovvio - tutto appare chiaro se si immagina che forze
aeree sono là per non intervenire da terra o per
ritardare il più possibile questo intervento - quando
tutto sarà finito. Solana l' ha detto a chiare lettere
(senza preoccuparsi di tradire crudamente la verità
politica di questa guerra): "Non riprenderemo le
trattative con Milosevic (non si cerca più quindi di
sbarazzarsene?) se non quando sarà posta fine alla
pulizia etnica" - notate bene: quando sarà
completata. Cosa che avviene implacabilmente.
In tal senso, questa guerra - o almeno l' operazione che,
a quanto ci danno a vedere, è alla base di questa guerra
- si svolge in modo ottimale, addirittura programmato.
Perché Milosevic è l' esecutore della politica europea,
la vera, la sola, quella di un' Europa bianca, pulita,
depurata di tutte le minoranze - politica negativa,
politica esclusiva e integralista. Ma perché farsi delle
illusioni, l' Europa non ha alcuna idea positiva di se
stessa, l' Europa è ossessionata dallo spettro dell'
Europa - per tutte queste ragioni facciamo finta di
combatterlo, ma sempre troppo tardi e male. A ogni modo
non è finita: dopo il Kosovo, il Montenegro, come
altrove il Kurdistan, la Palestina, eccetera (la
tragicommedia del "processo di pace" in Medio
Oriente è un perfetto esempio di questo
"ritardo" indefinito e programmato).
Ma le cose sono ancora più complicate. Perché se l'
Europa ha una politica determinata, se non deliberata,
quella di una coalizione futura di entità nazionali, che
hanno governato entro i loro confini (se no, come
consolidarsi a livello mondiale agli occhi dell'
America?) e non certo multiculturali e multirazziali, l'
America, per mezzo della Nato, ha anch' essa una
strategia altrettanto determinata. Dopo essere venuta a
capo del comunismo, alla fine di una trentennale guerra
fredda e scongelata mondiale, dopo aver neutralizzato l'
altra potenza che la minacciava più da vicino, il
Giappone, grazie a una destabilizzazione, anch' essa
ampiamente programmata, delle piazze finanziarie
asiatiche, l' Europa è ormai nel suo mirino e il suo
obiettivo è quello di dare scacco per un tempo più
lungo possibile alle velleità della coesione
multinazionale europea, che costituirebbe una reale
minaccia. Il modo migliore per raggiungere questo
obiettivo è quello di destabilizzare l' Unione Europea,
prendendola nella trappola di una guerra, che essa non
vuole e che compromette le sue ultime possibilità,
venendo eventualmente in soccorso delle minoranze
(Bosnia, Kosovo, curdi, eccetera), con cui l' America
personalmente non ha nulla a che fare, e di cui tutti
vogliono nel loro intimo sbarazzarsi - essendo l' Islam e
il fronte islamico, con ogni evidenza, il nemico mondiale
numero uno, in quanto il solo profondamente refrattario
alla globalizzazione in corso - in questo consiste il
vero fronte della quarta guerra mondiale. Quindi, si
negozierà inevitabilmente con Milosevic, lo si lascerà
sopravvivere (esattamente come Saddam Hussein), in parte
consolidare la pulizia etnica e in parte per intorbidare
le acque dell' Europa. Anche la presenza a terra di una
forza internazionale (di cui si rivela tutta l'
ambiguità nella prosecuzione dei massacri in Bosnia) non
cambierà nulla.
L' America sa dunque perfettamente quello che vuole - ci
sarebbe da pensare che gli esperti del Pentagono siano
dei geni (stessa politica per Israele: mantenere ovunque
i bubboni di stabilizzazione e di destabilizzazione, fare
la polizia facendo contemporaneamente i paladini delle
vittime e i complici dei boia). Ma non è niente di tutto
ciò: è il corso ineluttabile del Nuovo Ordine mondiale
che lo richiede e loro non sono che gli esecutori. Quanto
agli europei, coinvolti (ma abbiamo visto con quante
riserve) nell' azione della Nato, che lavora alla loro
disfatta, sono immersi in una situazione confusa e
irrisolvibile. Ogni Stato si trova ad affrontare oggi due
nemici fondamentali: le proprie minoranze e l' America.
Gestire contemporaneamente il Nuovo Ordine mondiale per
quello che lo riguarda (eliminare tutti gli elementi
eterogenei e refrattari) e subire gli effetti di una
globalizzazione su vasta scala, di cui l' Europa, come si
profila, è al tempo stesso l' intermediaria e la
vittima. Praticamente non esiste via d' uscita. Resta il
rifugio della coalizione umanitaria, in mancanza di una
coesione politica - altra patetica contraddizione,
perché soccorrere le vittime in quanto tali non fa che
consacrare il successo dell' operazione di pulizia
etnica. Ma Benetton potrà trovare ispirazioni per la sua
pubblicità e ciascuno "smettendo di fumare e
devolvendo l' equivalente ai kosovari, potrà salvare due
vite nello stesso tempo".
Esiste, dunque, in questa "guerra" un'
ambiguità fondamentale, di cui l' aspetto minore non è
quello di ingiungerci di essere a favore o contro. Niente
consente di assumere una posizione in una guerra che è
un' esca, che si combatte per altri motivi e i cui
obiettivi sono mascherati, inconfessati e forse anche
oscuri alla consapevolezza degli uni e degli altri. I
commentatori ideologici, intellettuali e umanitari
mascherano con ogni mezzo e in continuazione il fatto di
essere vittime delle motivazioni ciniche e nascoste di
questa guerra. Annientare Milosevic? Significa non vedere
che siamo complici. Fermare tutto, andare fino in fondo a
che cosa? Significa non vedere cosa sta sotto a questa
guerra che non è mai veramente cominciata, dato che non
la si è mai veramente voluta, e che non è che uno dei
molteplici episodi che si presenteranno di un confronto,
questa volta veramente reale. Di qui la difficoltà
paradossale di mettere fine a una guerra che non è
quella vera, la cui ambiguità è totale e i cui
obiettivi non saranno nemmeno raggiunti - ma che si volge
in realtà, dietro queste ambiguità e queste false
manovre, esattamente come si deve svolgere. E' quindi
assurdo, in mezzo agli imbrogli e alla disinformazione -
che fa anch' essa parte della "catastrofe
umanitaria" (che lapsus!: o questa catastrofe è
umana o è l' umanitarismo stesso che fa parte della
catastrofe)- essere a favore o contro. Quello che bisogna
denunciare e portare alla luce, è prima di tutto l'
illusione di questa guerra. Alla Realpolitik bisogna
opporre una Realanalyse - il che non impedisce la
violenza delle reazioni e dei sentimenti, che può
provocare questa globalizzazione egemonica. Ma, per
combatterla, bisogna sapere, dietro le peripezie
ideologiche di cui la guerra e i media fanno parte, chi
sono veramente nel mondo i buoni e i cattivi. Noi
occidentali siamo dalla parte dei buoni. Onore a quelli
che sono capitati dalla parte dei cattivi. Onore, e non
compassione. Niente compassione per le vittime, ma niente
pietà per gli altri.
(traduzione a cura del gruppo Logos)
*Jean Baudrillard è un sociologo e filosofo francese,
nato nel 1929. Fra i suoi libri vanno ricordati Lo
scambio simbolico e la morte (Feltrinelli), Le strategie
fatali Feltrinelli), La sinistra divina (Feltrinelli), L'
America (Feltrinelli). Lo scorso anno è uscito in
Francia A l' ombre du millénaire ou le suspens de l'an
2000.
(29 aprile 1999)
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Disarmiamo gli animi
armiamo la ragione
di CARLO MARIA MARTINI*
In queste settimane di guerra nei
Balcani due parole mi tornano alla mente. La prima è di
Bertolt Brecht al termine del suo lavoro teatrale: La
resistibile ascesa di Arturo Ui: "E voi imparate che
occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e
non parlare. Questo mostro stava, una volta, per
governare il mondo. I popoli lo spensero, ma ora non
cantiamo vittoria troppo presto, il grembo da cui nacque
è ancora fecondo".
Questa metafora del grembo ancora fecondo evoca una delle
cause di quanto sta avvenendo. C' è una matrice dalla
quale sono stati generati molti stermini, fino alla
Shoah. Essa continua a generarne. I conflitti nelle terre
dell' ex Jugoslavia, la "pulizia etnica", l'
esodo forzato delle genti del Kosovo lo attestano, come
pure tanti altri conflitti in altre regioni del mondo
che, pur drammaticamente vivi, non fanno notizia. Tutto
questo non è lontano da noi. Anche il nostro Paese ha
conosciuto vergognose "leggi razziali". Altre
"notti feroci" gravano sull' Europa, come Primo
Levi ci aveva avvertiti. Avevamo sperato in un sempre
più diffuso e radicato costume democratico e invece di
nuovo rinascono forme di dittatura, di violenta
privazione della libertà. Questo millennio si avvia alla
conclusione tra incursioni aeree, bombardamenti, stragi.
La seconda parola a cui ripenso in questi giorni è stata
pronunciata dall' Assemblea delle chiese cristiane
europee a Basilea nel maggio 1989: "Abbiamo causato
guerre e non siamo stati capaci di sfruttare tutte le
opportunità di dialogo e di riconciliazione: abbiamo
accettato e spesso giustificato con troppa facilità le
guerre". Questa parola ci ricorda le responsabilità
che portiamo anche come cristiani. Sulle ragioni
possibili di alcuni atti di guerra (cioè sul tema di una
eventuale "guerra giusta"), si è ragionato a
lungo nei due millenni cristiani. Sant' Agostino
scriveva: "Fare la guerra è una felicità per i
malvagi, ma per i buoni una necessità... è ingiusta la
guerra fatta contro popoli inoffensivi, per desiderio di
nuocere, per sete di potere, per ingrandire un impero,
per ottenere ricchezze e acquistare gloria. In tutti
questi casi la guerra va considerata un
"brigantaggio in grande stile"" (De
Civitate Dei, IV, 6).
Ma Giovanni XXIII nella Pacem in terris, afferma:
"Nell' era atomica è irrazionale (alienum est a
ratione) pensare che la guerra possa essere utilizzata
come strumento di riparazione dei diritti violati".
Il concetto di "guerra giusta" viene così
superato. E il Concilio, che per lo più non ha voluto
pronunciare anatemi, ha tuttavia su questo punto un
parola ferma e dura: "Ogni atto di guerra che
indiscriminatamente mira alla distruzione di intere
città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto
contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e
senza esitazione deve essere condannato". Tra le
ragioni che hanno portato al superamento della dottrina
della guerra giusta, accanto alla percezione dei danni
incalcolabili prodotti dalle "moderne armi
scientifiche", vi è la progressiva adesione alla
struttura politica di tipo democratico, con il
riconoscimento dell' opinione pubblica come istanza di
controllo e di guida nella gestione del potere politico.
Anche sul piano internazionale, il progressivo
consolidarsi di una istanza sovranazionale costituisce
una (sia pur gracile) alternativa alla guerra mediante la
mediazione politica. Con la condanna del ricorso alla
guerra, la coscienza cristiana va progressivamente
superando anche la logica della deterrenza. La
deterrenza, afferma il Concilio, "non è via sicura
per conservare saldamente la pace... le cause di guerre
anziché venire eliminate da tale corsa minacciano
piuttosto di aggravarsi gradatamente... mentre si
spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove
armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente
rimedio alle miserie così grandi del mondo
presente".
In queste settimane di guerra ci ha costantemente guidato
il magistero coerente e coraggioso del papa Giovanni
Paolo II. Non dimentico le sue parole il mattino del
primo giorno della guerra nel Golfo, era il 17 gennaio
1991: "In queste ore di grandi pericoli, vorrei
ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo
adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti
tra le nazioni. Non lo è mai stato e non lo sarà mai.
Continuo a sperare che ciò che è iniziato abbia fine al
più presto. Prego affinché l' esperienza di questo
primo giorno di conflitto sia sufficiente per far
comprendere l' orrore di quanto sta succedendo e far
capire la necessità che le aspirazioni e i diritti di
tutti i popoli della regione siano oggetto di un
particolare impegno della comunità internazionale. Si
tratta di problemi la cui soluzione può essere ricercata
solamente in un contesto internazionale, ove tutte le
parti interessate siano presenti e cooperino con
lealtà". "Declino dell' umanità, scacco della
comunità internazionale, attentato ai valori più cari a
tutte le religioni", così diceva il Papa a
proposito della guerra nel Golfo. Parole che dobbiamo
ancora ripetere per la guerra nei Balcani.
Dobbiamo instancabilmente cercare, pensare una
alternativa all' uso delle armi, anche quando essa sembra
impossibile. Come vescovo avverto l' urgenza di
contribuire ad una educazione alla pace: solo scrutando
le ragioni misteriose del male nella storia e nel cuore
dell' uomo possiamo comprendere perché la pace sia
problema sempre aperto. Il riconoscimento del male in
tutte le sue forme, questa immane potenza del negativo
che ha nella guerra la sua manifestazione più
drammatica, non deve però indurci al pessimismo
paralizzando la fiducia nelle risorse positive dell'
uomo. Nasce di qui la tensione al dialogo come via
privilegiata alla pace: "Ogni uomo, credente o no,
pur restando prudente e lucido circa la possibile
ostinazione del suo fratello, può e deve conservare una
sufficiente fiducia nell' uomo, nella sua capacità di
essere ragionevole, nel suo senso del bene, della
giustizia, dell' equità, nella sua possibilità di amore
fraterno e di speranza, mai totalmente pervertiti, per
scommettere sul ricorso al dialogo e sulla sua possibile
ripresa" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la
Giornata della pace 1983). Questa fiducia nell' uomo è
anzitutto fiducia nelle risorse della sua coscienza,
soprattutto di quanti patiscono ingiustizia. Bisogna
puntare "sulle forze di pace nascoste negli uomini e
nei popoli che soffrono... così da sottoporre le forze
oppressive a delle spinte efficaci di trasformazione,
più efficaci di quelle fiammate di violenza che in
genere non producono nulla, se non un futuro di
sofferenze ancora più grandi" (Messaggio per la
Giornata della pace, 1980). Alla forza della coscienza e
non alla violenza è affidata la causa della pace. Sul
versante politico, la pace richiede strutture politiche
sovranazionali davvero efficaci nell' arginare le
possibili sopraffazioni. Era già questo l' auspicio di
Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite nel 1965:
"Il bene comune universale pone ora problemi a
dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente
affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici
aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse
proporzioni, di Poteri pubblici cioè, che siano in grado
di operare in modo efficiente sul piano mondiale. Lo
stesso ordine morale quindi domanda che tali poteri
vengano istituiti... Chi non vede il bisogno di giungere
così, progressivamente, a instaurare un' autorità
mondiale, capace di agire con efficacia sul piano
giuridico e politico?". In questi giorni di guerra
ripenso al lungo, difficile cammino della coscienza
cristiana durante due millenni nel giudicare la guerra e
gli armamenti. Prima delle armi nucleari e chimiche il
principio della legittima difesa poteva in certi casi
condurre a parlare di guerra giusta.
Ora invece si è convinti della tragica inutilità e
moralità di una guerra condotta con questi nuovi tipi di
armamenti. Dobbiamo augurarci che la coscienza critica
dei cristiani e di ogni uomo faccia ancora dei passi
ulteriori. Intanto occorre che la mobilitazione contro il
male sia accompagnata da un' opera progettuale, che dia
nuova consistenza alla pace, alla sicurezza, alla stessa
dissuasione. In tale linea: una ricerca di giustizia, di
eguaglianza, di solidarietà, il potenziamento del
dialogo, dei sistemi democratici, degli organismi di
controllo internazionali. La stessa dissuasione dovrebbe
fondarsi non già sulla minaccia rappresentata dagli
arsenali, bensì su quelle risorse ben più degne dell'
uomo che sono la solidarietà internazionale, le sanzioni
giuridiche, l' isolamento di chi fa ricorso alla
prepotenza e alla forza. Rassegnarsi alla logica della
guerra o della dissuasione armata vuol dire accettare la
spirale perversa degli armamenti e finire in una trappola
mortale per l' umanità. Dal punto di vista progettuale,
accanto alla proposta di studiare forme efficaci di
difesa civile non violenta, sta il riconoscimento del
valore della obiezione di coscienza, la denuncia di certe
forme di ricerca scientifica subalterne a logiche di
distruzione, lo scandalo rappresentato dal divario
crescente Nord-Sud alimentato dal commercio delle armi.
Sta l' appello alla mediazione politica come strumento di
composizione dei conflitti; l' appello a disarmare gli
animi, armando la ragione; l' appello a credere nella
Parola: "Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro
lance in falci, un popolo non alzerà più la spada
contro un altro popolo". (Isaia, 2,4).
*Il cardinale Carlo Maria Martini è arcivescovo di
Milano
(29 aprile 1999)
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Protocollo per una guerra
che è ancora da vincere
di FREDERICK FORSYTH
Andare in guerra ha senso solo per uno
scopo: vincere. Per farlo, in primo luogo è necessario
rispondere a una serie di domande molto difficili. Ma la
Nato rifiuta perfino di affrontare queste domande, e
tanto più di trovare risposte realizzabili; è questo
rifiuto che ha portato al pasticcio che ora abbiamo tutti
di fronte.
La Domanda Numero Uno deve essere: perché andiamo in
guerra? Qual è esattamente la nostra motivazione? Se
siamo stati attaccati direttamente, la risposta è
evidente: autodifesa. Se è stato attaccato un amico o un
alleato: solidarietà. Se un tiranno ha invaso un vicino
di casa di enorme importanza strategica per noi (Kuwait)
la risposta è: interessi nazionali irrinunciabili.
Nessuna di queste motivazioni vale per il Kosovo.
Ma c'è una quarta risposta: semplice compassione umana.
In alcune circostanze è perfettamente giustificabile.
Non abbiamo alcun dubbio che nei suoi dieci anni al
potere Slobodan Milosevic sia stato ispiratore del
genocidio puro, più di qualunque altro leader europeo
dopo il 1945. Nella sua ricerca di una Grande Serbia
etnicamente omogenea ha diffuso morte, malattie, fame,
miseria, dolore ed esilio in tutta la ex Jugoslavia.
Anche i non serbi hanno dato il loro contributo, ma per
l'80 per cento il responsabile è Milosevic, che possiede
la maggior parte delle armi pesanti.
Genocidio è una parola sporca, ora mascherata
dall'eufemismo "epurazione etnica". I modi per
realizzarlo sono cinque. Si possono massacrare le vittime
fino all'ultimo uomo, donna e bambino. Si può
distruggere il loro intero sistema di approvvigionamento
finché non corrono a nascondersi nelle foreste e nelle
montagne dove la Natura completerà l'opera con fame,
freddo e malattie. Si possono costringere le vittime
all'esilio al di là dei confini, in modo che una
diaspora costante a livello mondiale assicuri che quella
nazione non esista più. Si possono far lavorare fino
alla morte come schiavi nei campi di lavoro, oppure si
possono sterilizzare/annientare i giovani uomini in modo
che non possano più procreare. Milosevic sta infierendo
con i primi tre metodi.
In questo non c'è nulla di nuovo. I pogrom contro i
kosovari hanno avuto inizio subito dopo la sua ascesa al
potere dieci anni fa, e negli ultimi tre anni è stato un
costante crescendo. Un centinaio di giorni fa, agenti
britannici e americani a Belgrado hanno fornito ai loro
padroni politici le prove, al di là di ogni dubbio, che
questa primavera ed estate Milosevic aveva intenzione di
realizzare la soluzione finale. È stato per questo che
Clinton e Blair, in possesso di tali prove, hanno
convinto gli altri diciassette leader nazionali che, in
tutta coscienza, non potevamo starcene con le mani in
mano a girarci i pollici. Non potrei biasimarli per
quella decisione.
Ma poi si arriva alla Domanda Numero Due: qual è
l'obiettivo dell'azione, qual è la mossa finale? E qui
ormai si è già persa la strada. Ci è stato detto che
avremmo impedito la distruzione del popolo kosovaro.
Invece non è stato così. I kosovari vengono
sistematicamente distrutti come gruppo etnico vitale
proprio nel momento in cui leggete queste righe. Ci è
stato detto che la guerra avrebbe costretto Milosevic ad
accettare i termini di Rambouillet che aveva
precedentemente rifiutato. Ma questi termini prevedevano
che il Kosovo restasse nella Jugoslavia, sotto Milosevic,
con diecimila poliziotti serbi a mantenere l'ordine.
Dopo quanto è già accaduto, tutti sanno che non c'è la
minima possibilità che i kosovari tornino a casa a
queste condizioni, né potremmo mai costringerli a farlo.
Quindi Rambouillet è defunta; ora sarà necessario un
mini-stato kosovaro separato, con confini difendibili e
protezione della Nato. E dunque l'obiettivo dell'azione
è già completamente diverso, e assolutamente
inaccettabile per Belgrado. Un accordo in questo senso è
escluso. Se l'affermazione di Blair ("la nostra sola
via d'uscita è la vittoria") deve aver senso,
dobbiamo cercare di sconfiggere, non di persuadere i
serbi.
E infine la Domanda Numero Tre: come facciamo esattamente
a raggiungere questo obiettivo finale? A questo punto i
politici saggi interpellano i generali e li ascoltano.
Clinton e Blair non lo hanno fatto. Avevano a
disposizione gli uomini che avevano vinto in circostanze
pazzesche alle Falkland e che avevano vinto in quattro
giorni in Iraq. E loro, che non avevano mai indossato
un'uniforme, sparato un colpo, schivato un proiettile o
pilotato un aereo, si sono rifiutati di ascoltare. Questa
guerra non sta andando male a causa dei guerrieri
professionisti, ma per colpa di incompetenti interferenze
politiche.
In poche ore hanno commesso quattro errori madornali. Il
primo è stato di autoconvincersi che i bombardamenti da
soli avrebbero funzionato. (Nessun generale dell'esercito
o dell'aviazione da Roma a Washington ci credeva). Poi
hanno annunciato pubblicamente che nessun soldato alleato
avrebbe varcato il confine. È stato come dire a
Milosevic: "Sbrigati, che forse ce la farai". E
com'è naturale, Milosevic si è gentilmente prestato. In
terzo luogo, hanno rifiutato di aspettare sessanta giorni
che il cielo si rasserenasse. Risultato? Il sessanta per
cento delle nostre missioni di bombardamento sono state
interrotte a causa delle nuvole basse, i nostri piloti
addestrati per l'attacco a bassa quota sul Kosovo stanno
cercando di individuare cannoni e carri armati
mimetizzati da un'altezza di 5000 metri (come ex pilota
posso assicurarvi che non è possibile), gli squadroni
della morte proseguono indisturbati la loro opera e
abbiamo perfino colpito per sbaglio dei contadini
kosovari.
Infine, i politici hanno rifiutato di tenere in serbo
anche una sola tenda, una branda, una cucina da campo o
una coperta per l'inevitabile fiumana di profughi.
L'equivoco politico sulla situazione Belgrado/Kosovo è
stato totale. Ora ci viene detto che il bombardamento
della Serbia continuerà "per tutto il tempo che
sarà necessario". Non basta. Il tempo scorre
inesorabile. Fra altri 40 o forse 60 giorni non ci sarà
più un Kosovo da liberare né una popolazione da
riportare a casa.
Peggio ancora, nemmeno la Nato potrebbe durare altri
sessanta giorni. A Roma, Parigi e Berlino, la Sinistra
sta minacciando di far cadere i governi (strano, se
pensiamo che stanno combattendo un regime fascista che
compie massacri di massa); la Grecia sostiene la Serbia
all'unanimità, almeno a livello popolare; tutti i
governi tranne quello britannico continuano a rifiutare
di credere a ciò che è ovvio: che il Kosovo non può
essere liberato senza forze di terra, perché non si può
bloccare la macchina del genocidio da cinquemila metri di
altezza. Infine, a questo punto Milosevic non può
arrendersi: verrebbe impiccato dai suoi estremisti se
dicesse loro che la devastazione del loro paese è stata
inutile.
C'è una sola via d'uscita da questo inferno: riversare
40.000 giovani volontari kosovari nel loro paese
d'origine, equipaggiati con ogni arma che siano in grado
di maneggiare; paracadutare armi alle decine di migliaia
di altri giovani kosovari che si nascondono nelle
montagne e nelle foreste del massiccio centrale; prestare
loro alcuni dei nostri addestratissimi uomini delle forze
speciali come addetti alle trasmissioni e alla
localizzazione dei bersagli; fornire loro una copertura
aerea totale. Non c'è la minima prova che i soldati e i
poliziotti serbi, per non parlare dei paramilitari
psicotici di Belgrado, siano migliori dei kosovari
all'interno del loro paese. Milosevic inizierà a
negoziare solo se comincerà a contare un numero
rilevante di vittime e la perdita di qualche settore,
come ha fatto quando, alla fine, ha incontrato i croati
su un piede di parità.
Contemporaneamente, dovremmo fare pressione su Mosca
perché svolga un ruolo di protagonista nella creazione
di un Nuovo Kosovo sotto protezione della Nato e della
Russia, più piccolo ma non più sotto il governo di
Belgrado. Solo allora potremo persuadere l'ondata di
profughi a tornare a casa e dar prova della nostra
filantropia aiutandoli a ricostruire la loro terra
distrutta.
(traduzione di Metella Paterlini)
Frederick Forsyth è uno dei più celebri scrittori
inglesi di spy-story. Tra i suoi libri più famosi,
"Il giorno dello sciacallo", "Dossier
Odessa", "I mastini della guerra",
"L'alternativa del diavolo", "Il quarto
protocollo", "Il negoziatore", "Il
pugno di Dio", tutti editi in Italia da Mondadori.
(28 aprile 1999)
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Quando la guerra
è un'arma spuntata
di UMBERTO ECO
Nel dicembre del 1993 si è svolto alla
Sorbona, sotto l'egida della Academie Universelle des
Cultures, un congresso sul concetto di intervento
internazionale. C'erano non solo giuristi, politologi,
militari, politici, ma anche filosofi e storici come Paul
Ricoeur o Jacques Le Goff, medici senza frontiere come
Bernard Koutchner, rappresentanti di minoranze un tempo
perseguitate come Elie Wiesel, Ariel Dorfmann, Toni
Morrison, vittime della repressione di vari dittatori,
come Leszek Kolakowski o Bronislaw Geremek o Jorge
Semprun, insomma molta gente a cui la guerra non piace,
non è mai piaciuta e non vorrebbero vederne più. Si
aveva paura a usare parole come "intervento",
che sapeva troppo di ingerenza (anche Sagunto è stato un
intervento, e ha permesso ai romani di fare fuori i
cartaginesi), e si preferiva parlare di soccorso e di
"azione internazionale". Pura ipocrisia? No, i
romani che intervengono a favore di Sagunto sono romani,
e basta.
In quel convegno invece si stava parlando di comunità
internazionale, di un gruppo di paesi che ritengono che
la situazione, in un punto qualsiasi del globo, abbia
raggiunto l'intollerabile, e decidono di intervenire per
porre fine a quello che la coscienza comune definisce un
delitto. Ma quali paesi fanno parte della comunità
internazionale, e quali sono i limiti della coscienza
comune? Si può certo sostenere che per ogni civiltà
uccidere sia un male, ma solo entro certi limiti. Noi
europei e cristiani ammettiamo per esempio l'omicidio per
legittima difesa, ma gli antichi abitanti del Centro e
Sud America ammettevano il sacrificio umano rituale, e
gli attuali abitanti degli Stati Uniti ammettono la pena
di morte.
Una delle conclusioni di quel tormentatissimo convegno
era stata che, come avviene in chirurgia, intervenire
significa agire energicamente per interrompere o
eliminare un male. La chirurgia vuole il bene, ma i suoi
metodi sono violenti. È consentita una chirurgia
internazionale? Tutta la filosofia politica moderna ci
dice che, per evitare la guerra di tutti contro tutti, lo
Stato deve esercitare una certa violenza sugli individui.
Ma quegli individui hanno sottoscritto un contratto
sociale.
Che cosa avviene tra stati che non hanno sottoscritto un
contratto comune? Di solito una comunità, che si ritiene
depositaria di valori molto diffusi (diciamo i paesi
democratici) stabilisce i limiti di ciò che essa giudica
intollerabile. Non è tollerabile condannare a morte per
reati d' opinione. Non è tollerabile il genocidio. Non
è tollerabile l'infibulazione (almeno, se praticata a
casa nostra). Pertanto si decide di difendere coloro che
sono danneggiati ai limiti dell'intollerabile.
Ma sia chiaro che quell'intollerabile è intollerabile
per noi, non per "loro".Chi siamo noi? I
cristiani? Non necessariamente, cristiani
rispettabilissimi, anche se non cattolici, appoggiano
Milosevic. Il bello è che questo "noi"(anche
se è definito da un trattato, come quello
nord-atlantico) è un Noi impreciso. È una Comunità che
si riconosce su alcuni valori. Dunque quando si decide di
intervenire in base ai valori di una Comunità, si fa una
scommessa: che i nostri valori, e il nostro senso dei
limiti tra tollerabile e intollerabile, siano giusti. Si
tratta di una sorta di scommessa storica non diversa da
quella che legittima le rivoluzioni, o i tirannicidi: chi
mi dice che io abbia diritto di esercitare la violenza (e
che violenza, talora) per ristabilire quella che ritengo
una giustizia violata? Non c'è nulla che legittimi una
rivoluzione, per chi l'avversa: semplicemente chi vi si
impegna crede, scommette, che ciò che fa sia giusto. Non
diversamente accade per la decisione di un intervento
internazionale. È questa situazione quella che spiega
l'angoscia che afferra tutti in questi giorni. C'è un
male terribile a cui opporsi (la pulizia etnica): è
l'intervento bellico lecito o no? Si deve fare una guerra
per impedire una ingiustizia? Secondo giustizia sì. E
secondo carità? Ancora una volta si ripropone il
problema della scommessa: se con una violenza minima
avrò impedito una ingiustizia enorme, avrò agito
secondo carità, come fa il poliziotto che spara al pazzo
assassino per salvare la vita a molti innocenti.
Ma la scommessa è duplice. Da un lato si scommette che
noi siamo in accordo col senso comune, che quello che
vogliamo reprimere è qualche cosa di universalmente
intollerabile (e peggio per chi non lo capisce e ammette
ancora). Dall'altro si scommette che la violenza che
giustifichiamo riuscirà a prevenire violenze maggiori.
Sono due problemi assolutamente diversi. Ora provo a dare
per scontato il primo, che scontato non è, ma vorrei
ricordare a tutti che questo non è un trattato di etica,
bensì un articolo di giornale, sordidamente ricattato da
esigenze di spazio e di comprensibilità. In altre
parole, il primo problema è così grave, e angoscioso,
che non può, anzi non deve essere trattato sulle
gazzette. Diciamo allora che è giusto, per impedire un
delitto come la pulizia etnica (foriero di altri delitti
e di altre atrocità che il nostro secolo ha conosciuto),
ricorrere alla violenza.
Ma la seconda domanda è se la forma di violenza che
esercitiamo possa davvero prevenire violenze maggiori.
Qui non siamo più di fronte a un problema etico bensì a
un problema tecnico, il quale ha tuttavia un risvolto
etico: se l'ingiustizia a cui mi piego non prevenisse
l'ingiustizia maggiore, sarebbe stato lecito usarla?
Questo equivale a fare un discorso sulla utilità della
guerra, nel senso di guerra guerreggiata, di guerra
tradizionale, che ha per fine l'annientamento finale del
nemico e la vittoria del vincitore. Il discorso sulla
inutilità della guerra è difficile perché pare che chi
lo fa parli in favore dell'ingiustizia che la guerra
cerca di sanare. Ma questo è un ricatto psicologico. Se
qualcuno per esempio dicesse che tutti i guai della
Serbia derivano dalla dittatura di Milosevic, e che se i
servizi segreti occidentali riuscissero a uccidere
Milosevic tutto si risolverebbe in un giorno, questo
qualcuno criticherebbe la guerra come strumento utile per
risolvere il problema del Kosovo, ma non sarebbe
pro-Milosevic. D'accordo? Perché nessuno adotta questa
posizione? Per due ragioni. Una, che i servizi segreti di
tutto il mondo sono per definizione inefficienti, non
sono stati capaci di fare ammazzare né Castro né Saddam
ed è vergognoso che si consideri ancora giusto
sperperare per essi pubblico denaro. L'altro è che non
è affatto vero che quello che fanno i serbi sia dovuto
alla follia di un dittatore, ma dipende da odi etnici
millenari, che coinvolgono e loro e altre etnie
balcaniche, il che rende il problema ancora più
drammatico. Torniamo allora al discorso sulla utilità
della guerra. Qual è stato nel corso dei secoli il fine
di quella che chiameremo paleo- guerra? Sconfiggere
l'avversario in modo da trarre un beneficio dalla sua
perdita. Questo imponeva tre condizioni: che al nemico
dovessero essere tenute segrete le nostre forze e le
nostre intenzioni, in modo da poterlo prendere di
sorpresa; che ci fosse una forte solidarietà nel fronte
interno; che infine tutte le forze a disposizione fossero
utilizzate per distruggere il nemico. Per questo nella
paleo-guerra (compresa la guerra fredda) si stroncavano
coloro che dall'interno del fronte amico trasmettevano
informazioni al fronte nemico (fucilazione di Mata Hari,
i Rosenberg sulla sedia elettrica), si impediva la
propaganda del fronte avverso (si metteva in prigione chi
ascoltava Radio Londra, McCarthy condannava i
filocomunisti di Hollywood), e si punivano coloro che,
dall'interno del fronte nemico, lavoravano contro il
proprio paese (impiccagione di John Amery, segregazione a
vita di Ezra Pound) perché non si doveva fiaccare lo
spirito dei cittadini. E infine si insegnava a tutti che
il nemico andava ucciso, e i bollettini di guerra
esultavano quando le forze nemiche venivano sterminate.
Queste condizioni sono entrate in crisi con la prima
neo-guerra, quella del Golfo, ma si attribuiva ancora la
smagliatura alla stupidità dei popoli di colore, che
ammettevano i giornalisti americani a Bagdad, forse per
vanità, o per corruzione. Ora non ci sono più equivoci,
l'Italia invia aerei in Serbia ma mantiene relazioni
diplomatiche con la Jugoslavia, le televisioni della Nato
comunicano ora per ora ai serbi quali aerei Nato stanno
lasciando Aviano, agenti serbi sostengono le ragioni del
governo avversario dagli schermi della televisione di
stato, giornalisti italiani trasmettono da Belgrado con
l'appoggio delle autorità locali. Ma è guerra questa,
col nemico in casa che fa propaganda per i suoi? Nella
neo-guerra ciascun belligerante ha il nemico nelle
retrovie e, dando continuamente la parola all'avversario,
i media demoralizzano i cittadini (mentre Clausewitz
ricordava che condizione della vittoria è la coesione
morale di tutti i combattenti).
D'altra parte, quand'anche i media fossero imbavagliati,
le nuove tecnologie della comunicazione permettono flussi
d'informazione inarrestabili - e non so quanto Milosevic
possa bloccare non dico Internet ma le trasmissioni radio
da paesi nemici.
Tutte le cose che ho detto sembrano contraddire il
bell'articolo di Furio Colombo su Repubblica del 19
aprile scorso, dove si sostiene che il Villaggio Globale
di McLuhaniana memoria sarebbe morto il 13 aprile 1999,
quando in un mondo di media, cellulari, satelliti, spie
spaziali e così via, si dovette dipendere dal telefonino
da campo di un funzionario di agenzia internazionale,
incapace di chiarire se davvero fosse avvenuta una
infiltrazione serba in territorio albanese. "Noi non
sappiamo nulla dei serbi. I serbi non sanno nulla di noi.
Gli albanesi non riescono a vedere sopra il mare di teste
che li sta invadendo. La Macedonia scambia i profughi per
nemici e li massacra di botte". Ma allora, questa è
una guerra dove ciascuno sa tutto degli altri o dove
nessuno sa niente? Tutte e due le cose.
Il fronte interno è trasparente, mentre la frontiera è
opaca. Gli agenti di Milosevic parlano nelle trasmissioni
di Gad Lerner, mentre sul fronte, là dove i generali di
un tempo esploravano col binocolo, e sapevano benissimo
dove si appostava il nemico, oggi non si sa niente.
Questo accade perché, se il fine della paleo- guerra era
distruggere quanti più nemici fosse possibile, pare
tipico della neo-guerra cercare di ucciderne il meno
possibile, perché a ucciderne troppi si incorrerebbe
nella riprovazione dei media. Nella neo-guerra non si è
ansiosi di distruggere il nemico, perché i media ci
rendono vulnerabili di fronte alla sua morte - non più
evento lontano e impreciso, ma evidenza visiva
insostenibile. Nella neo-guerra ogni armata si muove
all'insegna del vittimismo. Milosevic accusa orribili
perdite (Mussolini se ne sarebbe vergognato), e basta che
un aviatore della Nato caschi a terra che tutti si
commuovono. Insomma, nella neo- guerra perde, di fronte
all'opinione pubblica, chi ha ammazzato troppo. E dunque
è giusto che alla frontiera nessuno si affronti e
nessuno sappia niente dell'altro.
In fondo la neo- guerra è all'insegna della "bomba
intelligente", che dovrebbe distruggere il nemico
senza ammazzarlo, e si capiscono i nostri ministri che
dicono: noi, scontri col nemico? ma niente affatto! Che
poi un sacco di gente muoia lo stesso è tecnicamente
irrilevante. Anzi, il difetto della neo- guerra è che
muore della gente, ma non si vince.
Ma possibile che nessuno sappia condurre una neo-guerra?
Nessuno, è naturale. L'equilibrio del terrore aveva
preparato gli strateghi a una guerra atomica ma non a una
terza guerra mondiale, dove si dovessero spezzare le reni
alla Serbia. É come se i migliori laureati del
Politecnico fossero stati tenuti per cinquant'anni a fare
videogiochi. Vi fidereste a lasciargli fare ora un ponte?
Ma infine, l' ultima beffa della neo-guerra non è che
non ci sia nessuno oggi in servizio che sia vecchio
abbastanza da avere imparato a fare una guerra - e non ci
potrebbe essere in ogni caso, perché la neo-guerra è un
gioco dove per definizione si perde sempre, anche perché
la tecnologia che viene usata è più complessa del
cervello di coloro che la manovrano e un semplice
computer, benché fondamentalmente idiota, può giocare
più scherzi di quanti ne immagini colui che lo manovra..
Bisogna intervenire contro il delitto del nazionalismo
serbo, ma forse la guerra è un' arma spuntata. Forse
l'unica speranza è nell'avidità umana. Se la vecchia
guerra ingrassava i mercanti di cannoni, e questo
guadagno faceva passare in secondo piano l'arresto
provvisorio di alcuni scambi commerciali, la neo-guerra,
se pure permette di smerciare un surplus di armamenti
prima che diventino obsoleti, mette in crisi i trasporti
aerei, il turismo, gli stessi media (che perdono
pubblicità commerciale) e in genere tutta l'industria
del superfluo. Se l'industria degli armamenti ha bisogno
di tensione, quella del superfluo ha bisogno di pace.
Prima o poi qualcuno più potente di Clinton e di
Milosevic dirà basta, e tutti e due ci staranno a
perdere un poco di faccia, pur di salvare il resto. È
triste, ma almeno è vero.
(27 aprile 1999)
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Mai più la guerra
Mai più Auschwitz
di ADRIANO SOFRI
Con la "guerra" per il Kosovo
viene al pettine il nodo irrisolto del 1945: fra la
lezione che suona "mai più la guerra" e quella
che suona "mai più Auschwitz". Quei due fili
si ingarbugliarono e oggi, quando è diventato urgente
ridipanarli, ce ne troviamo in mano uno solo alla volta.
D'altro canto, la "guerra" fa appello al
"nuovo diritto internazionale", mettendone alla
prova insieme la concezione ispiratrice, e i modi di
attuazione.
La differenza fra i modi è offuscata, finché
l'attenzione continua a fissarsi su pretese linee di
principio, pacifismo o interventismo: e invece è
decisiva, come mostra giorno dopo giorno la strategia dei
raid aerei. Quest'ultima ha una storia e un carico
simbolico, che non mi sembra meno importante di quello
strettamente militare.
Menzionando la promessa "Mai più Auschwitz",
non intendo né paragonare la deportazione e gli eccidi
in Kosovo alla Shoah, né Milosevic a Hitler - che può
essere solo un generico, e allora meritato, insulto.
Inoltre, nel "Mai più Auschwitz", è contenuto
il "Mai più Gulag", benché questa connessione
abbia tardato molto a farsi riconoscere.
I giudici di Norimberga, e le potenze vincitrici che li
avevano insediati, affrontarono due questioni maggiori:
la prima, la preservazione futura della pace, e dunque i
"crimini contro la pace"; e l'altra, i
"crimini contro l'umanità", incunabolo
dell'odierno diritto all'ingerenza. Fu la prima a
prevalere, al punto che buona parte dell'accusa si
improntò alla nozione (giuridicamente dubbia) di
"cospirazione" per provocare e attuare la
guerra d'aggressione. I crimini contro l'umanità,
"l'assassinio, lo sterminio, la schiavizzazione, la
deportazione, e ogni atto inumano commesso contro tutte
le popolazioni civili, o le persecuzioni per motivi
politici, razziali o religiosi..." furono largamente
assorbiti dai "crimini di guerra", i quali
erano invece codificati nel diritto internazionale
dall'inizio del secolo. Lo stesso sterminio degli ebrei,
cuore della nuova figura di crimine contro l' umanità,
venne inizialmente trattato come parte del piano per la
guerra aggressiva, e della sua esecuzione. Il processo
finì nell'ottobre del 1946, e tuttavia il peso cruciale
di Auschwitz - almeno un milione e 100.000 uccisi, più
del 90 per cento ebrei - non vi fu sentito.
Quanto alla parola genocidio, coniata da Raphael Lemkin
solo nel 1944, non comparve agli atti del Tribunale
militare di Norimberga, e dovette attendere il processo a
Eichmann, 1960, per occupare il centro dell'accusa.
L'attenzione soverchiante al tema della guerra e della
pace nei confronti di quello dei diritti umani, manifesta
nell'orientamento giuridico di Norimberga, ha una faccia
civile drammatica e nota, benché mai abbastanza.
Vi ricordate del sogno - l'incubo - del superstite di
Auschwitz, raccontato in "Se questo è un
uomo", di tornare e non essere creduto. Di non
essere neanche ascoltato. (Bisogna ricordarsene ora,
ascoltando con cautela i racconti di Kukes).
Comprensibile, no? In fondo tutti sono usciti da una
tragedia, come è stata la guerra, e non hanno orecchie
per il racconto altrui, e oltretutto vogliono dimenticare
e ricominciare a vivere. A un tale sentimento appartenne
anche l'amara difficoltà di "Se questo è un
uomo" a farsi pubblicare, e riconoscere.
Ma che spazio trovasse, alla lettera, la Shoah
nell'Europa liberata, lo mostrarono i campi cintati di
filo spinato e vigliati con le armi in cui le migliaia di
ebrei superstiti vennero rinchiusi, "displaced
persons", gente fuori luogo, dagli Alleati, col
generale Patton in testa, prima che Eisenhower lo
destituisse. "Fuori posto", in Europa. Fra i
due impegni - mai più guerra, mai più Auschwitz -
l'Europa delle autorità e quella della gente comune non
ebbero dubbi, ammesso che intuissero il problema.
All'altro capo della sconfitta, in Giappone, si svolse
una vicenda parallela, con due o tre differenze capitali.
Intanto, i giapponesi avevano commesso atrocità enormi
nel corso delle loro lunga guerra (fin dalla Manciuria
1931), ma senza un equivalente dell'antisemitismo e della
Shoah. Inoltre il Giappone non fu occupato da un gruppo
di potenze vincitrici, come la Germania, bensì dai soli
Stati Uniti e anzi da un plenipotenziario assoluto, fino
al 1952, Mac Arthur. Soprattutto, sul Giappone erano
state sganciate le bombe atomiche. Hiroshima e Nagasaki
furono sentite da ciascuno come un passaggio epocale,
benché i bombardamenti convenzionali della Seconda
Guerra, la "tempesta incendiaria" su Amburgo o
Berlino, o Dresda (luglio '43, decine di migliaia di
morti nel giro di 14 ore), o a Tokyo (84.000 morti in una
notte) avessero causato un numero maggiore di vittime. Il
B29 su Hiroshima ne uccise 71.379. Ma a Hiroshima
l'onnipotenza di una scienza che si rivaleva sulla
creazione divina con la distruzione nel nulla, fece
strage di persone e cose, ma più ancora rovesciò
l'orizzonte simbolico del mondo.
Molti degli stessi giapponesi vollero sentirvi, più che
il colpo schiacciante del nemico americano, una specie di
vampata sacrificale, nella quale rimuovere le proprie
colpe, ed espiare per l'intero genere umano, tramutando
la disfatta in una missione di testimonianza
antimilitarista e pacifista. Nel Tribunale militare di
Tokyo, gemello di quello di Norimberga, si condannò la
cospirazione della cricca militarista e le atrocità (gli
eccidi, gli stupri di massa, le schiavizzazioni delle
popolazioni asiatiche conquistate, le sevizie ai
prigionieri): i "crimini contro l'umanità"
furono assimilati del tutto ai crimini di guerra.
La posta dichiarata era la capacità di prevenire la
guerra. A Norimberga era stato vietato alle difese dei
gerarchi nazisti di rinfacciare i crimini alleati, e
soprattutto i bombardamenti delle città; così a Tokyo
per Hiroshima. (Benché il giudice indiano, Pal,
considerasse l'atomica come il vero crimine contro
l'umanità). Ma non influì solo il drastico divieto
americano. È stupefacente, di quel Giappone, scoprire
come da un giorno all'altro - i giorni di Hiroshima e
dell'inaudito discorso di resa di Hirohito - un mondo di
mentalità e abitudini che sembravano ferree crolli e si
capovolga in un'adesione al modo di vita del vincitore.
Il quale portò, con l'"arrogante idealismo"
(o, in un'altra definizione, l'"imperialismo
sentimentale") che gli era ed è proprio, non solo
la manifestazione della sua superpotenza economica a un
paese agonizzante di fame, ma anche una radicale riforma
democratica della vita associata (diritti delle donne,
liberazione dei prigionieri politici, essenzialmente di
sinistra, regole elettorali ecc.).
Questo complesso di innovazioni fu chiamato, e largamente
applaudito, come "rivoluzione dall'alto". (Ho
appena letto John W. Dower, "Embracing Defeat. Japan
in the Wake of World War II", New York 1999,
cavandone scoperte forti quanto la mia ignoranza). Non è
sconvolgente che nel paese di Hiroshima venga adottata
l'immagine di un "alto" da cui arriva il bene?
L'esplosione riuscita ad Alamogordo è del luglio.
Hiroshima del 6 agosto.
Tempo a parte, avrebbero gli americani sganciato
l'atomica sulla Germania, in Europa? I giudizi più
affidabili riconoscono una vena di disprezzo razziale
nella scelta del Giappone. Quel colpo ebbe comunque una
serie di ripercussioni decisive su tutto il mondo. In
primo luogo, associò definitivamente (e, in larga
misura, abusivamente) gli americani all'idea di un
egoismo così cinico da far scegliere un olocausto
atomico di civili, militarmente superfluo, per non
mettere a repentaglio vite americane. Inoltre, eclissò
ogni altro giuramento ("mai più Auschwitz")
figurando, da allora in poi, una distruttività totale
della guerra, che ne esigeva la trasformazione in un
tabù, e della pace in un imperativo senza alternativa.
Il mondo si sarebbe spartito d'ora in poi in un prima e
un dopo la bomba. Qualcuno sentiva che il mondo si era
diviso in un prima e un dopo Auschwitz. (E le stesse
parole si evocavano per Auschwitz e Hiroshima:
impensabile, indicibile...). Ma come arrestarsi davanti
alla fine di un mondo, quando si annunciava la fine del
mondo?
L'atomica - tanto più nel colpo raddoppiato di Nagasaki
- era stata impiegata anche per avvertire l'Urss, la
quale si gettò al recupero del ritardo, e in pubblico
levava la bandiera della difesa della pace contro la
potenza aggressiva dell'America. Il pacifismo apparso
universalmente come la lezione da tirare dalla tragedia
della Seconda Guerra Mondiale, sarebbe stato segnato
dall'ipoteca sovietica. Più in generale, Hiroshima
sarebbe diventata, per un grande e sincero numero di
intellettuali e persone comuni in tutto il mondo,
l'argomento da opporre in pubblico all'anticomunismo, e
da mormorarsi in cuor proprio per giustificare le
nefandezze dell' Urss. ***
Nel momento dell'amministrazione congiunta della
vittoria, America e Urss preparavano il terreno della
futura sfida. Nella quale un altro fattore era destinato
a giocare una parte simbolica rilevante. Alla fine, la
Seconda Guerra Mondiale era stata vinta soprattutto da
due forze complementari (così appariva): la superiorità
economica e tecnologica degli Stati Uniti, e la
resistenza umana del popolo russo. La seconda portava il
nome glorioso di Stalingrado, la prima il nome terribile
di Hiroshima. Una aveva l'aspetto dell'aviatore, potente
di una potenza distante, che colpiva dall' alto; l'altra
le fattezze antiche del fante Ivan, del contadino russo
attaccato alla terra, e inestirpabile fino alla morte.
(L'armata degli Ivan nella sua controffensiva fino al
centro di Berlino commise, incitata, un numero
incomparabile di stupri: questo si seppe meno, o si
"capì").
Un tocco peculiare si aggiunge alle immagini opposte, e
dà loro il suggello che può dare un libro quando
diventa lo schermo attraverso cui riconosciamo il mondo:
è il Tolstoj di Guerra e Pace. Sulla sua filigrana si
imprime l'epopea di Stalingrado. (E vi si ricalca
"Vita e destino", la grande opera di Vasilij
Grossman su Stalingrado, gloria di un popolo e insieme
del suo tiranno, e anche sugli inferni paralleli di
Auschwitz e dei campi "di lavoro" russi). Sui
suoi personaggi gli intellettuali e i lettori comuni di
tanta parte del mondo leggono i nuovi personaggi:
Napoleone e Hitler, Kutuzov e i marescialli di Stalin, il
soldato contadino Platon Karatajev e le donne e gli
uomini difensori del Volga. (Anche il recente
"Stalingrado" dello storico militare Antony
Beevor, Rizzoli, viene pubblicizzato col richiamo a
Guerra e Pace). Primo Levi, cui non sfuggiva la
"vergogna del Gulag", vive e racconta la
propria storia attraverso quel filtro. "... i buoni
soldati dell'Armata Rossa, gli uomini valenti della
Russia vecchia e nuova, miti in pace e atroci in
guerra...". E l'incontro con il maresciallo
Timosenko: "Semjon Konstantinovic Timosenko, l'eroe
della rivoluzione bolscevica, della Carelia e di
Stalingrado... Si intrattenne alla buona con noi
italiani, simile al rozzo Kutuzov di Guerra e pace, sul
prato, in mezzo alle pentole col pesce in cottura e alla
biancheria stesa..." (È "La tregua").
Su questa idea non posso fermarmi qui: se non per
concludere provvisoriamente che vi si trova un'altra
spiegazione dell'ostinato e dannato attaccamento di tanti
a Stalin stesso, e comunque all'Urss - alla Russia - e
alla resistenza invincibile del suo popolo contro
l'invasore. Non era stato Tolstoj, del resto, a
"rendere poetica l'idea della guerra del
popolo" (Grossman)?
Nella Seconda Guerra, al tempo delle incursioni
angloamericane (la Raf tenne allora il primo posto) sulle
città tedesche, la propaganda nazista non aveva tardato
a sfruttare l'argomento. (Che ora Bossi è andato a
ripetere a memoria ad Aviano). Nel 1943 Goebbels aveva
parlato del "terrorismo aereo... prodotto dalle
menti malate dei plutocratici distruttori del
mondo". Gli americani furono a lungo riluttanti. Il
primo gennaio 1945 il generale Eaker disse: "Non
dobbiamo permettere che la storia ci accusi di aver
gettato il bombardiere strategico contro l' uomo della
strada". Più tardi, quell'anno, un deputato
laburista inglese osservò polemicamente che i russi
facevano bombardamenti "tattici" e non a
"tappeto", e che ciò li avrebbe autorizzati un
giorno ad accusare l'Occidente capitalistico di
macchiarsi di quella viltà.
Dal '45 in poi, questo stereotipo (che è tale nonostante
sia parzialmente fondato) si è confermato, sul versante
americano: sprofondato com'è il versante opposto. Gli
americani hanno combattuto altre guerre lontane: per
tenere i confini dell'impero, o per difendere una fede
civile. La stessa distanza - malvista dagli altri come il
privilegio di chi non subisce la guerra a casa propria, o
ammirata come una generosità che li porta a morire
lontano da casa - appare come una conferma della loro
prepotenza: americani, quasi marziani. Arrivano
dall'alto, bombardano: come in Corea (benché ne siano
morti 35.000), come in Vietnam (58.000), come,
teatralmente, in Iraq, come, provvidenzialmente, in
Bosnia. In Vietnam, erano i B52 del napalm e le falcidie
degli elicotteri.
(Un giorno il generale Westmoreland, informato della
presenza di Giap in una località nordvietnamita, le
aveva fatto sganciare sopra mille tonnellate di bombe.
Per un uomo piccolo come Giap... Non è un caso che in
questi giorni i vietnamiti abbiamo mandato ai serbi
messaggi e auguri in cui si identificano con loro. Su
questa immagine - la bomba in alto, il piccolo
combattente in basso - si modellò il terzomondismo).
L'evoluzione della tecnologia (gli aerei
"invisibili", culmine di questa simbolica
sottrazione possente e codarda al corpo a corpo) e dello
spirito pubblico, non ha fatto che accentuare la distanza
dal campo di battaglia. In Iraq la sproporzione è stata
madornale: però, dove doveva valere a proteggere le vite
stesse del nemico, approdò a una carneficina, benché a
cifre differite. Ma le stesse ragioni che spingono in
questo senso - il progresso scientifico, il valore
assegnato alla vita dei singoli "nostri" -
esigono anche di radicalizzare la differenza fra una
guerra che si vuole "giusta", o piuttosto
inevitabile, e una ingiusta. Differenza che non può
esaurirsi nel movente, né nel fine: ma sta altrettanto
nel modo in cui viene condotta. Se no, la generazione
"del Vietnam" nei governi rischia di ridursi
alla novità di una sinistra che firma ora lei le cose di
destra. Ogni scelta militare è contemporaneamente una
comunicazione rivolta a chi la sostiene, e a maggior
ragione a chi la subisce, cui dichiara per quale idea,
per quale convivenza si sta combattendo.
Non sono capace di valutare i termini militari di un
problema. Al tempo stesso sento che non posso eluderlo:
non si può restare alla convenzione per cui, una volta
accettata la necessità della guerra, tutto passa nelle
mani dei militari. Con tutta la timidezza, i termini
militari della "guerra" iniziata il 24 marzo,
sembrano anche a me, convinto della necessità
dell'impiego della forza per il Kosovo, amaramente
insoddisfacenti. La guerra, una volta intrapresa, esige
il prossimo passo con la ineluttabilità del fatto
compiuto. Contati i morti e la devastazione nel campo
"nostro" e "nemico", e tanto più il
disastro vergognoso dei deportati e fuggiaschi: chi di
noi, il primo giorno, vi avrebbe acconsentito?
Non io: neanche, credo, il generale Clark. Ora il punto
è questo, e duro, perché non si tratta di non perdere
la faccia - fra i privilegi invidiabili della libertà e
della democrazia c'è la disponibilità a perdere la
faccia, persino volentieri - ma di ratificare il deserto
del Kosovo, le vittime di cui è seminato, i cacciati, e
l'impunità della gang di Belgrado.
In termini nient'affatto militari, io penso che né gli
americani, né noi, possiamo sottovalutare il costo dello
stereotipo della guerra asettica (per chi la conduce),
dei raid e dei bombardamenti aerei, senza faccia e senza
nome, salvo qualche incidente sacrilego, come
l'abbattimento dello Stealth, e la danza tribale sulla
sua carcassa della razza di chi rimane a terra. C'è un
solo punto in cui le due promesse ("mai più
guerra", e "mai più Auschwitz") possono
ricongiungersi: e sta nel modo in cui il mondo del
"nuovo diritto" sceglie di battersi.
Il mondo libero non seppe e non volle bombardare
Oswiecim, e non potrà esserne perdonato. Quanto alla
legittimità, "quando la casa brucia, non è il caso
di chiedere la legittimità dei pompieri" (Günther
Anders). Ma non è detto che debba ora ridursi
all'intransigenza del bombardamento celeste. Ha scritto,
ferocemente, Pierre Vidal- Naquet: "Fare la guerra
senza prendersi i propri rischi, vuol dire aggravare il
fossato fra il mondo dei ricchi e quello dei poveri; non
è combattere, è praticare una specie di tortura aerea:
parla, o ti colpisco...". Joschka Fischer, sul quale
pesa la prova più delicata della nuova classe dirigente
europea, ha detto: "Noi siamo la generazione che si
è promessa "Mai più guerra" e "Mai più
Auschwitz"". Così dovrebbe essere, ma è un
po' più complicato. Nelle mani dei pacifisti, sinceri o
abusivi, rischia di restare solo il filo del NO alla
guerra, a costo dell'omissione di soccorso. Nelle nostre
mani, l'urgenza del soccorso rischia di delegare per
intero il problema ai pompieri, che a volte, per
deformazione professionale, sono incendiari.
(26 aprile 1999)
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