6 febbraio 2006
Vignette
sataniche
di
Mikhail Gorbaciov
Ritengo probabile che la pubblicazione, in Danimarca, in
un momento così delicato come questo, di alcune vignette
satiriche verso l'Islam sia stata frutto del caso. Meno
fortuita mi pare la provocatoria ripresa delle stesse
vignette da parte di un giornale francese. Provocatoria e
inutile come la successiva campagna in difesa delle
libertà che i media occidentali hanno subito inscenato,
in risposta alle violente proteste della gente musulmana
in diverse capitali.
Io vedo, purtroppo, in tutto questo, una ennesima
dimostrazione della pretesa degli occidentali di dettare
regole al resto del mondo. Noi abbiamo una certa scala di
sensibilità, altri popoli ne hanno un'altra. Può non
piacerci ma è un dato di fatto. In questo caso l'offesa
è venuta dalla nostra parte. Insistervi è solo un
giocare col fuoco.
Ma c'è di peggio: visto con gli occhi arabi,
particolarmente con gli occhi palestinesi, questo
attizzare odi ha assunto il significato di una
rappresaglia culturale per il risultato delle elezioni
palestinesi. Inutile nascondersi dietro a un dito. Le
polemiche e gli atti di violenza che ne sono seguiti
gettano benzina sul fuoco.
Tutto ciò mentre il risultato delle elezioni palestinesi
assumeva un enorme significato non solo per il futuro del
Medio Oriente, ma per la pace del mondo intero. Tutti i
commentatori concordano a questo proposito. Ma gli uni
hanno colto in quel risultato la possibilità di uno
sviluppo positivo e gli altri sono stati capaci di
vedervi soltanto l'occasione per suonare l'allarme e per
accusare il popolo palestinese, colpevole collettivamente
di aver dato la maggioranza dei voti al partito Hamas.
Io mi attendo, come molti altri, dai governi europei una
maggiore saggezza e coerenza. Prima di tutto perché il
fatto stesso di aver tenuto queste elezioni senza
incidenti, nella calma, senza trucchi, nel pieno rispetto
di tutte le norme, ha mostrato una straordinaria
maturità democratica dei palestinesi. Non sono molti i
Paesi con una democrazia matura che possono vantarsi di
avere elezioni con l'80% dei votanti.
Il 25 gennaio 2006 rappresenta una vera svolta in tutti i
sensi. La Palestina non è ancora divenuta uno Stato nel
senso proprio della parola, ma non si può più ripetere
che Israele è l'unico Stato democratico nel Medio
Oriente. L'Autonomia Nazionale Palestinese è ora in
condizione di creare un governo pienamente legittimo,
eletto democraticamente C'è anche chi dice, e io
condivido questo giudizio, che l'esperienza palestinese
sta definendosi come un vero e proprio modello per
l'intero mondo arabo, essendo nello stesso tempo la
dimostrazione che esperienze positive di
democratizzazione possono svilupparsi nella regione
purché con il consenso delle popolazioni. Inutile dire
quanto sia migliore questo modello rispetto
all'esperienza dell'«introduzione» della democrazia in
Iraq.
Per ciò che concerne il risultato concreto del voto
nell'Autonomia Palestinese, esso rappresenta prima di
tutto una risposta all'incapacità del potere uscente di
guidare il Paese, di lottare contro la corruzione. Anche
questa è un'importante lezione per il futuro.
In sostanza l'Europa ha molte ragioni per essere
soddisfatta di questo risultato. Perché è stata proprio
l'Europa a volere le elezioni palestinesi nel 2005 e nel
2006. Queste elezioni sono state la dimostrazione, per
altro, che l'Europa, se vuole, può svolgere un ruolo
autonomo, positivo e costruttivo per il rafforzamento
della pace nella regione. Per i palestinesi sarebbe del
tutto incomprensibile che l'Europa non riconoscesse i
risultati di un processo che essa stessa ha incoraggiato.
Negare queste elezioni equivarrebbe a dire loro che si
considerano buoni solo quei risultati che piacciono
all'Occidente, cioè - se mi è lecito ricordare momenti
di una storia nemmeno troppo lontana - equivarrebbe ad
affermare il principio della «democrazia limitata»,
assai vicino, se non contiguo, a quello della sovranità
limitata dei tempi cecoslovacchi.
E' vero che Hamas è stato collocato dagli europei
nell'elenco delle organizzazioni terroristiche, anche se,
per esempio, la Russia non condivide questo giudizio. Io
non giustifico in alcun modo le dichiarazioni
programmatiche di Hamas che negano il diritto
all'esistenza dello Stato d'Israele. Certo però che i
palestinesi non possono accettare il fatto che il 22% di
terra che è loro rimasto sia ancora sotto occupazione.
Bisogna dunque dire, senza equivoci, che gli appelli a
liquidare uno Stato sovrano, membro delle Nazioni Unite,
sono inammissibili. Così pure devono essere
inequivocabilmente condannati i metodi terroristici per
realizzare qualsiasi programma.
Ma Hamas, ridotto e costretto in un vicolo senza uscita,
minoritario e isolato, non è la stessa cosa di un
partito di maggioranza che costruisce un governo o che
partecipa ad un governo di coalizione. In questo secondo
caso esso dovrà, per forza di cose, occuparsi di fare
politica e, facendo politica, dovrà per forza di cose
rinunciare al terrorismo. Bisognerà dare lavoro a chi
non ce l'ha, bisognerà spezzare il circolo vizioso della
corruzione, portare ordine nei territori sotto il
controllo dell'Autonomia Palestinese. Questi sono compiti
comuni ad Hamas e a Fatah, e qui non è ammissibile
alcuna divisione.
Bisogna infine dare risposta all'aspirazione della
stragrande maggioranza dei palestinesi alla pace, a una
vita normale. Abbiamo letto sondaggi d'opinione,
dichiarazioni della gente semplice, articoli e inchieste
che dimostrano che, per il popolo, queste sono priorità
inequivocabili, ben più di avventure militari e
terroristiche. E' su questo che devono poggiarsi coloro
che vogliono che la regione medio-orientale viva in pace
e tranquillità. Mi riferisco prima di tutto al quartetto
composto dalle nazioni Unite, dall'Europa, dagli Usa e
dalla Russia.
Anche gli Stati Uniti dovranno riesaminare la loro
politica nella regione, una politica che oggi contemplano
dal territorio dell'Iraq in guerra. La prima reazione
degli Usa al risultato delle elezioni palestinesi è
stata un errore. Se essi non lo correggeranno gli effetti
potrebbero essere molto gravi. Dichiarare, subito dopo il
voto, che «con Hamas non vi saranno negoziati»
significa chiudere un possibile esito politico da una
situazione già difficile, non solo per Hamas ma per
tutti i palestinesi.
Analoga riflessione deve avvenire in Israele, Non si può
negare che una tale riflessione aveva già preso avvio
nella tappa conclusiva della carriera politica di Ariel
Sharon, ma i suoi risultati non possono chiudersi nella
speranza illusoria di decisioni unilaterali, che
imprigionino Israele con un muro alto cinque metri,
isolandolo dal mondo arabo che lo circonda. Con esso, in
ogni caso, Israele deve vivere, mettersi d'accordo,
rispettarlo per esserne rispettato. E' questo il segnale
che la comunità internazionale deve mandare a Israele
prima delle elezioni che tra poco vi si terranno.
In sostanza ciò che è accaduto nei giorni scorsi
nell'Autonomia Palestinese e attorno ad essa ribadisce la
necessità che tutte le parti mostrino buona volontà
politica e rinunciano agli stereotipi. Prima e invece di
trarre conclusioni pessimistiche si può cercare di
trarre le possibilità positive che l'attuale situazione
contiene. Di certo non giova a nessuno alzare bandiere
contro l'Islam in nome delle libertà civili
dell'Occidente.
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