L'Europa e il padrone
americano



di HELMUT SCHMIDT

Chi ripercorre con la memoria i primi cinquant' anni della Nato, deve ammettere che senza l' impegno americano per la ricostruzione e la libertà dell' Europa, senza il Patto Atlantico e il piano Marshall, Stalin e Krusciov avrebbero potuto sottomettere anche la metà occidentale dell' Europa. George Marshall, Dean Acheson, George Kennan, soprattutto il Presidente Truman e l' intera nazione americana, hanno meritato la gratitudine degli europei. Tuttavia, per chi cerca di considerare i successivi cinquant' anni dell' alleanza atlantica, non è facile far tacere i dubbi sui personaggi di Washington che oggi sono a capo della politica estera.

Nel 1949, quando la Nato è stata fondata - perché l' Europa occidentale, e in seguito gli stessi Usa, erano minacciati da una potente forza militare avversaria - la popolazione del globo era meno di tre miliardi. Oggi è di sei miliardi e nel 2050 sarà di oltre nove miliardi. Il vertiginoso aumento della popolazione determinerà in molte parti della terra gravi problemi di alimentazione e di occupazione e guerre locali. Davanti a questi problemi mondiali, la costituzione della Nato, sotto l' egida di Washington, costituisce un aiuto relativo per la formazione di una forza d' intervento militare su scala mondiale, che non potrebbe far fronte alle future crisi né in Asia, né in Africa o in America Latina. Anche nel Kosovo e nella penisola balcanica essa può, in linee generali, reprimere con la forza i conflitti, ma non risolverli in modo duraturo.

L' alleanza militare occidentale può essere paragonata a un' assicurazione sulla vita a condizione di reciprocità, che nessuno dei partner desidera mettere in gioco. Tuttavia, essa non è lo strumento per risolvere tutti i problemi al di fuori dei territori degli stati membri. L' occidente, nel complesso, è privo di una strategia globale. Alla classe politica americana risulta particolarmente arduo immaginarsi la struttura del potere del prossimo secolo. Naturalmente, l' America resta una potenza mondiale, anche se per molti anni ha dovuto avvalersi di gigantesche importazioni di capitale netto dal resto del mondo. Ma anche la Russia rimane una potenza, per il suo stesso enorme territorio, le ricchezze del suo sottosuolo e il suo armamento militare, anche se la debolezza odierna durerà ancora per più di una generazione. La Cina si avvia a diventare rapidamente una grande potenza. Si può immaginare che seguirà poi l' India, mentre il Giappone resta, quanto meno, una grande potenza finanziaria, nonostante la sua attuale crisi. E l' Unione Europea, nel corso dei prossimi decenni, può diventare una potenza mondiale. La "nuova Nato", che gli americani vogliono tenere a battesimo, deve fare in modo - così almeno spera qualcuno, dal ministro degli esteri Albright all' ex consigliere per la sicurezza Brzezinski - che gli europei, anche nel nuovo secolo, si facciano guidare da Washington. Questa aspettativa ha soltanto una probabilità limitata. Poiché l' arroganza, generalmente motivata dalla politica interna, con la quale Washington impone i suoi attuali interessi e la sua preponderanza, dà sempre più sui nervi a molti europei. D' altro canto, però, gli americani non possono offrire una strategia globale a lungo termine. Essi non hanno una linea politica chiara sia nei confronti della Russia, sia della Cina, per non parlare dell' India e dell' Islam. Non hanno neppure alcuna strategia per l' economia mondiale e per l' ecologia del globo. Per loro è chiara soltanto l' idea del loro ruolo futuro di potenza mondiale militare e politica. L' ampliamento della Nato, con l' annessione della Polonia nonché dell' Ungheria e della Repubblica Ceca, e l' impegno nei Balcani, sono le conseguenze di quest' idea.

I leader politici e militari russi non hanno potuto impedire l' ampliamento della Nato; dovranno accettare il fatto, ma lo sentiranno come una spina nel fianco. L' occidente non ha fatto niente che fosse sufficiente a lenire i dolori provocati da questa spina. I motivi di ampliamento di Washington erano dettati non soltanto dalla politica di potere, ma anche dalla politica interna: si trattava di voti di americani di origine polacca, ceca e ungherese e anche di commesse per l' industria della difesa americana e dei suoi posti di lavoro. A Washington sono stati calcolati per i prossimi quindici anni enormi investimenti militari dei tre nuovi stati membri della Nato: da 60 a oltre 100 miliardi di dollari Usa. Come se per Varsavia, Praga o Budapest, non fossero molto più importanti investimenti civili e come se niente fosse più superfluo di una corsa agli armamenti. In realtà c' era soprattutto il desiderio impellente della grande maggioranza di quei popoli all' ammissione. Molti russi vivono come un' umiliazione lo spostamento a oriente del confine del territorio Nato. Perciò, uno dei più importanti compiti futuri sarà quello di creare un buon rapporto di vicinato con la Russia. Le alleanze formali sancite dall' Osce, dal trattato Nato-Russia e dalla Conferenza per la sicurezza in Europa, non saranno assolutamente sufficienti a tale scopo. Un serio attacco militare ai territori degli Stati alleati della Nato - o addirittura una terza guerra mondiale - appare oggi improbabile. Invece, ci si può aspettare il dilagare - in prevalenza al di fuori dell' Europa - di guerre regionali o anche intestine. Spetta in primo luogo alle Nazioni Unite e al Consiglio di Sicurezza stabilire fino a che punto queste guerre siano dominabili dall' esterno; quasi tutti gli Stati del mondo hanno sottoscritto la Carta delle Nazioni Unite. Ma esistono sufficienti esempi di interventi fallimentari delle missioni Onu, che dovrebbero stabilire e garantire la pace. Per questi casi la Carta delle Nazioni Unite prevede il diritto all' autodifesa. Essa non legittima alcun intervento da parte di terzi, tranne che su decisione e incarico del Consiglio di Sicurezza dell' Onu. Significativo l' esempio della Jugoslavia, Stato artificiale, fondato nel 1919, ripristinato nel 1945 e poi disciolto. Le potenze mondiale sono intervenute in quella regione con missioni politiche e militari per mettere fine agli assassinii e alle espulsioni - e con il consenso innanzi tutto dell' Onu. Le bombe che hanno colpito successivamente Belgrado e l' esercito serbo hanno un fondamento molto fragile per quanto riguarda il diritto internazionale. Non hanno l' approvazione del Consiglio di Sicurezza.

Nessuno Stato membro dell' alleanza Nato è impegnato a partecipare attivamente nei Balcani. L' impegno di assistenza dei partner, contemplato nell' articolo 5 del Patto Atlantico, si riferisce soltanto agli attacchi contro i territori espressamente indicati nell' articolo 6 dei partner dell' alleanza. Né i croati, né i bosniaci o il Kosovo ne fanno parte. Chi conosce la storia dei Balcani dal declino dell' Impero ottomano e dalla fine della doppia monarchia austro-ungarica, resterà profondamente scettico nei confronti di ogni intervento militare nei Balcani, inteso a ristabilire la pace. Nel migliore dei casi - dopo la morte di molti soldati e civili - si arriverà alla formazione di un protettorato occidentale, sostenuto militarmente. Non si può essere certi che l' opinione pubblica degli Stati coinvolti, in considerazione delle perdite dei propri uomini, non porterà alla sospensione anticipata dell' intervento militare. Il governo americano scorge negli avvenimenti attuali, sul terreno della ex-Jugoslavia, la possibilità di creare un precedente per futuri casi in altre parti del mondo. Il Consiglio della Nato ha deliberato nel 1996 l' istituzione delle Combined Joint Task Forces (Cjtf), con il compito non dichiarato di effettuare operazioni out of area. Il gran numero e la mancanza di chiarezza di tutte le decisioni prese dal Consiglio Nato preoccupano. Tuttavia, un democratico deve auspicare urgentemente un dibattito pubblico approfondito, prima che venga messo in atto un allargamento sostanziale degli obiettivi dell' alleanza. Nel caso si giunga al risultato di ampliare gli incarichi dell' alleanza e gli obblighi dei suoi partner, ogni integrazione del Patto Atlantico dovrà avvenire in conformità con i contenuti della Carta delle Nazioni Unite. L' ultima decisione spetta al Consiglio di Sicurezza, anche nei casi di diritto all' autodifesa. L' atteggiamento americano nelle Nazioni Unite non è stato sempre chiaro nei decenni passati. Quindi, il Congresso ha impedito che gli Usa pagassero regolarmente i loro contributi finanziari. Dall' eliminazione della minaccia sovietica, la classe politica americana non ha più l' omogeneità in politica estera del passato. Nel complesso, l' America dimostra, come sempre, una grande vitalità, ma al tempo stesso dà prova di minore avvedutezza e continuità nella strategia della politica estera rispetto ai decenni passati. Chi, in quanto europeo, vuole allargare gli incarichi dell' alleanza nordatlantica a livello di contenuti e di territorio, deve mirare a definizioni precise, a causa di possibili oscillazioni delle posizioni e degli obiettivi in politica estera dell' America. Allo stesso modo, un americano lungimirante, nell' interesse della sua Nazione, deve dare il massimo valore a definizioni univoche. La visione illusoria della potenza mondiale americana, che, nella sua veste di mediatrice e garante della pace planetaria, mantiene l' ordine nel mondo, non può cancellare i ricordi della Corea o del Vietnam, del "Desert Storm" e di altre "missioni di pace" basate su ingenti spiegamenti di armi. La nazione americana sarà portata anche in futuro a diffondere in tutto il mondo il proprio ordine di valori e l' American way of life, ma sarà disposta ad accettare elevate perdite di vite umane in guerre altrui soltanto in casi eccezionali e di portata drammatica: soltanto nei casi, in cui si trovi in gioco un interesse vitale della nazione. In tutti gli altri casi, gli Stati Uniti si limiteranno a impiegare la loro alta tecnologia militare e di telecomunicazioni, stando a distanza di sicurezza. Altrimenti si appoggeranno alle truppe dei loro alleati. Comunque la strada è ancora lunga. In considerazione del perdurare dei poteri interni, ancora molto sentiti nelle Nazioni dell' Ue, essa può essere difficilmente accorciata. Infine, nella storia del mondo non esiste alcun modello, alcun parallelo per unire politicamente ed economicamente, in modo spontaneo, 15 nazioni autonome con le loro lingue e le loro eredità storiche e culturali, ricche di molti secoli. L' integrazione dell' Europa richiederà anche nel XXI secolo molti piccoli e grandi passi.

Nel frattempo, l' alleanza fra Europa e Nord America resta quanto mai auspicabile. Tuttavia, l' Unione Europea non dovrebbe diventare un satellite strategico di Washington. Perciò il cinquantesimo anniversario della nostra proficua alleanza nord-atlantica non deve portare al prevalere dei sentimenti sull' analisi lucida di futuri compiti e possibilità. Per gli europei, come per i canadesi, è rassicurante essere alleati con gli Stati Uniti in un patto di difesa. Tuttavia, questo patto non può garantire la pace in tutto il globo e neppure risolvere gli enormi problemi di natura non militare, che incombono sull' umanità nel XXI secolo.

(traduzione a cura del gruppo Logos)

(24 aprile 1999)

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Il patto di Varsavia e quello umanitario

Anch'io mi sento albanese


di VACLAV HAVEL

In merito all'intervento della Nato in Kosovo, penso ci sia un elemento che nessuno può contestare: i raid, le bombe, non sono stati provocati da un interesse concreto. Hanno, cioè, un carattere esclusivamente umanitario: in gioco qui ci sono i principi, i diritti umani ai quali è stata accordata una priorità rispetto anche alla sovranità degli Stati. È questo che rende legittimo attaccare la Federazione jugoslava anche senza il mandato dell'Onu. Ma sulla base della mia esperienza personale, sono altrettanto certo che soltanto con il tempo si potrà valutare obiettivamente ciò che sta accadendo in questi giorni in Jugoslavia e le sue ripercussioni sulla Nato.

Oggi l'esigenza fondamentale è che si possa fermare il massacro, che i profughi possano liberamente tornare nelle loro case, che sia riaperto da qualcuno il ciclo delle trattative politiche per lo statuto del Kosovo. E che presto sul terreno possano essere inviati degli osservatori di pace - meglio se approvati anche dai serbi - per garantire la fine dei massacri e delle violazioni dei diritti umani.

Io stesso, se qualcuno lo proponesse, mi impegnerei di buon grado in un ruolo di negoziato, qualora dovessero riaprirsi spiragli per trattative. Ma non posso dimenticare che negli ultimi mesi dello scorso anno avevo già proposto alcune soluzioni della crisi, non accettate per diversi motivi. I conflitti vanno sempre previsti per tempo, e per tempo fermati con soluzioni appropriate. Ma nel caso della guerra in Kosovo, mi sembra di poter dire che sia stato trascurato qualcosa di assai importante: il regime di Milosevic ha già scatenato conflitti contro la Slovenia, la Croazia, la Bosnia-Erzegovina. La Nato è intervenuta tardi.

Adesso provo un certo fastidio: dopo la battaglia, sono tutti generali. Le riserve nei confronti dell'intervento, anche nel mio paese, avrebbero dovuto essere espresse ben prima. Ci sono stati lunghi mesi di trattative, a Rambouillet, e anche la Repubblica Ceca, che pure non era ancora membro della Nato, ha avuto la possibilità di esprimere le proprie posizioni. Questa è una delle differenze tra l'appartenere al Patto di Varsavia o alla Nato. Quando eravamo soltanto un paese satellite dell'Urss governato da una dittatura, avevamo la funzione di una semplice unità di guerra dell'Armata Rossa, del tipo da prima linea; eravamo in silenzio, pochi avevano il coraggio di criticare, e quei pochi diventavano dissidenti, bollati come matti dal resto della popolazione.

Ora che abbiamo raggiunto la libertà dobbiamo imparare a diventare solidali, ad assumerci liberamente e consapevolmente le nostre responsabilità nei confronti degli altri. Un qualcosa di completamente diverso dalla lealtà forzata cui eravamo costretti nel Patto di Varsavia. Per questo penso che ora tutti i membri della Nato dovrebbero essere leali: si parla di intervento di terra, ma esistono diversi tipi di interventi di terra, anche per assistenza umanitaria, accoglienza dei profughi o una partecipazione più attiva come quella che avvenne in Bosnia. Fondamentalmente, credo che in veste di membro di questa Alleanza, la Repubblica Ceca non possa esimersi dai suoi obblighi e dai suoi impegni. Non si può diventare il paese che spera che gli altri aiuteranno senza essere disponibile ad aiutare.

C'è chi ci ricorda che tra i paesi della Nato, la Repubblica Ceca ha una posizione particolare, per i buoni rapporti che nel passato ci legavano alla Jugoslavia. Ma questo conflitto maturava da dieci anni, e ogni osservatore sensibile doveva sapere che qualcosa stava per succedere, che si sarebbe giunti a questa esplosione di violenza. È inutile, adesso, ricordare che la Jugoslavia è stato nostro amico, scambiando la vecchia Jugoslavia per quella nuova.

Loro, sotto il termine Jugoslavia, intendono la costa dalmata, dove tutti i cechi andavano in vacanza: ma si tratta della Croazia, da tempo indipendente. Voglio ricordare che Dubrovnik, Spalato, posti per noi cari, sono stati bombardati dal signor Milosevic. E questo c'entra poco con quando la Jugoslavia era solidale con noi nel 1968: si trattava solo dei serbi, allora? No, c'erano anche gli albanesi del Kosovo, i croati, gli sloveni, i macedoni.

Mi hanno scritto attori di teatro che mettono in scena da dieci anni le mie opere e che mi vogliono bene: "Cosa abbiamo fatto di male per essere bombardati?", mi chiedono. A me non hanno fatto niente, naturalmente, ma il loro regime, con l'aiuto delle sue componenti militari, massacra i loro concittadini, un grande gruppo di loro concittadini. E quello che quel regime fa con quegli albanesi è come se lo facesse a me. È quel principio base per cui se si maltratta qualsiasi persona è come se lo si facesse a noi stessi. E questo è un principio di solidarietà umana che sorpassa la frontiera degli stati, delle regioni. Io non credo che con Milosevic, oggi, si possa stipulare la pace, o assicurare una convivenza civile tra tutte le etnie di quella regione.

Milosevic ha le mani troppo sporche di sangue per diventare affidabile e sbaglia chi dice che questa guerra potrebbe avere frenato la lenta avanzata della democrazia in Serbia e Montenegro. Il male deve essere affrontato. E se dicessimo: aspettiamo ancora dieci anni perché forse così la democrazia si svilupperà, sarebbe solo una scusa, un pretesto artificioso.

(23 aprile 1999)

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Prudenza nei Balcani, antico nido di guerre

Quando la storia torna
sul luogo del delitto



di EVGENIJ EVTUSHENKO

Di recente ho ricevuto una lettera da Israele con la fotografia di un bambino di sette anni al quale era stato imposto il nome di Babij Jar; certamente non in onore della mia poesia omonima, ma in ricordo del luogo di Kiev dove fu perpetrato uno dei più atroci delitti del ventesimo secolo. I genitori spiegavano nella lettera di aver dato al figlio quel nome perché ogni volta, pronunciandolo, la gente rammentasse cosa era accaduto a Babij Jar o, non conoscendo i fatti e chiedendo il significato del nome, fissasse per sempre nella propria mente quelle due parole. Oggi, chissà perché, vorrei che quel piccolo avesse il volto di un bambino albanese o serbo...

La storia, come Raskolnikov, torna molto spesso sul luogo del delitto. Oggi è tornata nei Balcani dove, all'inizio del secolo, con l'attentato all'arciduca Ferdinando, ebbe inizio la prima guerra mondiale.

Durante il periodo della guerra fredda, quando sul problema di Berlino si assisteva all'aspra contrapposizione tra Occidente e Urss, chiesi al poeta americano Robert Frost in visita a Mosca: "Ma che cosa ne farebbe lei di Berlino?". "Io semplicemente non la farei" ridacchiò maliziosamente Frost con la sua aria da farmer. Se oggi fosse ancora in vita Frost potrebbe dare la stessa risposta sui Balcani. Le persone hanno trasformato questa regione in un luogo stregato che nasconde negli anfratti tra le rocce un nido di serpenti di guerre future. Prudenza con i Balcani. Se, con eccessiva presunzione, si va a frugare in questo nido con la punta di uno stivale militare straniero, con un bastone imperioso alla maniera colonialista o con missili alati, i serpenti delle guerre, risvegliati, potrebbero strisciare lontano e qualcuno, gonfiandosi come un cobra, trasformarsi da guerra locale in conflitto mondiale, annientando col proprio veleno l'intero globo terrestre.

La posizione della Russia, contraria ai bombardamenti sulla Jugoslavia, non significa per niente "odio verso l'America", ma deriva da fattori storici e naturali. La comune religione ortodossa. L'affinità delle lingue che permettono a un serbo di capire un russo e viceversa. L'aiuto tradizionalmente prestato dai russi ai serbi nei momenti difficili della loro storia. Gli innumerevoli matrimoni misti nel secolo scorso e in questo. Il maresciallo Tito, ammiratore dell'attrice russa Tatjana Okunevskaja, interprete principale del famoso film "Notte sopra Berlino", l'aveva pregata di trasferirsi in Jugoslavia.

Dopo la rivoluzione del 1917 Belgrado fu uno dei maggiori centri culturali dell'emigrazione russa. Durante l'infanzia tutta la mia generazione si è appassionata alla lettura dei "Racconti del Montenegro" divenuti un classico della letteratura russa tradotta. Le imprese dei partigiani jugoslavi in lotta contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale sono state di esempio ai nostri soldati ed hanno ispirato poeti russi famosi. Si potrebbe raccogliere un'intera antologia di poesie russe sulla Jugoslavia.

Quando nei rapporti distaccati e freddi di un impeccabile portavoce della Nato ho sentito che la città di Kraguevac costituiva uno dei bersagli da colpire ho avuto un sussulto poiché questo nome era il simbolo dell'eroica resistenza del popolo jugoslavo agli occupanti hitleriani. Una altrettanto eroica resistenza fu opposta dagli jugoslavi al regime staliniano. Ma questa non si è mai trasformata in odio. Quando la Jugoslavia fu bollata come repubblica-rinnegata dalla propaganda del Kominform migliaia di cittadini si riunirono sotto le finestre dell'ambasciata dell'Urss cantando in coro, per esprimere la loro protesta, le più amate canzoni sovietiche "Tiomnaja noc" e "Shalandy polnye kifali". Allora i quotidiani moscoviti chiamavano Tito non più eroe, ma traditore. Eppure questo appellativo mai attecchì tra la popolazione.

Ricordo che nel 1948 io e mio padre andammo ad uno spettacolo del circo di Mosca. Un clown introdusse sulla pista un enorme cane con sulla testa un berretto da maresciallo jugoslavo. La bestia teneva stretto fra i denti un pacchetto di giganteschi dollari falsi. "Ehi, Tito venduto", gridò il clown con voce stridula, ridendo del suo volgare calembour. La sala rimase nel più assoluto silenzio. Era troppo grande nel nostro popolo la stima per gli jugoslavi compagni di lotta contro il nazismo. "È disgustoso. Usciamo da qui" esclamò mio padre alzandosi.

E all'improvviso i padri e le madri presenti cominciarono ad alzarsi dai loro posti portando con sé i figli. La sala del circo si svuotò. In seguito mi raccontarono che quello squallido numero di propaganda era stato tolto dal programma.

Nel 1950 lo scrittore Orest Maltsev ricevette il premio Stalin per il romanzo pamphlet "La tragedia jugoslava" nel quale si gettava discredito sul movimento partigiano in Jugoslavia. Dopo numerose riedizioni l'autore stipulò un contratto con gli studi cinematografici per portare il romanzo sullo schermo. Su di lui piovvero soldi, ma da quel momento molti scrittori gli tolsero il saluto. Si costruì a Peredelkino una dacia di dimensioni gigantesche per quei tempi. Poi, dopo la morte di Stalin, Krusciov si rappacificò con Tito. Le riedizioni de "La tragedia jugoslava" cessarono e il film fu interrotto. Maltsev cadde in povertà e fu costretto a vivere in quella enorme dacia a carico della sua ex domestica. Nel negozio dove si recava ogni tanto per acquistare una bottiglia di vodka a buon mercato e una scatola di aringhe dicevano, additandolo: "Dio lo ha punito per la Jugoslavia".

La Jugoslavia è stata per lungo tempo il più fiorente e il più indipendente paese dell'area socialista o almeno a noi pareva così. Solo in seguito, dopo la morte di Tito, col crollo della federazione jugoslava tenuta insieme dalla sua "stalinista volontà anti-stalinista", grazie ai geniali film di Emir Kusturica "Papà è in viaggio d'affari" e "Underground", abbiamo cominciato a comprendere che non tutto era giusto e privo di errori nel paese dei nostri "compagni d'arme" jugoslavi la cui vita, ai nostri occhi così libera rispetto alla nostra, molto invidiavamo. Non per questo abbiamo cessato di amarli.

La guerra ha significato troppo per noi e quelli che si batterono al nostro fianco non possono essere abbandonati nei momenti difficili. Non hanno per caso dimenticato tutto ciò gli attuali paesi membri della Nato che combatterono contro il nazismo a fianco degli jugoslavi? Ancora poco tempo fa Russia e Usa hanno festeggiato la fine della guerra fredda. Ma non appena le bombe Nato hanno cominciato a cadere sulla Jugoslavia, lo scheletro della guerra fredda, risvegliato dalle esplosioni, ha sollevato la lapide e sembrerebbe essere già saltato dalla tomba sul suolo russo indossando sul cranio ora la maschera da cane randagio di Zhirinovskij, miserabilmente raggiante della possibilità di abbaiare contro l'elefante americano; ora i bellicosi baffi del presidente bielorusso; ora gli occhiali da sci di uno sconosciuto terrorista nel tentativo di sparare sull'ambasciata americana con un bazooka. Non si poteva immaginare miglior regalo delle bombe sulla Jugoslavia per questi degni personaggi. Hanno ripreso fiato quei politici, ingannatori del proprio popolo, che hanno immediatamente approfittato dell'occasione per battere minacciosamente il pugno sul tavolo allungando contemporaneamente l'altra mano nella attesa dell'elemosina.

Ha ripreso fiato il presidente della Duma, latore da parte di Milosevic, di un progetto fantascientifico di riunificazione tra Russia, Jugoslavia e Bielorussia. Per quanto mi riguarda non credo alla convulsa solidarietà con il popolo serbo da parte di alcuni dei nostri sospettosamente sinceri uomini politici. La vera solidarietà non ha mai un ritorno politicamente vantaggioso. Ma come si può credere loro quando molti dei nostri parlamentari non hanno dimostrato la più elementare solidarietà verso i propri cittadini, i reduci di guerra in piedi con la mano tesa nei sottopassaggi pedonali, gli insegnanti e i medici senza stipendio da sei mesi, i minatori che, senza ottenere risposta, continuano a battere i loro caschi sull'asfalto.

La vergogna della situazione balcanica risiede nel fatto che alcuni cinici politici, sia da noi sia in Occidente e in Jugoslavia, giocano adesso la carta del Kosovo non nell'interesse del popolo serbo o albanese, ma soltanto per il prestigio personale, il mantenimento del potere e per l'egemonia. Occorre notare che, salvo rari casi, molti assumono posizione a favore dei serbi o degli albanesi. A mio parere, invece, la sola posizione corretta è quella pro serbi e pro albanesi allo stesso tempo, vale a dire una posizione a favore dell'uomo.

Non si devono confondere i popoli con i loro estremisti. Durante la guerra in Bosnia un'affascinante serba, insegnante di filosofia in un college americano, ha compromesso immediatamente ai miei occhi la sua intelligenza pronunciando a proposito dei bosniaci: "Questi sporchi bosniaci sono bestie selvagge. Bisogna annientarli tutti". Le sue labbra così ben modellate sembravano emettere ululati da lupo. Appena un mese più tardi, conversando con una ricercatrice bosniaca in un altro college, udii gli stessi ululati da lupo a proposito dei serbi.

Non si deve demonizzare un popolo poiché qualcuno può fare altrettanto del tuo.

Quindi, prudenza con i Balcani ma anche i Balcani devono essere prudenti con se stessi. Le ininterrotte processioni di profughi albanesi innocenti mostrate sugli schermi televisivi inclinano l'animo umano alla misericordia. Ma lo stesso sentimento suscitano le case in fiamme dei serbi. E' tragico che Russia e America vedano attraverso la televisione due guerre diverse, la guerra è una sola. In parole povere per la televisione americana sono colpevoli i serbi, mentre per quella russa la colpa è degli americani.

Prima, quando Solgenitsyn interveniva contro il potere sovietico, tutte le sue parole venivano pubblicate sulle prime pagine dei giornali americani. Adesso invece nessuno si affretta a pubblicare negli Stati Uniti quello che lui dice a proposito dei bombardamenti sulla Jugoslavia. "Sotto gli occhi dell'umanità viene distrutto un meraviglioso paese europeo con gli applausi inferociti dei governi dei paesi civilizzati. Persone in preda alla disperazione, lasciando i rifugi antiaerei, escono in catene umane incontro alla morte per salvare i ponti sul Danubio. Non è questa una regressione al passato?". Tuttavia la verità non risiede solo in questo, ma anche nella vecchietta albanese, a malapena viva, trascinata sulla neve in un sacco per immondizia verso il Montenegro per essere salvata dall'inferno del Kosovo, nella vecchietta serba, in piedi tutta la notte su un ponte con un bersaglio appeso al petto cadente, nell'atto di chiamare le bombe dal cielo ed anche nei tre prigionieri americani con i volti ancora infantili tumefatti e sanguinanti. Prudenza con i Balcani. (traduzione a cura del gruppo Logos)

(22 aprile 1999)

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Guerra astratta
immagini vere



di TAHAR BEN JELLOUN

Prima immagine: in primo piano, il viso roseo di un bel bambino. Potrebbe avere due anni o poco più. È felice, sorride e vuol giocare con qualsiasi oggetto. Sta in braccio a una donna e le dice "Papà". Questa donna non è sua madre. I suoi genitori sono scomparsi: morti, o gettati in un convoglio diretto in Albania. La donna ha trovato questo bimbo a Kukes, in Albania. Gli dà da mangiare e da bere come se fosse suo figlio.

Dice che è diventato il suo quarto bambino. Se i genitori sono ancora vivi, se vedono la televisione, verranno a riprenderselo. Purtroppo, ci dice un'altra donna, è probabile che i genitori siano stati uccisi. Il bambino sarà stato nascosto; così ha avuto salva la vita.

Seconda immagine: un altro bambino di una decina d'anni, sul lettino di un ospedale da campo, circondato dai volontari dell'associazione "Medici del mondo". Piange, rifiuta di prendere un medicinale. L'infermiera ci informa che i suoi sono stati tutti trucidati dai soldati serbi, con una pallottola nella nuca. Lui è fuggito, ma i soldati hanno sparato. È stato colpito a una spalla. Questo ragazzo è invecchiato all'improvviso. È passato brutalmente dall'infanzia all'età adulta, età gravosa e amara. Il suo dolore è immenso. È la strada del suo avvenire. Non dimenticherà mai i volti dei suoi, abbattuti sotto i suoi occhi.

Terza immagine: un cielo nero attraversato da un velivolo nero, con in coda una fiamma rossa appuntita. È un aereo della Nato che parte per bombardare. Un'immagine ormai familiare. Non c'è canale Tv che non la trasmetta. Immagine astratta. Immagine rapida, che però lascia tracce nel nostro immaginario. Ci ripete ogni sera che il mondo libero sta facendo di tutto per piegare Milosevic, l'aguzzino del suo popolo e dei popoli vicini. È un'immagine troppo pulita per essere onesta. Vorrebbe dire a noi, comodamente seduti sulle nostre poltrone, che la guerra contro la Serbia è una guerra pulita. Che ipocrisia! Che menzogna!

Quarta immagine: tante mani. Non si vede altro che mani. Mani tese verso un camion. Mani grandi, piccole, nervose. Tutte cercano di afferrare qualcosa: una razione di latte. Siamo a Blace, città di confine tra il Kosovo e la Macedonia. L'Acnur sta distribuendo latte. Tutte quelle mani ci dicono la fame e la disperazione. Quest'immagine riassume in sé la tragedia della guerra, perché essere espulsi dalla propria casa, dalla propria terra significa l'esodo, la fame e l'umiliazione. Ecco cos'è la guerra: mani che hanno fame; mani che devono portare un po' di latte ai bambini. Ma questa guerra innescata male è una guerra strana. La causa è giusta. Bisognava colpire l'esercito serbo. Ma che fare quando il capo di questo esercito non ha alcun rispetto per il suo popolo, ed è disposto a lasciare che tutto il suo paese venga distrutto, pur di far trionfare il fantasma di una Grande Serbia, pura, ripulita dai musulmani? Come nella guerra del Golfo, abbiamo a che fare con un uomo cinico, barbaro, senza scrupoli, nemico del diritto e delle leggi; un uomo dalla psiche sregolata, con un passato familiare segnato da vari suicidi e crisi di follia.

L'Occidente tratta Milosevic come tratta Saddam: pensando di avere di fronte un uomo sensato, un politico responsabile. Ma non è così. Da oltre un anno, Milosevic sta mettendo in pratica il suo piano di "pulizia etnica" nel modo più rigoroso, senza dare spazio ai sentimenti, alle emozioni, al senso morale. Come già in Bosnia e in Croazia, prosegue nel Kosovo la sua barbara impresa. E questo, gli occidentali non sembrano averlo bene assimilato. Non hanno tenuto conto della condizione patologica della personalità di Milosevic. In questa guerra mancano gli esperti di psichiatria, in grado di ricostruire il ritratto di un grande assassino, di un serial killer che non si accontenta di qualche vittima, poiché ha l'appetito dei grandi divoratori di popoli. Disgraziatamente, ci si fida troppo delle armi sofisticate e non abbastanza dell'analisi psicologica e umana.

Di questa guerra astratta, ciò che sussiste sono le immagini di profughi, di superstiti delle sistematiche esecuzioni. Immagini che ci lasciano profondamente sconcertati, poiché ogni sera ci dicono: Milosevic non è sconfitto. E persevera impunemente nei suoi crimini. (Traduzione di Elisabetta Horvat)

(21 aprile 1999)

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Il diavolo Milosevic
Il problema è sempre un altro



di JEAN DANIEL

Milosevic è il diavolo: su questo tutti sono d' accordo, tranne forse lo scrittore austriaco Peter Handke, che ha appena restituito il Premio Buchner conferitogli da un' Accademia tedesca, e sconfessato la Chiesa cattolica (alla quale dice di appartenere) perché il Papa non ha scelto tra i belligeranti. Milosevic dunque è il diavolo, anche agli occhi di chi si oppone ai bombardamenti e contesta il dominio americano sulla Nato e il "servilismo" europeo. Le difficoltà incominciano quando si tratta dei diversi metodi da adottare per esorcizzarlo, questo diavolo. QUI si scatenano le passioni, i polemisti si lanciano reciproci ammonimenti, su toni di invettiva o di suggestione. Non si sente più parlare d' altro che del "complesso del Vietnam", dello "spirito di Monaco" o della "sindrome della guerra del Golfo". E si ritrovano gli accenti arcaici di una perduta eloquenza. Si potrebbe dire con Camus che gli uni non esitano ad "arrampicarsi sulle bare per poter parlare da più in alto" mentre gli altri, ormai nell' impossibilità di motivare con progetti rivoluzionari il loro antiamericanismo, pur di mantenere lo stesso atteggiamento si riducono a irrigidirsi sul piedistallo della sovranità nazionale. Fin dall' inizio di questo conflitto, ho potuto verificare che gli uomini più convinti della propria razionalità non sono guidati dalle idee, bensì dai sentimenti o dai miti. Una verità rivelata da tempo? Senza dubbio, ma è sempre bene verificare la saggezza delle nazioni con esperienze di laboratorio. C' è poi da fare un' altra constatazione che rivolgo a me stesso, come a titolo di "appunti intimi": se i più appassionati alzano tanto la voce, è perché hanno bisogno di nascondere alcune verità. Ad esempio, un noto polemista si indignava non senza talento contro l' atteggiamento di sottomissione di alcuni grandi pensatori nei riguardi degli Stati Uniti. Gli ho chiesto: "Lei è contrario ai bombardamenti?". Mi ha risposto che il problema era un altro. Ma guarda un po' ! E qual è allora il problema? Il problema, ha spiegato, è che siamo a rimorchio degli americani; sono stati loro a decidere di bombardare. E se gli americani non avessero preso questa decisione? Il mio interlocutore a questo punto è imbarazzato, e perciò si spolmona: "Magari sarebbe stato necessario che lo facesse la difesa europea". Ma ne avrebbe avuto i mezzi? Risposta: "Non è questo il problema". Il mio interlocutore è un amico, e mi è rimasto il dubbio che abbia preso le mie domande come una provocazione. Bisognerà lasciar passare un po' di tempo prima di andare di nuovo a colazione insieme. D' altra parte, un personaggio importantissimo per il ruolo che ha giocato in passato, del quale ovviamente non dirò il nome, contesta allarmato l' accusa rivolta all' Europa, e soprattutto alla Francia, di essere agli ordini degli Stati Uniti. Chi ha conseguito il riavvicinamento con la Russia? A chi è dovuta la presenza di Kofi Annan, segretario generale dell' Onu, all' Assemblea dell' Unione Europea di Bruxelles? Senza l' Europa, senza la Francia, forse gli americani avrebbero bombardato obiettivi civili! Sarà. Ammettiamolo pure. Ma faccio notare che la cosa più importante è stata la decisione di colpire con gli attacchi aerei.

C'è una grande differenza tra comunanza di obiettivi e diversità di metodi. Non siamo forse stati completamente in balìa degli errori americani quanto all' effetto dei bombardamenti? Siamo stati in grado di far notare ai nostri alleati che in Iraq si erano sbagliati in pieno? C' è stato un solo stratega, un solo esperto, un solo diplomatico che abbia previsto la catastrofe umanitaria, le mostruose ritorsioni serbe sui rifugiati? L' uomo con cui sto parlando è importante. Mi ascolta con quell' aria stanca che dimostrano i grandi "realisti" davanti alle ingenuità degli intellettuali. Con tono di aristocratico disincanto, dopo essersi lisciato a lungo i capelli con mano elegante, mi risponde - lui pure! "Il problema non sta qui". è curioso osservare che il problema non sta mai qui. Di fatto, ci si chiede dove mai possa stare, se non dove si ha voglia di metterlo, a seconda delle necessità, che possono cambiare ogni giorno. Finora ho citato persone che si esprimono in maniera teatrale o erudita, o più semplicemente con presunzione. Ma c' è anche qualcuno che tace. Alcuni dei miei amici (non li abbandono), che in genere si mostrano interessati a consultarmi, non si fanno più vivi. Non una lettera, non una telefonata. Cos' è successo? Si tratta di amici arabi, alcuni musulmani e altri no. Come è noto, Parigi è divenuta in parte una capitale arabo-musulmana, dove è facile incontrare le più diverse personalità di primo piano. Ora però il silenzio è totale per tutti. Ho invitato uno scrittore mediorientale residente a Parigi, che mi ha confidato il suo imbarazzo.

Questi americani, decisamente demoniaci, ora si sono presi anche il vizio di mobilitarsi in soccorso del Kosovo musulmano! "Abbiamo faticato tanto - dice - a costruirci un' identità progressista in opposizione agli Stati Uniti; ed ecco che all' improvviso siamo in trappola". Ma i kosovari soffrono? Risposta: sì, certo. E se si salveranno, non sarà in parte grazie agli Stati Uniti? Risposta: in un certo senso, sembrerebbe di sì. E allora? Allora bisogna sventare le astuzie della storia. Non cedere alle urgenze della congiuntura e non avallare l' imperialismo. D' accordo, ma l' Europa? Risposta: è soltanto una provincia dell' impero americano, e in ogni modo oggi "il problema non sta qui". Ho espresso altrove la mia posizione personale su "questa cattiva e questa giusta lotta". E ne ho denunciato soprattutto l' impreparazione, i metodi precipitosi, senza però contestare il dovere assoluto dell' Europa di combattere la barbarie slavo-stalinista all' interno del suo nuovo spazio. Ma non vedo perché un cittadino, e soprattutto un intellettuale, non debba innanzitutto restare uno spirito libero, e poter dire ciò che vede, così come lo vede. Mi sono riservato di concludere con la confidenza più delicata. Non so se in Italia le manifestazioni di solidarietà con i rifugiati del Kosovo siano state numerose, spontanee e generose come in Francia.

Devo dire che mi hanno sorpreso, tanto da intaccare in parte il mio generale e indiscriminato pessimismo sull' umanità. Ma tra le cose che ho sentito mormorare o sussurrare con tono quasi colpevole, con cattiva coscienza, vorrei citare le considerazioni di un amico, un tempo molto impegnato nella lotta anticolonialista: "Bisognerebbe fare tutto il possibile per aiutare i rifugiati sul posto. Perché se arrivassero da noi in massa e si comportassero da musulmani attivi, nell' Europa latina e in Germania si rischierebbe di arrivare a uno squilibrio demografico quasi pari a quello dei Balcani. Per non parlare del pericolo razzista. Già ora, da noi in Provenza, se a qualcuno rubano la macchina si dice: sarà stato uno zingaro. E in Italia, per qualunque delitto si dice: sarà stato un albanese". Parole di un amico che non per questo, credo, rifiuterebbe di accogliere un rifugiato. Ma con me, al momento della verità, ha voluto passare dalle grida ai sussurri.

(traduzione di Elisabetta Horvat)

(20 aprile 1999)

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Ricordando Sarajevo
è una guerra giusta



di SUSAN SONTAG

L'altro giorno, un'amica di New York mi ha telefonato a Bari, dove mi trovo per un soggiorno di alcuni mesi; desiderava notizie della mia salute, e mi ha chiesto tra l'altro se da qui sentivo esplodere le bombe. L'ho rassicurata spiegandole che il rumore dei bombardamenti su Belgrado, Novi Sad o Pristina non arriva fino al centro di Bari; anzi, da qui non si sentono neppure decollare gli aerei dalla vicina base Nato di Gioia del Colle.

Sarebbe facile ironizzare sulla scarsa competenza geografica di questa mia amica americana, per la quale gli Stati europei sono appena un po'più grandi di un francobollo; ma la sua minuscola Europa collima perfettamente con un'altra idea molto diffusa: quella di un'Europa impotente, trascinata in questa follia bellicista da un'America grande e cattiva.

Forse esagero. Sto scrivendo dall'Italia, l'anello più debole della catena della Nato. A differenza della Francia e della Germania, l'Italia ha tuttora la sua ambasciata a Belgrado. Milosevic ha ricevuto Cossutta. Il sindaco di Venezia, persona degna di stima, ha inviato a Belgrado un suo emissario con lettere indirizzate a Milosevic e a Rugova, nelle quali proponeva Venezia quale sede di un negoziato di pace. (Le lettere sono state accettate, con tanti ringraziamenti, dal primate ortodosso dopo la messa domenicale di Pasqua).

Il panico in Italia è comunque comprensibile. Da qui non si assiste solo alle scene strazianti trasmesse dai Tg, ma anche allo spettacolo dell'esodo di massa. E per l'Italia gli albanesi sono innanzitutto futuri immigrati.

Ma la diffusa opposizione alla guerra non è certo limitata a questo paese, e neppure a una sola parte politica. Si può anzi affermare il contrario: oltre ai residui della sinistra, si sono mobilitati contro la guerra anche personaggi come Le Pen, Bossi o Haider. La destra è ostile all'immigrazione, mentre la sinistra è contraria all'America (o piuttosto all'idea dell'America, dato che in Europa l'egemonia della cultura popolare americana non potrebbe essere più totale).

Sia nella cosiddetta sinistra che nella cosiddetta destra emerge sempre più la questione dell'identità. L'antiamericanismo che sta alimentando la protesta contro la guerra è cresciuto in questi ultimi anni in molte nazioni dell'attuale Unione Europea. Forse il miglior modo per comprenderlo è vedere in esso una proiezione delle ansie suscitate da questa nuova Europa, presentata a tutti come cosa buona, tanto che pochi osano metterla in discussione. Le nazioni sono comunità da sempre immaginate, riconcepite, riaffermate contro la pressione dell'Altro che le definisce. Lo spettro di una nazione senza confini, infinitamente permeabile, non può che suscitare ansia. L'Europa ha bisogno di un'America soverchiante.

Europa debole? Europa impotente? Lo si sente dire ovunque. La verità è che un'Europa nata per gli affari, costruita con il consenso entusiastico delle élites "responsabili", economiche e professionali, è destinata precisamente a ritrovarsi incapace di rispondere alla minaccia costituita da un dittatore come Milosevic. Non è una questione di "debolezza", anche se viene percepita come tale. È una questione di ideologia.

L'Europa non è debole, tutt'altro. L'Europa - quella in via di costruzione dal 1989, cioè dalla vittoria finale del capitalismo - punta a qualcosa di diverso. Qualcosa che in realtà rende per lo più obsoleti i problemi inerenti alla giustizia, anzi, in effetti, tutte le questioni morali. (Al loro posto è oggi in primo piano il problema della salute, che può essere collegato alle preoccupazioni ecologiche; ma questa è un'altra questione).

Un'Europa nata per lo spettacolo, il consumismo e le grandi strette di mano... ma ossessionata dal timore di vedere le identità nazionali sommerse da un mercantilismo multinazionale senza volto, o dalle ondate di immigrati provenienti dai paesi più poveri.

In una parte del continente, gli ex comunisti giocano la carta nazionalista - come Milosevic, che ne è l'esempio più egregio - fomentando nazionalismi letali. Nell'altra il nazionalismo, e con esso la guerra, sono considerati obsoleti, fuori moda. Com'è impotente la "nostra" Europa davanti a tutti questi irrazionali massacri, alle sofferenze dell'altra Europa.

E intanto la guerra continua. Una guerra iniziata nel 1991, non nel 1999. E neppure sei secoli fa, come vorrebbero i serbi. Questo è un paese il cui nazionalismo ha adottato come suo mito fondatore una sconfitta: la battaglia del Kosovo, quando, nel 1389, i serbi hanno dovuto cedere ai turchi. Ci stiamo battendo contro i turchi, dicevano ai giornalisti gli ufficiali serbi al comando delle postazioni di mortai sulle alture intorno a Sarajevo. Non sarebbe strano se la Francia continuasse a richiamarsi al ricordo della battaglia di Agincourt, del 1415, in un'eterna ostilità verso la Gran Bretagna? Chi mai potrebbe immaginare una cosa del genere? Il fatto è che la Francia è Europa; e "loro" no.

Sì, è questa l'Europa. L'Europa che non ha reagito alle bombe serbe su Dubrovnik. Né ai tre anni di assedio di Sarajevo. L'Europa che ha lasciato morire la Bosnia. Una nuova definizione dell'Europa: il luogo in cui le tragedie non avvengono. Le guerre, i genocidi... cose che accadevano qui un tempo, ma oggi non esistono più. Possono capitare in Africa o in qualche parte dell'Europa che non è "realmente" Europa - cioè nei Balcani. Anche qui, forse sto esagerando. Ma dopo aver trascorso lunghi periodi a Sarajevo, tra il 1993 e il 1996, non mi sembra affatto di esagerare.

Ora mi trovo ai margini dell'Europa della Nato, a poche centinaia di chilometri dai campi profughi di Durazzo, di Kukes e di Blace, dalla più grande somma di sofferenze che l'Europa abbia conosciuto dalla Seconda guerra mondiale. È vero che qui non si sentono decollare gli aerei della Nato dalla loro base pugliese; ma si può andare a piedi al molo dei traghetti di Bari, dove si assiste al quotidiano affluire di fiumane di albanesi e kosovari: famiglie che arrivano con le navi provenienti da Durazzo. Di notte, a un centinaio di chilometri da Bari si può vedere la Guardia costiera dare la caccia ai gommoni stipati di profughi illegali che salpano di notte da Valona, affrontando la perigliosa traversata dell'Adriatico. Ma se uscissi di casa soltanto per vedere gli amici, mangiare una pizza, andare al cinema o a sedermi al tavolo di un caffè, qui a Bari non sarei più vicina alla guerra di quanto lo siano i telegiornali e i quotidiani che trovo ogni mattina davanti alla mia porta. Come se fossi già tornata a New York.

Certo, è facile distogliere gli occhi da ciò che sta accadendo, quando non accade a noi. A meno di aver voluto recarsi sul posto. Ricordo con quale rammarico, nel 1993 a Sarajevo, un'amica bosniaca mi disse che due anni prima, davanti alle immagini televisive di Vukovar totalmente rasa al suolo dai serbi, aveva pensato: "È terribile. Ma è successo in Croazia. Qui in Bosnia non accadrà mai...". E cambiò canale. Ma l'anno dopo, quando la guerra raggiunse la Bosnia, sperimentò la cosa da una prospettiva diversa: era lei a vivere una vicenda che altri vedevano sullo schermo dicendo: "È terribile"... e cambiavano canale.

Quanto si sente impotente la "nostra" Europa, confortevole e pacificata, davanti a tutti questi irrazionali massacri, a queste sofferenze nell'altra Europa. Ma le immagini non si possono esorcizzare... Quei profughi, cacciati dalle proprie case, dai propri villaggi incendiati a centinaia di migliaia, tanto simili a noi. Generazioni di europei timorosi di qualsiasi idealismo, incapaci di indignazione se non all'interno dei vecchi schemi della guerra fredda anti-imperialista (benché ovviamente, il punto chiave stia nel fatto che questa guerra è il risultato diretto della fine della guerra fredda e della dissoluzione dei vecchi imperi, delle vecchie rivalità imperiali).

Basta con la guerra, basta con il genocidio: queste le scritte sugli striscioni che sventolano nelle manifestazioni, a Roma come a Bari. Per la pace. Contro la guerra. Chi non lo è? Ma come fermare, senza fare la guerra, chi ha deciso di compiere un genocidio? Tutto questo ci riporta a cose già viste. Orrori su orrori. I nostri tentativi di trovare una risposta "umanitaria". La nostra incapacità (sì, dopo Auschwitz!) di comprendere come sia possibile quest'orrore. E con il moltiplicarsi degli orrori diventa anche più difficile comprendere perché dovremmo rispondere in alcuni casi, quando non abbiamo reagito in altri. Perché quest'orrore e non un altro? Perché la Bosnia o il Kosovo, e non il Kurdistan o il Ruanda o il Tibet? Non è come se dicessimo che le vite, le sofferenze degli europei hanno un valore diverso, che meritano di essere protette con più impegno delle vite dei popoli dell'Africa, del Medio Oriente o dell'Asia?

A questa obiezione molto diffusa contro la guerra nella Nato si può anche rispondere con fierezza: "È vero, la preoccupazione per la sorte dei kosovari è eurocentrica. E con ciò? Cosa c'è di sbagliato?". L'accusa stessa di eurocentrismo porta in sé una traccia della presunzione dell'Europa, l'idea di essere investita di una missione universale, per cui gli europei presumono che ogni angolo del pianeta richieda la loro attenzione.

Se a fronte del genocidio dei tutsi in Ruanda (un milione di vittime!) un gruppo di Stati africani si fosse sentito in obbligo di intervenire militarmente, magari sotto la guida di Nelson Mandela, li avremmo forse accusati di afrocentrismo? Avremmo chiesto loro con che diritto intervenivano in Ruanda quando non avevano fatto nulla per i curdi o per i tibetani?

L'altro argomento contro l'intervento armato è che la guerra è illegale - meravigliosa parola - perché la Nato viola i confini di uno Stato sovrano. Dopo tutto, il Kosovo è parte della nuova Grande Serbia denominata Jugoslavia. Tanto peggio per i kosovari se nel 1989 Milosevic ha revocato lo statuto autonomo di cui godevano. Peccato che un tempo questo territorio appartenesse all'Albania (ragione per cui gli abitanti del Kosovo sono al 90 per cento albanesi - o di etnia albanese, come si usa dire per distinguerli dagli abitanti dell'Albania). I confini cambiano.

Ma questi confini nazionali, modificati tante volte da un secolo a questa parte, devono essere veramente il criterio ultimo? Come dire che si può uccidere la propria moglie tra le mura di casa, ma non fuori dalla porta o per strada. Immaginiamo che la Germania nazista non avesse ambizioni espansioniste, che si fosse limitata, tra la fine degli Anni 30 e gli Anni 40, a inserire nel proprio programma politico la strage di tutti gli ebrei tedeschi. Pensiamo forse che un governo abbia il diritto di fare sul proprio territorio tutto ciò che vuole? Può darsi che sessant'anni fa la posizione dei governi europei sarebbe stata questa. Ma oggi potremmo approvare una decisione del genere?

Proviamo a trasferire quest'ipotesi nel presente. Cosa accadrebbe se in Corsica il governo francese incominciasse a massacrare parte degli abitanti e a cacciare gli altri dall'isola? O se il governo italiano si disponesse a svuotare dei suoi abitanti la Sicilia o la Sardegna, provocando l'esodo di milioni di persone? O se la Spagna decidesse una soluzione finale per la popolazione ribelle del Paese Basco? Non accetteremmo forse l'idea che sul continente un consorzio di potenze abbia il diritto di usare la forza militare per costringere il governo francese (o italiano, o spagnolo) a invertire la rotta - il che comporterebbe probabilmente il rovesciamento di quel governo?

Ma ovviamente questo non sarebbe potuto accadere, vero? Non in Europa. Durante l'assedio, i miei amici di Sarajevo dicevano: "Come può "l'Occidente" permettere che tutto questo succeda a noi? Siamo anche noi europei, siamo in Europa. "Loro" non permetteranno che si vada avanti così". Ma "loro" - gli europei - lo hanno permesso. Ciò che è accaduto in Bosnia è veramente terribile: dai campi di sterminio serbi, nel nord della Bosnia, nel 1992 - i primi campi di sterminio sul suolo europeo dal 1940 - alle esecuzioni di massa di molte migliaia di civili a Srebrenica e altrove, nell'estate del 1995. E tutto questo, l'Europa lo ha tollerato.

Quindi, evidentemente la Bosnia non era Europa. Se il XX secolo è iniziato a Sarajevo, diceva qualcuno che come noi era rimasto là per qualche tempo, anche il XXI secolo incomincerà a Sarajevo. E se le scelte che la Nato ha davanti a sé sembrano tutte improbabili o poco appetibili, è perché il suo intervento arriva con otto anni di ritardo. Slobodan Milosevic andava fermato nel 1991, quando incominciò a bombardare Dubrovnik.

Negli anni 1993-94, i politici americani dicevano che se in Bosnia Milosevic l'avesse passata liscia, quella sarebbe stata sicuramente l'ultima volta. Allora fu tracciata una linea nella sabbia: non gli avrebbero permesso di fare la guerra nel Kosovo. Ma chi credeva agli americani allora? Non i bosniaci. Non Milosevic. Non gli europei, e neppure gli stessi americani. Dopo Dayton, dopo la distruzione della Bosnia indipendente, era ora di rimettersi a dormire - come se la serie degli eventi messi in moto nel 1989, con l'accesso di Milosevic al potere e con la revoca dello statuto autonomo della provincia del Kosovo, potesse non procedere fino alla sua ovvia, logica conclusione.

Se agli europei riesce difficile rendersi conto dell'importanza di quanto sta accadendo nell'Europa sudorientale, si può immaginare quanto sia difficile per gli americani convincersi che tutto questo è nel loro interesse. L'America non è interessata a fomentare questa guerra in Europa, mentre l'Europa nuocerebbe gravemente al proprio interesse se premiasse Slobodan Milosevic per aver distrutto la Jugoslavia e provocato tante sofferenze umane. Perché non lasciare, chiedono alcuni, che questo incendio si esaurisca da sé? E l'espulsione di almeno un milione di persone verso i paesi vicini, in Albania e in Macedonia? La conseguenza sarà certamente la distruzione del piccolo Stato di Macedonia. La carta geografica dei Balcani dovrà essere ridisegnata, certo non senza contrasti, che coinvolgeranno quanto meno la Serbia, la Bulgaria e la Grecia. Come immaginare che questo possa avvenire in maniera pacifica?

Non c'è da sorprendersi se i serbi si presentano come vittime (Clinton-Hitler ecc.). Ma è grottesco porre sullo stesso piano le morti causate dai bombardamenti Nato e le atrocità inflitte in questi ultimi otto anni a centinaia di migliaia di persone dal programma serbo di pulizia etnica.

Non tutte le violenze sono ugualmente riprovevoli. Non tutte le guerre sono ugualmente ingiuste. Dobbiamo ricusare l'uso della forza in risposta alla violenza di uno Stato contro persone che nominalmente sono suoi cittadini? (Perché questa è oggi la natura della maggior parte delle guerre, che non sono più conflitti tra Stati).

I principali esempi di violenza di massa nel mondo di oggi sono atti commessi dai governi all'interno dei loro confini legalmente riconosciuti. Possiamo dire davvero che a questo non ci può essere una risposta? È accettabile che massacri del genere vengano liquidati con la definizione di guerre civili, frutto di "un atavico odio etnico"? Dopo tutto, anche l'antisemitismo era un'antica tradizione in Europa - molto più antica dell'atavico odio tra i popoli balcanici. Poteva bastare questo per consentire a Hitler di sterminare gli ebrei sul territorio tedesco?

Davvero le guerre non hanno mai risolto nulla? Provate a chiedere a un nero americano se questo può valere anche per la guerra civile degli Usa. La guerra non è semplicemente un errore, un difetto di comunicazione. Il male, nel senso radicale del termine, esiste nel mondo. Perciò vi sono guerre giuste. E questa è una guerra giusta. Anche se è abborracciata.

Fermare il genocidio. Far tornare i profughi nelle loro case. Sono obiettivi validi. Ma come concepire che vengano raggiunti finché non si sarà rovesciato il regime di Milosevic? (E la verità è che questo non accadrà).

È impossibile vedere i futuri sviluppi di questa guerra. Tutte le opzioni sembrano improbabili, oltre che indesiderabili. Non si può pensare di continuare a bombardare a tempo indeterminato, se Milosevic è effettivamente disposto ad accettare la distruzione dell'economia serba; ed è impensabile che la Nato smetta di bombardare se Milosevic resta intransigente.

Il governo di Milosevic ha finito per portare anche in Serbia una piccola parte delle sofferenze che aveva inflitto ai popoli vicini. Esiste una cultura di guerra. E la bellicosità è un vizio che induce assuefazione. Quando una comunità ha di sé l'immagine dell'eterna vittima della storia, può essere intossicata da una sconfitta non meno che da una vittoria. Quanto tempo ci vorrà perché i serbi si rendano conto che gli anni della dittatura di Milosevic sono stati un completo disastro per il paese, e che il saldo netto della sua politica è la rovina economica e culturale dell'intera regione, Serbia compresa, per varie generazioni? Purtroppo possiamo essere certi che questo non accadrà tanto presto.

(19 aprile 1999)