L'Europa e il padrone
americano
di HELMUT SCHMIDT Chi ripercorre con la
memoria i primi cinquant' anni della Nato, deve ammettere
che senza l' impegno americano per la ricostruzione e la
libertà dell' Europa, senza il Patto Atlantico e il
piano Marshall, Stalin e Krusciov avrebbero potuto
sottomettere anche la metà occidentale dell' Europa.
George Marshall, Dean Acheson, George Kennan, soprattutto
il Presidente Truman e l' intera nazione americana, hanno
meritato la gratitudine degli europei. Tuttavia, per chi
cerca di considerare i successivi cinquant' anni dell'
alleanza atlantica, non è facile far tacere i dubbi sui
personaggi di Washington che oggi sono a capo della
politica estera.
Nel 1949, quando la Nato è stata fondata - perché l'
Europa occidentale, e in seguito gli stessi Usa, erano
minacciati da una potente forza militare avversaria - la
popolazione del globo era meno di tre miliardi. Oggi è
di sei miliardi e nel 2050 sarà di oltre nove miliardi.
Il vertiginoso aumento della popolazione determinerà in
molte parti della terra gravi problemi di alimentazione e
di occupazione e guerre locali. Davanti a questi problemi
mondiali, la costituzione della Nato, sotto l' egida di
Washington, costituisce un aiuto relativo per la
formazione di una forza d' intervento militare su scala
mondiale, che non potrebbe far fronte alle future crisi
né in Asia, né in Africa o in America Latina. Anche nel
Kosovo e nella penisola balcanica essa può, in linee
generali, reprimere con la forza i conflitti, ma non
risolverli in modo duraturo.
L' alleanza militare occidentale può essere paragonata a
un' assicurazione sulla vita a condizione di
reciprocità, che nessuno dei partner desidera mettere in
gioco. Tuttavia, essa non è lo strumento per risolvere
tutti i problemi al di fuori dei territori degli stati
membri. L' occidente, nel complesso, è privo di una
strategia globale. Alla classe politica americana risulta
particolarmente arduo immaginarsi la struttura del potere
del prossimo secolo. Naturalmente, l' America resta una
potenza mondiale, anche se per molti anni ha dovuto
avvalersi di gigantesche importazioni di capitale netto
dal resto del mondo. Ma anche la Russia rimane una
potenza, per il suo stesso enorme territorio, le
ricchezze del suo sottosuolo e il suo armamento militare,
anche se la debolezza odierna durerà ancora per più di
una generazione. La Cina si avvia a diventare rapidamente
una grande potenza. Si può immaginare che seguirà poi
l' India, mentre il Giappone resta, quanto meno, una
grande potenza finanziaria, nonostante la sua attuale
crisi. E l' Unione Europea, nel corso dei prossimi
decenni, può diventare una potenza mondiale. La
"nuova Nato", che gli americani vogliono tenere
a battesimo, deve fare in modo - così almeno spera
qualcuno, dal ministro degli esteri Albright all' ex
consigliere per la sicurezza Brzezinski - che gli
europei, anche nel nuovo secolo, si facciano guidare da
Washington. Questa aspettativa ha soltanto una
probabilità limitata. Poiché l' arroganza, generalmente
motivata dalla politica interna, con la quale Washington
impone i suoi attuali interessi e la sua preponderanza,
dà sempre più sui nervi a molti europei. D' altro
canto, però, gli americani non possono offrire una
strategia globale a lungo termine. Essi non hanno una
linea politica chiara sia nei confronti della Russia, sia
della Cina, per non parlare dell' India e dell' Islam.
Non hanno neppure alcuna strategia per l' economia
mondiale e per l' ecologia del globo. Per loro è chiara
soltanto l' idea del loro ruolo futuro di potenza
mondiale militare e politica. L' ampliamento della Nato,
con l' annessione della Polonia nonché dell' Ungheria e
della Repubblica Ceca, e l' impegno nei Balcani, sono le
conseguenze di quest' idea.
I leader politici e militari russi non hanno potuto
impedire l' ampliamento della Nato; dovranno accettare il
fatto, ma lo sentiranno come una spina nel fianco. L'
occidente non ha fatto niente che fosse sufficiente a
lenire i dolori provocati da questa spina. I motivi di
ampliamento di Washington erano dettati non soltanto
dalla politica di potere, ma anche dalla politica
interna: si trattava di voti di americani di origine
polacca, ceca e ungherese e anche di commesse per l'
industria della difesa americana e dei suoi posti di
lavoro. A Washington sono stati calcolati per i prossimi
quindici anni enormi investimenti militari dei tre nuovi
stati membri della Nato: da 60 a oltre 100 miliardi di
dollari Usa. Come se per Varsavia, Praga o Budapest, non
fossero molto più importanti investimenti civili e come
se niente fosse più superfluo di una corsa agli
armamenti. In realtà c' era soprattutto il desiderio
impellente della grande maggioranza di quei popoli all'
ammissione. Molti russi vivono come un' umiliazione lo
spostamento a oriente del confine del territorio Nato.
Perciò, uno dei più importanti compiti futuri sarà
quello di creare un buon rapporto di vicinato con la
Russia. Le alleanze formali sancite dall' Osce, dal
trattato Nato-Russia e dalla Conferenza per la sicurezza
in Europa, non saranno assolutamente sufficienti a tale
scopo. Un serio attacco militare ai territori degli Stati
alleati della Nato - o addirittura una terza guerra
mondiale - appare oggi improbabile. Invece, ci si può
aspettare il dilagare - in prevalenza al di fuori dell'
Europa - di guerre regionali o anche intestine. Spetta in
primo luogo alle Nazioni Unite e al Consiglio di
Sicurezza stabilire fino a che punto queste guerre siano
dominabili dall' esterno; quasi tutti gli Stati del mondo
hanno sottoscritto la Carta delle Nazioni Unite. Ma
esistono sufficienti esempi di interventi fallimentari
delle missioni Onu, che dovrebbero stabilire e garantire
la pace. Per questi casi la Carta delle Nazioni Unite
prevede il diritto all' autodifesa. Essa non legittima
alcun intervento da parte di terzi, tranne che su
decisione e incarico del Consiglio di Sicurezza dell'
Onu. Significativo l' esempio della Jugoslavia, Stato
artificiale, fondato nel 1919, ripristinato nel 1945 e
poi disciolto. Le potenze mondiale sono intervenute in
quella regione con missioni politiche e militari per
mettere fine agli assassinii e alle espulsioni - e con il
consenso innanzi tutto dell' Onu. Le bombe che hanno
colpito successivamente Belgrado e l' esercito serbo
hanno un fondamento molto fragile per quanto riguarda il
diritto internazionale. Non hanno l' approvazione del
Consiglio di Sicurezza.
Nessuno Stato membro dell' alleanza Nato è impegnato a
partecipare attivamente nei Balcani. L' impegno di
assistenza dei partner, contemplato nell' articolo 5 del
Patto Atlantico, si riferisce soltanto agli attacchi
contro i territori espressamente indicati nell' articolo
6 dei partner dell' alleanza. Né i croati, né i
bosniaci o il Kosovo ne fanno parte. Chi conosce la
storia dei Balcani dal declino dell' Impero ottomano e
dalla fine della doppia monarchia austro-ungarica,
resterà profondamente scettico nei confronti di ogni
intervento militare nei Balcani, inteso a ristabilire la
pace. Nel migliore dei casi - dopo la morte di molti
soldati e civili - si arriverà alla formazione di un
protettorato occidentale, sostenuto militarmente. Non si
può essere certi che l' opinione pubblica degli Stati
coinvolti, in considerazione delle perdite dei propri
uomini, non porterà alla sospensione anticipata dell'
intervento militare. Il governo americano scorge negli
avvenimenti attuali, sul terreno della ex-Jugoslavia, la
possibilità di creare un precedente per futuri casi in
altre parti del mondo. Il Consiglio della Nato ha
deliberato nel 1996 l' istituzione delle Combined Joint
Task Forces (Cjtf), con il compito non dichiarato di
effettuare operazioni out of area. Il gran numero e la
mancanza di chiarezza di tutte le decisioni prese dal
Consiglio Nato preoccupano. Tuttavia, un democratico deve
auspicare urgentemente un dibattito pubblico
approfondito, prima che venga messo in atto un
allargamento sostanziale degli obiettivi dell' alleanza.
Nel caso si giunga al risultato di ampliare gli incarichi
dell' alleanza e gli obblighi dei suoi partner, ogni
integrazione del Patto Atlantico dovrà avvenire in
conformità con i contenuti della Carta delle Nazioni
Unite. L' ultima decisione spetta al Consiglio di
Sicurezza, anche nei casi di diritto all' autodifesa. L'
atteggiamento americano nelle Nazioni Unite non è stato
sempre chiaro nei decenni passati. Quindi, il Congresso
ha impedito che gli Usa pagassero regolarmente i loro
contributi finanziari. Dall' eliminazione della minaccia
sovietica, la classe politica americana non ha più l'
omogeneità in politica estera del passato. Nel
complesso, l' America dimostra, come sempre, una grande
vitalità, ma al tempo stesso dà prova di minore
avvedutezza e continuità nella strategia della politica
estera rispetto ai decenni passati. Chi, in quanto
europeo, vuole allargare gli incarichi dell' alleanza
nordatlantica a livello di contenuti e di territorio,
deve mirare a definizioni precise, a causa di possibili
oscillazioni delle posizioni e degli obiettivi in
politica estera dell' America. Allo stesso modo, un
americano lungimirante, nell' interesse della sua
Nazione, deve dare il massimo valore a definizioni
univoche. La visione illusoria della potenza mondiale
americana, che, nella sua veste di mediatrice e garante
della pace planetaria, mantiene l' ordine nel mondo, non
può cancellare i ricordi della Corea o del Vietnam, del
"Desert Storm" e di altre "missioni di
pace" basate su ingenti spiegamenti di armi. La
nazione americana sarà portata anche in futuro a
diffondere in tutto il mondo il proprio ordine di valori
e l' American way of life, ma sarà disposta ad accettare
elevate perdite di vite umane in guerre altrui soltanto
in casi eccezionali e di portata drammatica: soltanto nei
casi, in cui si trovi in gioco un interesse vitale della
nazione. In tutti gli altri casi, gli Stati Uniti si
limiteranno a impiegare la loro alta tecnologia militare
e di telecomunicazioni, stando a distanza di sicurezza.
Altrimenti si appoggeranno alle truppe dei loro alleati.
Comunque la strada è ancora lunga. In considerazione del
perdurare dei poteri interni, ancora molto sentiti nelle
Nazioni dell' Ue, essa può essere difficilmente
accorciata. Infine, nella storia del mondo non esiste
alcun modello, alcun parallelo per unire politicamente ed
economicamente, in modo spontaneo, 15 nazioni autonome
con le loro lingue e le loro eredità storiche e
culturali, ricche di molti secoli. L' integrazione dell'
Europa richiederà anche nel XXI secolo molti piccoli e
grandi passi.
Nel frattempo, l' alleanza fra Europa e Nord America
resta quanto mai auspicabile. Tuttavia, l' Unione Europea
non dovrebbe diventare un satellite strategico di
Washington. Perciò il cinquantesimo anniversario della
nostra proficua alleanza nord-atlantica non deve portare
al prevalere dei sentimenti sull' analisi lucida di
futuri compiti e possibilità. Per gli europei, come per
i canadesi, è rassicurante essere alleati con gli Stati
Uniti in un patto di difesa. Tuttavia, questo patto non
può garantire la pace in tutto il globo e neppure
risolvere gli enormi problemi di natura non militare, che
incombono sull' umanità nel XXI secolo.
(traduzione a cura del gruppo Logos)
(24 aprile 1999)
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Il patto di Varsavia e quello
umanitario
Anch'io mi sento albanese
di VACLAV HAVEL
In merito all'intervento della Nato in
Kosovo, penso ci sia un elemento che nessuno può
contestare: i raid, le bombe, non sono stati provocati da
un interesse concreto. Hanno, cioè, un carattere
esclusivamente umanitario: in gioco qui ci sono i
principi, i diritti umani ai quali è stata accordata una
priorità rispetto anche alla sovranità degli Stati. È
questo che rende legittimo attaccare la Federazione
jugoslava anche senza il mandato dell'Onu. Ma sulla base
della mia esperienza personale, sono altrettanto certo
che soltanto con il tempo si potrà valutare
obiettivamente ciò che sta accadendo in questi giorni in
Jugoslavia e le sue ripercussioni sulla Nato.
Oggi l'esigenza fondamentale è che si possa fermare il
massacro, che i profughi possano liberamente tornare
nelle loro case, che sia riaperto da qualcuno il ciclo
delle trattative politiche per lo statuto del Kosovo. E
che presto sul terreno possano essere inviati degli
osservatori di pace - meglio se approvati anche dai serbi
- per garantire la fine dei massacri e delle violazioni
dei diritti umani.
Io stesso, se qualcuno lo proponesse, mi impegnerei di
buon grado in un ruolo di negoziato, qualora dovessero
riaprirsi spiragli per trattative. Ma non posso
dimenticare che negli ultimi mesi dello scorso anno avevo
già proposto alcune soluzioni della crisi, non accettate
per diversi motivi. I conflitti vanno sempre previsti per
tempo, e per tempo fermati con soluzioni appropriate. Ma
nel caso della guerra in Kosovo, mi sembra di poter dire
che sia stato trascurato qualcosa di assai importante: il
regime di Milosevic ha già scatenato conflitti contro la
Slovenia, la Croazia, la Bosnia-Erzegovina. La Nato è
intervenuta tardi.
Adesso provo un certo fastidio: dopo la battaglia, sono
tutti generali. Le riserve nei confronti dell'intervento,
anche nel mio paese, avrebbero dovuto essere espresse ben
prima. Ci sono stati lunghi mesi di trattative, a
Rambouillet, e anche la Repubblica Ceca, che pure non era
ancora membro della Nato, ha avuto la possibilità di
esprimere le proprie posizioni. Questa è una delle
differenze tra l'appartenere al Patto di Varsavia o alla
Nato. Quando eravamo soltanto un paese satellite
dell'Urss governato da una dittatura, avevamo la funzione
di una semplice unità di guerra dell'Armata Rossa, del
tipo da prima linea; eravamo in silenzio, pochi avevano
il coraggio di criticare, e quei pochi diventavano
dissidenti, bollati come matti dal resto della
popolazione.
Ora che abbiamo raggiunto la libertà dobbiamo imparare a
diventare solidali, ad assumerci liberamente e
consapevolmente le nostre responsabilità nei confronti
degli altri. Un qualcosa di completamente diverso dalla
lealtà forzata cui eravamo costretti nel Patto di
Varsavia. Per questo penso che ora tutti i membri della
Nato dovrebbero essere leali: si parla di intervento di
terra, ma esistono diversi tipi di interventi di terra,
anche per assistenza umanitaria, accoglienza dei profughi
o una partecipazione più attiva come quella che avvenne
in Bosnia. Fondamentalmente, credo che in veste di membro
di questa Alleanza, la Repubblica Ceca non possa esimersi
dai suoi obblighi e dai suoi impegni. Non si può
diventare il paese che spera che gli altri aiuteranno
senza essere disponibile ad aiutare.
C'è chi ci ricorda che tra i paesi della Nato, la
Repubblica Ceca ha una posizione particolare, per i buoni
rapporti che nel passato ci legavano alla Jugoslavia. Ma
questo conflitto maturava da dieci anni, e ogni
osservatore sensibile doveva sapere che qualcosa stava
per succedere, che si sarebbe giunti a questa esplosione
di violenza. È inutile, adesso, ricordare che la
Jugoslavia è stato nostro amico, scambiando la vecchia
Jugoslavia per quella nuova.
Loro, sotto il termine Jugoslavia, intendono la costa
dalmata, dove tutti i cechi andavano in vacanza: ma si
tratta della Croazia, da tempo indipendente. Voglio
ricordare che Dubrovnik, Spalato, posti per noi cari,
sono stati bombardati dal signor Milosevic. E questo
c'entra poco con quando la Jugoslavia era solidale con
noi nel 1968: si trattava solo dei serbi, allora? No,
c'erano anche gli albanesi del Kosovo, i croati, gli
sloveni, i macedoni.
Mi hanno scritto attori di teatro che mettono in scena da
dieci anni le mie opere e che mi vogliono bene:
"Cosa abbiamo fatto di male per essere
bombardati?", mi chiedono. A me non hanno fatto
niente, naturalmente, ma il loro regime, con l'aiuto
delle sue componenti militari, massacra i loro
concittadini, un grande gruppo di loro concittadini. E
quello che quel regime fa con quegli albanesi è come se
lo facesse a me. È quel principio base per cui se si
maltratta qualsiasi persona è come se lo si facesse a
noi stessi. E questo è un principio di solidarietà
umana che sorpassa la frontiera degli stati, delle
regioni. Io non credo che con Milosevic, oggi, si possa
stipulare la pace, o assicurare una convivenza civile tra
tutte le etnie di quella regione.
Milosevic ha le mani troppo sporche di sangue per
diventare affidabile e sbaglia chi dice che questa guerra
potrebbe avere frenato la lenta avanzata della democrazia
in Serbia e Montenegro. Il male deve essere affrontato. E
se dicessimo: aspettiamo ancora dieci anni perché forse
così la democrazia si svilupperà, sarebbe solo una
scusa, un pretesto artificioso.
(23 aprile 1999)
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Prudenza nei Balcani, antico nido di
guerre
Quando la storia torna
sul luogo del delitto
di EVGENIJ EVTUSHENKO
Di recente ho ricevuto una lettera da
Israele con la fotografia di un bambino di sette anni al
quale era stato imposto il nome di Babij Jar; certamente
non in onore della mia poesia omonima, ma in ricordo del
luogo di Kiev dove fu perpetrato uno dei più atroci
delitti del ventesimo secolo. I genitori spiegavano nella
lettera di aver dato al figlio quel nome perché ogni
volta, pronunciandolo, la gente rammentasse cosa era
accaduto a Babij Jar o, non conoscendo i fatti e
chiedendo il significato del nome, fissasse per sempre
nella propria mente quelle due parole. Oggi, chissà
perché, vorrei che quel piccolo avesse il volto di un
bambino albanese o serbo...
La storia, come Raskolnikov, torna molto spesso sul luogo
del delitto. Oggi è tornata nei Balcani dove, all'inizio
del secolo, con l'attentato all'arciduca Ferdinando, ebbe
inizio la prima guerra mondiale.
Durante il periodo della guerra fredda, quando sul
problema di Berlino si assisteva all'aspra
contrapposizione tra Occidente e Urss, chiesi al poeta
americano Robert Frost in visita a Mosca: "Ma che
cosa ne farebbe lei di Berlino?". "Io
semplicemente non la farei" ridacchiò
maliziosamente Frost con la sua aria da farmer. Se oggi
fosse ancora in vita Frost potrebbe dare la stessa
risposta sui Balcani. Le persone hanno trasformato questa
regione in un luogo stregato che nasconde negli anfratti
tra le rocce un nido di serpenti di guerre future.
Prudenza con i Balcani. Se, con eccessiva presunzione, si
va a frugare in questo nido con la punta di uno stivale
militare straniero, con un bastone imperioso alla maniera
colonialista o con missili alati, i serpenti delle
guerre, risvegliati, potrebbero strisciare lontano e
qualcuno, gonfiandosi come un cobra, trasformarsi da
guerra locale in conflitto mondiale, annientando col
proprio veleno l'intero globo terrestre.
La posizione della Russia, contraria ai bombardamenti
sulla Jugoslavia, non significa per niente "odio
verso l'America", ma deriva da fattori storici e
naturali. La comune religione ortodossa. L'affinità
delle lingue che permettono a un serbo di capire un russo
e viceversa. L'aiuto tradizionalmente prestato dai russi
ai serbi nei momenti difficili della loro storia. Gli
innumerevoli matrimoni misti nel secolo scorso e in
questo. Il maresciallo Tito, ammiratore dell'attrice
russa Tatjana Okunevskaja, interprete principale del
famoso film "Notte sopra Berlino", l'aveva
pregata di trasferirsi in Jugoslavia.
Dopo la rivoluzione del 1917 Belgrado fu uno dei maggiori
centri culturali dell'emigrazione russa. Durante
l'infanzia tutta la mia generazione si è appassionata
alla lettura dei "Racconti del Montenegro"
divenuti un classico della letteratura russa tradotta. Le
imprese dei partigiani jugoslavi in lotta contro i
nazisti nella Seconda Guerra Mondiale sono state di
esempio ai nostri soldati ed hanno ispirato poeti russi
famosi. Si potrebbe raccogliere un'intera antologia di
poesie russe sulla Jugoslavia.
Quando nei rapporti distaccati e freddi di un impeccabile
portavoce della Nato ho sentito che la città di
Kraguevac costituiva uno dei bersagli da colpire ho avuto
un sussulto poiché questo nome era il simbolo
dell'eroica resistenza del popolo jugoslavo agli
occupanti hitleriani. Una altrettanto eroica resistenza
fu opposta dagli jugoslavi al regime staliniano. Ma
questa non si è mai trasformata in odio. Quando la
Jugoslavia fu bollata come repubblica-rinnegata dalla
propaganda del Kominform migliaia di cittadini si
riunirono sotto le finestre dell'ambasciata dell'Urss
cantando in coro, per esprimere la loro protesta, le più
amate canzoni sovietiche "Tiomnaja noc" e
"Shalandy polnye kifali". Allora i quotidiani
moscoviti chiamavano Tito non più eroe, ma traditore.
Eppure questo appellativo mai attecchì tra la
popolazione.
Ricordo che nel 1948 io e mio padre andammo ad uno
spettacolo del circo di Mosca. Un clown introdusse sulla
pista un enorme cane con sulla testa un berretto da
maresciallo jugoslavo. La bestia teneva stretto fra i
denti un pacchetto di giganteschi dollari falsi.
"Ehi, Tito venduto", gridò il clown con voce
stridula, ridendo del suo volgare calembour. La sala
rimase nel più assoluto silenzio. Era troppo grande nel
nostro popolo la stima per gli jugoslavi compagni di
lotta contro il nazismo. "È disgustoso. Usciamo da
qui" esclamò mio padre alzandosi.
E all'improvviso i padri e le madri presenti cominciarono
ad alzarsi dai loro posti portando con sé i figli. La
sala del circo si svuotò. In seguito mi raccontarono che
quello squallido numero di propaganda era stato tolto dal
programma.
Nel 1950 lo scrittore Orest Maltsev ricevette il premio
Stalin per il romanzo pamphlet "La tragedia
jugoslava" nel quale si gettava discredito sul
movimento partigiano in Jugoslavia. Dopo numerose
riedizioni l'autore stipulò un contratto con gli studi
cinematografici per portare il romanzo sullo schermo. Su
di lui piovvero soldi, ma da quel momento molti scrittori
gli tolsero il saluto. Si costruì a Peredelkino una
dacia di dimensioni gigantesche per quei tempi. Poi, dopo
la morte di Stalin, Krusciov si rappacificò con Tito. Le
riedizioni de "La tragedia jugoslava" cessarono
e il film fu interrotto. Maltsev cadde in povertà e fu
costretto a vivere in quella enorme dacia a carico della
sua ex domestica. Nel negozio dove si recava ogni tanto
per acquistare una bottiglia di vodka a buon mercato e
una scatola di aringhe dicevano, additandolo: "Dio
lo ha punito per la Jugoslavia".
La Jugoslavia è stata per lungo tempo il più fiorente e
il più indipendente paese dell'area socialista o almeno
a noi pareva così. Solo in seguito, dopo la morte di
Tito, col crollo della federazione jugoslava tenuta
insieme dalla sua "stalinista volontà
anti-stalinista", grazie ai geniali film di Emir
Kusturica "Papà è in viaggio d'affari" e
"Underground", abbiamo cominciato a comprendere
che non tutto era giusto e privo di errori nel paese dei
nostri "compagni d'arme" jugoslavi la cui vita,
ai nostri occhi così libera rispetto alla nostra, molto
invidiavamo. Non per questo abbiamo cessato di amarli.
La guerra ha significato troppo per noi e quelli che si
batterono al nostro fianco non possono essere abbandonati
nei momenti difficili. Non hanno per caso dimenticato
tutto ciò gli attuali paesi membri della Nato che
combatterono contro il nazismo a fianco degli jugoslavi?
Ancora poco tempo fa Russia e Usa hanno festeggiato la
fine della guerra fredda. Ma non appena le bombe Nato
hanno cominciato a cadere sulla Jugoslavia, lo scheletro
della guerra fredda, risvegliato dalle esplosioni, ha
sollevato la lapide e sembrerebbe essere già saltato
dalla tomba sul suolo russo indossando sul cranio ora la
maschera da cane randagio di Zhirinovskij, miserabilmente
raggiante della possibilità di abbaiare contro
l'elefante americano; ora i bellicosi baffi del
presidente bielorusso; ora gli occhiali da sci di uno
sconosciuto terrorista nel tentativo di sparare
sull'ambasciata americana con un bazooka. Non si poteva
immaginare miglior regalo delle bombe sulla Jugoslavia
per questi degni personaggi. Hanno ripreso fiato quei
politici, ingannatori del proprio popolo, che hanno
immediatamente approfittato dell'occasione per battere
minacciosamente il pugno sul tavolo allungando
contemporaneamente l'altra mano nella attesa
dell'elemosina.
Ha ripreso fiato il presidente della Duma, latore da
parte di Milosevic, di un progetto fantascientifico di
riunificazione tra Russia, Jugoslavia e Bielorussia. Per
quanto mi riguarda non credo alla convulsa solidarietà
con il popolo serbo da parte di alcuni dei nostri
sospettosamente sinceri uomini politici. La vera
solidarietà non ha mai un ritorno politicamente
vantaggioso. Ma come si può credere loro quando molti
dei nostri parlamentari non hanno dimostrato la più
elementare solidarietà verso i propri cittadini, i
reduci di guerra in piedi con la mano tesa nei
sottopassaggi pedonali, gli insegnanti e i medici senza
stipendio da sei mesi, i minatori che, senza ottenere
risposta, continuano a battere i loro caschi
sull'asfalto.
La vergogna della situazione balcanica risiede nel fatto
che alcuni cinici politici, sia da noi sia in Occidente e
in Jugoslavia, giocano adesso la carta del Kosovo non
nell'interesse del popolo serbo o albanese, ma soltanto
per il prestigio personale, il mantenimento del potere e
per l'egemonia. Occorre notare che, salvo rari casi,
molti assumono posizione a favore dei serbi o degli
albanesi. A mio parere, invece, la sola posizione
corretta è quella pro serbi e pro albanesi allo stesso
tempo, vale a dire una posizione a favore dell'uomo.
Non si devono confondere i popoli con i loro estremisti.
Durante la guerra in Bosnia un'affascinante serba,
insegnante di filosofia in un college americano, ha
compromesso immediatamente ai miei occhi la sua
intelligenza pronunciando a proposito dei bosniaci:
"Questi sporchi bosniaci sono bestie selvagge.
Bisogna annientarli tutti". Le sue labbra così ben
modellate sembravano emettere ululati da lupo. Appena un
mese più tardi, conversando con una ricercatrice
bosniaca in un altro college, udii gli stessi ululati da
lupo a proposito dei serbi.
Non si deve demonizzare un popolo poiché qualcuno può
fare altrettanto del tuo.
Quindi, prudenza con i Balcani ma anche i Balcani devono
essere prudenti con se stessi. Le ininterrotte
processioni di profughi albanesi innocenti mostrate sugli
schermi televisivi inclinano l'animo umano alla
misericordia. Ma lo stesso sentimento suscitano le case
in fiamme dei serbi. E' tragico che Russia e America
vedano attraverso la televisione due guerre diverse, la
guerra è una sola. In parole povere per la televisione
americana sono colpevoli i serbi, mentre per quella russa
la colpa è degli americani.
Prima, quando Solgenitsyn interveniva contro il potere
sovietico, tutte le sue parole venivano pubblicate sulle
prime pagine dei giornali americani. Adesso invece
nessuno si affretta a pubblicare negli Stati Uniti quello
che lui dice a proposito dei bombardamenti sulla
Jugoslavia. "Sotto gli occhi dell'umanità viene
distrutto un meraviglioso paese europeo con gli applausi
inferociti dei governi dei paesi civilizzati. Persone in
preda alla disperazione, lasciando i rifugi antiaerei,
escono in catene umane incontro alla morte per salvare i
ponti sul Danubio. Non è questa una regressione al
passato?". Tuttavia la verità non risiede solo in
questo, ma anche nella vecchietta albanese, a malapena
viva, trascinata sulla neve in un sacco per immondizia
verso il Montenegro per essere salvata dall'inferno del
Kosovo, nella vecchietta serba, in piedi tutta la notte
su un ponte con un bersaglio appeso al petto cadente,
nell'atto di chiamare le bombe dal cielo ed anche nei tre
prigionieri americani con i volti ancora infantili
tumefatti e sanguinanti. Prudenza con i Balcani. (traduzione
a cura del gruppo Logos)
(22 aprile 1999)
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Guerra astratta
immagini vere
di TAHAR BEN JELLOUN
Prima immagine: in primo piano, il viso
roseo di un bel bambino. Potrebbe avere due anni o poco
più. È felice, sorride e vuol giocare con qualsiasi
oggetto. Sta in braccio a una donna e le dice
"Papà". Questa donna non è sua madre. I suoi
genitori sono scomparsi: morti, o gettati in un convoglio
diretto in Albania. La donna ha trovato questo bimbo a
Kukes, in Albania. Gli dà da mangiare e da bere come se
fosse suo figlio.
Dice che è diventato il suo quarto bambino. Se i
genitori sono ancora vivi, se vedono la televisione,
verranno a riprenderselo. Purtroppo, ci dice un'altra
donna, è probabile che i genitori siano stati uccisi. Il
bambino sarà stato nascosto; così ha avuto salva la
vita.
Seconda immagine: un altro bambino di una decina d'anni,
sul lettino di un ospedale da campo, circondato dai
volontari dell'associazione "Medici del mondo".
Piange, rifiuta di prendere un medicinale. L'infermiera
ci informa che i suoi sono stati tutti trucidati dai
soldati serbi, con una pallottola nella nuca. Lui è
fuggito, ma i soldati hanno sparato. È stato colpito a
una spalla. Questo ragazzo è invecchiato all'improvviso.
È passato brutalmente dall'infanzia all'età adulta,
età gravosa e amara. Il suo dolore è immenso. È la
strada del suo avvenire. Non dimenticherà mai i volti
dei suoi, abbattuti sotto i suoi occhi.
Terza immagine: un cielo nero attraversato da un velivolo
nero, con in coda una fiamma rossa appuntita. È un aereo
della Nato che parte per bombardare. Un'immagine ormai
familiare. Non c'è canale Tv che non la trasmetta.
Immagine astratta. Immagine rapida, che però lascia
tracce nel nostro immaginario. Ci ripete ogni sera che il
mondo libero sta facendo di tutto per piegare Milosevic,
l'aguzzino del suo popolo e dei popoli vicini. È
un'immagine troppo pulita per essere onesta. Vorrebbe
dire a noi, comodamente seduti sulle nostre poltrone, che
la guerra contro la Serbia è una guerra pulita. Che
ipocrisia! Che menzogna!
Quarta immagine: tante mani. Non si vede altro che mani.
Mani tese verso un camion. Mani grandi, piccole, nervose.
Tutte cercano di afferrare qualcosa: una razione di
latte. Siamo a Blace, città di confine tra il Kosovo e
la Macedonia. L'Acnur sta distribuendo latte. Tutte
quelle mani ci dicono la fame e la disperazione.
Quest'immagine riassume in sé la tragedia della guerra,
perché essere espulsi dalla propria casa, dalla propria
terra significa l'esodo, la fame e l'umiliazione. Ecco
cos'è la guerra: mani che hanno fame; mani che devono
portare un po' di latte ai bambini. Ma questa guerra
innescata male è una guerra strana. La causa è giusta.
Bisognava colpire l'esercito serbo. Ma che fare quando il
capo di questo esercito non ha alcun rispetto per il suo
popolo, ed è disposto a lasciare che tutto il suo paese
venga distrutto, pur di far trionfare il fantasma di una
Grande Serbia, pura, ripulita dai musulmani? Come nella
guerra del Golfo, abbiamo a che fare con un uomo cinico,
barbaro, senza scrupoli, nemico del diritto e delle
leggi; un uomo dalla psiche sregolata, con un passato
familiare segnato da vari suicidi e crisi di follia.
L'Occidente tratta Milosevic come tratta Saddam: pensando
di avere di fronte un uomo sensato, un politico
responsabile. Ma non è così. Da oltre un anno,
Milosevic sta mettendo in pratica il suo piano di
"pulizia etnica" nel modo più rigoroso, senza
dare spazio ai sentimenti, alle emozioni, al senso
morale. Come già in Bosnia e in Croazia, prosegue nel
Kosovo la sua barbara impresa. E questo, gli occidentali
non sembrano averlo bene assimilato. Non hanno tenuto
conto della condizione patologica della personalità di
Milosevic. In questa guerra mancano gli esperti di
psichiatria, in grado di ricostruire il ritratto di un
grande assassino, di un serial killer che non si
accontenta di qualche vittima, poiché ha l'appetito dei
grandi divoratori di popoli. Disgraziatamente, ci si fida
troppo delle armi sofisticate e non abbastanza
dell'analisi psicologica e umana.
Di questa guerra astratta, ciò che sussiste sono le
immagini di profughi, di superstiti delle sistematiche
esecuzioni. Immagini che ci lasciano profondamente
sconcertati, poiché ogni sera ci dicono: Milosevic non
è sconfitto. E persevera impunemente nei suoi crimini. (Traduzione
di Elisabetta Horvat)
(21 aprile 1999)
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Il diavolo Milosevic
Il problema è sempre un altro
di JEAN DANIEL
Milosevic è il diavolo: su questo
tutti sono d' accordo, tranne forse lo scrittore
austriaco Peter Handke, che ha appena restituito il
Premio Buchner conferitogli da un' Accademia tedesca, e
sconfessato la Chiesa cattolica (alla quale dice di
appartenere) perché il Papa non ha scelto tra i
belligeranti. Milosevic dunque è il diavolo, anche agli
occhi di chi si oppone ai bombardamenti e contesta il
dominio americano sulla Nato e il "servilismo"
europeo. Le difficoltà incominciano quando si tratta dei
diversi metodi da adottare per esorcizzarlo, questo
diavolo. QUI si scatenano le passioni, i polemisti si
lanciano reciproci ammonimenti, su toni di invettiva o di
suggestione. Non si sente più parlare d' altro che del
"complesso del Vietnam", dello "spirito di
Monaco" o della "sindrome della guerra del
Golfo". E si ritrovano gli accenti arcaici di una
perduta eloquenza. Si potrebbe dire con Camus che gli uni
non esitano ad "arrampicarsi sulle bare per poter
parlare da più in alto" mentre gli altri, ormai
nell' impossibilità di motivare con progetti
rivoluzionari il loro antiamericanismo, pur di mantenere
lo stesso atteggiamento si riducono a irrigidirsi sul
piedistallo della sovranità nazionale. Fin dall' inizio
di questo conflitto, ho potuto verificare che gli uomini
più convinti della propria razionalità non sono guidati
dalle idee, bensì dai sentimenti o dai miti. Una verità
rivelata da tempo? Senza dubbio, ma è sempre bene
verificare la saggezza delle nazioni con esperienze di
laboratorio. C' è poi da fare un' altra constatazione
che rivolgo a me stesso, come a titolo di "appunti
intimi": se i più appassionati alzano tanto la
voce, è perché hanno bisogno di nascondere alcune
verità. Ad esempio, un noto polemista si indignava non
senza talento contro l' atteggiamento di sottomissione di
alcuni grandi pensatori nei riguardi degli Stati Uniti.
Gli ho chiesto: "Lei è contrario ai
bombardamenti?". Mi ha risposto che il problema era
un altro. Ma guarda un po' ! E qual è allora il
problema? Il problema, ha spiegato, è che siamo a
rimorchio degli americani; sono stati loro a decidere di
bombardare. E se gli americani non avessero preso questa
decisione? Il mio interlocutore a questo punto è
imbarazzato, e perciò si spolmona: "Magari sarebbe
stato necessario che lo facesse la difesa europea".
Ma ne avrebbe avuto i mezzi? Risposta: "Non è
questo il problema". Il mio interlocutore è un
amico, e mi è rimasto il dubbio che abbia preso le mie
domande come una provocazione. Bisognerà lasciar passare
un po' di tempo prima di andare di nuovo a colazione
insieme. D' altra parte, un personaggio importantissimo
per il ruolo che ha giocato in passato, del quale
ovviamente non dirò il nome, contesta allarmato l'
accusa rivolta all' Europa, e soprattutto alla Francia,
di essere agli ordini degli Stati Uniti. Chi ha
conseguito il riavvicinamento con la Russia? A chi è
dovuta la presenza di Kofi Annan, segretario generale
dell' Onu, all' Assemblea dell' Unione Europea di
Bruxelles? Senza l' Europa, senza la Francia, forse gli
americani avrebbero bombardato obiettivi civili! Sarà.
Ammettiamolo pure. Ma faccio notare che la cosa più
importante è stata la decisione di colpire con gli
attacchi aerei.
C'è una grande differenza tra comunanza di obiettivi e
diversità di metodi. Non siamo forse stati completamente
in balìa degli errori americani quanto all' effetto dei
bombardamenti? Siamo stati in grado di far notare ai
nostri alleati che in Iraq si erano sbagliati in pieno?
C' è stato un solo stratega, un solo esperto, un solo
diplomatico che abbia previsto la catastrofe umanitaria,
le mostruose ritorsioni serbe sui rifugiati? L' uomo con
cui sto parlando è importante. Mi ascolta con quell'
aria stanca che dimostrano i grandi "realisti"
davanti alle ingenuità degli intellettuali. Con tono di
aristocratico disincanto, dopo essersi lisciato a lungo i
capelli con mano elegante, mi risponde - lui pure!
"Il problema non sta qui". è curioso osservare
che il problema non sta mai qui. Di fatto, ci si chiede
dove mai possa stare, se non dove si ha voglia di
metterlo, a seconda delle necessità, che possono
cambiare ogni giorno. Finora ho citato persone che si
esprimono in maniera teatrale o erudita, o più
semplicemente con presunzione. Ma c' è anche qualcuno
che tace. Alcuni dei miei amici (non li abbandono), che
in genere si mostrano interessati a consultarmi, non si
fanno più vivi. Non una lettera, non una telefonata.
Cos' è successo? Si tratta di amici arabi, alcuni
musulmani e altri no. Come è noto, Parigi è divenuta in
parte una capitale arabo-musulmana, dove è facile
incontrare le più diverse personalità di primo piano.
Ora però il silenzio è totale per tutti. Ho invitato
uno scrittore mediorientale residente a Parigi, che mi ha
confidato il suo imbarazzo.
Questi americani, decisamente demoniaci, ora si sono
presi anche il vizio di mobilitarsi in soccorso del
Kosovo musulmano! "Abbiamo faticato tanto - dice - a
costruirci un' identità progressista in opposizione agli
Stati Uniti; ed ecco che all' improvviso siamo in
trappola". Ma i kosovari soffrono? Risposta: sì,
certo. E se si salveranno, non sarà in parte grazie agli
Stati Uniti? Risposta: in un certo senso, sembrerebbe di
sì. E allora? Allora bisogna sventare le astuzie della
storia. Non cedere alle urgenze della congiuntura e non
avallare l' imperialismo. D' accordo, ma l' Europa?
Risposta: è soltanto una provincia dell' impero
americano, e in ogni modo oggi "il problema non sta
qui". Ho espresso altrove la mia posizione personale
su "questa cattiva e questa giusta lotta". E ne
ho denunciato soprattutto l' impreparazione, i metodi
precipitosi, senza però contestare il dovere assoluto
dell' Europa di combattere la barbarie slavo-stalinista
all' interno del suo nuovo spazio. Ma non vedo perché un
cittadino, e soprattutto un intellettuale, non debba
innanzitutto restare uno spirito libero, e poter dire
ciò che vede, così come lo vede. Mi sono riservato di
concludere con la confidenza più delicata. Non so se in
Italia le manifestazioni di solidarietà con i rifugiati
del Kosovo siano state numerose, spontanee e generose
come in Francia.
Devo dire che mi hanno sorpreso, tanto da intaccare in
parte il mio generale e indiscriminato pessimismo sull'
umanità. Ma tra le cose che ho sentito mormorare o
sussurrare con tono quasi colpevole, con cattiva
coscienza, vorrei citare le considerazioni di un amico,
un tempo molto impegnato nella lotta anticolonialista:
"Bisognerebbe fare tutto il possibile per aiutare i
rifugiati sul posto. Perché se arrivassero da noi in
massa e si comportassero da musulmani attivi, nell'
Europa latina e in Germania si rischierebbe di arrivare a
uno squilibrio demografico quasi pari a quello dei
Balcani. Per non parlare del pericolo razzista. Già ora,
da noi in Provenza, se a qualcuno rubano la macchina si
dice: sarà stato uno zingaro. E in Italia, per qualunque
delitto si dice: sarà stato un albanese". Parole di
un amico che non per questo, credo, rifiuterebbe di
accogliere un rifugiato. Ma con me, al momento della
verità, ha voluto passare dalle grida ai sussurri.
(traduzione di Elisabetta Horvat)
(20 aprile 1999)
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Ricordando Sarajevo
è una guerra giusta
di SUSAN SONTAG
L'altro giorno, un'amica di New York mi
ha telefonato a Bari, dove mi trovo per un soggiorno di
alcuni mesi; desiderava notizie della mia salute, e mi ha
chiesto tra l'altro se da qui sentivo esplodere le bombe.
L'ho rassicurata spiegandole che il rumore dei
bombardamenti su Belgrado, Novi Sad o Pristina non arriva
fino al centro di Bari; anzi, da qui non si sentono
neppure decollare gli aerei dalla vicina base Nato di
Gioia del Colle.
Sarebbe facile ironizzare sulla scarsa competenza
geografica di questa mia amica americana, per la quale
gli Stati europei sono appena un po'più grandi di un
francobollo; ma la sua minuscola Europa collima
perfettamente con un'altra idea molto diffusa: quella di
un'Europa impotente, trascinata in questa follia
bellicista da un'America grande e cattiva.
Forse esagero. Sto scrivendo dall'Italia, l'anello più
debole della catena della Nato. A differenza della
Francia e della Germania, l'Italia ha tuttora la sua
ambasciata a Belgrado. Milosevic ha ricevuto Cossutta. Il
sindaco di Venezia, persona degna di stima, ha inviato a
Belgrado un suo emissario con lettere indirizzate a
Milosevic e a Rugova, nelle quali proponeva Venezia quale
sede di un negoziato di pace. (Le lettere sono state
accettate, con tanti ringraziamenti, dal primate
ortodosso dopo la messa domenicale di Pasqua).
Il panico in Italia è comunque comprensibile. Da qui non
si assiste solo alle scene strazianti trasmesse dai Tg,
ma anche allo spettacolo dell'esodo di massa. E per
l'Italia gli albanesi sono innanzitutto futuri immigrati.
Ma la diffusa opposizione alla guerra non è certo
limitata a questo paese, e neppure a una sola parte
politica. Si può anzi affermare il contrario: oltre ai
residui della sinistra, si sono mobilitati contro la
guerra anche personaggi come Le Pen, Bossi o Haider. La
destra è ostile all'immigrazione, mentre la sinistra è
contraria all'America (o piuttosto all'idea dell'America,
dato che in Europa l'egemonia della cultura popolare
americana non potrebbe essere più totale).
Sia nella cosiddetta sinistra che nella cosiddetta destra
emerge sempre più la questione dell'identità.
L'antiamericanismo che sta alimentando la protesta contro
la guerra è cresciuto in questi ultimi anni in molte
nazioni dell'attuale Unione Europea. Forse il miglior
modo per comprenderlo è vedere in esso una proiezione
delle ansie suscitate da questa nuova Europa, presentata
a tutti come cosa buona, tanto che pochi osano metterla
in discussione. Le nazioni sono comunità da sempre
immaginate, riconcepite, riaffermate contro la pressione
dell'Altro che le definisce. Lo spettro di una nazione
senza confini, infinitamente permeabile, non può che
suscitare ansia. L'Europa ha bisogno di un'America
soverchiante.
Europa debole? Europa impotente? Lo si sente dire
ovunque. La verità è che un'Europa nata per gli affari,
costruita con il consenso entusiastico delle élites
"responsabili", economiche e professionali, è
destinata precisamente a ritrovarsi incapace di
rispondere alla minaccia costituita da un dittatore come
Milosevic. Non è una questione di "debolezza",
anche se viene percepita come tale. È una questione di
ideologia.
L'Europa non è debole, tutt'altro. L'Europa - quella in
via di costruzione dal 1989, cioè dalla vittoria finale
del capitalismo - punta a qualcosa di diverso. Qualcosa
che in realtà rende per lo più obsoleti i problemi
inerenti alla giustizia, anzi, in effetti, tutte le
questioni morali. (Al loro posto è oggi in primo piano
il problema della salute, che può essere collegato alle
preoccupazioni ecologiche; ma questa è un'altra
questione).
Un'Europa nata per lo spettacolo, il consumismo e le
grandi strette di mano... ma ossessionata dal timore di
vedere le identità nazionali sommerse da un
mercantilismo multinazionale senza volto, o dalle ondate
di immigrati provenienti dai paesi più poveri.
In una parte del continente, gli ex comunisti giocano la
carta nazionalista - come Milosevic, che ne è l'esempio
più egregio - fomentando nazionalismi letali. Nell'altra
il nazionalismo, e con esso la guerra, sono considerati
obsoleti, fuori moda. Com'è impotente la
"nostra" Europa davanti a tutti questi
irrazionali massacri, alle sofferenze dell'altra Europa.
E intanto la guerra continua. Una guerra iniziata nel
1991, non nel 1999. E neppure sei secoli fa, come
vorrebbero i serbi. Questo è un paese il cui
nazionalismo ha adottato come suo mito fondatore una
sconfitta: la battaglia del Kosovo, quando, nel 1389, i
serbi hanno dovuto cedere ai turchi. Ci stiamo battendo
contro i turchi, dicevano ai giornalisti gli ufficiali
serbi al comando delle postazioni di mortai sulle alture
intorno a Sarajevo. Non sarebbe strano se la Francia
continuasse a richiamarsi al ricordo della battaglia di
Agincourt, del 1415, in un'eterna ostilità verso la Gran
Bretagna? Chi mai potrebbe immaginare una cosa del
genere? Il fatto è che la Francia è Europa; e
"loro" no.
Sì, è questa l'Europa. L'Europa che non ha reagito alle
bombe serbe su Dubrovnik. Né ai tre anni di assedio di
Sarajevo. L'Europa che ha lasciato morire la Bosnia. Una
nuova definizione dell'Europa: il luogo in cui le
tragedie non avvengono. Le guerre, i genocidi... cose che
accadevano qui un tempo, ma oggi non esistono più.
Possono capitare in Africa o in qualche parte dell'Europa
che non è "realmente" Europa - cioè nei
Balcani. Anche qui, forse sto esagerando. Ma dopo aver
trascorso lunghi periodi a Sarajevo, tra il 1993 e il
1996, non mi sembra affatto di esagerare.
Ora mi trovo ai margini dell'Europa della Nato, a poche
centinaia di chilometri dai campi profughi di Durazzo, di
Kukes e di Blace, dalla più grande somma di sofferenze
che l'Europa abbia conosciuto dalla Seconda guerra
mondiale. È vero che qui non si sentono decollare gli
aerei della Nato dalla loro base pugliese; ma si può
andare a piedi al molo dei traghetti di Bari, dove si
assiste al quotidiano affluire di fiumane di albanesi e
kosovari: famiglie che arrivano con le navi provenienti
da Durazzo. Di notte, a un centinaio di chilometri da
Bari si può vedere la Guardia costiera dare la caccia ai
gommoni stipati di profughi illegali che salpano di notte
da Valona, affrontando la perigliosa traversata
dell'Adriatico. Ma se uscissi di casa soltanto per vedere
gli amici, mangiare una pizza, andare al cinema o a
sedermi al tavolo di un caffè, qui a Bari non sarei più
vicina alla guerra di quanto lo siano i telegiornali e i
quotidiani che trovo ogni mattina davanti alla mia porta.
Come se fossi già tornata a New York.
Certo, è facile distogliere gli occhi da ciò che sta
accadendo, quando non accade a noi. A meno di aver voluto
recarsi sul posto. Ricordo con quale rammarico, nel 1993
a Sarajevo, un'amica bosniaca mi disse che due anni
prima, davanti alle immagini televisive di Vukovar
totalmente rasa al suolo dai serbi, aveva pensato:
"È terribile. Ma è successo in Croazia. Qui in
Bosnia non accadrà mai...". E cambiò canale. Ma
l'anno dopo, quando la guerra raggiunse la Bosnia,
sperimentò la cosa da una prospettiva diversa: era lei a
vivere una vicenda che altri vedevano sullo schermo
dicendo: "È terribile"... e cambiavano canale.
Quanto si sente impotente la "nostra" Europa,
confortevole e pacificata, davanti a tutti questi
irrazionali massacri, a queste sofferenze nell'altra
Europa. Ma le immagini non si possono esorcizzare... Quei
profughi, cacciati dalle proprie case, dai propri
villaggi incendiati a centinaia di migliaia, tanto simili
a noi. Generazioni di europei timorosi di qualsiasi
idealismo, incapaci di indignazione se non all'interno
dei vecchi schemi della guerra fredda anti-imperialista
(benché ovviamente, il punto chiave stia nel fatto che
questa guerra è il risultato diretto della fine della
guerra fredda e della dissoluzione dei vecchi imperi,
delle vecchie rivalità imperiali).
Basta con la guerra, basta con il genocidio: queste le
scritte sugli striscioni che sventolano nelle
manifestazioni, a Roma come a Bari. Per la pace. Contro
la guerra. Chi non lo è? Ma come fermare, senza fare la
guerra, chi ha deciso di compiere un genocidio? Tutto
questo ci riporta a cose già viste. Orrori su orrori. I
nostri tentativi di trovare una risposta
"umanitaria". La nostra incapacità (sì, dopo
Auschwitz!) di comprendere come sia possibile
quest'orrore. E con il moltiplicarsi degli orrori diventa
anche più difficile comprendere perché dovremmo
rispondere in alcuni casi, quando non abbiamo reagito in
altri. Perché quest'orrore e non un altro? Perché la
Bosnia o il Kosovo, e non il Kurdistan o il Ruanda o il
Tibet? Non è come se dicessimo che le vite, le
sofferenze degli europei hanno un valore diverso, che
meritano di essere protette con più impegno delle vite
dei popoli dell'Africa, del Medio Oriente o dell'Asia?
A questa obiezione molto diffusa contro la guerra nella
Nato si può anche rispondere con fierezza: "È
vero, la preoccupazione per la sorte dei kosovari è
eurocentrica. E con ciò? Cosa c'è di sbagliato?".
L'accusa stessa di eurocentrismo porta in sé una traccia
della presunzione dell'Europa, l'idea di essere investita
di una missione universale, per cui gli europei presumono
che ogni angolo del pianeta richieda la loro attenzione.
Se a fronte del genocidio dei tutsi in Ruanda (un milione
di vittime!) un gruppo di Stati africani si fosse sentito
in obbligo di intervenire militarmente, magari sotto la
guida di Nelson Mandela, li avremmo forse accusati di
afrocentrismo? Avremmo chiesto loro con che diritto
intervenivano in Ruanda quando non avevano fatto nulla
per i curdi o per i tibetani?
L'altro argomento contro l'intervento armato è che la
guerra è illegale - meravigliosa parola - perché la
Nato viola i confini di uno Stato sovrano. Dopo tutto, il
Kosovo è parte della nuova Grande Serbia denominata
Jugoslavia. Tanto peggio per i kosovari se nel 1989
Milosevic ha revocato lo statuto autonomo di cui
godevano. Peccato che un tempo questo territorio
appartenesse all'Albania (ragione per cui gli abitanti
del Kosovo sono al 90 per cento albanesi - o di etnia
albanese, come si usa dire per distinguerli dagli
abitanti dell'Albania). I confini cambiano.
Ma questi confini nazionali, modificati tante volte da un
secolo a questa parte, devono essere veramente il
criterio ultimo? Come dire che si può uccidere la
propria moglie tra le mura di casa, ma non fuori dalla
porta o per strada. Immaginiamo che la Germania nazista
non avesse ambizioni espansioniste, che si fosse
limitata, tra la fine degli Anni 30 e gli Anni 40, a
inserire nel proprio programma politico la strage di
tutti gli ebrei tedeschi. Pensiamo forse che un governo
abbia il diritto di fare sul proprio territorio tutto
ciò che vuole? Può darsi che sessant'anni fa la
posizione dei governi europei sarebbe stata questa. Ma
oggi potremmo approvare una decisione del genere?
Proviamo a trasferire quest'ipotesi nel presente. Cosa
accadrebbe se in Corsica il governo francese
incominciasse a massacrare parte degli abitanti e a
cacciare gli altri dall'isola? O se il governo italiano
si disponesse a svuotare dei suoi abitanti la Sicilia o
la Sardegna, provocando l'esodo di milioni di persone? O
se la Spagna decidesse una soluzione finale per la
popolazione ribelle del Paese Basco? Non accetteremmo
forse l'idea che sul continente un consorzio di potenze
abbia il diritto di usare la forza militare per
costringere il governo francese (o italiano, o spagnolo)
a invertire la rotta - il che comporterebbe probabilmente
il rovesciamento di quel governo?
Ma ovviamente questo non sarebbe potuto accadere, vero?
Non in Europa. Durante l'assedio, i miei amici di
Sarajevo dicevano: "Come può
"l'Occidente" permettere che tutto questo
succeda a noi? Siamo anche noi europei, siamo in Europa.
"Loro" non permetteranno che si vada avanti
così". Ma "loro" - gli europei - lo hanno
permesso. Ciò che è accaduto in Bosnia è veramente
terribile: dai campi di sterminio serbi, nel nord della
Bosnia, nel 1992 - i primi campi di sterminio sul suolo
europeo dal 1940 - alle esecuzioni di massa di molte
migliaia di civili a Srebrenica e altrove, nell'estate
del 1995. E tutto questo, l'Europa lo ha tollerato.
Quindi, evidentemente la Bosnia non era Europa. Se il XX
secolo è iniziato a Sarajevo, diceva qualcuno che come
noi era rimasto là per qualche tempo, anche il XXI
secolo incomincerà a Sarajevo. E se le scelte che la
Nato ha davanti a sé sembrano tutte improbabili o poco
appetibili, è perché il suo intervento arriva con otto
anni di ritardo. Slobodan Milosevic andava fermato nel
1991, quando incominciò a bombardare Dubrovnik.
Negli anni 1993-94, i politici americani dicevano che se
in Bosnia Milosevic l'avesse passata liscia, quella
sarebbe stata sicuramente l'ultima volta. Allora fu
tracciata una linea nella sabbia: non gli avrebbero
permesso di fare la guerra nel Kosovo. Ma chi credeva
agli americani allora? Non i bosniaci. Non Milosevic. Non
gli europei, e neppure gli stessi americani. Dopo Dayton,
dopo la distruzione della Bosnia indipendente, era ora di
rimettersi a dormire - come se la serie degli eventi
messi in moto nel 1989, con l'accesso di Milosevic al
potere e con la revoca dello statuto autonomo della
provincia del Kosovo, potesse non procedere fino alla sua
ovvia, logica conclusione.
Se agli europei riesce difficile rendersi conto
dell'importanza di quanto sta accadendo nell'Europa
sudorientale, si può immaginare quanto sia difficile per
gli americani convincersi che tutto questo è nel loro
interesse. L'America non è interessata a fomentare
questa guerra in Europa, mentre l'Europa nuocerebbe
gravemente al proprio interesse se premiasse Slobodan
Milosevic per aver distrutto la Jugoslavia e provocato
tante sofferenze umane. Perché non lasciare, chiedono
alcuni, che questo incendio si esaurisca da sé? E
l'espulsione di almeno un milione di persone verso i
paesi vicini, in Albania e in Macedonia? La conseguenza
sarà certamente la distruzione del piccolo Stato di
Macedonia. La carta geografica dei Balcani dovrà essere
ridisegnata, certo non senza contrasti, che
coinvolgeranno quanto meno la Serbia, la Bulgaria e la
Grecia. Come immaginare che questo possa avvenire in
maniera pacifica?
Non c'è da sorprendersi se i serbi si presentano come
vittime (Clinton-Hitler ecc.). Ma è grottesco porre
sullo stesso piano le morti causate dai bombardamenti
Nato e le atrocità inflitte in questi ultimi otto anni a
centinaia di migliaia di persone dal programma serbo di
pulizia etnica.
Non tutte le violenze sono ugualmente riprovevoli. Non
tutte le guerre sono ugualmente ingiuste. Dobbiamo
ricusare l'uso della forza in risposta alla violenza di
uno Stato contro persone che nominalmente sono suoi
cittadini? (Perché questa è oggi la natura della
maggior parte delle guerre, che non sono più conflitti
tra Stati).
I principali esempi di violenza di massa nel mondo di
oggi sono atti commessi dai governi all'interno dei loro
confini legalmente riconosciuti. Possiamo dire davvero
che a questo non ci può essere una risposta? È
accettabile che massacri del genere vengano liquidati con
la definizione di guerre civili, frutto di "un
atavico odio etnico"? Dopo tutto, anche
l'antisemitismo era un'antica tradizione in Europa -
molto più antica dell'atavico odio tra i popoli
balcanici. Poteva bastare questo per consentire a Hitler
di sterminare gli ebrei sul territorio tedesco?
Davvero le guerre non hanno mai risolto nulla? Provate a
chiedere a un nero americano se questo può valere anche
per la guerra civile degli Usa. La guerra non è
semplicemente un errore, un difetto di comunicazione. Il
male, nel senso radicale del termine, esiste nel mondo.
Perciò vi sono guerre giuste. E questa è una guerra
giusta. Anche se è abborracciata.
Fermare il genocidio. Far tornare i profughi nelle loro
case. Sono obiettivi validi. Ma come concepire che
vengano raggiunti finché non si sarà rovesciato il
regime di Milosevic? (E la verità è che questo non
accadrà).
È impossibile vedere i futuri sviluppi di questa guerra.
Tutte le opzioni sembrano improbabili, oltre che
indesiderabili. Non si può pensare di continuare a
bombardare a tempo indeterminato, se Milosevic è
effettivamente disposto ad accettare la distruzione
dell'economia serba; ed è impensabile che la Nato smetta
di bombardare se Milosevic resta intransigente.
Il governo di Milosevic ha finito per portare anche in
Serbia una piccola parte delle sofferenze che aveva
inflitto ai popoli vicini. Esiste una cultura di guerra.
E la bellicosità è un vizio che induce assuefazione.
Quando una comunità ha di sé l'immagine dell'eterna
vittima della storia, può essere intossicata da una
sconfitta non meno che da una vittoria. Quanto tempo ci
vorrà perché i serbi si rendano conto che gli anni
della dittatura di Milosevic sono stati un completo
disastro per il paese, e che il saldo netto della sua
politica è la rovina economica e culturale dell'intera
regione, Serbia compresa, per varie generazioni?
Purtroppo possiamo essere certi che questo non accadrà
tanto presto.
(19 aprile 1999)
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