UN CONFLITTO IRRISOLVIBILE ?

di rocco altieri

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Saggio apparso nel vol. 5 del giugno 2004 dei "Quaderni Satyagraha" da lui diretti, volume monografico dedicato al tema "Nonviolenza per Gerusalemme".

Rocco Altieri e' nato a Monteleone di Puglia, studi di sociologia, lettere moderne e scienze religiose presso l'Universita' di Napoli, promotore degli studi sulla pace e la trasformazione nonviolenta dei conflitti presso l'Universita' di Pisa, docente di Teoria e prassi della nonviolenza all'Universita' di Pisa, dirige la rivista "Quaderni satyagraha". Tra le opere di Rocco Altieri segnaliamo particolarmente La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1998. ".

Abbiamo omesso le note che accompagnavano il saggio, puntuali e preziose, per le quali rinviamo tout court alla rivista. Come e' ovvio, su un tema cosi' delicato vi sono interpretazioni e opinioni molto diverse e fin contrapposte. Crediamo che ragionarne pacatamente, nel rispetto della sensibilita' di ogni persona, sia un modo per sostenere quanti tra gli israeliani e tra i palestinesi si stanno impegnando per il dialogo, la pace, la giustizia, la verita', la solidarieta', la convivenza.

Il conflitto israelo-palestinese dura da piu' di un secolo e ha provocato centinaia di migliaia di vittime, immani distruzioni e lo sperpero folle di risorse che avrebbero potuto in realta' beneficiare i due popoli. L'aver deciso di approntare un numero monografico sul complesso e difficile conflitto che insanguina la Terra Santa e' stato, per il progetto editoriale dei "Quaderni Satyagraha", una sfida temeraria e, forse, prematura.

Ma non era possibile, proponendosi di trattare di nonviolenza, non misurarsi con la drammatica attualita' di una contesa lacerante che nel Vicino Oriente ha raggiunto in questi mesi i picchi di un'escalation inaudita di violenza, in un vortice drammatico di attacchi e di contro-attacchi, di "attentati suicidi" e di "esecuzioni mirate", con l'inasprirsi dell'occupazione militare israeliana, fatta di punizioni collettive nei confronti della popolazione palestinese, di bulldozer che radono al suolo le abitazioni e sradicano gli uliveti, fino a concepire la costruzione di un muro che divide i territori e le popolazioni.

Di fronte a tali scenari, nel senso comune la nonviolenza appare annichilita e la pace un sogno irraggiungibile. La guerra che infuria in Medio Oriente sembrerebbe dar ragione ai tanti teorici del "realismo" che affermano come la politica sia sottomessa alla logica del piu' forte, rinnovando le parole senza speranza che Bernanos scrisse negli anni della guerra civile in Spagna: "Dicono le voci: 'Sciagura ai popoli! Siano maledetti gli infermi! La terra sara' posseduta dai forti. Coloro che piangono sono deboli. E non saranno mai consolati. Chi ha solo fame e sete di giustizia va a pescare la luna e a pascolare il vento'".

Una tale visione di un pessimismo storico "anti-evangelico" sconcerta, ma non puo' indurre alla rassegnazione o alla disperazione. Come ha ammonito, col peso della sua autorita' morale, Giovanni Paolo II: "Nessuno puo' abbandonarsi alla tentazione dello scoramento o della ritorsione: il rispetto della vita, la solidarieta' internazionale, l'osservanza della legge devono prevalere sull'odio e sulla violenza. (...) In realta', non di muri ha bisogno la Terra Santa, ma di ponti! Senza riconciliazione degli animi non ci puo' essere pace".

La violenza come peccato originale.

In realta', i conflitti diventano ostinati e irrisolvibili proprio a causa del ricorso alla violenza come strumento per imporre soluzioni unilaterali. La violenza che si protrae da decenni nella regione storica della Palestina mostra in tutta evidenza gli effetti nefasti della sua azione e la sua totale inefficacia rispetto agli obiettivi che vorrebbe conseguire: sicurezza, giustizia, pace, liberta'. A causa della guerra, invece, le fratture sociali si fanno sempre piu' profonde e ingestibili, minacciando I bisogni umani fondamentali, quelli dell'identita' e della sicurezza innanzitutto.

C'e' un peccato di origine che spiega la violenza irriducibile che pervade oggi la quotidianita' della gente che vive in Palestina. Esso va individuato nel modo in cui si ando' a fondare il nuovo Stato, facendo ricorso allo scontro e alla violenza, piuttosto che a un soluzione concordata con gli arabi nell'ambito delle Nazioni Unite, come chiedevano alcune voci ebraiche della nonviolenza, Judah L. Magnes, Martin Buber, Hannah Arendt, Albert Einstein, Erich Fromm che come autentici, moderni profeti misero in guardia il popolo di Israele dal cadere nella tentazione della violenza, facendosi appoggiare dalle potenze imperialistiche del tempo, cosi' determinando per il nascente Stato un futuro di guerra permanente. Questi grandi intellettuali ebrei, fautori di una scelta nonviolenta, si impegnarono senza sosta per favorire l'amicizia arabo-ebraica e considerarono una sciagura l'imposizione di una soluzione nazionale unilaterale, sostenendo la proposta alternativa di una federazione per i due popoli, perche', come scriveva Hannah Arendt "la presenza degli arabi in Palestina era, tra tutte, la sola realta' stabile, una realta' che nessuna decisione avrebbe potuto modificare - con l'eccezione, forse, della decisione di uno Stato totalitario, attuata in virtu' della sua fama di forza spietata".

Cosi' la Arendt ammoniva gli ebrei nel maggio 1948, al momento della dichiarazione unilaterale di fondazione dello Stato di Israele: "L'idea di una cooperazione arabo-ebraica, benche' non si sia mai realizzata a nessun livello e appaia oggi piu' lontana che mai, non e' una fantasticheria irrealistica, ma una fondata constatazione del fatto che senza di essa l'intera impresa ebraica in Palestina e' destinata a fallire. Ebrei e arabi potrebbero essere indotti dalle circostanze a mostrare al mondo che tra I due popoli non esistono differenze che non possano essere superate. In effetti, la realizzazione di un tale modus vivendi potrebbe alla fine venir presa a modello per neutralizzare le pericolose tendenze di popoli un tempo oppressi: escludersi dal resto del mondo ed elaborare complessi di superiorita' nazionalistici.

Molte opportunita' di fondare un'amicizia arabo-ebraica sono gia' state sprecate, ma nessuno di questi insuccessi puo' cambiare il fatto fondamentale che l'esistenza degli ebrei, in Palestina, dipende da quell'amicizia".

Le correnti nonviolente del Sionismo.

Il successo del sogno nazionalistico di Herzl, concretizzatosi con la nascita dello Stato di Israele, ha oggi oscurato completamente il ricordo di quelle tendenze anti-sciovinistiche e nonviolente che furono elementi ben presenti nella nascita e nello sviluppo del movimento sionista internazionale: lo spirito di tolleranza e di apertura, la ricerca della verita', l'impegno per la giustizia. Hannah Arendt ci racconta delle due correnti, una culturale, l'altra sociale, di questo sionismo nonviolento, che furono estremamente originali e creative, ma che oggi sono state rimosse e dimenticate a causa dell'imperio assoluto della violenza. La prima va individuata nel progetto culturale che porto' alla nascita dell'Universita' Ebraica e che deve molto alla straordinaria personalita' di Ahad Haam, contemporaneo di Herzl e attivissimo nel sostegno al movimento sionista mondiale. Gia' nei suoi primi scritti, risalenti agli anni novanta del XIX secolo, Haam affermava il rispetto per la popolazione araba e l'impegno a mantenere con questa relazioni di pace. Il suo progetto mirava a fare della Palestina il faro culturale che avrebbe illuminato gli ebrei di tutto il mondo, attraverso l'istituzione di un centro di alti studi universitari, che sarebbe stato un elemento piu' importante per la rinascita ebraica della creazione di uno Stato, come invece propugnavano i seguaci di Herzl, anche al prezzo di una guerra con gli arabi. L'opzione culturale di Ahad Haam richiama alla mente l'antica leggenda di Rabban Johanan ben Zakkaj, il dotto ebreo che, uscito nascostamente da Gerusalemme assediata, va incontro all'imperatore romano e gli chiede di concedergli di fondare una scuola nella citta' di Jamnia (Jabneh), dove poter continuare l'insegnamento della Torah. Dal disastro della caduta di Gerusalemme del 70 d. C., con la distruzione del Tempio, Israele riusci' in realta' a salvare il suo bene piu' prezioso: la tradizione del suo Libro sacro. Questa antica leggenda riportava, secondo Tolstoj, l'ebraismo alla sua piu' profonda essenza religiosa, perche' non e' la terra ad essere sua patria, ma il libro. La seconda corrente e' quella sociale che produsse l'esperimento degli insediamenti collettivi, i kibbutzim, in cui, secondo le idee rivoluzionarie provenienti dalla Russia, si sarebbe dovuta realizzare una nuova forma di proprieta', di vita sociale, di cooperative di lavoratori, senza piu' alcuno sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Questi pionieri si alimentavano dell'aspirazione populista e tolstoiana alla coltivazione della terra e a una rinnovata vita comunitaria. Vivevano del mito che la loro sarebbe stata l'unica impresa di colonizzazione senza spargimento di sangue, perche' il proposito non era quello di cacciare gli arabi, ma di coinvolgerli in un progetto comune di sviluppo rurale che doveva avere come obiettivo, dopo un millenario processo di sfruttamento e desertificazione, il ridare fertilita' a quella terra storicamente tanto amata, trasformandola in un giardino, un nuovo Eden, ospitale per tutti, nessuno escluso.

Le due "utopie", la culturale e la sociale, che mossero i pionieri ebrei verso la alyia (la salita) in Palestina, furono gravemente tradite dagli svolgimenti violenti che hanno accompagnato la nascita e l'esistenza dello Stato di Israele.

La sconfitta dell'opzione nonviolenta.

La corrente nonviolenta del sionismo trovo' un ulteriore eccezionale impulso culturale e politico nella figura di Judah Magnes, nato a San Francisco nel 1856 e trasferitosi successivamente in Palestina, dove nel 1925 fondo' l'Universita' ebraica di Gerusalemme, diventandone per molti anni il rettore.

Per piu' di trent'anni il professor Magnes si dedico' indefessamente all'opera di dialogo e di pacificazione tra ebrei e arabi, guadagnandosi in breve l'appellativo di "Gandhi ebreo". Allo scopo di promuovere la cooperazione arabo-ebraica diede vita nel 1925 all'associazione B'rith Shalom (Patto di Pace), e, con gli stessi intenti, nel '42 fondo' il partito Ikhud ( Unita'). La sua lucidita' politica lo porto' a prevedere subito gli effetti nefasti delle strategie allora prevalenti nel sionismo mondiale, e lo indusse a prendere posizioni coraggiose nel denunciare la miopia di certe scelte.

A differenza della gran maggioranza degli ebrei che salutarono con entusiasmo la Dichiarazione di Balfour del 1917, il primo riconoscimento internazionale delle aspirazioni del popolo ebraico ad avere un focolare nazionale in Palestina, Magnes critico' duramente e ripetutamente una tale presa di posizione politica, che ritenne errata, tale da indurre gli ebrei sulla strada sbagliata dell'alleanza con l'imperialismo britannic o e di ostilita' verso gli arabi. Magnes riteneva che, in realta', gli Inglesi non avessero alcun diritto di promettere la Palestina a chicchessia e che agli ebrei non conveniva legarsi all'imperialismo, che voleva strumentalizzare gli ebrei per acquisire una posizione influente in un punto nevralgico del Medio Oriente. Uno Stato, nato con l'appoggio dell'imperialismo britannico e americano, avrebbe costretto gli ebrei a vivere l'incubo di una guerra infinita con i vicini arabi.

In alternativa Magnes propose la fondazione in una Palestina autonoma, con uno Statuto bi-nazionale, dove ne' agli arabi, ne' agli ebrei sarebbe stata concessa una condizione di minoranza, avendo tutti riconosciuti una cittadinanza con uguali diritti. Gli scontri violenti che scoppiarono nel '29, la rivolta araba dell'aprile 1936, le ripetute violenze dal '37 fino all'estate del 1939, misero in serie difficolta' l'opera di riconciliazione propugnata da Magnes. Ma nonostante il montare della violenza, la visione di Magnes per uno Stato bi-nazionale raccolse l'appoggio di intellettuali prestigiosi, tra gli altri Martin Buber, Ernest Simon, Hannah Arendt, David Riesman, Erich Fromm, Albert Einstein, che insieme dettero vita a una Lega per l'incontro e la cooperazione tra Ebrei ed Arabi. L'11 novembre del 1946 la Lega firmo' un accordo con Falastin el iedida' (la nuova Palestina) un'associazione di arabi guidata da Fawzi El-Hussein, che dopo aver aderito al movimento nazionalista arabo, si era persuaso che l'unica soluzione al problema palestinese fosse una sincera cooperazione con gli Ebrei, dando vita a uno Stato bi-nazionale indipendente, parte di una federazione piu' ampia di popoli medio-orientali. "Una volta, amava ricordare Fawzi El-Hussein, Ebrei ed Arabi vivevano in amicizia ed in cooperazione. Vi erano Arabi ed Ebrei che erano stati allattati dalla stessa nutrice". Percio' i due popoli, gli Ebrei e gli Arabi, potevano ritornare a vivere in pace e ad avversare uniti le politiche imperialistiche delle grandi potenze che volevano fomentare la divisione, riproducendo nel Medio Oriente una situazione balcanica. Ma a causa di queste sue posizioni di coraggiosa apertura, Fawzi El-Hussein fu assassinato da terroristi arabi il 23 novembre del 1946.

La violenza terroristica cerca sempre di affermarsi, colpendo indistintamente i sostenitori del dialogo. Il canovaccio di chi vuole la guerra e la radicalizzazione dello scontro vede di fatto alleati i violenti dei due schieramenti nel proposito comune di liberarsi innanzitutto dell'intralcio che i fautori della nonviolenza frappongono alla realizzazione dei piani di divisione e di guerra. Pur profondamente avviliti per il crescere della violenza, che decimava gli interlocutori interessati alla cooperazione arabo-ebraica, in vista dell'approssimarsi di una sistemazione geopolitica del Medio Oriente Magnes e Riesman prepararono ugualmente una risoluzione da sottoporre alle Nazioni Unite che scongiurasse la spartizione e bloccasse l'ascesa al potere dei terroristi. Si chiedeva un'amministrazione fiduciaria dei territori della Palestina da parte dell'Onu per preparare la transizione, riconoscendo all'Ikhud (il movimento nonviolento di Magnes) un ruolo di mediazione. Ma il conte Bernadotte, inviato come rappresentante dell'Onu in Palestina e principale interlocutore del gruppo di Magnes, venne assassinato a Gerusalemme dai terroristi ebrei della banda Stern, il 17 settembre del 1948, perpetrando un atto criminale che colpiva al cuore il progetto di una soluzione concordata secondo la proposta di una federazione arabo-ebraica. La mattina del 27 ottobre '48 moriva anche Judah Magnes, un ulteriore evento luttuoso che indeboliva in modo irreparabile il lavoro per il dialogo e la cooperazione arabo-ebraica. Scrisse in quei giorni Hannah Arendt: "La morte di Magnes e' una vera tragedia in questo momento. Non c'e' nessuno che possegga la sua autorita' morale. Inoltre non so vedere nessuno che viva realmente nel mondo ebraico, e che abbia una qualche preminenza in istituzioni ebraiche, che possa avere il coraggio di alzare la voce contro tutto quello che oggi sta accadendo".

Con la morte di Magnes il partito dell'Unita' perse forza. Nasceva una fondazione col suo nome e con l'obiettivo di proseguirne il cammino, ma la Arendt, che fu tra i fondatori, rifiuto' di diventarne presidente, come molti avrebbero voluto, avendo ormai capito che in quel momento non c'erano piu' gli spazi per una azione politica diretta che influenzasse la politica di Israele. Preferi', cosi', stabilirsi negli Usa.

Sugli uomini di cultura, che avrebbero potuto guidare in modo illuminato la nascita di una entita' federale israeliano-palestinese, prevalsero I violenti e i terroristi. Costoro nell'ebbrezza della vittoria, nella smisurata presunzione di essere eroi cha avevano vinto "in pochi contro molti" una impossibile guerra di indipendenza, non si rendevano conto che in quel modo, seguendo la politica del "fatto compiuto", riservavano in realta' agli ebrei che avevano trovato in Palestina un rifugio dalle persecuzioni naziste, un nuovo destino di paura e di violenza, una guerra quotidiana permanente con i vicini arabi, non certo quella serenita' e quella felicita' che avevano sognato. La violenza fu il peccato di origine che accompagno' la nascita di Israele e che condizionera' tutti gli avvenimenti successivi. In un certo senso la fondazione violenta del nuovo Stato segno' la morte del sogno nonviolento di una "patria ebraica".

La catastrofe dei profughi.

Ogni volta che si affacciavano segnali di riavvicinamento un nuovo atto di violenza spingeva le parti verso la rottura e la polarizzazione violenta delle posizioni.

Sordi alle voci che invitavano allo spirito di intesa, i terroristi precipitarono ebrei e arabi verso la guerra. Gli scontri aperti si acuirono con la dichiarazione unilaterale di indipendenza di Israele nel maggio '48 e cessarono nel '49 con la piu' grave tragedia che il conflitto armato abbia lasciato in eredita' alle generazioni successive: il 75% della popolazione palestinese fu costretta dalla guerra a lasciare i propri luoghi di origine e ad iniziare una lunga odissea come profughi, il cui punto di approdo e' ancor oggi lontano dall'essere visto.

Qualunque sia la spiegazione del loro esodo, una conseguenza della propaganda araba delle atrocita' compiute, o le reali atrocita' o una mescolanza di entrambe, il dato di fatto e' che da quel momento si e' alzato il muro del rifiuto israeliano a riammettere i profughi nella loro terra d'origine.

Sulla tragedia dei profughi cosi' scrisse, poco prima della morte, Judah L. Magnes in una lettera al direttore di "Commentary": "E' una disgrazia che le stesse persone che potrebbero addurre la tragedia dei profughi ebrei come principale argomento a favore dell'immigrazione di massa in Palestina, siano ora disposte, per quanto si sa, a favorire la creazione di un'ulteriore categoria di profughi in Terra Santa". La cosiddetta "Legge della proprieta' assente", approvata dal parlamento israeliano nel maggio 1950, porto' immediatamente all'esproprio del 70% delle proprieta' arabe. Contemporaneamente la "Legge del Ritorno" del 1950 e la "Legge della Cittadinanza" del 1952 diedero a qualsiasi ebreo, proveniente da qualsiasi parte del mondo, il diritto di immigrazione in Israele, acquistandone automaticamente la cittadinanza. Mentre veniva sancito solennemente il diritto al ritorno degli ebrei, il diritto al ritorno per i profughi palestinesi e i loro discendenti, riconosciuto universalmente dal diritto umanitario internazionale, veniva negato. E' la disperazione reale dei campi profughi palestinesi, provocata da anni di miseria, umiliazioni, maltrattamenti, a spingere i giovani kamikaze nell'emulare Sansone, l'eroe biblico che, ridotto in prigione dai Filistei decise: "Che io muoia insieme ai Filistei" (Giudici 17, 4).

La questione dei profughi va posta al primo posto dell'agenda delle trattative di pace e non puo' essere barattata con qualche fittizia concessione di autonomia amministrativa in Cisgiordania e Gaza. Qualsiasi autentico processo di pace, se vuole portare frutti effettivi e duraturi, non puo' prescindere dal riconoscere e dal riparare alle sofferenze passate e presenti dei profughi palestinesi, ponendo cosi' le basi per un futuro diverso di condivisione e di riconciliazione.

Diritti di cittadinanza per tutti, nessuno escluso.

Come osserva Kemmerling, sociologo contemporaneo dell'Universita' ebraica di Gerusalemme: "I diritti degli ebrei in Israele sono tuttora definiti in termini personali e collettivi, mentre i diritti degli arabi sono riconosciuti solo in termini personali. Cioe', essi mancano dei diritti di accesso ai beni comuni della collettivita' come la terra, l'acqua, i simboli collettivi, feste, anniversari, commemorazioni. Questa differenziazione tra diritti privati e diritti collettivi e' rischiosa e fa di Israele una "etnocrazia" piuttosto che una societa' "ebraica e democratica" come proclama di essere".

L'accesso alla terra in Israele e' regolato dallo Stato, che conserva il controllo e la proprieta' di gran parte delle terre insieme al Jewish National Found (Jnf). Si e' costituita la Israel Lands Administration (Ila), un organismo governativo dominato dal Jewish National Found (Jnf) che controlla il 94% delle terre e mira, come sua politica principale, alla "giudeizzazione" delle aree dove sono ancora maggioritarie le popolazioni arabe.

Di fronte alle tante pretese di legittimare su basi bibliche la volonta' di appropriazione esclusiva delle risorse della terra bisogna sempre ricordare l'ammonimento che La terra e' di Dio (Levitico, 25, 23). Gli usi civici sulle terre comuni che i villaggi arabi esercitavano da generazioni, sia durante l'impero ottomano che sotto il mandato britannico, vengono oggi negati. Le richieste dei fellah, i contadini palestinesi, di ottenere in fitto le terre coltivabili vengono accantonate a vantaggio delle imprese ebraiche.

La stessa politica viene realizzata per l'accesso alla casa. Nonostante l'incremento demografico della popolazione palestinese e il crescente processo di urbanizzazione, non c'e' stato un corrispondente aumento nell'offerta di alloggi. I palestinesi sono discriminati dal mercato delle case, in quanto si limita l'acquisto ai soli ebrei, privilegiando i veterani di guerra o chi ha prestato servizio militare, e questo fatto di per se esclude gli arabi. I palestinesi sono altresi' esclusi dai sussidi per l'acquisto delle abitazioni o dai programmi governativi di miglioramento delle abitazioni e delle infrastrutture. I sussidi e le agevolazioni per gli affitti che favoriscono le giovani coppie, gli anziani e i nuovi immigrati (che da soli ottengono il 74% dei sussidi), ancora una volta escludono le famiglie palestinesi.

Uno degli aspetti piu' iniqui e odiosi, anche se meno noti, della politica statale israeliana e' quello verso i beduini del Naqab (una popolazione semi-nomade di circa 120.000 persone), ai quali si rifiuta il riconoscimento dei loro villaggi agricoli, fatti di povere capanne di legno e di ricoveri di animali, privandoli cosi' di ogni tipo di supporto pubblico per il miglioramento delle abitazioni, e per l'accesso ai servizi essenziali (acqua, elettricita', strade), avendo programmato di ricollocarli in sette nuovi insediamenti urbani, negando in questo modo il loro sistema di vita, stravolgendo la loro struttura di societa' di contadini e allevatori. Contemporaneamente, avendo lo Stato il controllo della terra, esercitando il potere di darla in affitto (leasing policy), si cerca di restringerne l'accesso alle comunita' beduine a favore di un uso commerciale e di uno sfruttamento piu' lucrativo delle terre.

Anche per l'acqua, risorsa particolarmente scarsa e preziosa in una regione assediata dalla desertificazione, diventa questione cruciale nel conflitto il controllo delle sorgenti del Golan e del bacino del fiume Giordano. I conflitti per l'acqua nascono innanzitutto intorno alla sua destinazione tra usi domestici, agricoli e industriali. E nella ripartizione dei consumi appare eclatante la discriminazione nei confronti della popolazione araba e palestinese.

La scarsita' delle risorse e' un concetto relativo, funzionale sia al modello di sviluppo che si realizza, sia alla densita' della popolazione.

Nelle analisi del conflitto nel Vicino Oriente poca attenzione si e' prestata finora alle questioni relative ai modelli di sviluppo, preferendo le chiavi interpretative della geo-politica e della religione. In Palestina lo scontro di civilta' non riguarda le religioni, bensi' il conflitto e' tra modernita' e tradizione, tra citta' e campagna, tra modelli di sviluppo diversi, tra un modello industriale di agricoltura e uno arcaico basato sul lavoro umano e sugli animali. La jeep versus l'asino, il bulldozer versus gli alberi di ulivo potrebbero essere alcune immagini di questo conflitto paradigmatico. Modernita' e tradizione sembrano faglie tettoniche che, movendosi da Nord e da Sud, nelle profondita' del VicinoOriente si urtano, provocando terremoti devastanti.

Una religione civile della sicurezza.

Il trauma della persecuzione subita nei secoli, la catastrofe finale della Shoah hanno fatto del tema della sicurezza il punto nevralgico della ideologia e della politica di Israele. Questa paura di fondo ha alimentato negli anni una concezione della sicurezza nei termini della difesa militare del territorio, giustificando le politiche di riarmo e la stessa deterrenza nucleare. Il tema della sicurezza costituisce tuttora l'elemento unificante del consenso nazionale di una societa' per altri aspetti profondamente divisa. Tutti i problemi vengono vissuti come una sfida alla propria identita' e alla propria sicurezza esistenziale, e a causa di cio' Ernest Simon faceva notare gia' nel '48 come gli ebrei di Palestina rischiavano di degenerare in una di quelle piccole tribu' di guerrieri simili a Sparta. La violenza viene proposta e sostenuta in quanto sembrerebbe avere una sua efficacia risolutiva, perche' Israele, come parte piu' forte nel conflitto asimmetrico con i palestinesi, appare in grado di imporre la sua volonta' di potenza, creando situazioni irreversibili, come e' accaduto dopo la guerra del 1948 e del 1967, allargando il controllo del territorio fin verso i tradizionali "confini biblici". I governi di Israele, facendosi forti della propria potenza militare e dell'appoggio degli Usa, pretendono di praticare la politica del "fatto compiuto", ignorando la presenza dell'altro. Ma I leader politici come falsi profeti creano solo effimere illusioni, perche' una tale infausta politica perpetua soltanto una guerra senza fine.

L'Intifada sta rendendo insostenibili i costi dell'occupazione, spingendo l'economia verso il collasso. La rivolta palestinese dimostra che avere il controllo militare dei territori non significa avere il controllo della popolazione e, come gia' lo statista inglese E. Burke aveva considerato a proposito delle colonie americane dell'Inghilterra, non si puo' governare a lungo col ricorso alla violenza.

Ma la paura indotta dagli attentati terroristici dei kamikaze ha rinnovato tuttora il consenso della maggioranza della popolazione israeliana alle politiche repressive del governo e al progetto di costruzione del muro, con l'illusione di trovare cosi' una soluzione definitiva alla propria sicurezza. Si e' diffusa tra la gente comune una prevalente cultura militaristica che pervade tutta la societa', creando una specie di civilian militarism, secondo l'espressione coniata dal sociologo A. Vagts. Secondo Kimmerling benche' la societa' israeliana non sia propriamente un modello pretoriano piu' di qualsiasi altro paese democratico, nella cultura di settori considerevoli della sua popolazione e della leadership politica, sia di destra che di sinistra, prevale una mentalita' di tipo militare nell'affrontare problemi che non sono militari, giustificando cosi' il ricorso eccessivo alla forza e nutrendo l'aspettativa che anche in politica i militari possano risolvere i problemi della gente. E soprattutto si presume di poter imporre la pace con gli strumenti della guerra.

Una guerra e un conflitto entrati a far parte della routine quotidiana della vita della gente offuscano la distinzione tra pace e guerra, plasmano le istituzioni economiche e politiche, condizionano in modo pesante la formazione dell'identita' di Israele e tutta la sua cultura politica, generando appunto una forma di mentalita' militare. Inoltre, la guerra, la sua preparazione, uno stato di occupazione permanente dei territori palestinesi, l'instabilita' politica spingono settori crescenti della popolazione a sostenere esplicitamente soluzioni forti, che minacciano il regime parlamentare. Il bisogno di sicurezza induce a idolatrare lo Stato e il suo esercito. Ma il ricorso alla ragione di Stato per giustificare ogni crimine, introduce a quella che in ebraico si chiama Mamlachtiut (il culto idolatrico dello Stato). Affidarsi, poi, per la propria sicurezza agli eserciti e alla bomba atomica, invece che a Dio, e' la peggiore di tutte le idolatrie.

La coscienza tormentata di Israele.

Yeshayahu Leibowitz giudicava uno Stato che si dice ebraico una contraddizione in termini. Riteneva, infatti, che lo Stato e' sempre e solo un mezzo, non puo' mai diventare hegelianamente un fine. In quanto creazione umana, lo Stato non puo' avere in se' un valore etico assoluto, come invece ritengono le ideologie totalitarie. La laicita' dello Stato, percio', deve diventare sia un presupposto democratico imprescindibile, sia una esigenza religiosa fondamentale. Pur riconoscendosi parte del movimento sionista, Leibowitz era avverso a ogni forma di sacralizzazione del nazionalismo. Ha scritto di lui Amos Luzzatto: "Alla domanda: 'Che cos'e' per te una bandiera?', rispondeva sarcastico: 'Uno straccio colorato attaccato a un bastone'. E se gli chiedevano con una punta di provocazione: 'Ma per te non e' sacra la Terra di Israele? Non e' sacra la lingua ebraica? C'e' per te qualcosa di sacro?', rispondeva secco: 'Solo Dio e' sacro'.

'Ebraico', secondo Leibowitz e' cio' che stabilisce una relazione particolare con Dio, una relazione che induca a offrirsi al suo servizio con dedizione, sulla base di una halakha' che e' autodisciplina seria e controllata, che educa il credente a non lasciarsi soggiogare dai propri impulsi fisiologici ma, al contrario, a organizzare la sua vita per dominarli. L'ebreo non puo' sperare di imporre tutto questo a opera del potere statale; puo' solo chiedere allo stato di creare per lui le condizioni per poter vivere secondo questa sua ebraicita' senza incontrare ostacoli".

Ha scritto Martin Buber, rispondendo alle osservazioni critiche sollevate da Simone Weil nei confronti dell'ebraismo: "Precisamente nella religione di Israele e' impossibile fare un idolo del popolo come un tutto, perche' la tendenza religiosa alla comunita' e' precipuamente critica e opinabile. Chiunque attribuisce alla nazione o alla comunita' gli attributi dell'assoluto e dell'autosufficienza, tradisce la religione d'Israele. Che cosa, comunque, significa, divenire un 'popolo di Dio'? Una fede comune in Dio ed il servizio al suo nome non costituiscono un popolo di Dio. Divenire un popolo di Dio significa piuttosto che gli attributi di Dio rivelatigli, giustizia e amore, vengono resi effettivi nella sua stessa vita, nelle vite dei suoi membri, l'uno con l'altro: una giustizia che si materializza nelle mutue relazioni indirette di quegli individui; amore nelle loro mutue relazioni dirette radicate nella loro personale esistenza. Dei due, tuttavia, l'amore e' il piu' alto, il principio trascendente. Questo diventa chiaro inequivocabilmente per il fatto che l'uomo non puo' essere giusto verso Dio; egli puo', tuttavia, e dovrebbe, amare Dio. Ed e' l'amore di Dio che si trasferisce all'uomo; 'Dio ama il forestiero - ci e' stato detto- cosi' anche tu devi amarlo”.

La persecuzione degli ebrei, l'Olocausto, l'ascetico eroismo dell'impresa sionista, la vittoria nelle guerra del 1948 e del 1967 di "pochi contro molti" hanno costituito la legittimazione retorica dello Stato di Israele e giustificato la violenza contro i "gentili". Ma oggi Israele appare una societa' smarrita e infelice, attraversata da spaccature e forti tensioni interne: laici contro religiosi, i nuovi arrivati russi contro i mizrahim (gli ebrei sefarditi di provenienza medio-orientale), russi contro arabi, e cosi' via.

Il messianismo degli ebrei ortodossi raccolti nel movimento di Gush Emunim ( Blocco della Fede) si scontra con una nuova generazione israeliana che e' fortemente individualistica, edonistica, americanizzata. L'indurimento del fondamentalismo religioso di Gush Emunim, che prese corpo dopo la guerra del 1973, puo' essere interpretato come reazione a una perdita di egemonia, di marginalizzazione delle istanze religiose all'interno di una popolazione che si presenta in massima parte secolarizzata. In questa situazione di frammentazione sociale l'ethos della guerra e' diventato il fondamento ispiratore dello Stato e costituisce il collante che unifica un sistema culturale altrimenti sottoposto a forti tensioni e fratture. Il sentirsi permanentemente aggrediti e minacciati nella propria possibilita' di esistenza vitale dal "grande mare" arabo che circonda la "piccola isola" di Israele crea le condizioni culturali per cui i problemi sociali vengono confusi, in un complesso indistinto, con quelli militari e, in nome della difesa comune, si lasciano irrisolti i gravi problemi interni.

Lo Stato accresce continuamente le spese per gli armamenti (nel 2001 il budget della difesa e' aumentato di 0,8 miliardi di dollari), mentre trascura il forte aumento della poverta': alla fine del 2001 il numero degli israeliani che vivevano sotto la soglia della poverta' ammontava a 1.169.000 persone, tra cui mezzo milione di bambini. La disoccupazione e' salita nel 2002 al 12%. Nel corso dei primi due anni dell'Intifada l'economia ha perso circa sette miliardi di dollari. La crisi economica non fa che alimentare l'odio verso "l'altro", i palestinesi, mentre appare evidente il rischio di un possibile collasso delle finanze dello Stato, che brucia le sue risorse umane e materiali in una guerra permanente che sta portando al punto dell'auto-distruzione. Dal punto di vista dei diritti umani e', poi, evidente la contraddizione tra l'essere Israele uno Stato-nazione che pratica l'occupazione e il colonialismo interno, e la pretesa di ispirarsi al modello liberale di societa' aperta. Il governo di Israele applica in modo spietato i regolamenti emergenziali (Emergency Regulations) ereditati dal regime coloniale britannico che permettono di arrestare senza limiti temporali e senza processo qualsiasi sospetto di attivita' sovversive, di espropriarne le proprieta' e di demolirne l'abitazione. La tortura, le deportazioni di massa, le punizioni collettive, considerate crimini di guerra secondo l'art. 49 della quarta Convenzione di Ginevra del 1949, in Israele sono praticate in modo quotidiano.

Anche nel passato biblico gli Stati, cioe' i Re, erano spesso violenti, usurpatori che esercitavano il potere con arroganza e contro la legge ebraica. Allora di fronte all'autorita' costituita e al popolo si ergeva il profeta a parlare come colui che invoca la giustizia, denuncia l'idolatria, scuote l'uomo dalla passivita' per spingerlo ad ascoltare la voce di Dio. Anche contro re David si alzo' la voce del profeta a denunciarne l'iniquita'. Re David si penti', confesso' la sua colpa e si corresse. Riconoscere la propria colpa e' l'atto necessario per affermare la giustizia e ottenere il perdono divino.

Da tempo immemorabile, attraverso i loro profeti, gli ebrei hanno proclamato l'insegnamento della giustizia e della pace, insegnando e imparando che "la pace e' il fine a cui tutto il mondo dovrebbe tendere e che la giustizia e' il mezzo per ottenerla. Percio' - scrisse Buber a Gandhi- non possiamo desiderare l'uso della forza. Chiunque si consideri nelle file di Israele non puo' desiderare l'uso della forza".

"La letteratura ebraica, per molti versi, e' letteratura del martirio (...)", contiene, infatti, il messaggio che bisogna, come scrisse Magnes a Gandhi, "accettare il martirio piuttosto che cedere 'all'idolatria, all'immoralita', agli spargimenti di sangue'. (...) Se mai ci fu un popolo nonviolento nello svolgersi dei secoli, quello fu il popolo ebraico".

L'opzione nonviolenta nella lotta del popolo palestinese.

Come ha ricordato Saad E. Ibrahim nessuna altra regione come il Medio Oriente, teatro negli ultimi decenni di alcuni dei maggiori conflitti armati, puo' insegnare al mondo che a fronte degli alti costi sofferti a causa della guerra (piu' di tre milioni di vite perdute, milioni di mutilati, di feriti e di profughi, una spesa annua per gli armamenti superiore ai 100 miliardi di dollari, incalcolabili danni procurati alle infrastrutture civili, alle abitazioni, agli ambienti naturali), in realta' nessuna delle gravi questioni e' stata risolta. Al contrario, al di la' degli stereotipi che si hanno sul mondo islamico, la storia del XX secolo insegna che in diverse circostanze la lotta nonviolenta ha portato nella regione a soluzioni positive. Basti ricordare, ad esempio, l'Egitto che ottenne l'indipendenza non attraverso una guerra di liberazione, ma lanciando nel 1919 contro l'occupazione britannica un grande movimento di disobbedienza civile, che impressiono' profondamente lo stesso Gandhi, al punto da offrirgli motivi di ispirazione nel definire la teoria e la pratica del Satyagraha. In modo nonviolento raggiunsero l'indipendenza anche la Tunisia, il Libano, il Sudan, l'Irak, la Giordania, gli Stati del Golfo. Memorabile e' stata poi la lotta del popolo iraniano contro il regime dello Scia' negli anni 1977-79. Il successivo avvento del regime degli Ayatollah non deve far dimenticare come la deposizione di Reza Pahlevi, scia' di Persia, sia avvenuta attraverso una straordinaria rivoluzione popolare nonviolenta.

Abu-Nimer, nel suo saggio pubblicato in questo quaderno, illustra con cognizione di causa come la prima Intifada del 1987, la cui immagine prevalente trasmessa dai media fu quella dei ragazzi palestinesi che lanciavano le pietre, fu in realta' un grande movimento di lotta nonviolenta, che diede prova di una imprevedibile capacita' di auto-organizzazione popolare.

Anche la seconda Intifada, quella iniziata il 29 settembre del 2000, come reazione palestinese alla passeggiata provocatoria di Sharon sulla spianata del Tempio di Gerusalemme, e che percio' viene chiamata Intifada di Al-Aqsa dal nome della moschea che domina la citta' di Gerusalemme, e' ricca di gruppi e azioni nonviolente, ben documentate nell'articolo di Abu-Nimer.

Purtroppo, nell'immaginario collettivo il simbolo della seconda Intifada sono diventati i terroristi kamikaze, e l'orrore provocato dai loro attentati ha oscurato davanti agli occhi dell'opinione pubblica mondiale la presenza di una lotta nonviolenta. L'escalation degli "attacchi suicidi" e' l'esito di un processo di imbarbarimento della lotta, provocato dalla incapacita', da una parte e dall'altra, di comprendere l'avversario. Di fronte a tanta violenza, il primo compito da perseguire e' una umanizzazione del conflitto. Nessuna causa puo' giustificare l'uccisione indiscriminata di innocenti. Gandhi sospese piu' volte le azioni Satyagraha, quando esse stavano per trascendere nella violenza.

Purtroppo ci sono organizzazioni palestinesi che predicano la violenza e considerano eroi e martiri coloro che seminano morte tra la popolazione. Esse si lasciano andare a manifestazioni di gioia ogni volta che un attentato va a buon fine, mentre i funerali dei "martiri" diventano occasione per manifestazioni che incitano all'odio e alla vendetta

Nulla ha nuociuto di piu' alla causa palestinese di questi attentati terroristici, e della retorica che li ha supportati, sia di fronte all'opinione pubblica mondiale che ne e' rimasta profondamente scioccata, sia nei confronti della societa' israeliana che nel rivivere la paura del massacro e della persecuzione si e' compattata nel consenso alle azioni repressive dell'esercito di occupazione. Inoltre, la debolezza e l'incertezza dell'autorita' palestinese nel condannare e nel bloccare gli atti di violenza hanno favorito il progetto dell'attuale governo israeliano di "politicidio" della causa palestinese, perseguendo, cioe', l'obiettivo di annullare completamente il popolo palestinese, non solo la sua dirigenza politica, come interlocutore per la risoluzione del conflitto.

E' arrivato il momento di spostare il punto focale della lotta del popolo palestinese dalla liberazione di uno spazio, all'obiettivo di smantellare un regime, facendo leva soprattutto sulla coscienza dei cittadini di Israele per cercare un comune "esodo" dalla violenza, attivando un processo di verita' e di riconciliazione simile a quello realizzatosi in Sud-Africa.

In un conflitto asimmetrico, dove una parte esercita sull'altra una schiacciante supremazia politica, economica e militare, al punto che la parte debole sembrerebbe non avere altra scelta che subire la volonta' del piu' forte, che sembra procedere, sordo ad ogni appello di moderazione, nel perseguire i propri obiettivi di potenza secondo la "politica del fatto compiuto", l'oppresso, la parte attaccata, ha, dalla sua, e potrebbe cio' costituire il suo punto di forza, la facolta' di scegliere in quale modo gestire il conflitto, su quale terreno realizzare la resistenza e con quali metodi di lotta.

In un conflitto asimmetrico, la sproporzione dei mezzi in campo non lascerebbe aperte, secondo i canoni comuni della strategia, che due alternative: l'azione terroristica o l'azione nonviolenta. Da tempo la sproporzione esistente nell'armamentario moderno tra i mezzi di offesa (i bombardamenti, il possibile ricorso all'arma atomica) rispetto a quelli della difesa militare tradizionale o della guerriglia, rende impraticabile ogni possibile strategia di resistenza armata vittoriosa contro le forze militari di occupazione. Sicuramente la violenza contro le forze occupanti puo' durare a lungo e aumentare i costi dell'occupazione, ma al prezzo altissimo dell'imbarbarimento della lotta e del totale genocidio della popolazione civile, ostaggio e vittima del fuoco incrociato.

Il terrorismo, a differenza della guerriglia, non si prefigge di vincere battaglie, di conquistare posizioni di controllo del territorio. In realta', il terrorismo agisce nascosto e svolge una funzione pre-politica: terrorizza la societa' civile e l'opinione pubblica al fine di influenzarne gli orientamenti e le decisioni politiche per spingerle nel vortice dell'escalation della guerra. La partita decisiva del terrorismo si gioca in realta' attraverso il riverbero che le sue imprese possono avere sull'opinione pubblica attraverso i mezzi di informazione, dove la "potenza di fuoco" messa in campo dai mass-media in relazione al conflitto tra l'oppressore e l'oppresso, non e' dissimile dai rapporti di forza da questi posseduti sul piano militare. Gli indiscriminati attacchi kamikaze contro I civili sono stati ampiamente utilizzati dai mass-media per legittimare davanti all'opinione pubblica mondiale la costruzione del "muro" e le pratiche repressive dell'esercito israeliano contro la popolazione civile palestinese, assimilata senza distinzioni a una massa di fiancheggiatori dei terroristi. In una situazione in cui il terrorismo ha portato la questione palestinese in un vicolo cieco, l'opzione nonviolenta puo' restituire dignita' e speranza al popolo palestinese, promuovere una cooperazione liberante tra ebrei e palestinesi, come gli articoli di Abu-Nimer e di A. Said qui pubblicati ci illustrano. Come i palestinesi oggi, anche gli ebrei sono stati vittime della guerra, della politica e dell'odio. Anzi gli ebrei hanno vissuto nella paura per migliaia di anni, esposti a molti massacri e persecuzioni. Percio', il mondo arabo-palestinese deve essere capace di portare nel processo di pace l'attenzione verso la storia del popolo ebraico, agendo instancabilmente nel promuovere il perdono, la fiducia e il dialogo, propositi che vengono invece vanificati ogni volta che si ripetono azioni violente.

Ogni azione nonviolenta che dimostri la massima attenzione verso il bisogno di sicurezza del mondo ebraico toglie punti di appoggio alle politiche di guerra dei governi violenti. Atti di dialogo e riconciliazione possono far leva sulla profonda coscienza morale del popolo ebraico, determinando quello che Gregg chiama jiu-jitsu morale, uno sbilanciamento o scuotimento delle coscienze che provochi il rifiuto di proseguire nel sostegno alle politiche di guerra, cosi' come sta avvenendo ai tanti militari israeliani, i refuzniks, che rifiutano di servire nell'esercito di occupazione.

Il ruolo delle terze parti.

In apertura di questo quaderno abbiamo voluto ripubblicare, nel centenario della sua nascita, uno scritto di Giorgio La Pira che e' stato come sindaco di Firenze il precursore della diplomazia dal basso dei cittadini a favore della pace, quella che oggi viene conosciuta nella letteratura dei Peace Studies come second track diplomacy. Lo scritto (il discorso tenuto da La Pira a Cagliari nel 1973, in occasione di un convegno sui problemi del Mediterraneo) e' un classico della letteratura nonviolenta e si inserisce in modo appropriato nella scelta di questo volume di privilegiare i contributi culturali capaci di ridisegnare le strutture profonde, cosmologiche del conflitto. Rivisitando le "metafore" comuni alle tre religioni monoteistiche appartenenti alla famiglia di Abramo, La Pira ripercorre il "sentiero di Isaia" che annuncia ai popoli del Medio Oriente un regno messianico di giustizia e di pace. La Pira fu attivo mediatore e facitore di dialogo nel conflitto israelo-palestinese, e i suoi "colloqui del Mediterraneo", di cui si parla ampiamente nel suo discorso qui riprodotto, funzionarono ante litteram come un laboratorio di riconciliazione, un autentico problem-solving workshop, secondo una modalita che successivamente ha avuto grande diffusione nel quadro delle relazioni internazionali.

Per Adam Curle, negoziatore quacchero, le terze parti non sono neutrali, ma devono attivare processi di solidarieta' e di presa di coscienza dell'ingiustizia strutturale e degli squilibri di potere tra gli attori del conflitto. Secondo questa prospettiva J. P. Lederach ha coniato il termine di insider-partial, in quanto i mediatori svolgono il ruolo di empowerment practitioner, ridando fiducia, speranza e consapevolezza ai soggetti del conflitto, soprattutto a quelli che appaiono piu' deboli all'interno di un conflitto asimmetrico. Percio', Lederach preferisce parlare piu' che di mediazione, di "trasformazione" sociale e culturale dei conflitti, denominando il suo metodo come elicitive approach, che per le sue profonde assonanze colla prassi sociale ed educativa di Danilo Dolci, possiamo tradurre in italiano come "metodo maieutico". Il metodo maieutico (elicitive approach) non si impone alle parti in gioco, non ha propositi di colonizzazione culturale o politica, ma consapevole che solo i diretti interessati possono risolvere le questioni aperte e fare la pace, agisce come la levatrice socratica nell'assistere al parto. L'obiettivo che si propone e' l'attivazione del satyagraha, perche' solo una rivoluzione strutturale nonviolenta, realizzata dai protagonisti del conflitto, puo' conseguire quella che Galtung chiama la dimensione della "pace positiva", e che nel saggio pubblicato in questo quaderno Lederach descrive e definisce attraverso un suo specifico neologismo: justpeace (pacegiusta).

Un altro modo di intervenire nel conflitto come terze parti e' quello messo in atto, in questi anni, da innumerevoli associazioni internazionali, di cui parlano Abu-Nimer e Dogliotti Marasso nei rispettivi saggi pubblicati in questo quaderno. Esse fanno azione di interposizione nei conflitti, allo scopo di ridurre la paura e il senso di insicurezza della gente, facendo opera di dissuasione con la propria presenza, perche' gli armati non commettano violenza contro i civili. Spesso agiscono in modo diretto e immediato, per ostacolare o impedire le funzioni repressive dell'esercito, come fece Rachel Corrie dell'International Solidarity Movement (Ism) che il 16 marzo 2003 fu uccisa a Rafah, all'eta' di 22 anni, mentre tentava di opporsi alla demolizione di una abitazione di una famiglia palestinese da parte di un bulldozer dell'esercito israeliano.

La campagna promossa dal movimento francese Alternative Non-violente, di cui si pubblica il documento politico in questo quaderno, si inserisce appieno in questa nuova visione dinamica della interposizione nonviolenta nei conflitti, avendo per scopo la richiesta di istituzionalizzare la presenza di un corpo di intervento civile internazionale non armato, da dislocarsi in Medio Oriente per contenere la violenza. Agendo, poi, nel mitigare i propositi violenti di chi ha le maggiori responsabilita' di governo e di direzione politica degli avvenimenti, le terze parti fanno appello alla solidarieta' internazionale in sostegno delle parti deboli del conflitto, promovendo politiche di boicottaggio e di non-collaborazione verso i governi iniqui e violenti. L'importante, comunque, e' che le terze parti, nel realizzare cio', non cessino mai di svolgere il loro ruolo vocazionale di canale di comunicazione tra gli attori del conflitto, avendo premura che la propria condanna morale della violenza e dell'ingiustizia non diventi attacco alle persone o ai gruppi sociali. Si deve sempre distinguere "l'errore dall'errante" e nell'obiettivo della riconciliazione bisogna offrire vicinanza a tutte le parti, perche' davvero tutti sono vittime del ciclo della violenza.

L'Europa e l'Occidente ricco hanno la grave responsabilita' storica dell'avere provocato la questione ebraica. La totale responsabilita' delle discriminazioni, delle violenze e delle persecuzioni nei confronti del popolo ebraico e' iscritta nella storia dei paesi cristiani e non certo di quelli musulmani. Bisogna confessare questa colpa e farsi carico di riparare a cio', approntando piani di accoglienza all'immigrazione e all'integrazione degli ebrei. Non e' accettabile la chiusura delle frontiere all'immigrazione ebraica, come quella sancita dagli Usa dopo l'89 nei confronti degli ebrei russi, spinti dalla crisi economica e politica dell'ex impero sovietico alla ricerca di un approdo nell'occidente ricco. Durante la presidenza di George Bush fu, infatti, approvato, il 21 novembre 1989, il Lautenberg Amendement che chiude le frontiere all'immigrazione ebraica verso gli Stati Uniti, un atto grave che ha spinto in pochi anni verso Israele ben 700.000 nuovi arrivi dalla Russia, aggravando la pressione demografica, indirizzata dal governo verso la colonizzazione dei territori occupati.

Uguale accoglienza e disponibilita' l'Occidente ricco dovrebbe dimostrare nei confronti dei profughi palestinesi che dovessero fare richiesta di immigrazione.

Infine, i consistenti finanziamenti elargiti da Usa e Ue ai paesi del Medio Oriente devono essere indirizzati allo sviluppo umano delle popolazioni, che soffrono condizioni estreme di indigenza, piuttosto che a finanziare la corsa agli armamenti e la guerra. La terra di Israele, che ha accolto i profughi ebrei scappati a causa delle persecuzioni naziste, va considerata oggi a tutti gli effetti una costola dell'Europa. Accettare, percio', la richiesta di Israele di entrare a far parte dell'Unione Europea potrebbe essere il viatico utile a spingere lo Stato di Israele al pieno rispetto dei diritti umani, cosi' come e' sancito nel suo atto di fondazione del 1948, che impegna ad "assicurare completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti" o, ancora, ad applicare nei fatti la sua Basic Law del 1992 che riguarda la "Dignita' umana e la Liberta'".

L'Europa potrebbe far pesare la sua influenza per attivare politiche inclusive nei confronti dei profughi palestinesi e della popolazione araba di Israele e dei territori occupati. L'entrata nell'Europa Unita di una federazione israelo-palestinese potrebbe segnare il punto di svolta decisivo per costruire politiche di pace nel Mediterraneo, dove il sogno di Magnes e degli altri "giusti" di Israele per una unita' ebraico-palestinese potrebbe alfine avverarsi, facendo di uno Stato bi-nazionale il fulcro della collaborazione dell'Europa con tutto il mondo arabo.

Un processo di verita' e riconciliazione.

Il fallimento dei tentativi di pace, fin qui esperiti, dagli accordi di Oslo, agli incontri di Camp David promossi dal presidente Clinton, fino alla Road Map disegnata da Bush-figlio trova forse una sua valida spiegazione nella filosofia di fondo che li ispira: "la pace in cambio dei territori", applicando il principio del baratto e della spartizione-separazione, invece che quello della condivisione e della cooperazione.

Le proposte di pace avanzate da Israele in questi anni appaiono sempre come un'azione sussidiaria e complementare all'azione di guerra. Gia' negli accordi con l'Egitto, secondo il modello della "pace in cambio dei territori", Israele manifesto' lo scopo di rafforzare il controllo sulla Giudea e sulla Samaria, nella prospettiva di costruire Eretz Israel (l'Israele secondo i confini biblici). E' per questo stesso obiettivo di consolidamento dell'occupazione dei territori palestinesi che scateno' nel1982 la guerra del Libano. Nello stesso senso gli accordi di Oslo sono stati intesi da Israele come un modo per affidare all'autorita' palestinese la responsabilita' amministrativa delle aree piu' densamente popolate, costruendo un modello simile a quello dell'apartheid dei bantustan sudafricani, dove una parte possiede tutti i diritti e l'altra parte nulla.

Nel giustificare l'occupazione, le ragioni della sicurezza e quelle religiose si confondono e si sovrappongono. In nome della sicurezza la politica di Israele mira a chiudere i palestinesi in quattro, cinque enclave attorno a Gaza, Jenin, Nablus, ed Hebron, senza continuita' territoriale, ma collegate da gallerie e ponti che eviterebbero ai palestinesi il contatto col territorio israeliano, mentre Israele si riserva di mantenere per se' il controllo dei varchi di Gaza e del suo spazio aereo e marittimo. In confronto, i vecchi bantustan sudafricani appaiono "oasi di liberta'".

Come ha osservato Kimmerling: "I processi di pace sono stati sempre guidati dall'aspirazione xenofoba alla separazione o alla manipolazione strumentale per accrescere il controllo sull'altra parte e preservare in definitiva la propria potenza militare". M. Gopin, un rabbino amico della nonviolenza, nell'articolo pubblicato in questo quaderno sostiene che il fallimento del processo di pace fin qui sperimentato impone di trascendere la visione tradizionale, realistica della conflict resolution e ci indica un percorso alternativo, piu' profondo per poter arrivare a una vera pace. C'e' bisogno di qualcosa di diverso da un discorso fondato sulle relazioni internazionali, sulle dinamiche del potere aventi per oggetto l'uso della forza in relazione alla scarsita' delle risorse, valutando la pace con la logica dei costi e dei benefici, facendo un discutibile ricorso alla teoria dei giochi, nel definire le guerre per il controllo delle risorse come "giochi a somma zero": quello che gli altri hanno, noi non possiamo averlo. Ispirandosi alla scuola di Avruch e Lederach, piu' attenta agli aspetti culturali, cognitivi e relazionali dei conflitti, Gopin ritiene di non dover dare importanza solo agli interessi materiali, ed evidenzia il ruolo delle percezioni, dei sentimenti e delle credenze per una trasformazione nonviolenta dei conflitti.

Ci sono differenti razionalita' e differenti culture, e percio' la cultura, che comprende non solo l'aspetto cognitivo-razionale, ma anche il modo in cui si filtrano, si gestiscono e si controllano le emozioni e i sentimenti, e' fondamentale per poter comprendere e orientare le dinamiche di un conflitto.

I conflitti sono sempre complessi e spesso hanno un alone di ambiguita' non risolvibile in modo netto secondo la logica binaria di vero e falso, giusto o sbagliato. Piu' utile e' il ricorso a una ermeneutica che, con una espressione ripresa dalle scienze informatiche, viene definita "fuzzy logic", un approccio piu' "sfumato" che tiene insieme le dissonanze, I paradossi, le complessita', i sentimenti, le ragioni di tutte le parti in conflitto. Trascendere la logica binaria significa esaminare quel cono d'ombra che comprende le emozioni, le percezioni, le cosmologie profonde che condizionano lo svolgimento del conflitto, e che non sono riducibili alla sola razionalita' economica e politica del dare e dell'avere.

Qui si innesta l'interesse per la metafora, che rientra in una svolta possibile delle scienze sociali, favorendo una fuoriuscita dal positivismo (e per alcuni anche dalle spiegazioni causali deterministiche o funzionali) per muoversi verso l'interpretazione modulata tra significato e significante. Bisogna osservare che qui la metafora non va intesa in senso aristotelico come figura retorica dell'arte poetica, ma come qualcosa di centrale e profondo, legato al processo cognitivo dell'uomo, che include la memoria e la razionalita', la formazione stessa della cultura e la sua comunicazione. La metafora con la sua carica simbolica permette di mettere in contatto e di far comunicare culture diverse o avverse. Come sostiene Marc Gopin nel suo saggio il processo di pace puo' progredire solo costruendo metafore ricche di significati di verita', di perdono, di riconciliazione.

La cultura della metafora e' l'aspetto della comunicazione tra i diversi che l'astratta "teoria delle relazioni internazionali" comunemente ignora, non riuscendo a capire cosa fare di fronte a situazioni di evidente "dialogo tra sordi". E' da questo punto, da questa incomprensione-sordita' che si deve partire per sviluppare nuove metafore che siano capaci di far comprendere agli avversari l'uno i punti di vista dell'altro, l'uno i sentimenti dell'altro, realizzando quel processo di "immedesimazione nell'altro" che G. Mead e la scuola dell'interazionismo simbolico chiamano il Se' generalizzato.

Come gli individui che sono stati vittime di traumi, cosi' anche i popoli e le nazioni richiedono un complesso processo di guarigione che permetta di rimarginare le sofferenze subite. Se le vittime non ricevono un riconoscimento dei torti subiti, spesso prevale un senso opprimente di ingiustizia esistenziale e la memoria dei fatti fa crescere la paura che tutto possa ripetersi.

Percio' le metafore della verita', del pentimento e della riparazione sono i percorsi obbligati di ogni autentico cammino di riconciliazione. Piu' che l'appello alla ragione, un'autentica, genuina, espressione di pentimento, accompagnata dai necessari atti riparativi, puo' aprire la strada alla riconciliazione.

Riconciliazione e' un processo di cambiamento e di ridefinizione delle relazioni che va ben oltre la risoluzione delle singole questioni. Coinvolge in modo unitario sia la mente che il cuore, il modo di pensare e il modo di sentire l'altro, umanizzando l'avversario, sentendo le sofferenze dell'altro come le proprie sofferenze. I rituali possono aiutare, per mezzo di linguaggi metaforici altamente simbolici, a curare le ferite e a trasformare il modo di pensare le questioni in gioco, dando agli uomini nuove lenti per vedere la realta' degli interessi e dei valori. E' in questa zona di confine (liminal space) che le trasformazioni si realizzano.

Lisa Schirch ha osservato che: mentre la percezione di pace e giustizia puo' essere contraddittoria quando viene espressa verbalmente, la comunicazione rituale permette nuovi modi di pensare il conflitto e puo' aiutare a cercare simboli comuni per una coesistenza pacifica. Il linguaggio rituale certamente non risolve i problemi, ma crea nuovi simboli, piu' profondi ed efficaci, per interpretarli e ridefinirli in una chiave di riconciliazione. Spesso i funerali delle vittime rappresentano un'occasione per violente manifestazioni politiche e rituali pieni di odio, mentre Gopin propone di rielaborare il lutto in una prospettiva nonviolenta, facendo ricorso a metafore di condivisione e di riconciliazione, cosi' come hanno realizzato i gruppi di Parents' Circle, una associazione che unisce le famiglie colpite dal dolore per la perdita di un familiare, che nella rielaborazione del dolore subito superano la barriera del conflitto e prendono coscienza della comune condizione di vittime della violenza, rafforzando cosi' la propria volonta' di pace.

Il saggio di Abdul Aziz Said per la cultura islamica e quello di fratel Ibrahim Faltas per la tradizione cristiana completano il discorso di incontro, dialogo e riconciliazione che Marc Gopin ha sviluppato partendo dalla propria cultura ebraica. E' stupefacente, man mano che si procede nella lettura, sentire la profonda assonanza e convergenza di culture che lo stereotipo dominante ritiene diverse e opposte.

La nonviolenza e' diventato il punto omega verso cui converge l'impegno delle religioni mondiali. Cosi' i Luoghi Santi delle tre religioni monoteistiche, per il cui controllo esclusivo tanto si e' esacerbato in questi anni il conflitto arabo-israeliano, potranno finalmente diventare i simboli condivisi del cammino ecumenico di riconciliazione dell'umanita'. L'esempio di Etty Hillesum, il "cuore pensante" dell'ebraismo, riproposto alla fine di questo quaderno dal bel saggio di Franz Amato, si offre, nel rifiuto di ogni idolatria della forza, come modello di riconciliazione. Etty si dona al mondo con la sua "debolezza" che non sa odiare, ma solo amare, di quell'amore verso ogni persona che rende partecipi della segreta armonia del mondo.

Gli accordi di Ginevra.

Una parte significativa del volume, con gli articoli di Michal Reifen e di Maria Chiara Tropea, e' dedicata all'analisi dell'iniziativa di Ginevra, dove il primo dicembre 2003 e' stato presentato il progetto per un accordo israelo-palestinese, mostrando al mondo che la pace e' possibile e che ci sono i partner per farla.

L'iniziativa di Ginevra ha un valore straordinario, in un momento storico in cui e' indispensabile offrire ai due popoli una via di uscita realistica dall'attuale situazione di disperazione e di frustrazione. E' un esempio di diplomazia parallela, non ufficiale, che fa capire come un processo di pace possa avere come protagonisti non solo gli Stati, ma anche i cittadini, che con la loro azione dal basso aprono ai governi la possibilita' di comprendere esattamente quali concessioni, concordate dalle due parti, possano porre fine al conflitto. Quello di Ginevra e' un modello di accordo in cui tutti i particolari sono stati discussi senza lasciare nulla in ombra, secondo la prospettiva della creazione di due Stati per due Popoli. Infine, gli accordi di Ginevra sono importanti perche' riabilitano a livello internazionale la parte debole palestinese come interlocutrice del processo di pace, in opposizione alla politica del "fatto compiuto" perseguita dai violenti in armi.

Ha scritto Hannah Arendt, la coscienza inquieta dell'ebraismo contemporaneo: "Comunque, in un mondo come il nostro, in cui la politica, in alcuni paesi, ha da tempo superato la fase del delitto isolato ed e' entrata in quella della criminalita', una moralita' senza compromessi... e' diventata l'unico strumento mediante il quale possa essere percepita e pensata la vera realta', contrapposta alle situazioni di fatto, distorte ed essenzialmente effimere, create dai crimini".

Un vecchio racconto della tradizione ebraica ci tramanda l'esistenza di trentasei giusti che vivono in ogni tempo, senza i quali il mondo sarebbe andato in rovina. Etty Hillesum, Judat Magnes, Fawzi El-Hussein, Martin Buber, Hannah Arendt, Giorgio La Pira, gli autori dei saggi che abbiamo ospitato in questo volume: John Paul Lederach, Marc Gopin, Abdul Aziz Said, Fr. Ibrahim Faltas, Mohammed Abu-Nimer, i protagonisti degli accordi di Ginevra sono alcuni di questi giusti, intelligenze che, spesso irrise e inascoltate dai piu', si sono sollevate al di sopra della realta' quotidiana e dei vincoli politici del momento, indicando un percorso possibile per curare le ferite indotte dalla violenza e costruire un futuro di pace. "Se noi amiamo veramente il mondo reale con tutti i suoi orrori, se osiamo allacciarlo con le braccia del nostro spirito, le nostre mani incontreranno le mani che reggono il mondo" (Martin Buber).