Per troppo tempo
ho aspettato la Nato
di MILJENKO JERGOVIC i primi
quindici mesi di guerra da me trascorsi in rifugi e
scantinati senza luce, né acqua, né cibo, non è
passato giorno senza che invocassi il bombardamento della
Nato su Belgrado. Ma più passava il tempo, più mi
rendevo conto che ciò non sarebbe avvenuto, che quelle
di Washington erano minacce a vuoto (la prima risaliva al
luglio del '92) e che le mie sofferenze, quelle della mia
età e del paese in cui vivevo sarebbero durate tanto da
consentire all'armata di Milosevic di raggiungere il
proprio obiettivo - laddove quest'obiettivo era
l'epurazione dei musulmani bosniaci e in parte dei
croati. O che magari, nella più rosea delle ipotesi, le
nostre sofferenze sarebbero durate finché quell'esercito
non si fosse stancato e non avesse deciso di dar fondo
alle riserve di munizioni.
Il bombardamento degli alleati non si verificò neppure
in seguito alla scoperta dei campi di concentramento di
Manjaca e di Omarska nell'agosto del '92, né dopo che a
Sarajevo furono uccise diecimila persone (tra cui
millesettecento bambini) né tantomeno dopo che quasi
tutta la popolazione maschile di Srebrenica fu sterminata
nell'estate del '95. Il bombardamento degli alleati non
si verificò nemmeno dopo che il mondo ebbe appreso degli
stupri perpetrati sistematicamente dall'esercito serbo
nei confronti delle donne musulmane.
Soltanto dopo che i militari del generale Ratko Mladic
ebbero umiliato i militari dell'Unprofor incatenandoli
alle ringhiere dei ponti e dei depositi di munizioni,
nonché a seguito della decisione assunta dallo stato
maggiore serbo, si pensò di evitare che un'altra enclave
musulmana, quella di Goradze, condividesse il destino di
Srebrenica. E si arrivò così al bombardamento - a dire
il vero poco più che simbolico - di qualche carro armato
o cannone serbo arrugginito. Ciò bastò addirittura a
porre fine alla guerra in Bosnia Erzegovina, perché, nel
lontano 1995, era sufficiente l'invio di qualche decina
di aerei Nato per fermare i massacri in un paese.
È stato a quel punto che ho capito che il cerchio dei
crimini di Slobodan Milosevic non si era affatto chiuso e
che l'Occidente, lungi dall'interrogarsi sulla politica
di pulizia etnica - la sola conosciuta dal leader serbo -
intendeva semplicemente tutelare il diritto alla vita dei
sopravvissuti bosniaci. Questa è stata l'unica
soddisfazione offerta alla gente, malgrado all'Aja
avessero già allestito il Tribunale internazionale per i
delitti di guerra nella ex Jugoslavia. Un Tribunale che
non poteva essere di alcun risarcimento per almeno due
ragioni: la prima era una palese assenza di volontà e di
metodi per trascinare Radovan Karadzic e Ratko Mladic sul
banco degli imputati; la seconda era che, per quel
Tribunale, la politica di Slobodan Milosevic non
costituiva un problema a cui porre rimedio. Con
quell'uomo, infatti, si è continuato a trattare, a
dialogare, e più è passato tempo dalla guerra in Bosnia
Erzegovina, più l'Occidente ha dimenticato le
responsabilità di quell'uomo.
All'indomani della guerra in Bosnia era chiaro che
l'invio di qualche aereo militare nei cieli della Serbia
sarebbe bastato a far tacere le armi una volta per tutte.
Era chiaro che, nella primavera del '92, Milosevic aveva
preso atto della serietà delle minacce occidentali (in
verità assai poco credibili) e aveva capito che la
situazione in Serbia gli consentiva di restare al potere
solo se su Belgrado non fosse piovuta la benché minima
bomba. Per i serbi, né la Croazia, né la Bosnia
Erzegovina, né l'occupazione di entrambe valevano al
punto da sopportare una guerra nel proprio paese. È
evidente che in tal caso avrebbero destituito il loro
leader, così com'è evidente che quest'ultimo non si
sarebbe mai cacciato in un conflitto tale da mettere a
repentaglio il suo potere.
Per tutta la durata della guerra mi capitava di sentire
al telefono i miei amici di Belgrado, tutta gente che non
era succube della propaganda di Milosevic e che sapeva
dei crimini commessi dal loro governo in Croazia e in
Bosnia. Sin dall'estate del '92 temevano le bombe su
Belgrado, e con la caduta di Srebrenica capirono che
quelle bombe sarebbero arrivate. Seppure da una
prospettiva diversa, credevano esattamente in ciò in cui
credevo io, ovvero che l'Occidente democratico non
avrebbe tollerato che, nel cuore dell'Europa, il
genocidio restasse impunito. Poi, però, nessuna bomba è
caduta su Belgrado e i miei amici si sono persuasi che
l'Occidente, alla fin fine, non aveva nulla da
rimproverare a Slobodan Milosevic. Quei cittadini si
sentivano puniti per ciò che lasciava impunito Slobodan
Milosevic.
Nel '92, nel '93 e in seguito, i miei amici serbi
avrebbero sopportato il peso delle bombe sul loro paese
senza cambiare la loro visione del mondo e senza
sviluppare alcun odio nei confronti dell'Europa e degli
Stati Uniti. Non erano arrabbiati con me, che sostenevo
come unica via d'uscita dalla guerra in Bosnia il
bombardamento di Belgrado. In quegli anni, però, la
maggior parte dei serbi non la pensava come i miei amici.
Era, ovviamente, vicina a Milosevic. Ma a che prezzo? Non
a tutti i costi. Non di certo al prezzo della propria
distruzione o della distruzione del proprio paese. Se
l'Occidente, ripeto, fosse intervenuto allora, il popolo
serbo avrebbe messo da parte Milosevic o comunque non gli
avrebbe consentito di proseguire sulla strada della
pulizia etnica e del genocidio.
Il giorno in cui le bombe hanno cominciato a cadere sulla
Serbia mi sono detto: finalmente! Guardavo con orrore in
televisione le colonne dei profughi albanesi del Kosovo,
scoprendo che esiste una guerra più feroce di quella
bosniaca. Per me era chiaro che Milosevic aveva imposto
il destino di Srebrenica a tutte le località del Kosovo.
Ma al contempo mi si chiariva anche un'altra cosa:
l'intera Serbia, adesso, si sarebbe stretta intorno al
suo leader, l'intera Serbia, sotto le bombe Nato, si
sarebbe sentita aggredita.
La gente che credeva possibile un intervento quand'era in
atto l'assedio di Sarajevo, oggi stenta davvero a capire
perché esso avvenga mentre è in atto lo sterminio degli
albanesi del Kosovo. Non riesce a spiegarsi ciò che non
riesco a spiegarmi nemmeno io: perché non nel 1992,
bensì nel 1999? La risposta dovrebbe pur venire da
qualcuno, ad esempio da qualcuno che è lì, a
Washington, e non tanto per i serbi, per i bosniaci o per
i croati, quanto proprio per l'opinione pubblica dell'
Occidente. Senza questa risposta alcuni fatti restano
difficilmente comprensibili. L'Occidente si chiede come
mai, oggi, la stragrande maggioranza dei serbi possa
ancora sostenere Milosevic, mentre i serbi non riescono a
capire perché l'Occidente li bombardi proprio adesso.
Oggi i miei amici serbi odiano a morte gli Stati Uniti e
non vivono i bombardamenti come una punizione nei
confronti di Milosevic, bensì come una punizione nei
loro confronti. Il dramma degli albanesi del Kosovo non
riesce a riscuotere la loro più intima compassione, né
credono che i bombardamenti arrivino per trarre in salvo
quella gente. Loro, come del resto anch'io, vedono che la
Nato non è in grado di frenare né di arginare fosse
pure per un solo istante l'esodo di quella gente. Inoltre
sono convinti che Richard Holbrooke verrà di nuovo in
visita a Belgrado e che, se non lui qualcun altro,
riprenderà a trattare e a dialogare con Milosevic, il
quale, dopo una stretta di mano, tornerà a essere una
persona rispettabile, esattamente come all'indomani di
Dayton. Di fronte a simili argomentazioni, non posso
scegliere che il silenzio.
A essere sincero, la loro indifferenza verso le
sofferenze degli albanesi del Kosovo mi ripugna al punto
che oggi sento di non poter condividere più nulla con i
miei amici belgradesi. E pensare che la nostra amicizia
era sopravvissuta ai fatti di Vukovar, di Sarajevo, di
Srebrenica... Ma allora erano altri tempi, altre
circostanze. Sapevano provare compassione, oggi non più.
Slobodan Milosevic ha divorato anche loro, in perfetto
stile con i dittatori di questo secolo pari a lui. Come
stavano dalla parte di Hitler tutti, o quasi tutti i
tedeschi, oggi tutti, o quasi tutti i serbi stanno dalla
parte di Milosevic. In Serbia e a Belgrado la distruzione
avanza di giorno in giorno. Sale il numero delle vittime
civili, e intanto il paese si rivela sempre più
compatto. Mi viene quasi da ridere quando sento i
portavoce della Nato parlare di crepe ai vertici militari
o civili di quel paese. Non c'è nessuna crepa, e ciò
che tiene unita la Repubblica socialista della Serbia è
l' odio nei confronti dell'Occidente, alimentato dalla
sempre crescente distruzione e dai sempre più aspri
bombardamenti. Quanto durerà quest'odio e cosa finirà
per generare?
Sono quasi certo che alla fine Milosevic accetterà
quelle cinque condizioni che Bill Clinton esibisce in
televisione. Acconsentirà alla presenza di una forza
militare nel Kosovo e dirà alla sua nazione di aver
dovuto accettare la parziale occupazione del paese sotto
la minaccia di una terribile potenza militare. Vi
immaginate come salirà alle stelle l' odio serbo verso
l'Occidente? Assumerà le proporzioni che servono a
Milosevic per passre a una nuova fase del suo piano di
pulizia etnica. Pulirà la zona di Sandzak, popolata da
musulmani, quelle della Vojvodina popolate da croati e,
una volta rovesciato l' attuale governo del Montenegro,
potrà pulire anche quest'ultimo territorio dalle sue
popolazioni non serbe (montenegrini, albanesi, musulmani
e croati). In tal caso la Nato interverrà di nuovo?
Magari sì, ma a qual punto sarà davvero difficile
trovare anche un solo serbo che non incolpi la Nato di
condurre allo sfascio la Serbia.
Infine s'impone il quesito che avremmo dovuto formulare
all'inizio del nostro ragionamento: l'intervento della
Nato contro la Jugoslavia era necessario e legittimo? La
risposta è sorprendentemente semplice: è logico che
fosse necessario, e a quanti la pensano diversamente
bisognerebbe porre una sola domanda: come avrebbe dovuto
reagire l'Occidente dinanzi alle deportazioni degli
albanesi del Kosovo? Forse come ha reagito dinanzi ai
fatti di Srebrenica? L'intervento militare, sebbene
tardivo, era purtroppo l'unica soluzione praticabile,
anche se gli obiettivi proclamati dall'Occidente
rischiano di trasformarsi in una nuova trappola.
L'intervento militare non può rimanere un intervento
umanitario, poiché in effetti non lo è. Non esistono
"bombe umanitarie", e lo dimostra il fatto che
dopo più di un mese di bombardamenti, la Nato non è
riuscita a salvare dalla deportazione un solo kosovaro.
L'occidente dovrebbe mirare alla destituzione di
Milosevic e della sua dittatura propensa al genocidio,
anziché chiedergli consensi o favori. Soltanto questo
può giustificare l'impiego della forza nei confronti
della Repubblica socialista della Serbia e soltanto
questo, sul lungo periodo, può rivelarsi sensato e
legittimo. Soltanto questo potrà salvare gli albanesi
del Kosovo e soltanto questo potrà sedare l'odio dei
serbi verso l'Occidente. Soltanto questo, infine, potrà
restituire all'Europa quella nazione e quel paese. Se
Milosevic non verrà messo da parte assisteremo a una
nuova fase di pulizia etnica e di genocidio nei Balcani e
in Europa. I dittatori nostrani conoscono bene il prezzo
da pagare per lo sterminio di altri popoli. E non è un
prezzo troppo alto.
I dittatori non soffrono né per la distruzione dei loro
paesi, né per la rovina della loro nazione. Non provano
alcun dolore, se ciò è utile al consolidamento del loro
potere. Se Milosevic resta, se l'intervento militare non
implica la sua destituzione, se l'obiettivo di questo
intervento non è la sua eliminazione, allora diremo che
anche il presidente croato Franjo Tudjman conosce bene il
prezzo da pagare per raggiungere il sommo traguardo della
sua carriera politica: la spartizione della Bosnia
Erzegovina e l'annessione della metà del suo territorio
alla Croazia.
Milosevic, come Hitler, non può essere deposto dal
pacifismo, e la tesi secondo cui non si può contestare
al popolo serbo il diritto ad avere il leader che si è
scelto, equivale alla tesi secondo cui il popolo tedesco
si sarebbe scelto Hitler. La Serbia va salvata da
Slobodan Milosevic. Se non altro, almeno per le future
generazioni di questo paese, che meritano ciò che hanno
meritato i tedeschi nati dopo il 9 maggio 1945.
(Traduzione di Ljiljana Avirovi)
L'autore, scrittore e poeta croato-bosniaco, in Italia ha
pubblicato due libri di racconti: "Le Marlboro di
Sarajevo" e "I Karivan"
(10 maggio 1999)
-------------------------------
Le radici dell'odio
sulle montagne nere
di PAOLO RUMIZ
Se entri nel labirinto delle montagne
nere tra la Serbia e l' Adriatico, te ne accorgi subito.
Quando sale la Luna, avverti un rumore di sciabole. Nel
piccolo Montenegro che cerca di sfuggire alla guerra la
gente tace, passa oltre, finge di non vedere i blocchi
stradali contrapposti dell' Armata federale e della
polizia montenegrina. Sa bene cosa voglion dire quegli
uomini che da giorni si controllano, proiettile in canna,
con fatalismo e noncuranza. Con la stessa pazzesca
leggerezza con cui un italiano farebbe una scampagnata.
In Jugoslavia c' è una paura che non si vede. Il piccolo
Montenegro ne è solo il sismografo, ti avverte che è
lì, serpeggia nei caffè di Belgrado e nelle strade di
Nis, nei villaggi del Transdanubio e nelle tranquille
campagne della Vojvodina. La leggi nelle frasi non dette
e in furtivi scongiuri. Sembra calma, ma è calma
apparente. è leggera come una parentesi eppur pesante
come una pietra. Non è la paura, esplicita e condivisa,
delle bombe Nato. Questa è silenziosa, spacca il Paese
in due. è la paura che gli Slavi del Sud hanno di se
stessi. "Non sai cosa sia una guerra se non hai
visto una guerra tra serbi", ti dicono per alludere
a un' eventualità sempre aperta che nessuno nomina ma
che tutti mettono in conto. è l' aggressività che ha
già divorato tutti i possibili nemici etnici e ora
rischia di consumare se stessa, di implodere in Serbia,
diventare onda di ritorno, caccia alle streghe,
regolamento di conti tra ortodossi. Scontro primordiale
tra primitivi ed evoluti, falchi e colombe,
"eroi" e "vigliacchi".
Esiste un odio balcanico? Sempre, quando varchi le terre
di nessuno tra Mediterraneo e Danubio, la vecchia domanda
ostinatamente ritorna. Per anni l' hai ricacciata
indietro, hai ripetuto a te stesso che i Balcani sono
Europa e che la guerra che li consuma è uno dei mille
volti di uno stesso male che si aggira per l' Occidente.
Con pazienza, ti sei costruito un castello teorico per
dire che l' orrore non nasce dall' "Homo
balcanicus", non è frutto di una politica criminale
e della sua infinita capacità di manipolare. Impari che
anche altrove la tensione sociale diventa etnica: basta
che un potere politico cavalchi il pregiudizio. Ma alla
fine, appena ti allontani dalle città e ti addentri in
quelle gole lunari, le certezze si annebbiano, senti che
c' è qualcosa che sfugge. Quei luoghi ti sussurrano il
segreto di qualcosa che nasce qui e solo qui, autogestito
come il titoismo, autocefalo come l' ortodossia,
autoctono come questi pastori guerrieri; autistico,
forse, come gli incubi di un bambino male amato. Guardi e
ti chiedi: ma questa gente non è stanca di fare la
guerra? Ha un' illimitata capacità di combattere o un'
illimitata capacità di sopportare? Dove nasce tanta
energia autodistruttiva? Perché i Paesi baltici, dopo
secoli di pogrom, si sono staccati dall' Urss senza
sangue e ora convivono in pace con la minoranza russa?
Perché solo qui la maledizione continua?
Non basta una leadership a far deragliare la storia.
Crederlo è come pensare che il voto leghista in Italia
nasca solo dalla testa di Bossi. Per costruire un evento
serve il cortocircuito fra un Capo e la gente. L'
antropologia cacciata dalla porta rientra sempre dalla
finestra. Se è vero che questa guerra nasce dalla
manipolazione, è altrettanto vero che nasce dalla
manipolazione di qualcosa. è in quel qualcosa che devi
cercare. L' anima nera del nazionalismo serbo, Dobrica
Cosic, sostiene che la Jugoslavia era una costruzione
demoniaca destinata all' esplosione perché la
compresenza di etnìe liberava troppo odio. Spesso sono
gli stessi jugoslavi a dirti di cercare in questa
direzione. Ma è un depistaggio. Scopri subito che l'
oggetto della tua ricerca, l' odio appunto, non sussiste.
Semmai, è vero il contrario. Ciò che più spaventa
della Bosnia e del Kosovo non è il male ma il bene.
Karadzic è un uomo qualunque, Arkan un burocrate della
rapina organizzata, Milosevic un mediocre aparacnik. Il
male è banale, bussa alla porta in modo prevedible e
ripetitivo. Il bene, invece è disperatamente inerme. Si
fa cogliere di sorpresa. Guardate gli occhi dei profughi:
non c' è un frammento d' odio. Solo un' infinita
rassegnazione. Nei Balcani carnefici e vittime insieme
accettano la guerra come destino. L' italiano dice:
piove, governo ladro. Qui è il contrario: anche la
catastrofe politica diventa evento naturale. Dicono che i
serbi prendano volentieri le armi, ma in questa guerra
infame nessun Paese ha avuto tanti disertori come la
Serbia. Dicono che la pulizia etnica sia nel loro sangue,
ma a Novi Sad - dopo quello che è accaduto - esiste
ancora una via chiamata Zagabria e nelle librerie si
vendono testi di quella capitale. Dicono che l' onda nera
parta da Belgrado, ma a Belgrado e nelle altri grandi
città da anni l' opposizione è fortissima. E in nessun
posto come in Serbia e Montenegro la libera stampa e le
radio private hanno lottato in modo così indomito contro
i veleni del regime. Dove cercare allora?
In un suo breve viaggio nella Serbia rurale, lo scrittore
austriaco Peter Handke scoprì un popolo generoso,
semplice fino all' ingenuità. Qualcuno, molto prima,
aveva saputo guardare oltre la superficie, intuire altri
segnali. Era lo psicologo Radomir Kostantinovic, un serbo
- ovviamente inascoltato - che segnalò la guerra con
quindici anni d' anticipo. Capì che nel Paese profondo,
in modo del tutto indipendente dal socialismo, fermentava
un male oscuro. Nel libro "La filosofia dei
villaggi", intuì che nella provincia cresceva un
demi-monde insicuro e frustrato che sostituiva il
dibattito col mugugno, l' "agorà" con la
taverna. Nella fumosa taverna balcanica si coagulava,
sotto forma di risentimento cosmico, una nuova volontà
collettiva completamente staccata dalla realtà, e
soprattutto un desiderio di mito - un mito nazionalista -
che sostituisse il "futuro promesso" con un
"passato glorioso", non importa se fittizio.
Era la voglia di uscire da un' insicurezza primordiale:
quella che nasce in una terra consumata da troppe guerre
e troppe pressioni esterne, dallo spaesamento di troppi
regimi e troppe diaspore. L' ex vicepresidente serbo Vuk
Draskovic, nel suo libro "Il coltello" spiega
che l' anima slava la vedi dalla piega amara della bocca,
dalla sua inconfondibile cupezza, dalla cronica
insoddisfazione. Un male balcanico, scrisse il croato
Miroslav Krleza, per il suo popolo e quello serbo altro
non erano che "lo stesso sterco di vacca diviso
dallo stesso carro della storia". Le mitologie
titine hanno esasperato questo male, anziché dargli
risposta. Hanno curato la depressione con l'
autoesaltazione e l' autocontemplazione. Il risultato,
per lo scrittore croato Tonko Mroevic, è schizoide:
"La Jugoslavia è incurabilmente malata nel suo
inconscio collettivo". Di questi tempi - scrisse -
abbondano sia gli psichiatri in servizio sia i pazienti
molto agitati". Non fu forse psichiatra il leader
della rivolta serba delle Krajine, Jovan Raskovic? E non
fu tale il famigerato Radovan Karadzic, capo dei serbi di
Bosnia?
Paura. La Luna sale sulle gole solitarie del Montenegro,
illumina le Alpi Dinariche, i monti che da Trieste alla
Grecia fanno da colonna vertebrale ai Balcani. La
parola-chiave comincia a funzionare. Paura dunque, non l'
odio. Pensi che forse Milosevic non ha fatto che
ascoltare il mormorio dei villaggi e perfezionare la
risposta mitica alla loro insicurezza di fondo. Forse, la
voglia serba di sfidare il mondo intero nasce anche qui,
da queste uova fatali iniettate nel nido della paura.
Ripensi agli intellettuali che l' hanno manipolata, con
inimmaginabile facilità, esasperandola con pericoli
inesistenti solo per poi sfruttarne il potenziale
difensivo. Scopri che le stragi più orribili, nei
Balcani, non le hanno compiute quasi mai i primitivi
lasciati a se stessi, ma i primitivi guidati da un
medico, un filosofo o un critico d' arte. Sui monti della
Luna senti di avvicinarti al cuore del problema, al
segreto ultimo di una terra capace di partorire uomini
infinitamente feroci e infinitamente miti, di dar
contemporaneamente vita alle più spaventose stragi
etniche d' Europa e a una santa come Teresa di Calcutta,
all' abbattimento sacrilego del ponte di Mostar e, a poca
distanza, alle pie adorazioni di Medjugorje.
Non c' è nessuna maledizione balcanica. Esiste, semmai,
una maledizione dinarica. In questo mondo chiuso si
arroccarono popoli fieri e combattivi che né gli Asburgo
né gli Ottomani seppero completamente domare. In nessun
altro luogo d' Europa la montagna si confronta in modo
più brutale col mare e la pianura, col Mediterraneo
degli ulivi e l' Europa dei grandi fiumi. In nessun altro
luogo la forza è tanto esaltata come dimostrazione di
eroismo, fonte di gloria e ricchezza, risposta ai dubbi
identitari e alle paure. Da queste terre magre, adatte
alle capre, scesero i feroci Morlacchi sulle cittadelle
venete della Dalmazia. I turchi assediavano Vienna ma non
sapevano stanare i montenegrini e gli albanesi dalle loro
ultime montagne. E in Epiro, su quella stessa catena di
montagne, partì la rivolta della Grecia contro il
Sultano.
Poco è cambiato da allora. è da queste genti lunatiche,
alte e fisicamente inconfondibili, che Serbia e Croazia
traggono tuttora la loro fonte vitale. Scrive il
belgradese Dragan Velikic: "Ancora calde della
giungla, ogni cinquant' anni esse documentano le loro
origini e la loro fede impugnando facilmente le armi.
Così, anziché cercare la luce, precipitano all'
indietro, nel buio. Inneggiano alla libertà e liberano
costantemente qualcuno, non importa se Belgrado o
Trieste". è da questo mondo dei lunghi coltelli e
dei lunghi rancori che il Sultano e l' Imperatore d'
Austria trassero i loro soldati migliori e li posero a
guardia del confine. è qui che, durante la seconda
guerra mondiale, esplose il nazionalismo più feroce e
avvennero le più spaventose stragi fra etnìe. è da
questo mondo primitivo che Tito trasse l' ossatura del
suo esercito e della sua polizia, creando una selezione
culturale negativa tale che alla fine il modello
comportamentale minoritario dei dinarici divenne egemone
su quello, più evoluto, dei dalmati o dei danubiani.
Tanto forte era, per la società chiusa del partito il
fascino della società chiusa dei pastori-guerrieri. Oggi
è sempre da qui che Milosevic trae la sua manovalanza
armata e il cuore della sua mitologia bellica. Lo fa con
naturalezza perché egli stesso è figlio di questo
mondo. Scopri che il presidente Milosevic, Karadzic e
persino il comandante Arkan sono tutti serbi di origine
montenegrina. Tra i croati è lo stesso: il clan che ha
finanziato la guerra traendone più vantaggio è quello
degli erzegovesi: dinarici anch' essi. Lo stesso Sali
Berisha, capo dei clan albanesi del Nord, proviene da
quel mondo e ne condivide la mentalità guerriera. Stessi
soldati, stesse mitologie, stessa leadership. Possibile
che la guerra che mobilita gli eserciti e le diplomazie
del mondo si riduca a una faida tra montanari? Possibile
che quelle montagne corrispondano all' inquieto sistema
nervoso di un intero continente? Nella difficoltà della
Nato di venire a capo di Milosevic non c' è forse la
difficoltà di capire qualcosa di tremendamente antico?
Anche le pietre, anche il vento ti dicono che questo è
un altro mondo, dove né la nostra cultura né le bombe
del generale Clark potranno interferire. I bombardieri
passano sopra le montagne e tu ti senti schiacciato tra
due irrazionalità simmetriche e incomunicabili, quella
dei "top gun" alti nel cielo e quella dei
pastori-guerrieri abbarbicati alle loro zolle. Scopri che
i primi offrono ai secondi nient' altro che il nemico
planetario che hanno sempre sognato.
(9 maggio 1999)
---------------------------------------------
Il dolore del '900
nel cuore di Sarajevo
di JOSEPH ROTH
Nel 1927 sulla Frankfurter Zeitung
uscì una serie di corrispondenze di Joseph Roth dai
Balcani. Pubblichiamo uno degli articoli dello scrittore
austriaco, inediti in Italia.
La guerra mondiale ebbe inizio a Sarajevo, in un caldo
giorno d'estate del 1914. Era domenica, io ero allora
studente. Nel pomeriggio venne una ragazza, si portavano
le trecce. Teneva in mano un gran cappello di paglia
giallo, un segno d'estate che richiamava alla memoria
fieno, grilli e papaveri. Nel cappello un telegramma, la
prima edizione straordinaria che io avessi mai visto,
stropicciato, terribile, un lampo sulla carta.
"Sapete", disse la ragazza, "hanno sparato
all'erede al trono. Mio padre è rincasato dal caffè.
Noi non restiamo qui, vero?". Io non colsi la
serietà del padre che era rientrato a casa dal caffè.
Viaggiavamo sulla piattaforma di un tranvai.
Lì fuori, per un tratto, il tram sfiorava il gelsomino e
gli alberi stavano rasenti alle rotaie. Si viaggiava,
cling-clang, era una specie di gita in slitta per
giornate estive. La ragazza era azzurra, morbida, vicina,
con il respiro fresco, un soffio mattutino in pieno
pomeriggio. Mi aveva portato la notizia, da Sarajevo: il
nome stava sospeso su di lei, fatto di un fumo rosso
scuro, come un incendio sulla testa di un bimbo ignaro.
Un anno e mezzo più tardi - com'era durevole l'amore al
tempo della pace! - stava già anche lei in quella nuvola
di fumo, alla stazione merci II; incessante martellio
della musica, stridio di vagoni, fischio di locomotive,
piccole donne tremanti stavano appese agli uomini in
verde come ghirlande appassite, le nuove uniformi
odoravano d'appretto, noi eravamo una compagnia in
marcia, meta del viaggio oscura, con un presentimento:
Serbia. Probabilmente pensavano entrambi a quella
domenica, al telegramma, a Sarajevo. Suo padre non andò
più al caffè, era già sepolto in una fossa comune.
Oggi, a tredici anni di distanza dal primo sparo, io vedo
Sarajevo. Innocente, ma maledetta città! Esiste ancora!
Triste involucro delle più orrende catastrofi! Non si
muove dal suo posto! Non vi è discesa alcuna pioggia di
fuoco, le case sono intatte, le ragazze escono dalle
scuole, non si portano più le trecce. Il cielo è di un
azzurro satin. La stazione dov'era arrivato l'arciduca,
la morte alle spalle, si trova molto al di fuori della
città. A sinistra una strada larga, polverosa, parte
asfaltata, parte acciottolata, conduce in città. Alberi
frondosi, scuri e polverosi, avanzi di un'epoca in cui la
strada era ancora un viale, stanno sparsi irregolarmente
sul suo ciglio. Stiamo seduti in uno spazioso autobus
dell'hotel.
Percorriamo le strade lungo il fiume - lì, all'angolo,
ebbe inizio la guerra mondiale. Nulla è cambiato. Cerco
tracce di sangue. Sono state lavate via. Tredici anni,
innumerevoli piogge, milioni di uomini hanno cancellato
il sangue. La gioventù esce dalle scuole: vi si studia,
lì la guerra mondiale? La via principale è molto
silenziosa. Ad un capo vi si trova un piccolo cimitero
turco, fiori di pietra in un piccolo giardino di morti.
All'altro capo inizia il bazar orientale. A circa metà
si trovano, non perfettamente vis-a-vis, due grandi hotel
con caffè all'aperto.
Il vento solleva ora i vecchi giornali come l'anno scorso
sollevava il fogliame. Camerieri stanno in attesa alle
porte, simboli, più che impiegati, dell'attività
alberghiera. Vecchi fattorini se ne stanno appoggiati ai
muri, riportano alla pace, al periodo anteriore alla
guerra. Uno di loro ha una folta barba: un fantasma della
monarchia austro- ungarica. Uomini vecchissimi,
probabilmente notai a riposo, parlano il tedesco erariale
della vecchia Austria. Un libraio vende carta e libri e
riviste letterarie - ma più a scopo rappresentativo.
Acquisto da lui un Maupassant (sebbene abbia in magazzino
già un Dekobra) per una notte in treno senza vagone
letto. Una parola tira l'altra. Vengo a sapere che
l'interesse letterario a Sarajevo, è diminuito. Soltanto
un insegnante è abbonato a due settimanali letterari.
(Che conforto, sapere che esistono insegnanti simili!).
Di sera ha luogo il passeggio di belle donne, austere. È
il passeggio di una piccola città. Le belle donne vanno
a due e a tre, come collegiali. I signori si levano con
deferenza e di continuo i cappelli, le persone si
conoscono così bene fra di loro che io mi sento tre
volte più estraneo. Sto per vedere un film, un film
storico di costume, dove gli uomini non si conoscono
affatto fra loro, le scene in cui si salutano sono
tagliate, si è estranei fra estranei, la sala è buia,
ho paura delle terribili pause piene di luce. Anche la
lettura dei giornali è salutare, si viene a sapere
qualcosa di quel mondo che si è appena lasciato per
vedere il mondo.
Alle dieci tutto è silenzioso, un locale notturno
luccica in lontananza; da una strada buia una festa di
famiglia attira l'attenzione. Di là dal fiume, nella
città turca, le case s'innalzano in terrazze, le loro
luci si confondono nella nebbia, ricordano ceri lontani
sulle larghe scale di un alto e ampio altare.
C'è un teatro, si rappresenta un'opera, c'è un museo,
ci sono ospedali, un'autorità comunale, poliziotti,
tutto ciò di cui una città può aver bisogno. Una
città! Come se Sarajevo fosse una città come un'altra!
Come se a Sarajevo non avesse avuto inizio la più grande
di tutte le guerre! Tutte le tombe di eroi, tutte le
fosse comuni, tutti i campi di battaglia, tutti i gas
tossici, tutti gli storpi, tutte le vedove di guerra,
tutti i militi ignoti: qui hanno avuto inizio. Non auguro
a questa città la rovina, e come potrei! Vi vivono
buone, care persone, belle donne, bambini
meravigliosamente innocenti, animali felici di vivere,
farfalle sulle lapidi del cimitero turco. Ciò nondimeno,
è qui che ha avuto inizio la guerra, il mondo è
distrutto e Sarajevo sta ancora in piedi. Non dovrebbe
essere una città, dovrebbe essere un monumento a
terribile monito per tutti.
(Traduzione di Maria Arezzo di Trifiletti)
Copyright 1990 by Verlag Kiepenheuer & Witsch Koln
und Allert de Lange, Amsterdam.
(9 maggio 1999)
---------------------------------
I guardiani dell'ordine
tra diritto e morale
di JURGEN HABERMAS
La guerra nel Kosovo tocca una
questione fondamentale, discussa anche in politologia e
in filosofia. Uno dei grandi meriti civilizzatori dello
stato costituzionale democratico è stata la limitazione
giuridica del potere politico sulla base della sovranità
di soggetti riconosciuti dal diritto internazionale,
mentre lo stato di cittadinanza universale mette in
discussione proprio questa indipendenza dello stato
nazionale.
Non è che l' universalismo illuminista sbatta in questo
caso contro l' egoismo di un potere politico, nel quale
è inscritto indelebilmente l' impulso all'
autoaffermazione collettiva di una particolare essenza
comune? Questa è la spina realista nella carne della
politica dei diritti umani. ANCHE la scuola di pensiero
realista prende naturalmente atto del cambiamento
strutturale intervenuto su quel sistema di stati
indipendenti nato con la pace di Vestfalia del 1648 - l'
interdipendenza di una società mondiale sempre più
complessa; l' ordine di grandezza dei problemi che ormai
solo la cooperazione tra stati è in grado di risolvere;
l' autorità crescente e l' aumentare di istituzioni,
regimi e procedure sovranazionali, non solamente sul
piano della sicurezza collettiva; il corso economicista
della politica estera, lo stemperarsi dei confini
classici tra politica estera e interna.
Nonostante questi sviluppi, un' immagine dell' uomo
pessimista e un concetto stranamente opaco del politico
fanno da sfondo ad una dottrina che vorrebbe restare più
o meno integralmente fedele al principio del
non-intervento. Nell' arena internazionale gli stati
nazionali indipendenti devono potersi muovere seguendo il
più liberamente possibile il proprio interesse, perché
dal punto di vista di chi vi appartiene la sicurezza e la
sopravvivenza di un collettivo sono valori non
negoziabili e perché dal punto di vista di un
osservatore esterno gli imperativi di autoaffermazione
razionale regolano ancora al meglio i rapporti tra i
singoli attori collettivi. In questa prospettiva la
politica dei diritti umani interventista fa un errore
categoriale. Sottovaluta infatti, e discrimina, la
tendenza in un certo senso "naturale" all'
autoaffermazione. Vuole imporre dei criteri normativi a
un potenziale di violenza che si sottrae alla normazione.
Carl Schmitt avrebbe portato alle estreme conseguenze
questa argomentazione con la sua stilizzazione di una
"determinazione di entità". Tentando di
"moralizzare" la ragione di stato in sé
neutrale, pensava Schmitt, la politica dei diritti umani
snatura la lotta naturale tra le nazioni in una lotta
disperata contro il male. Contro questa impostazione si
possono sollevare valide obiezioni. Nella costellazione
post-nazionale non accade che stati nazionali pieni di
forza e salute vengano frenati dalle regole della
comunità internazionale. Succede piuttosto che l'
erosione dell' autorità statale, le guerre civili e i
conflitti etnici all' interno di stati in disfacimento o
tenuti in piedi in modo autoritario, richiamino al dovere
di intervenire - non solo in Somalia e in Ruanda, ma
anche in Bosnia e ora in Kosovo. Anche le riserve di
critica dell' ideologia hanno poca sostanza. Il caso in
questione mostra quanto poco le motivazioni universaliste
celino inconfessabili interessi particolari. Dall'
attacco alla Jugoslavia un' ermeneutica del sospetto può
cavare piuttosto poco. Certo, una prova di forza in
politica estera può offrire una chance a politici, cui
l' economia globale lascia poco spazio di manovra sul
piano interno. Ma né quanto si imputa agli Usa (di
volere garantire e allargare la propria sfera di
influenza) né la motivazione ascritta alla Nato (la
ricerca di un ruolo nuovo), né quanto si rimprovera alla
"fortezza europea" (la difesa preventiva da
ondate di profughi) può spiegare la decisione per un
intervento così grave, rischioso e costoso.
Contro il "realismo" parla soprattutto il fatto
che la scia di sangue che i soggetti del diritto
internazionale hanno lasciato lungo la storia
catastrofica del XX secolo, ha portato ad absurdum la
presunzione di innocenza del diritto internazionale
classico. La nascita dell' Onu e la dichiarazione dei
diritti umani, la condanna della guerra d' aggressione e
dei crimini contro l' umanità (con la conseguente
parziale limitazione del principio di non-intervento)
sono state tutte risposte giuste e necessarie alle
esperienze moralmente significative del secolo, allo
scatenamento totale della politica e all' Olocausto.
Infine, l' accusa di voler moralizzare la politica rimane
concettualmente incerta. Perché la stabilizzazione di
uno stato di cittadinanza universale comporterebbe che le
violazioni contro i diritti umani non verrebbero
giudicate e condannate da un punto di vista morale, ma
verrebbero perseguite come le azioni criminose commesse
all' interno di un qualsiasi ordine costituito.
Non è possibile una giuridificazione complessiva dei
rapporti internazionali senza procedure consolidate di
soluzione dei conflitti. Ma proprio la
istituzionalizzazione di queste procedure preserverebbe
il trattamento legale delle violazioni dei diritti umani
da un' indistinzione giuridica e impedirebbe il brutale e
immediato affermarsi di discriminazioni morali di
"nemici". Un tale scenario si potrebbe
affermare anche a prescindere dal monopolio della
violenza di uno stato e di un governo mondiali. Ma come
minimo è necessario un Consiglio di sicurezza
funzionante, la giurisprudenza vincolante di una corte di
giustizia internazionale e l' integrazione della
Assemblea generale dei rappresentanti dei governi con un
"secondo livello" di rappresentanza dei
cittadini. Dal momento che non sembra ancora in vista
questa riforma delle Nazioni Unite, il richiamo alla
differenza tra giuridificazione e moralizzazione rimane
una obiezione giusta ma a doppio taglio. Perché fino a
quando i diritti umani saranno poco istituzionalizzati a
livello globale, il confine tra diritto e morale potrà
confondersi come appunto nel caso in questione. A
Consiglio di sicurezza bloccato la Nato può infatti
richiamarsi solamente alla validità morale del diritto
internazionale - a norme quindi per le quali non
sussistono istanze effettive di applicazione e
affermazione nell' ambito della comunità internazionale.
La "sottoistituzionalizzazione" del diritto di
cittadinanza universale si esprime ad esempio nella
forbice tra legittimità e efficacia degli interventi per
assicurare e promuovere la pace. L' Onu aveva ad esempio
dichiarato Srebrenica una enclave protetta, ma le truppe
stazionate là legittimamente non poterono impedire il
terribile massacro che seguì l' entrata in città delle
truppe serbe. D' altra parte la Nato può contrastare con
successo il governo jugoslavo proprio perché si è
attivata senza la legittimazione che il Consiglio di
sicurezza le avrebbe negato. La politica dei diritti
umani punta a chiudere la forbice tra queste due
situazioni esemplari. Di fronte alla
"sottoistituzionalizzazione" del diritto
universale è quindi per certi versi costretta ad
anticipare la futura condizione cosmopolita che cerca al
tempo stesso di promuovere. A queste condizioni
paradossali come è possibile praticare una politica che,
se necessario anche con la forza delle armi, imponga il
rispetto dei diritti umani? La questione si pone anche se
non si può intervenire dappertutto - non a favore dei
curdi, non dei ceceni o dei tibetani, ma almeno sulla
porta di casa nei Balcani lacerati dalla guerra.
Tra europei e americani si nota in proposito una
differenza interessante nel modo di intendere la politica
dei diritti umani. Gli Stati Uniti promuovono l'
affermazione globale dei diritti umani come la missione
nazionale di una potenza mondiale che persegue questo
obiettivo secondo i presupposti della politica di
potenza. Per politica dei diritti umani la maggior parte
dei governi della Ue intendono invece un progetto di
complessiva giuridificazione dei rapporti internazionali,
un progetto che già oggi cambia i parametri della
politica di potenza. Gli Stati Uniti si sono assunti i
compiti d' ordine di una superpotenza in un mondo solo
debolmente regolamentato dall' Onu. In questo senso i
diritti umani fungono da punto di riferimento etico per
la valutazione di obiettivi politici. Anche in America ci
sono ovviamente sempre state controcorrenti isolazioniste
e come ogni altra nazione anche gli Usa perseguono in
primo luogo i loro interessi, che non sempre sono in
sintonia con gli obiettivi normativi dichiarati. Questo
lo dimostrò la guerra del Vietnam, e lo dimostra ancora
il rapporto che hanno con i problemi del proprio
"cortile di casa". Ma la "nuova miscela di
generosità umanitaria e logica imperiale di
potenza" (Ulrich Beck) negli Stati Uniti ha una sua
tradizione. Tra i motivi per cui Wilson entrò nella
prima e Roosevelt nella seconda guerra mondiale, ci fu
appunto anche l' orientamento a ideali molto ben radicati
nella tradizione pragmatica americana. A questi proprio
noi, la nazione sconfitta nel 1945, dobbiamo il fatto che
la sconfitta fu contemporaneamente liberazione. Da questo
punto di vista molto americano, e quindi molto nazionale,
di una politica di potenza orientata in senso normativo,
deve quindi apparire plausibile continuare oggi con forza
e senza compromessi la guerra contro la Jugoslavia,
nonostante ogni complicazione e se necessario anche con
l' utilizzo di truppe di terra. è una condotta che ha se
non altro il vantaggio della coerenza. Ma cosa diremmo se
un giorno l' alleanza militare di un' altra regione -
diciamo l' Asia - praticasse una politica armata dei
diritti umani basata su un' altra interpretazione, la
loro appunto, del diritto internazionale o della Carta
dell' Onu? Diverso sarebbe il caso se i diritti umani non
venissero tirati in ballo solo quale punto di riferimento
etico del proprio agire politico, ma quali diritti da
affermare nel senso giuridico del termine. I diritti
umani infatti, nonostante il loro contenuto puramente
etico, mostrano i segni strutturali di diritti soggettivi
atti a ricevere soddisfazione positiva in un sistema
legale vincolante. Solo se i diritti umani troveranno la
loro "sede" in un ordine giuridico democratico
su scala mondiale, come i nostri diritti fondamentali la
trovano nelle nostre costituzioni nazionali, potremmo
ritenere che anche a livello globale i destinatari di
questi diritti ne sono al tempo stesso gli autori. Le
norme morali che fanno appello alle nostre migliori
convinzioni non possono essere imposte come norme di
diritto consolidato. Una cosa è se gli Usa sulla scia di
una tradizione politica comunque degna di nota, rivestono
il ruolo del garante egemonico dell' ordine
strumentalizzando i diritti umani. Altra cosa è se noi
guardiamo oltre il fossato dell' attuale conflitto armato
e consideriamo il passaggio precario dalla politica di
potenza classica a uno stato di cittadinanza universale
come un processo di apprendimento che tutti dobbiamo
portare a compimento. La prospettiva più lungimirante
invita anche ad una maggior cautela. L' autoinvestitura
della Nato non può diventare la regola. (Traduzione di
Raffaele Oriani) La versione integrale dell' articolo di
Jurgen Habermas viene pubblicata oggi da "Caffè Europa
<http://www.caffeeuropa.it>, la rivista on-line di cultura.
(8 maggio 1999)
----------------------------------
Dal Kosovo al Colorado
di SALMAN RUSHDIE
Nell'accesa battaglia per il titolo di
Scemo Internazionale dell'Anno sono in lizza due pesi
massimi. Il primo è lo scrittore austriaco Peter Handke,
che ha stupito persino i più ferventi ammiratori delle
sue opere con una serie di appassionate apologie del
regime genocida di Slobodan Milosevic. Per i suoi servigi
propagandistici, è stato insignito dell'Ordine dei
Cavalieri serbi durante una sua recente visita a
Belgrado. Tra altre sue precedenti idiozie, Peter Handke
aveva sostenuto che i musulmani di Sarajevo si
massacrassero regolarmente da sé per poter accusare i
serbi, e aveva negato persino il genocidio perpetrato da
questi ultimi a Srebrenica. Ora ha paragonato i
bombardamenti aerei della Nato all'invasione degli alieni
nel film "Mars Attacks!"; e per di più ha
comparato, con una futile commistione di metafore, le
sofferenze dei serbi a quelle dell'Olocausto.
Al momento, il suo rivale in scemenze di classe mondiale
è l'attore cinematografico Charlton Heston. Il suo
commento, in qualità di presidente della Us National
Rifle Association, al recente massacro degli innocenti ad
opera dei giovani Dylan Klebold e Eric Harris alla
Columbine High School di Littleton, Colorado, è un vero
capolavoro di balordaggine: è convinto dell'opportunità
di armare gli insegnanti americani, poiché ritiene che
le scuole sarebbero più sicure se il personale didattico
avesse la facoltà di abbattere a revolverate i fanciulli
affidati alle sue cure.
Non intendo tracciare facili paralleli tra i
bombardamenti aerei della Nato e il massacro del
Colorado. No, la violenza maggiore non genera quella
minore. E non è neppure il caso di voler vedere troppi
significati nell'assonanza tra le tendenze hitleriane di
Milosevic e la funesta celebrazione del compleanno di
Hitler da parte della cosiddetta "mafia degli
impermeabili"; o nella correlazione, anche più
raccapricciante, tra la mentalità da videogiochi dei
killer del Colorado e i video aerei ripresi dal vivo ed
esibiti ogni giorno dai pubblicitari della Nato.
Bisogna ammettere che rispetto alla guerra si è portati
a provare sentimenti ambigui a fronte della confusa
azione della Nato, del suo modo di cambiare politica in
piena corsa. Ci hanno appena detto che non era possibile
prevedere la selvaggia ritorsione di Milosevic contro il
Kosovo; e un attimo dopo sostengono che era tutto
preventivato. Oppure: non si prevede di dispiegare truppe
di terra; anzi, ripensandoci meglio, può darsi di sì. E
gli obiettivi della guerra? Strettamente limitati.
Vogliamo soltanto creare un porto sicuro nel quale i
profughi kosovari possano ritornare. Anzi no, marceremo
fino a Belgrado e faremo fuori Milosevic. Non ripeteremo
l'errore commesso con Saddam! Tuttavia, una cosa è
obiettare contro questi tentennamenti e contraddizioni, e
altra è fiancheggiare l'orrore, come fa Peter Handke,
con un misto di follia e di cinismo.
L'intervento della Nato è moralmente giustificato dalle
sofferenze che vediamo ogni sera sui nostri schermi
televisivi; e imputare al suo intervento la tragedia dei
profughi equivale ad assolvere le milizie serbe dei loro
crimini. Va detto e ripetuto che la colpa del terrore e
delle vittime è di chi commette gli assassinii e gli
atti di terrorismo. Quanto alla strage in Colorado,
bisogna ammettere che le armi non sono la sola causa di
questo orrore.
I killer hanno imparato su Internet a fabbricare bombe, e
per i loro impermeabili hanno tratto ispirazione da un
film con Leonardo Di Caprio. Da chi hanno imparato a dare
così poco valore alla vita umana? Dai loro genitori? Da
Marilyn Manson? Dai Goths? Ma dire questo non significa
certo adottare la posizione impenitente di Charlton
Heston, il quale sostiene che "il vero problema sono
i ragazzi, non le armi". Il signor Heston ha una
certa pratica nell'enunciare con toni biblici
comandamenti del tipo: difendi il tuo diritto di girare
armato alla faccia di tutti. Non sarai certo rimproverato
solo perché qualche ragazzetto ci avrà rimesso le
penne.
Il Kosovo e il Colorado hanno in realtà qualcosa in
comune: stanno a dimostrare come nel nostro mondo
instabile, versioni incompatibili della realtà si
scontrano tra loro, con risultati sanguinosi. Questo
però non vieta di formulare un giudizio morale sulle
versioni contrastanti del mondo in guerra tra loro.
Quelle di Handke e di Heston non possono che essere
giudicate riprovevoli e indifendibili, e meritano di
essere distrutte.
Anche se è stato coautore del grande film "Il cielo
sopra Berlino", Peter Handke, definito un
"mostro" da uomini come Alain Finkielkraut e
Hans Magnus Enzensberger, dal filosofo sloveno Slavoj
Zizek e dal romanziere serbo Bora Cosic, merita di essere
"finished" (liquidato), secondo la concisa
espressione di Susan Sontag. E benché Charlton Heston
abbia regalato a milioni di spettatori qualche tranquillo
sonnellino nella penombra dei cinema, con quel suo volto
così sottilmente mobile da far pensare al Monte
Rushmore, merita anche lui di essere radiato.
Chi vincerà il premio? Con la sua follia, Peter Handke
si è reso complice di un orrore su vasta scala, ma
fortunatamente in pratica non dispone di alcun potere.
Dal canto suo, Charlton Heston, che guida negli Stati
Uniti la lobby della diffusione delle armi, sta facendo
del suo meglio per farle entrare come parte integrante di
ogni casa e famiglia americana. Così, uno di questi
giorni, in qualche parte dell'America, un altro
giovanotto impugnerà un fucile per sparare addosso ai
suoi amici. Data la maggiore efficacia della sua follia,
consegno la palma a Charlton Heston. Ma non siamo ancora
alla fine del primo semestre dell'anno, e non è escluso
che qualche imbecille ancora più grosso si faccia avanti
per contendergli il titolo. Teniamo gli occhi bene
aperti.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
(8 maggio 1999)
----------------------------------------
Quando la fede è in armi
di GAD LERNER
Sua Beatitudine il Patriarca Teoctist,
capo del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa di Romania,
sorride dall' alto dei suoi 84 anni: "Sembra un
refuso della Storia, ma domani mattina uno slavo Papa
cattolico verrà accolto nei Balcani da un latino
Patriarca ortodosso". Questo vecchio spirituale
dall' abito candido come la sua lunga barba, porta alla
bocca con il cucchiaino del caffè la confettura d' uva
offerta come rinfresco agli ospiti della sua residenza di
Bucarest, già affollata dai vescovi convocati per
ricevere Giovanni Paolo II, primo Pontefice di Roma a
visitare una nazione ortodossa dallo Scisma del 1054. è
tutto un rincorrersi di giovani pope neri coi capelli
raccolti a coda di cavallo, dietro ai loro principi col
calemaffio cilindrico in testa e, ballonzolante sul
petto, attaccato a una catena d' oro, l' eukolpion, il
medaglione con l' effigie della Vergine. è IL Danubio a
segnare per qualche centinaio di chilometri il confine
tra la terra latina di Romania e la sorella slava Serbia
insanguinata dalla guerra, per la quale continuano a
pregare i fedeli, incuranti dell' apertura
filo-occidentale del governo. Quanto sia vera "la
fusione del religioso e dell' etnico" nell'
ortodossia descritta da Olivier Clément, lo testimoniano
gli affreschi posti all' ingresso del Palazzo patriarcale
che non a caso incorpora l' antico Parlamento rumeno: uno
rievoca il martirio dei cristiani soggiogati dai
giannizzeri turchi; l' altro, subito di fronte, l'
invasione dei cattolici austro-ungarici sulle cui spade
omicide penetrava in terra ortodossa la Chiesa romana.
Teoctist, il Patriarca buono sopravvissuto ai molti
compromessi con la dittatura comunista di Ceausescu, oggi
oltrepassa nel dialogo con l' altra cristianità l'
incubo di quegli affreschi, proponendo in forme rinnovate
la sintonia tra Chiesa e Nazione su cui si fonda l'
Ortodossia. Ma non sono certo tutte così aperte come la
sua, le Chiese d' Oriente. Ci sono altri affreschi sacri,
come quelli dei monasteri del Kosovo, che recano impressa
per l' eternità una ferita non rimarginata: con la punta
delle lance gli invasori ottomani deturparono le immagini
dei santi, cancellandone gli occhi. E sappiamo bene come
nei Balcani la pratica iconoclasta di cavare gli occhi ai
nemici sia stata prolungata fino a oggi dalle figure
disegnate ai corpi umani viventi. Come i turchi prima di
loro, hanno cavato occhi serbi gli ustascia cattolici in
Croazia nel ' 41; e poi i cetnici ortodossi hanno
rinnovato l' osceno gesto sulla gente musulmana di Bosnia
nei nostri Anni Novanta. Come vive la guerra balcanica l'
insieme delle Chiese ortodosse, l' Oriente troppo a lungo
ignorato d' Europa? Giustamente i teologi dell'
ecumenismo ci mettono in guardia dalle indebite
generalizzazioni: sia il Patriarca di Belgrado, Pavle,
sia il Patriarca di Mosca, Alexej II, hanno pregato per
tutti i morti, a prescindere dal loro credo, benché sia
mancata una condanna pubblica della pulizia etnica. Su
"Avvenire", Enzo Bianchi cita i monaci kosovari
di Decani: "Serbi e albanesi devono capire che nell'
Europa del XXI secolo non c' è posto per territori
etnicamente puliti, né per il terrore e altri
crimini". Nessuna fede chiama di per sé la guerra.
Ma resta doveroso chiedersi se la parola d' ordine
ultranazionalista del vicepremier di Belgrado Seselj -
"dove sono le chiese e le tombe serbe, quella è
Serbia" - trovi riscontro all' interno della
gerarchia religiosa. Devo alla preziosa collaborazione di
un giovane ex deputato socialdemocratico di Belgrado,
Slavko Sekulovic, rifugiatosi in Italia, la risposta a
questo interrogativo attraverso una serie di documenti:
c' è una linea oscura tesa a legittimare in chiave
religiosa la guerra dei serbi, all' interno della
gerarchia ecclesiastica. In altri tempi il supremo
Patriarcato di Costantinopoli l' avrebbe bollata come
"filetismo", il termine che tra gli ortodossi
designa la tendenza sciovinista consistente nell'
assumere l' appartenenza razziale quale criterio della
comunione ecclesiale. In altre parole, se nell'
Ortodossia tendono a coincidere Chiesa e Nazione, e il
dato etnico prevale sul dato territoriale, davvero nei
Balcani la mescolanza delle popolazioni spinge i fanatici
a definire come proprio ogni territorio storicamente
abitato dalle loro genti nel corso dei secoli. Tra questi
fanatici ci sono anche dei vescovi. Roberto Morozzo della
Rocca, nel suo libro "Le chiese ortodosse"
(edizioni Studium), ricorda come l' idea serba di una
coincidenza assoluta tra difesa dell' identità cristiana
e difesa dell' identità etnica, abbia trovato una
rinnovata consacrazione nelle dolorose vicende del
Novecento. Nella prima guerra mondiale muore quasi un
quarto della popolazione serba e la formazione del Regno
di Jugoslavia viene spiegata come ricompensa divina dopo
tante sofferenze. Il genocidio serbo del ' 41-' 45 nella
Croazia di Ante Pavelic, ma anche la pulizia etnica posta
in atto dagli albanesi reclutati dalle Ss in Kosovo,
confermeranno la necessità di salvare il popolo serbo
quale "popolo celeste". E ancora negli Anni
Novanta il vescovo Danilo Slavko Krstic additerà i
croati e i musulmani di Bosnia come "la stessa
Alleanza Musulmano Cattolica del tempo dell' occupazione
di Hitler". Ciò premesso, l' appoggio del clero
alle guerre di Milosevic è totale nel ' 91, mentre l'
accordo di Dayton nel ' 96 suscita la reazione infuriata
del vescovo Jevtic, metropolita dell' Erzegovina:
"Meglio la guerra di una pace che ci separa da
Dio... alla gente valorosa che ha combattuto per la
giustizia di Dio e la dignità dell' uomo - "per la
Croce venerata e la Libertà dorata", come diciamo
noi serbi - dirò che questa è stata una guerra eroica,
finita solo per il tradimento del presidente
Milosevic". Jevtic denuncia: "Spezzettano i
serbi come stanno spezzettando la distrutta, crocefissa
Russia". E punta il dito contro i nemici:
"Provo sdegno di fronte ai cosiddetti cristiani
occidentali, ai disumani statisti occidentali, a
istituzioni come le Nazioni Unite, l' Unione Europea,
agli ipocriti del Consiglio mondiale ecumenico delle
Chiese e agli ipocriti del Vaticano". Aggiunge padre
Dobrijevic: "Il nome e l' identità dei Serbi
Ortodossi sono stati sviliti dal Nuovo Ordine
Mondiale". Ci è ormai ben nota la rivendicazione
della battaglia di Kosovo Polje nel 1389 come "il
Golgota del popolo serbo... perdita del regno terrestre,
transeunte e conquista dell' eterno regno celeste"
(parole del vescovo Amfilochije Radovic, metropolita del
Montenegro). Meno noto è il suo prolungamento simbolico
in una storia vissuta come martirio: "Nella prima
guerra mondiale di nuovo la Serbia fu penalizzata ma lei
un' altra volta rifiutò di subire il ricatto austro-
ungarico, scelse il Regno dei Cieli, e accettò il
conflitto come Davide contro Golia. Soltanto due decenni
dopo vennero i tragici eventi della seconda guerra
mondiale e nell' alba del loro più grande martirio i
serbi di nuovo mostrarono quanto fosse viva in loro la
scelta del Kosovo per i Cieli invece della Terra".
Parole del vescovo Velimirovic. NE deriva il ritorno all'
elogio cristiano della guerra santa. Come in queste
parole del vescovo Radovic, scritte nel 1996: "Una
lotta continua percorre tutta la storia dell' umanità...
in tutte le epoche il conflitto appartiene più o meno a
ogni essere umano. Come spiegare un tale fatto storico?
Non è facile dare una risposta. Una cosa è certa: nella
stessa natura umana esiste l' imperfezione. Ciò provoca
la necessità di atti eroici e del conflitto, con l'
obbiettivo che l' uomo superi in sé e intorno a sé
quell' imperfezione...". Vescovi come Jevtic e
Radovic hanno rappresentato a lungo la corrente
maggioritaria dentro la Chiesa ortodossa serba e vanno
annoverati tra i rifondatori del nuovo nazionalismo
etnico. Certo, si potrà osservare che se il limitrofo
nazionalismo croato, d' impronta cattolica, non si
esprime negli stessi termini, ciò dipende solo dal fatto
che risulta ormai sazio. Ma le nuove divisioni tra
Oriente e Occidente con cui oggi a Bucarest fanno i conti
papa Wojtyla e il patriarca Teoctist, si alimentano di
voci come queste. Nel congedarsi mi dona un volume che
domani metterà tra le mani del Pontefice: è il libro
nero di tutti i cristiani rumeni imprigionati o uccisi
per la loro fede dai comunisti, senza più distinzione
tra ortodossi e cattolici. Forse in quel libro c' è l'
utopia dei Balcani.
(7 maggio 1999)
|