Per troppo tempo
ho aspettato la Nato



di MILJENKO JERGOVIC

i primi quindici mesi di guerra da me trascorsi in rifugi e scantinati senza luce, né acqua, né cibo, non è passato giorno senza che invocassi il bombardamento della Nato su Belgrado. Ma più passava il tempo, più mi rendevo conto che ciò non sarebbe avvenuto, che quelle di Washington erano minacce a vuoto (la prima risaliva al luglio del '92) e che le mie sofferenze, quelle della mia età e del paese in cui vivevo sarebbero durate tanto da consentire all'armata di Milosevic di raggiungere il proprio obiettivo - laddove quest'obiettivo era l'epurazione dei musulmani bosniaci e in parte dei croati. O che magari, nella più rosea delle ipotesi, le nostre sofferenze sarebbero durate finché quell'esercito non si fosse stancato e non avesse deciso di dar fondo alle riserve di munizioni.

Il bombardamento degli alleati non si verificò neppure in seguito alla scoperta dei campi di concentramento di Manjaca e di Omarska nell'agosto del '92, né dopo che a Sarajevo furono uccise diecimila persone (tra cui millesettecento bambini) né tantomeno dopo che quasi tutta la popolazione maschile di Srebrenica fu sterminata nell'estate del '95. Il bombardamento degli alleati non si verificò nemmeno dopo che il mondo ebbe appreso degli stupri perpetrati sistematicamente dall'esercito serbo nei confronti delle donne musulmane.

Soltanto dopo che i militari del generale Ratko Mladic ebbero umiliato i militari dell'Unprofor incatenandoli alle ringhiere dei ponti e dei depositi di munizioni, nonché a seguito della decisione assunta dallo stato maggiore serbo, si pensò di evitare che un'altra enclave musulmana, quella di Goradze, condividesse il destino di Srebrenica. E si arrivò così al bombardamento - a dire il vero poco più che simbolico - di qualche carro armato o cannone serbo arrugginito. Ciò bastò addirittura a porre fine alla guerra in Bosnia Erzegovina, perché, nel lontano 1995, era sufficiente l'invio di qualche decina di aerei Nato per fermare i massacri in un paese.

È stato a quel punto che ho capito che il cerchio dei crimini di Slobodan Milosevic non si era affatto chiuso e che l'Occidente, lungi dall'interrogarsi sulla politica di pulizia etnica - la sola conosciuta dal leader serbo - intendeva semplicemente tutelare il diritto alla vita dei sopravvissuti bosniaci. Questa è stata l'unica soddisfazione offerta alla gente, malgrado all'Aja avessero già allestito il Tribunale internazionale per i delitti di guerra nella ex Jugoslavia. Un Tribunale che non poteva essere di alcun risarcimento per almeno due ragioni: la prima era una palese assenza di volontà e di metodi per trascinare Radovan Karadzic e Ratko Mladic sul banco degli imputati; la seconda era che, per quel Tribunale, la politica di Slobodan Milosevic non costituiva un problema a cui porre rimedio. Con quell'uomo, infatti, si è continuato a trattare, a dialogare, e più è passato tempo dalla guerra in Bosnia Erzegovina, più l'Occidente ha dimenticato le responsabilità di quell'uomo.

All'indomani della guerra in Bosnia era chiaro che l'invio di qualche aereo militare nei cieli della Serbia sarebbe bastato a far tacere le armi una volta per tutte. Era chiaro che, nella primavera del '92, Milosevic aveva preso atto della serietà delle minacce occidentali (in verità assai poco credibili) e aveva capito che la situazione in Serbia gli consentiva di restare al potere solo se su Belgrado non fosse piovuta la benché minima bomba. Per i serbi, né la Croazia, né la Bosnia Erzegovina, né l'occupazione di entrambe valevano al punto da sopportare una guerra nel proprio paese. È evidente che in tal caso avrebbero destituito il loro leader, così com'è evidente che quest'ultimo non si sarebbe mai cacciato in un conflitto tale da mettere a repentaglio il suo potere.

Per tutta la durata della guerra mi capitava di sentire al telefono i miei amici di Belgrado, tutta gente che non era succube della propaganda di Milosevic e che sapeva dei crimini commessi dal loro governo in Croazia e in Bosnia. Sin dall'estate del '92 temevano le bombe su Belgrado, e con la caduta di Srebrenica capirono che quelle bombe sarebbero arrivate. Seppure da una prospettiva diversa, credevano esattamente in ciò in cui credevo io, ovvero che l'Occidente democratico non avrebbe tollerato che, nel cuore dell'Europa, il genocidio restasse impunito. Poi, però, nessuna bomba è caduta su Belgrado e i miei amici si sono persuasi che l'Occidente, alla fin fine, non aveva nulla da rimproverare a Slobodan Milosevic. Quei cittadini si sentivano puniti per ciò che lasciava impunito Slobodan Milosevic.

Nel '92, nel '93 e in seguito, i miei amici serbi avrebbero sopportato il peso delle bombe sul loro paese senza cambiare la loro visione del mondo e senza sviluppare alcun odio nei confronti dell'Europa e degli Stati Uniti. Non erano arrabbiati con me, che sostenevo come unica via d'uscita dalla guerra in Bosnia il bombardamento di Belgrado. In quegli anni, però, la maggior parte dei serbi non la pensava come i miei amici. Era, ovviamente, vicina a Milosevic. Ma a che prezzo? Non a tutti i costi. Non di certo al prezzo della propria distruzione o della distruzione del proprio paese. Se l'Occidente, ripeto, fosse intervenuto allora, il popolo serbo avrebbe messo da parte Milosevic o comunque non gli avrebbe consentito di proseguire sulla strada della pulizia etnica e del genocidio.

Il giorno in cui le bombe hanno cominciato a cadere sulla Serbia mi sono detto: finalmente! Guardavo con orrore in televisione le colonne dei profughi albanesi del Kosovo, scoprendo che esiste una guerra più feroce di quella bosniaca. Per me era chiaro che Milosevic aveva imposto il destino di Srebrenica a tutte le località del Kosovo. Ma al contempo mi si chiariva anche un'altra cosa: l'intera Serbia, adesso, si sarebbe stretta intorno al suo leader, l'intera Serbia, sotto le bombe Nato, si sarebbe sentita aggredita.

La gente che credeva possibile un intervento quand'era in atto l'assedio di Sarajevo, oggi stenta davvero a capire perché esso avvenga mentre è in atto lo sterminio degli albanesi del Kosovo. Non riesce a spiegarsi ciò che non riesco a spiegarmi nemmeno io: perché non nel 1992, bensì nel 1999? La risposta dovrebbe pur venire da qualcuno, ad esempio da qualcuno che è lì, a Washington, e non tanto per i serbi, per i bosniaci o per i croati, quanto proprio per l'opinione pubblica dell' Occidente. Senza questa risposta alcuni fatti restano difficilmente comprensibili. L'Occidente si chiede come mai, oggi, la stragrande maggioranza dei serbi possa ancora sostenere Milosevic, mentre i serbi non riescono a capire perché l'Occidente li bombardi proprio adesso.

Oggi i miei amici serbi odiano a morte gli Stati Uniti e non vivono i bombardamenti come una punizione nei confronti di Milosevic, bensì come una punizione nei loro confronti. Il dramma degli albanesi del Kosovo non riesce a riscuotere la loro più intima compassione, né credono che i bombardamenti arrivino per trarre in salvo quella gente. Loro, come del resto anch'io, vedono che la Nato non è in grado di frenare né di arginare fosse pure per un solo istante l'esodo di quella gente. Inoltre sono convinti che Richard Holbrooke verrà di nuovo in visita a Belgrado e che, se non lui qualcun altro, riprenderà a trattare e a dialogare con Milosevic, il quale, dopo una stretta di mano, tornerà a essere una persona rispettabile, esattamente come all'indomani di Dayton. Di fronte a simili argomentazioni, non posso scegliere che il silenzio.

A essere sincero, la loro indifferenza verso le sofferenze degli albanesi del Kosovo mi ripugna al punto che oggi sento di non poter condividere più nulla con i miei amici belgradesi. E pensare che la nostra amicizia era sopravvissuta ai fatti di Vukovar, di Sarajevo, di Srebrenica... Ma allora erano altri tempi, altre circostanze. Sapevano provare compassione, oggi non più. Slobodan Milosevic ha divorato anche loro, in perfetto stile con i dittatori di questo secolo pari a lui. Come stavano dalla parte di Hitler tutti, o quasi tutti i tedeschi, oggi tutti, o quasi tutti i serbi stanno dalla parte di Milosevic. In Serbia e a Belgrado la distruzione avanza di giorno in giorno. Sale il numero delle vittime civili, e intanto il paese si rivela sempre più compatto. Mi viene quasi da ridere quando sento i portavoce della Nato parlare di crepe ai vertici militari o civili di quel paese. Non c'è nessuna crepa, e ciò che tiene unita la Repubblica socialista della Serbia è l' odio nei confronti dell'Occidente, alimentato dalla sempre crescente distruzione e dai sempre più aspri bombardamenti. Quanto durerà quest'odio e cosa finirà per generare?

Sono quasi certo che alla fine Milosevic accetterà quelle cinque condizioni che Bill Clinton esibisce in televisione. Acconsentirà alla presenza di una forza militare nel Kosovo e dirà alla sua nazione di aver dovuto accettare la parziale occupazione del paese sotto la minaccia di una terribile potenza militare. Vi immaginate come salirà alle stelle l' odio serbo verso l'Occidente? Assumerà le proporzioni che servono a Milosevic per passre a una nuova fase del suo piano di pulizia etnica. Pulirà la zona di Sandzak, popolata da musulmani, quelle della Vojvodina popolate da croati e, una volta rovesciato l' attuale governo del Montenegro, potrà pulire anche quest'ultimo territorio dalle sue popolazioni non serbe (montenegrini, albanesi, musulmani e croati). In tal caso la Nato interverrà di nuovo? Magari sì, ma a qual punto sarà davvero difficile trovare anche un solo serbo che non incolpi la Nato di condurre allo sfascio la Serbia.

Infine s'impone il quesito che avremmo dovuto formulare all'inizio del nostro ragionamento: l'intervento della Nato contro la Jugoslavia era necessario e legittimo? La risposta è sorprendentemente semplice: è logico che fosse necessario, e a quanti la pensano diversamente bisognerebbe porre una sola domanda: come avrebbe dovuto reagire l'Occidente dinanzi alle deportazioni degli albanesi del Kosovo? Forse come ha reagito dinanzi ai fatti di Srebrenica? L'intervento militare, sebbene tardivo, era purtroppo l'unica soluzione praticabile, anche se gli obiettivi proclamati dall'Occidente rischiano di trasformarsi in una nuova trappola. L'intervento militare non può rimanere un intervento umanitario, poiché in effetti non lo è. Non esistono "bombe umanitarie", e lo dimostra il fatto che dopo più di un mese di bombardamenti, la Nato non è riuscita a salvare dalla deportazione un solo kosovaro.

L'occidente dovrebbe mirare alla destituzione di Milosevic e della sua dittatura propensa al genocidio, anziché chiedergli consensi o favori. Soltanto questo può giustificare l'impiego della forza nei confronti della Repubblica socialista della Serbia e soltanto questo, sul lungo periodo, può rivelarsi sensato e legittimo. Soltanto questo potrà salvare gli albanesi del Kosovo e soltanto questo potrà sedare l'odio dei serbi verso l'Occidente. Soltanto questo, infine, potrà restituire all'Europa quella nazione e quel paese. Se Milosevic non verrà messo da parte assisteremo a una nuova fase di pulizia etnica e di genocidio nei Balcani e in Europa. I dittatori nostrani conoscono bene il prezzo da pagare per lo sterminio di altri popoli. E non è un prezzo troppo alto.

I dittatori non soffrono né per la distruzione dei loro paesi, né per la rovina della loro nazione. Non provano alcun dolore, se ciò è utile al consolidamento del loro potere. Se Milosevic resta, se l'intervento militare non implica la sua destituzione, se l'obiettivo di questo intervento non è la sua eliminazione, allora diremo che anche il presidente croato Franjo Tudjman conosce bene il prezzo da pagare per raggiungere il sommo traguardo della sua carriera politica: la spartizione della Bosnia Erzegovina e l'annessione della metà del suo territorio alla Croazia.

Milosevic, come Hitler, non può essere deposto dal pacifismo, e la tesi secondo cui non si può contestare al popolo serbo il diritto ad avere il leader che si è scelto, equivale alla tesi secondo cui il popolo tedesco si sarebbe scelto Hitler. La Serbia va salvata da Slobodan Milosevic. Se non altro, almeno per le future generazioni di questo paese, che meritano ciò che hanno meritato i tedeschi nati dopo il 9 maggio 1945.
(Traduzione di Ljiljana Avirovi)

L'autore, scrittore e poeta croato-bosniaco, in Italia ha pubblicato due libri di racconti: "Le Marlboro di Sarajevo" e "I Karivan"

(10 maggio 1999)

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Le radici dell'odio
sulle montagne nere



di PAOLO RUMIZ

Se entri nel labirinto delle montagne nere tra la Serbia e l' Adriatico, te ne accorgi subito. Quando sale la Luna, avverti un rumore di sciabole. Nel piccolo Montenegro che cerca di sfuggire alla guerra la gente tace, passa oltre, finge di non vedere i blocchi stradali contrapposti dell' Armata federale e della polizia montenegrina. Sa bene cosa voglion dire quegli uomini che da giorni si controllano, proiettile in canna, con fatalismo e noncuranza. Con la stessa pazzesca leggerezza con cui un italiano farebbe una scampagnata. In Jugoslavia c' è una paura che non si vede. Il piccolo Montenegro ne è solo il sismografo, ti avverte che è lì, serpeggia nei caffè di Belgrado e nelle strade di Nis, nei villaggi del Transdanubio e nelle tranquille campagne della Vojvodina. La leggi nelle frasi non dette e in furtivi scongiuri. Sembra calma, ma è calma apparente. è leggera come una parentesi eppur pesante come una pietra. Non è la paura, esplicita e condivisa, delle bombe Nato. Questa è silenziosa, spacca il Paese in due. è la paura che gli Slavi del Sud hanno di se stessi. "Non sai cosa sia una guerra se non hai visto una guerra tra serbi", ti dicono per alludere a un' eventualità sempre aperta che nessuno nomina ma che tutti mettono in conto. è l' aggressività che ha già divorato tutti i possibili nemici etnici e ora rischia di consumare se stessa, di implodere in Serbia, diventare onda di ritorno, caccia alle streghe, regolamento di conti tra ortodossi. Scontro primordiale tra primitivi ed evoluti, falchi e colombe, "eroi" e "vigliacchi".

Esiste un odio balcanico? Sempre, quando varchi le terre di nessuno tra Mediterraneo e Danubio, la vecchia domanda ostinatamente ritorna. Per anni l' hai ricacciata indietro, hai ripetuto a te stesso che i Balcani sono Europa e che la guerra che li consuma è uno dei mille volti di uno stesso male che si aggira per l' Occidente. Con pazienza, ti sei costruito un castello teorico per dire che l' orrore non nasce dall' "Homo balcanicus", non è frutto di una politica criminale e della sua infinita capacità di manipolare. Impari che anche altrove la tensione sociale diventa etnica: basta che un potere politico cavalchi il pregiudizio. Ma alla fine, appena ti allontani dalle città e ti addentri in quelle gole lunari, le certezze si annebbiano, senti che c' è qualcosa che sfugge. Quei luoghi ti sussurrano il segreto di qualcosa che nasce qui e solo qui, autogestito come il titoismo, autocefalo come l' ortodossia, autoctono come questi pastori guerrieri; autistico, forse, come gli incubi di un bambino male amato. Guardi e ti chiedi: ma questa gente non è stanca di fare la guerra? Ha un' illimitata capacità di combattere o un' illimitata capacità di sopportare? Dove nasce tanta energia autodistruttiva? Perché i Paesi baltici, dopo secoli di pogrom, si sono staccati dall' Urss senza sangue e ora convivono in pace con la minoranza russa? Perché solo qui la maledizione continua?

Non basta una leadership a far deragliare la storia. Crederlo è come pensare che il voto leghista in Italia nasca solo dalla testa di Bossi. Per costruire un evento serve il cortocircuito fra un Capo e la gente. L' antropologia cacciata dalla porta rientra sempre dalla finestra. Se è vero che questa guerra nasce dalla manipolazione, è altrettanto vero che nasce dalla manipolazione di qualcosa. è in quel qualcosa che devi cercare. L' anima nera del nazionalismo serbo, Dobrica Cosic, sostiene che la Jugoslavia era una costruzione demoniaca destinata all' esplosione perché la compresenza di etnìe liberava troppo odio. Spesso sono gli stessi jugoslavi a dirti di cercare in questa direzione. Ma è un depistaggio. Scopri subito che l' oggetto della tua ricerca, l' odio appunto, non sussiste. Semmai, è vero il contrario. Ciò che più spaventa della Bosnia e del Kosovo non è il male ma il bene. Karadzic è un uomo qualunque, Arkan un burocrate della rapina organizzata, Milosevic un mediocre aparacnik. Il male è banale, bussa alla porta in modo prevedible e ripetitivo. Il bene, invece è disperatamente inerme. Si fa cogliere di sorpresa. Guardate gli occhi dei profughi: non c' è un frammento d' odio. Solo un' infinita rassegnazione. Nei Balcani carnefici e vittime insieme accettano la guerra come destino. L' italiano dice: piove, governo ladro. Qui è il contrario: anche la catastrofe politica diventa evento naturale. Dicono che i serbi prendano volentieri le armi, ma in questa guerra infame nessun Paese ha avuto tanti disertori come la Serbia. Dicono che la pulizia etnica sia nel loro sangue, ma a Novi Sad - dopo quello che è accaduto - esiste ancora una via chiamata Zagabria e nelle librerie si vendono testi di quella capitale. Dicono che l' onda nera parta da Belgrado, ma a Belgrado e nelle altri grandi città da anni l' opposizione è fortissima. E in nessun posto come in Serbia e Montenegro la libera stampa e le radio private hanno lottato in modo così indomito contro i veleni del regime. Dove cercare allora?

In un suo breve viaggio nella Serbia rurale, lo scrittore austriaco Peter Handke scoprì un popolo generoso, semplice fino all' ingenuità. Qualcuno, molto prima, aveva saputo guardare oltre la superficie, intuire altri segnali. Era lo psicologo Radomir Kostantinovic, un serbo - ovviamente inascoltato - che segnalò la guerra con quindici anni d' anticipo. Capì che nel Paese profondo, in modo del tutto indipendente dal socialismo, fermentava un male oscuro. Nel libro "La filosofia dei villaggi", intuì che nella provincia cresceva un demi-monde insicuro e frustrato che sostituiva il dibattito col mugugno, l' "agorà" con la taverna. Nella fumosa taverna balcanica si coagulava, sotto forma di risentimento cosmico, una nuova volontà collettiva completamente staccata dalla realtà, e soprattutto un desiderio di mito - un mito nazionalista - che sostituisse il "futuro promesso" con un "passato glorioso", non importa se fittizio. Era la voglia di uscire da un' insicurezza primordiale: quella che nasce in una terra consumata da troppe guerre e troppe pressioni esterne, dallo spaesamento di troppi regimi e troppe diaspore. L' ex vicepresidente serbo Vuk Draskovic, nel suo libro "Il coltello" spiega che l' anima slava la vedi dalla piega amara della bocca, dalla sua inconfondibile cupezza, dalla cronica insoddisfazione. Un male balcanico, scrisse il croato Miroslav Krleza, per il suo popolo e quello serbo altro non erano che "lo stesso sterco di vacca diviso dallo stesso carro della storia". Le mitologie titine hanno esasperato questo male, anziché dargli risposta. Hanno curato la depressione con l' autoesaltazione e l' autocontemplazione. Il risultato, per lo scrittore croato Tonko Mroevic, è schizoide: "La Jugoslavia è incurabilmente malata nel suo inconscio collettivo". Di questi tempi - scrisse - abbondano sia gli psichiatri in servizio sia i pazienti molto agitati". Non fu forse psichiatra il leader della rivolta serba delle Krajine, Jovan Raskovic? E non fu tale il famigerato Radovan Karadzic, capo dei serbi di Bosnia?

Paura. La Luna sale sulle gole solitarie del Montenegro, illumina le Alpi Dinariche, i monti che da Trieste alla Grecia fanno da colonna vertebrale ai Balcani. La parola-chiave comincia a funzionare. Paura dunque, non l' odio. Pensi che forse Milosevic non ha fatto che ascoltare il mormorio dei villaggi e perfezionare la risposta mitica alla loro insicurezza di fondo. Forse, la voglia serba di sfidare il mondo intero nasce anche qui, da queste uova fatali iniettate nel nido della paura. Ripensi agli intellettuali che l' hanno manipolata, con inimmaginabile facilità, esasperandola con pericoli inesistenti solo per poi sfruttarne il potenziale difensivo. Scopri che le stragi più orribili, nei Balcani, non le hanno compiute quasi mai i primitivi lasciati a se stessi, ma i primitivi guidati da un medico, un filosofo o un critico d' arte. Sui monti della Luna senti di avvicinarti al cuore del problema, al segreto ultimo di una terra capace di partorire uomini infinitamente feroci e infinitamente miti, di dar contemporaneamente vita alle più spaventose stragi etniche d' Europa e a una santa come Teresa di Calcutta, all' abbattimento sacrilego del ponte di Mostar e, a poca distanza, alle pie adorazioni di Medjugorje.

Non c' è nessuna maledizione balcanica. Esiste, semmai, una maledizione dinarica. In questo mondo chiuso si arroccarono popoli fieri e combattivi che né gli Asburgo né gli Ottomani seppero completamente domare. In nessun altro luogo d' Europa la montagna si confronta in modo più brutale col mare e la pianura, col Mediterraneo degli ulivi e l' Europa dei grandi fiumi. In nessun altro luogo la forza è tanto esaltata come dimostrazione di eroismo, fonte di gloria e ricchezza, risposta ai dubbi identitari e alle paure. Da queste terre magre, adatte alle capre, scesero i feroci Morlacchi sulle cittadelle venete della Dalmazia. I turchi assediavano Vienna ma non sapevano stanare i montenegrini e gli albanesi dalle loro ultime montagne. E in Epiro, su quella stessa catena di montagne, partì la rivolta della Grecia contro il Sultano.

Poco è cambiato da allora. è da queste genti lunatiche, alte e fisicamente inconfondibili, che Serbia e Croazia traggono tuttora la loro fonte vitale. Scrive il belgradese Dragan Velikic: "Ancora calde della giungla, ogni cinquant' anni esse documentano le loro origini e la loro fede impugnando facilmente le armi. Così, anziché cercare la luce, precipitano all' indietro, nel buio. Inneggiano alla libertà e liberano costantemente qualcuno, non importa se Belgrado o Trieste". è da questo mondo dei lunghi coltelli e dei lunghi rancori che il Sultano e l' Imperatore d' Austria trassero i loro soldati migliori e li posero a guardia del confine. è qui che, durante la seconda guerra mondiale, esplose il nazionalismo più feroce e avvennero le più spaventose stragi fra etnìe. è da questo mondo primitivo che Tito trasse l' ossatura del suo esercito e della sua polizia, creando una selezione culturale negativa tale che alla fine il modello comportamentale minoritario dei dinarici divenne egemone su quello, più evoluto, dei dalmati o dei danubiani. Tanto forte era, per la società chiusa del partito il fascino della società chiusa dei pastori-guerrieri. Oggi è sempre da qui che Milosevic trae la sua manovalanza armata e il cuore della sua mitologia bellica. Lo fa con naturalezza perché egli stesso è figlio di questo mondo. Scopri che il presidente Milosevic, Karadzic e persino il comandante Arkan sono tutti serbi di origine montenegrina. Tra i croati è lo stesso: il clan che ha finanziato la guerra traendone più vantaggio è quello degli erzegovesi: dinarici anch' essi. Lo stesso Sali Berisha, capo dei clan albanesi del Nord, proviene da quel mondo e ne condivide la mentalità guerriera. Stessi soldati, stesse mitologie, stessa leadership. Possibile che la guerra che mobilita gli eserciti e le diplomazie del mondo si riduca a una faida tra montanari? Possibile che quelle montagne corrispondano all' inquieto sistema nervoso di un intero continente? Nella difficoltà della Nato di venire a capo di Milosevic non c' è forse la difficoltà di capire qualcosa di tremendamente antico? Anche le pietre, anche il vento ti dicono che questo è un altro mondo, dove né la nostra cultura né le bombe del generale Clark potranno interferire. I bombardieri passano sopra le montagne e tu ti senti schiacciato tra due irrazionalità simmetriche e incomunicabili, quella dei "top gun" alti nel cielo e quella dei pastori-guerrieri abbarbicati alle loro zolle. Scopri che i primi offrono ai secondi nient' altro che il nemico planetario che hanno sempre sognato.

(9 maggio 1999)

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Il dolore del '900
nel cuore di Sarajevo



di JOSEPH ROTH

Nel 1927 sulla Frankfurter Zeitung uscì una serie di corrispondenze di Joseph Roth dai Balcani. Pubblichiamo uno degli articoli dello scrittore austriaco, inediti in Italia.

La guerra mondiale ebbe inizio a Sarajevo, in un caldo giorno d'estate del 1914. Era domenica, io ero allora studente. Nel pomeriggio venne una ragazza, si portavano le trecce. Teneva in mano un gran cappello di paglia giallo, un segno d'estate che richiamava alla memoria fieno, grilli e papaveri. Nel cappello un telegramma, la prima edizione straordinaria che io avessi mai visto, stropicciato, terribile, un lampo sulla carta. "Sapete", disse la ragazza, "hanno sparato all'erede al trono. Mio padre è rincasato dal caffè. Noi non restiamo qui, vero?". Io non colsi la serietà del padre che era rientrato a casa dal caffè. Viaggiavamo sulla piattaforma di un tranvai.

Lì fuori, per un tratto, il tram sfiorava il gelsomino e gli alberi stavano rasenti alle rotaie. Si viaggiava, cling-clang, era una specie di gita in slitta per giornate estive. La ragazza era azzurra, morbida, vicina, con il respiro fresco, un soffio mattutino in pieno pomeriggio. Mi aveva portato la notizia, da Sarajevo: il nome stava sospeso su di lei, fatto di un fumo rosso scuro, come un incendio sulla testa di un bimbo ignaro. Un anno e mezzo più tardi - com'era durevole l'amore al tempo della pace! - stava già anche lei in quella nuvola di fumo, alla stazione merci II; incessante martellio della musica, stridio di vagoni, fischio di locomotive, piccole donne tremanti stavano appese agli uomini in verde come ghirlande appassite, le nuove uniformi odoravano d'appretto, noi eravamo una compagnia in marcia, meta del viaggio oscura, con un presentimento: Serbia. Probabilmente pensavano entrambi a quella domenica, al telegramma, a Sarajevo. Suo padre non andò più al caffè, era già sepolto in una fossa comune.

Oggi, a tredici anni di distanza dal primo sparo, io vedo Sarajevo. Innocente, ma maledetta città! Esiste ancora! Triste involucro delle più orrende catastrofi! Non si muove dal suo posto! Non vi è discesa alcuna pioggia di fuoco, le case sono intatte, le ragazze escono dalle scuole, non si portano più le trecce. Il cielo è di un azzurro satin. La stazione dov'era arrivato l'arciduca, la morte alle spalle, si trova molto al di fuori della città. A sinistra una strada larga, polverosa, parte asfaltata, parte acciottolata, conduce in città. Alberi frondosi, scuri e polverosi, avanzi di un'epoca in cui la strada era ancora un viale, stanno sparsi irregolarmente sul suo ciglio. Stiamo seduti in uno spazioso autobus dell'hotel.

Percorriamo le strade lungo il fiume - lì, all'angolo, ebbe inizio la guerra mondiale. Nulla è cambiato. Cerco tracce di sangue. Sono state lavate via. Tredici anni, innumerevoli piogge, milioni di uomini hanno cancellato il sangue. La gioventù esce dalle scuole: vi si studia, lì la guerra mondiale? La via principale è molto silenziosa. Ad un capo vi si trova un piccolo cimitero turco, fiori di pietra in un piccolo giardino di morti. All'altro capo inizia il bazar orientale. A circa metà si trovano, non perfettamente vis-a-vis, due grandi hotel con caffè all'aperto.

Il vento solleva ora i vecchi giornali come l'anno scorso sollevava il fogliame. Camerieri stanno in attesa alle porte, simboli, più che impiegati, dell'attività alberghiera. Vecchi fattorini se ne stanno appoggiati ai muri, riportano alla pace, al periodo anteriore alla guerra. Uno di loro ha una folta barba: un fantasma della monarchia austro- ungarica. Uomini vecchissimi, probabilmente notai a riposo, parlano il tedesco erariale della vecchia Austria. Un libraio vende carta e libri e riviste letterarie - ma più a scopo rappresentativo. Acquisto da lui un Maupassant (sebbene abbia in magazzino già un Dekobra) per una notte in treno senza vagone letto. Una parola tira l'altra. Vengo a sapere che l'interesse letterario a Sarajevo, è diminuito. Soltanto un insegnante è abbonato a due settimanali letterari. (Che conforto, sapere che esistono insegnanti simili!).

Di sera ha luogo il passeggio di belle donne, austere. È il passeggio di una piccola città. Le belle donne vanno a due e a tre, come collegiali. I signori si levano con deferenza e di continuo i cappelli, le persone si conoscono così bene fra di loro che io mi sento tre volte più estraneo. Sto per vedere un film, un film storico di costume, dove gli uomini non si conoscono affatto fra loro, le scene in cui si salutano sono tagliate, si è estranei fra estranei, la sala è buia, ho paura delle terribili pause piene di luce. Anche la lettura dei giornali è salutare, si viene a sapere qualcosa di quel mondo che si è appena lasciato per vedere il mondo.

Alle dieci tutto è silenzioso, un locale notturno luccica in lontananza; da una strada buia una festa di famiglia attira l'attenzione. Di là dal fiume, nella città turca, le case s'innalzano in terrazze, le loro luci si confondono nella nebbia, ricordano ceri lontani sulle larghe scale di un alto e ampio altare.

C'è un teatro, si rappresenta un'opera, c'è un museo, ci sono ospedali, un'autorità comunale, poliziotti, tutto ciò di cui una città può aver bisogno. Una città! Come se Sarajevo fosse una città come un'altra! Come se a Sarajevo non avesse avuto inizio la più grande di tutte le guerre! Tutte le tombe di eroi, tutte le fosse comuni, tutti i campi di battaglia, tutti i gas tossici, tutti gli storpi, tutte le vedove di guerra, tutti i militi ignoti: qui hanno avuto inizio. Non auguro a questa città la rovina, e come potrei! Vi vivono buone, care persone, belle donne, bambini meravigliosamente innocenti, animali felici di vivere, farfalle sulle lapidi del cimitero turco. Ciò nondimeno, è qui che ha avuto inizio la guerra, il mondo è distrutto e Sarajevo sta ancora in piedi. Non dovrebbe essere una città, dovrebbe essere un monumento a terribile monito per tutti.
(Traduzione di Maria Arezzo di Trifiletti)
Copyright 1990 by Verlag Kiepenheuer & Witsch Koln und Allert de Lange, Amsterdam.

(9 maggio 1999)

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I guardiani dell'ordine
tra diritto e morale



di JURGEN HABERMAS

La guerra nel Kosovo tocca una questione fondamentale, discussa anche in politologia e in filosofia. Uno dei grandi meriti civilizzatori dello stato costituzionale democratico è stata la limitazione giuridica del potere politico sulla base della sovranità di soggetti riconosciuti dal diritto internazionale, mentre lo stato di cittadinanza universale mette in discussione proprio questa indipendenza dello stato nazionale.

Non è che l' universalismo illuminista sbatta in questo caso contro l' egoismo di un potere politico, nel quale è inscritto indelebilmente l' impulso all' autoaffermazione collettiva di una particolare essenza comune? Questa è la spina realista nella carne della politica dei diritti umani. ANCHE la scuola di pensiero realista prende naturalmente atto del cambiamento strutturale intervenuto su quel sistema di stati indipendenti nato con la pace di Vestfalia del 1648 - l' interdipendenza di una società mondiale sempre più complessa; l' ordine di grandezza dei problemi che ormai solo la cooperazione tra stati è in grado di risolvere; l' autorità crescente e l' aumentare di istituzioni, regimi e procedure sovranazionali, non solamente sul piano della sicurezza collettiva; il corso economicista della politica estera, lo stemperarsi dei confini classici tra politica estera e interna.

Nonostante questi sviluppi, un' immagine dell' uomo pessimista e un concetto stranamente opaco del politico fanno da sfondo ad una dottrina che vorrebbe restare più o meno integralmente fedele al principio del non-intervento. Nell' arena internazionale gli stati nazionali indipendenti devono potersi muovere seguendo il più liberamente possibile il proprio interesse, perché dal punto di vista di chi vi appartiene la sicurezza e la sopravvivenza di un collettivo sono valori non negoziabili e perché dal punto di vista di un osservatore esterno gli imperativi di autoaffermazione razionale regolano ancora al meglio i rapporti tra i singoli attori collettivi. In questa prospettiva la politica dei diritti umani interventista fa un errore categoriale. Sottovaluta infatti, e discrimina, la tendenza in un certo senso "naturale" all' autoaffermazione. Vuole imporre dei criteri normativi a un potenziale di violenza che si sottrae alla normazione. Carl Schmitt avrebbe portato alle estreme conseguenze questa argomentazione con la sua stilizzazione di una "determinazione di entità". Tentando di "moralizzare" la ragione di stato in sé neutrale, pensava Schmitt, la politica dei diritti umani snatura la lotta naturale tra le nazioni in una lotta disperata contro il male. Contro questa impostazione si possono sollevare valide obiezioni. Nella costellazione post-nazionale non accade che stati nazionali pieni di forza e salute vengano frenati dalle regole della comunità internazionale. Succede piuttosto che l' erosione dell' autorità statale, le guerre civili e i conflitti etnici all' interno di stati in disfacimento o tenuti in piedi in modo autoritario, richiamino al dovere di intervenire - non solo in Somalia e in Ruanda, ma anche in Bosnia e ora in Kosovo. Anche le riserve di critica dell' ideologia hanno poca sostanza. Il caso in questione mostra quanto poco le motivazioni universaliste celino inconfessabili interessi particolari. Dall' attacco alla Jugoslavia un' ermeneutica del sospetto può cavare piuttosto poco. Certo, una prova di forza in politica estera può offrire una chance a politici, cui l' economia globale lascia poco spazio di manovra sul piano interno. Ma né quanto si imputa agli Usa (di volere garantire e allargare la propria sfera di influenza) né la motivazione ascritta alla Nato (la ricerca di un ruolo nuovo), né quanto si rimprovera alla "fortezza europea" (la difesa preventiva da ondate di profughi) può spiegare la decisione per un intervento così grave, rischioso e costoso.

Contro il "realismo" parla soprattutto il fatto che la scia di sangue che i soggetti del diritto internazionale hanno lasciato lungo la storia catastrofica del XX secolo, ha portato ad absurdum la presunzione di innocenza del diritto internazionale classico. La nascita dell' Onu e la dichiarazione dei diritti umani, la condanna della guerra d' aggressione e dei crimini contro l' umanità (con la conseguente parziale limitazione del principio di non-intervento) sono state tutte risposte giuste e necessarie alle esperienze moralmente significative del secolo, allo scatenamento totale della politica e all' Olocausto. Infine, l' accusa di voler moralizzare la politica rimane concettualmente incerta. Perché la stabilizzazione di uno stato di cittadinanza universale comporterebbe che le violazioni contro i diritti umani non verrebbero giudicate e condannate da un punto di vista morale, ma verrebbero perseguite come le azioni criminose commesse all' interno di un qualsiasi ordine costituito.

Non è possibile una giuridificazione complessiva dei rapporti internazionali senza procedure consolidate di soluzione dei conflitti. Ma proprio la istituzionalizzazione di queste procedure preserverebbe il trattamento legale delle violazioni dei diritti umani da un' indistinzione giuridica e impedirebbe il brutale e immediato affermarsi di discriminazioni morali di "nemici". Un tale scenario si potrebbe affermare anche a prescindere dal monopolio della violenza di uno stato e di un governo mondiali. Ma come minimo è necessario un Consiglio di sicurezza funzionante, la giurisprudenza vincolante di una corte di giustizia internazionale e l' integrazione della Assemblea generale dei rappresentanti dei governi con un "secondo livello" di rappresentanza dei cittadini. Dal momento che non sembra ancora in vista questa riforma delle Nazioni Unite, il richiamo alla differenza tra giuridificazione e moralizzazione rimane una obiezione giusta ma a doppio taglio. Perché fino a quando i diritti umani saranno poco istituzionalizzati a livello globale, il confine tra diritto e morale potrà confondersi come appunto nel caso in questione. A Consiglio di sicurezza bloccato la Nato può infatti richiamarsi solamente alla validità morale del diritto internazionale - a norme quindi per le quali non sussistono istanze effettive di applicazione e affermazione nell' ambito della comunità internazionale. La "sottoistituzionalizzazione" del diritto di cittadinanza universale si esprime ad esempio nella forbice tra legittimità e efficacia degli interventi per assicurare e promuovere la pace. L' Onu aveva ad esempio dichiarato Srebrenica una enclave protetta, ma le truppe stazionate là legittimamente non poterono impedire il terribile massacro che seguì l' entrata in città delle truppe serbe. D' altra parte la Nato può contrastare con successo il governo jugoslavo proprio perché si è attivata senza la legittimazione che il Consiglio di sicurezza le avrebbe negato. La politica dei diritti umani punta a chiudere la forbice tra queste due situazioni esemplari. Di fronte alla "sottoistituzionalizzazione" del diritto universale è quindi per certi versi costretta ad anticipare la futura condizione cosmopolita che cerca al tempo stesso di promuovere. A queste condizioni paradossali come è possibile praticare una politica che, se necessario anche con la forza delle armi, imponga il rispetto dei diritti umani? La questione si pone anche se non si può intervenire dappertutto - non a favore dei curdi, non dei ceceni o dei tibetani, ma almeno sulla porta di casa nei Balcani lacerati dalla guerra.

Tra europei e americani si nota in proposito una differenza interessante nel modo di intendere la politica dei diritti umani. Gli Stati Uniti promuovono l' affermazione globale dei diritti umani come la missione nazionale di una potenza mondiale che persegue questo obiettivo secondo i presupposti della politica di potenza. Per politica dei diritti umani la maggior parte dei governi della Ue intendono invece un progetto di complessiva giuridificazione dei rapporti internazionali, un progetto che già oggi cambia i parametri della politica di potenza. Gli Stati Uniti si sono assunti i compiti d' ordine di una superpotenza in un mondo solo debolmente regolamentato dall' Onu. In questo senso i diritti umani fungono da punto di riferimento etico per la valutazione di obiettivi politici. Anche in America ci sono ovviamente sempre state controcorrenti isolazioniste e come ogni altra nazione anche gli Usa perseguono in primo luogo i loro interessi, che non sempre sono in sintonia con gli obiettivi normativi dichiarati. Questo lo dimostrò la guerra del Vietnam, e lo dimostra ancora il rapporto che hanno con i problemi del proprio "cortile di casa". Ma la "nuova miscela di generosità umanitaria e logica imperiale di potenza" (Ulrich Beck) negli Stati Uniti ha una sua tradizione. Tra i motivi per cui Wilson entrò nella prima e Roosevelt nella seconda guerra mondiale, ci fu appunto anche l' orientamento a ideali molto ben radicati nella tradizione pragmatica americana. A questi proprio noi, la nazione sconfitta nel 1945, dobbiamo il fatto che la sconfitta fu contemporaneamente liberazione. Da questo punto di vista molto americano, e quindi molto nazionale, di una politica di potenza orientata in senso normativo, deve quindi apparire plausibile continuare oggi con forza e senza compromessi la guerra contro la Jugoslavia, nonostante ogni complicazione e se necessario anche con l' utilizzo di truppe di terra. è una condotta che ha se non altro il vantaggio della coerenza. Ma cosa diremmo se un giorno l' alleanza militare di un' altra regione - diciamo l' Asia - praticasse una politica armata dei diritti umani basata su un' altra interpretazione, la loro appunto, del diritto internazionale o della Carta dell' Onu? Diverso sarebbe il caso se i diritti umani non venissero tirati in ballo solo quale punto di riferimento etico del proprio agire politico, ma quali diritti da affermare nel senso giuridico del termine. I diritti umani infatti, nonostante il loro contenuto puramente etico, mostrano i segni strutturali di diritti soggettivi atti a ricevere soddisfazione positiva in un sistema legale vincolante. Solo se i diritti umani troveranno la loro "sede" in un ordine giuridico democratico su scala mondiale, come i nostri diritti fondamentali la trovano nelle nostre costituzioni nazionali, potremmo ritenere che anche a livello globale i destinatari di questi diritti ne sono al tempo stesso gli autori. Le norme morali che fanno appello alle nostre migliori convinzioni non possono essere imposte come norme di diritto consolidato. Una cosa è se gli Usa sulla scia di una tradizione politica comunque degna di nota, rivestono il ruolo del garante egemonico dell' ordine strumentalizzando i diritti umani. Altra cosa è se noi guardiamo oltre il fossato dell' attuale conflitto armato e consideriamo il passaggio precario dalla politica di potenza classica a uno stato di cittadinanza universale come un processo di apprendimento che tutti dobbiamo portare a compimento. La prospettiva più lungimirante invita anche ad una maggior cautela. L' autoinvestitura della Nato non può diventare la regola. (Traduzione di Raffaele Oriani) La versione integrale dell' articolo di Jurgen Habermas viene pubblicata oggi da "
Caffè Europa <http://www.caffeeuropa.it>, la rivista on-line di cultura.

(8 maggio 1999)

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Dal Kosovo al Colorado


di SALMAN RUSHDIE

Nell'accesa battaglia per il titolo di Scemo Internazionale dell'Anno sono in lizza due pesi massimi. Il primo è lo scrittore austriaco Peter Handke, che ha stupito persino i più ferventi ammiratori delle sue opere con una serie di appassionate apologie del regime genocida di Slobodan Milosevic. Per i suoi servigi propagandistici, è stato insignito dell'Ordine dei Cavalieri serbi durante una sua recente visita a Belgrado. Tra altre sue precedenti idiozie, Peter Handke aveva sostenuto che i musulmani di Sarajevo si massacrassero regolarmente da sé per poter accusare i serbi, e aveva negato persino il genocidio perpetrato da questi ultimi a Srebrenica. Ora ha paragonato i bombardamenti aerei della Nato all'invasione degli alieni nel film "Mars Attacks!"; e per di più ha comparato, con una futile commistione di metafore, le sofferenze dei serbi a quelle dell'Olocausto.

Al momento, il suo rivale in scemenze di classe mondiale è l'attore cinematografico Charlton Heston. Il suo commento, in qualità di presidente della Us National Rifle Association, al recente massacro degli innocenti ad opera dei giovani Dylan Klebold e Eric Harris alla Columbine High School di Littleton, Colorado, è un vero capolavoro di balordaggine: è convinto dell'opportunità di armare gli insegnanti americani, poiché ritiene che le scuole sarebbero più sicure se il personale didattico avesse la facoltà di abbattere a revolverate i fanciulli affidati alle sue cure.

Non intendo tracciare facili paralleli tra i bombardamenti aerei della Nato e il massacro del Colorado. No, la violenza maggiore non genera quella minore. E non è neppure il caso di voler vedere troppi significati nell'assonanza tra le tendenze hitleriane di Milosevic e la funesta celebrazione del compleanno di Hitler da parte della cosiddetta "mafia degli impermeabili"; o nella correlazione, anche più raccapricciante, tra la mentalità da videogiochi dei killer del Colorado e i video aerei ripresi dal vivo ed esibiti ogni giorno dai pubblicitari della Nato.

Bisogna ammettere che rispetto alla guerra si è portati a provare sentimenti ambigui a fronte della confusa azione della Nato, del suo modo di cambiare politica in piena corsa. Ci hanno appena detto che non era possibile prevedere la selvaggia ritorsione di Milosevic contro il Kosovo; e un attimo dopo sostengono che era tutto preventivato. Oppure: non si prevede di dispiegare truppe di terra; anzi, ripensandoci meglio, può darsi di sì. E gli obiettivi della guerra? Strettamente limitati. Vogliamo soltanto creare un porto sicuro nel quale i profughi kosovari possano ritornare. Anzi no, marceremo fino a Belgrado e faremo fuori Milosevic. Non ripeteremo l'errore commesso con Saddam! Tuttavia, una cosa è obiettare contro questi tentennamenti e contraddizioni, e altra è fiancheggiare l'orrore, come fa Peter Handke, con un misto di follia e di cinismo.

L'intervento della Nato è moralmente giustificato dalle sofferenze che vediamo ogni sera sui nostri schermi televisivi; e imputare al suo intervento la tragedia dei profughi equivale ad assolvere le milizie serbe dei loro crimini. Va detto e ripetuto che la colpa del terrore e delle vittime è di chi commette gli assassinii e gli atti di terrorismo. Quanto alla strage in Colorado, bisogna ammettere che le armi non sono la sola causa di questo orrore.

I killer hanno imparato su Internet a fabbricare bombe, e per i loro impermeabili hanno tratto ispirazione da un film con Leonardo Di Caprio. Da chi hanno imparato a dare così poco valore alla vita umana? Dai loro genitori? Da Marilyn Manson? Dai Goths? Ma dire questo non significa certo adottare la posizione impenitente di Charlton Heston, il quale sostiene che "il vero problema sono i ragazzi, non le armi". Il signor Heston ha una certa pratica nell'enunciare con toni biblici comandamenti del tipo: difendi il tuo diritto di girare armato alla faccia di tutti. Non sarai certo rimproverato solo perché qualche ragazzetto ci avrà rimesso le penne.

Il Kosovo e il Colorado hanno in realtà qualcosa in comune: stanno a dimostrare come nel nostro mondo instabile, versioni incompatibili della realtà si scontrano tra loro, con risultati sanguinosi. Questo però non vieta di formulare un giudizio morale sulle versioni contrastanti del mondo in guerra tra loro. Quelle di Handke e di Heston non possono che essere giudicate riprovevoli e indifendibili, e meritano di essere distrutte.

Anche se è stato coautore del grande film "Il cielo sopra Berlino", Peter Handke, definito un "mostro" da uomini come Alain Finkielkraut e Hans Magnus Enzensberger, dal filosofo sloveno Slavoj Zizek e dal romanziere serbo Bora Cosic, merita di essere "finished" (liquidato), secondo la concisa espressione di Susan Sontag. E benché Charlton Heston abbia regalato a milioni di spettatori qualche tranquillo sonnellino nella penombra dei cinema, con quel suo volto così sottilmente mobile da far pensare al Monte Rushmore, merita anche lui di essere radiato.

Chi vincerà il premio? Con la sua follia, Peter Handke si è reso complice di un orrore su vasta scala, ma fortunatamente in pratica non dispone di alcun potere. Dal canto suo, Charlton Heston, che guida negli Stati Uniti la lobby della diffusione delle armi, sta facendo del suo meglio per farle entrare come parte integrante di ogni casa e famiglia americana. Così, uno di questi giorni, in qualche parte dell'America, un altro giovanotto impugnerà un fucile per sparare addosso ai suoi amici. Data la maggiore efficacia della sua follia, consegno la palma a Charlton Heston. Ma non siamo ancora alla fine del primo semestre dell'anno, e non è escluso che qualche imbecille ancora più grosso si faccia avanti per contendergli il titolo. Teniamo gli occhi bene aperti.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

(8 maggio 1999)

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Quando la fede è in armi


di GAD LERNER

Sua Beatitudine il Patriarca Teoctist, capo del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa di Romania, sorride dall' alto dei suoi 84 anni: "Sembra un refuso della Storia, ma domani mattina uno slavo Papa cattolico verrà accolto nei Balcani da un latino Patriarca ortodosso". Questo vecchio spirituale dall' abito candido come la sua lunga barba, porta alla bocca con il cucchiaino del caffè la confettura d' uva offerta come rinfresco agli ospiti della sua residenza di Bucarest, già affollata dai vescovi convocati per ricevere Giovanni Paolo II, primo Pontefice di Roma a visitare una nazione ortodossa dallo Scisma del 1054. è tutto un rincorrersi di giovani pope neri coi capelli raccolti a coda di cavallo, dietro ai loro principi col calemaffio cilindrico in testa e, ballonzolante sul petto, attaccato a una catena d' oro, l' eukolpion, il medaglione con l' effigie della Vergine. è IL Danubio a segnare per qualche centinaio di chilometri il confine tra la terra latina di Romania e la sorella slava Serbia insanguinata dalla guerra, per la quale continuano a pregare i fedeli, incuranti dell' apertura filo-occidentale del governo. Quanto sia vera "la fusione del religioso e dell' etnico" nell' ortodossia descritta da Olivier Clément, lo testimoniano gli affreschi posti all' ingresso del Palazzo patriarcale che non a caso incorpora l' antico Parlamento rumeno: uno rievoca il martirio dei cristiani soggiogati dai giannizzeri turchi; l' altro, subito di fronte, l' invasione dei cattolici austro-ungarici sulle cui spade omicide penetrava in terra ortodossa la Chiesa romana. Teoctist, il Patriarca buono sopravvissuto ai molti compromessi con la dittatura comunista di Ceausescu, oggi oltrepassa nel dialogo con l' altra cristianità l' incubo di quegli affreschi, proponendo in forme rinnovate la sintonia tra Chiesa e Nazione su cui si fonda l' Ortodossia. Ma non sono certo tutte così aperte come la sua, le Chiese d' Oriente. Ci sono altri affreschi sacri, come quelli dei monasteri del Kosovo, che recano impressa per l' eternità una ferita non rimarginata: con la punta delle lance gli invasori ottomani deturparono le immagini dei santi, cancellandone gli occhi. E sappiamo bene come nei Balcani la pratica iconoclasta di cavare gli occhi ai nemici sia stata prolungata fino a oggi dalle figure disegnate ai corpi umani viventi. Come i turchi prima di loro, hanno cavato occhi serbi gli ustascia cattolici in Croazia nel ' 41; e poi i cetnici ortodossi hanno rinnovato l' osceno gesto sulla gente musulmana di Bosnia nei nostri Anni Novanta. Come vive la guerra balcanica l' insieme delle Chiese ortodosse, l' Oriente troppo a lungo ignorato d' Europa? Giustamente i teologi dell' ecumenismo ci mettono in guardia dalle indebite generalizzazioni: sia il Patriarca di Belgrado, Pavle, sia il Patriarca di Mosca, Alexej II, hanno pregato per tutti i morti, a prescindere dal loro credo, benché sia mancata una condanna pubblica della pulizia etnica. Su "Avvenire", Enzo Bianchi cita i monaci kosovari di Decani: "Serbi e albanesi devono capire che nell' Europa del XXI secolo non c' è posto per territori etnicamente puliti, né per il terrore e altri crimini". Nessuna fede chiama di per sé la guerra. Ma resta doveroso chiedersi se la parola d' ordine ultranazionalista del vicepremier di Belgrado Seselj - "dove sono le chiese e le tombe serbe, quella è Serbia" - trovi riscontro all' interno della gerarchia religiosa. Devo alla preziosa collaborazione di un giovane ex deputato socialdemocratico di Belgrado, Slavko Sekulovic, rifugiatosi in Italia, la risposta a questo interrogativo attraverso una serie di documenti: c' è una linea oscura tesa a legittimare in chiave religiosa la guerra dei serbi, all' interno della gerarchia ecclesiastica. In altri tempi il supremo Patriarcato di Costantinopoli l' avrebbe bollata come "filetismo", il termine che tra gli ortodossi designa la tendenza sciovinista consistente nell' assumere l' appartenenza razziale quale criterio della comunione ecclesiale. In altre parole, se nell' Ortodossia tendono a coincidere Chiesa e Nazione, e il dato etnico prevale sul dato territoriale, davvero nei Balcani la mescolanza delle popolazioni spinge i fanatici a definire come proprio ogni territorio storicamente abitato dalle loro genti nel corso dei secoli. Tra questi fanatici ci sono anche dei vescovi. Roberto Morozzo della Rocca, nel suo libro "Le chiese ortodosse" (edizioni Studium), ricorda come l' idea serba di una coincidenza assoluta tra difesa dell' identità cristiana e difesa dell' identità etnica, abbia trovato una rinnovata consacrazione nelle dolorose vicende del Novecento. Nella prima guerra mondiale muore quasi un quarto della popolazione serba e la formazione del Regno di Jugoslavia viene spiegata come ricompensa divina dopo tante sofferenze. Il genocidio serbo del ' 41-' 45 nella Croazia di Ante Pavelic, ma anche la pulizia etnica posta in atto dagli albanesi reclutati dalle Ss in Kosovo, confermeranno la necessità di salvare il popolo serbo quale "popolo celeste". E ancora negli Anni Novanta il vescovo Danilo Slavko Krstic additerà i croati e i musulmani di Bosnia come "la stessa Alleanza Musulmano Cattolica del tempo dell' occupazione di Hitler". Ciò premesso, l' appoggio del clero alle guerre di Milosevic è totale nel ' 91, mentre l' accordo di Dayton nel ' 96 suscita la reazione infuriata del vescovo Jevtic, metropolita dell' Erzegovina: "Meglio la guerra di una pace che ci separa da Dio... alla gente valorosa che ha combattuto per la giustizia di Dio e la dignità dell' uomo - "per la Croce venerata e la Libertà dorata", come diciamo noi serbi - dirò che questa è stata una guerra eroica, finita solo per il tradimento del presidente Milosevic". Jevtic denuncia: "Spezzettano i serbi come stanno spezzettando la distrutta, crocefissa Russia". E punta il dito contro i nemici: "Provo sdegno di fronte ai cosiddetti cristiani occidentali, ai disumani statisti occidentali, a istituzioni come le Nazioni Unite, l' Unione Europea, agli ipocriti del Consiglio mondiale ecumenico delle Chiese e agli ipocriti del Vaticano". Aggiunge padre Dobrijevic: "Il nome e l' identità dei Serbi Ortodossi sono stati sviliti dal Nuovo Ordine Mondiale". Ci è ormai ben nota la rivendicazione della battaglia di Kosovo Polje nel 1389 come "il Golgota del popolo serbo... perdita del regno terrestre, transeunte e conquista dell' eterno regno celeste" (parole del vescovo Amfilochije Radovic, metropolita del Montenegro). Meno noto è il suo prolungamento simbolico in una storia vissuta come martirio: "Nella prima guerra mondiale di nuovo la Serbia fu penalizzata ma lei un' altra volta rifiutò di subire il ricatto austro- ungarico, scelse il Regno dei Cieli, e accettò il conflitto come Davide contro Golia. Soltanto due decenni dopo vennero i tragici eventi della seconda guerra mondiale e nell' alba del loro più grande martirio i serbi di nuovo mostrarono quanto fosse viva in loro la scelta del Kosovo per i Cieli invece della Terra". Parole del vescovo Velimirovic. NE deriva il ritorno all' elogio cristiano della guerra santa. Come in queste parole del vescovo Radovic, scritte nel 1996: "Una lotta continua percorre tutta la storia dell' umanità... in tutte le epoche il conflitto appartiene più o meno a ogni essere umano. Come spiegare un tale fatto storico? Non è facile dare una risposta. Una cosa è certa: nella stessa natura umana esiste l' imperfezione. Ciò provoca la necessità di atti eroici e del conflitto, con l' obbiettivo che l' uomo superi in sé e intorno a sé quell' imperfezione...". Vescovi come Jevtic e Radovic hanno rappresentato a lungo la corrente maggioritaria dentro la Chiesa ortodossa serba e vanno annoverati tra i rifondatori del nuovo nazionalismo etnico. Certo, si potrà osservare che se il limitrofo nazionalismo croato, d' impronta cattolica, non si esprime negli stessi termini, ciò dipende solo dal fatto che risulta ormai sazio. Ma le nuove divisioni tra Oriente e Occidente con cui oggi a Bucarest fanno i conti papa Wojtyla e il patriarca Teoctist, si alimentano di voci come queste. Nel congedarsi mi dona un volume che domani metterà tra le mani del Pontefice: è il libro nero di tutti i cristiani rumeni imprigionati o uccisi per la loro fede dai comunisti, senza più distinzione tra ortodossi e cattolici. Forse in quel libro c' è l' utopia dei Balcani.

(7 maggio 1999)