da
Reporter Associati:
il drammatico
jaccuse che un sottoufficiale dell'Arma dei
Carabinieri rientrato da Nassirya, in Iraq, ha
inviato alla nostra redazione sotto forma di una
lettera-denuncia. Il sottoufficiale è uno dei
militari sopravvissuti al tremendo attentato del
12 novembre 2003. "Animal House" era
soprannominata la Base. Le difficilissime
condizioni di vita dentro la palazzina che verrà
poi distrutta dall'esplosione. La mancanza delle
minime norme di sicurezza che costrinsero gli
stessi carabinieri a costruirsi con le proprie
mani, e spesso in modo artigianale, modeste
protezioni passive.Quei dispacci
dell'intelligence che a un certo punto non
arrivarono più. Eppure sarebbe bastato così
poco per evitare quella strage
Sono un carabiniere, il
mio grado non è importante e il mio nome neppure.
E importante quello che cercherò di scrivere su di
noi Carabinieri inviati a Nassirya, in Iraq. Sono uno di
quelli che è sopravvisuto allattentato contro la
Base italiana il 12 novembre 2003. Ci tengo a dire che
quanto leggerete lho scritto perché mi sono
sentito in dovere di farlo in memoria dei miei colleghi
deceduti nellattentato.
Lo faccio perché ero convinto che le inchieste
amministrative e penali, aperte nei giorni successivi
lattentato contro il contingente italiano,
avrebbero portato ad accertare manifestatamente
responsabilità specifiche, i nomi e il ruolo dei
responsabili sulla mancanza di sicurezza delle nostre
condizioni di vita nella base di Nassirya. Così non è
accaduto e, anzi, mi sembra che si stia procedendo su una
strada che porterà rapidamente a seppellire la verità.
Penso sempre di più che tutto quello che accaduto
finirà nel dimenticatoio. Cè stato persino chi ha
fatto la sua bella figura sulla pelle dei miei colleghi
morti e di noi sopravvissuti, elevando così il proprio
indice di gradimento, arrivando a dichiarare
che grazie a quel tremendo attentato è rinato nel nostro
paese lamor di Patria.
Noi che partiamo, che moriamo, inesorabilmente
saremo dimenticati. Lamor di Patria lo abbiamo
sempre vivo nel nostro cuore e nella nostra ragione. Il
nostro amor di Patria noi lo portiamo
geneticamente nel nostro animo. Sempre. Ecco, questo è
il nostro lavoro in Italia e nelle missioni alle quali
partecipiamo nel mondo. Questo sarebbe dovuto essere il
nostro compito una volta giunti in Iraq.
Siamo partiti si perché ci avevano garantito che
saremmo stati pagati bene, a parziale copertura dei
rischi ai quali andavamo incontro. Ma neppure questo si
è verificato poiché la nostra diaria giornaliera si è
rivelata di molto inferiore a quella che, non solo ci era
stata promessa, ma che anche qualche ben pensante aveva
maliziosamente (o, furbamente?) fatto circolare nel
circuito dellinformazione e dei mass media.
Comunque siamo partiti lo stesso e siamo arrivati in
Iraq.
Siamo sbarcati allaeroporto di Tallil per una
missione umanitaria di guerra, così la
definisco io, quasi un controsenso, perché dopo quattro
mesi che eravamo nel teatro di guerra ancora non
riuscivamo a capire, né a sapere, quali erano e dovevano
essere esattamente i nostri compiti. Appena dentro
laeroporto ci hanno fatto firmare subito un foglio
sul quale era scritto che eravamo sottoposti (qualora si
fosse verificato un episodio contemplato nel codice
penale militare) al C.P.M.di Guerra ( codice penale
militare di guerra ). Grande stupore e meraviglia da
parte di tutti noi: eravamo in un territorio dove la
guerra era appunto considerata tale, e non già terminata
come ufficialmente proclamato ai quattro venti. E la
nostra presenza era necessaria, quindi, per aiuti
umanitari o per altri scopi che non conoscevamo?. Non
labbiamo mai saputo. Ci siamo trovati di
fatto soggetti al Codice Penale Militare di Guerra pur
essendo considerati in tutti i sensi, sia professionale
che economico, in tuttaltro modo. Come una Missione
in Bosnia o in Kosovo dove almeno lì erano garantiti
livelli di qualità della vita abbastanza decenti".
"I disagi nellaprire una nuova missione ci
sono sempre stati e sempre ci saranno. Non è stato
questo il problema più importante nei primi giorni di
permanenza a Nassirya. Si dormiva in tende con 50/55
gradi di calore durante il giorno e senza condizionatori
daria. Ma questo non era un problema, siamo
Carabinieri e soldati e quindi bisognava adattarsi.
Andava bene così. Non siamo mai riusciti a consumare due
pasti completi durante il giorno. (E nessuno mai ha
sollevato questo problema). Ma andava bene così. Non ci
si poteva lavare con acqua pulita perché quella dei
lavandini e delle docce era di colore marrone scuro. Non
era un problema, andava ancora bene così. Tanti sono
stati i problemi che abbiamo dovuto risolvere nelle prime
settimane, ma siamo sempre riusciti ad affrontarli con il
nostro spirito militare e con animo sereno pensando che
il nostro lavoro sarebbe servito ai colleghi che ci
avrebbero successivamente dato il cambio.
Ma il problema numero uno, il problema che avevamo
sotto gli occhi ogni ora del giorno e del quale parlavamo
sempre tra noi era quello della posizione logistica della
Base. Che qualcuno, chissà in base a cosa, definiva
strategica. Eravamo nel pieno centro abitato,
dislocati in due edifici. Uno era la Camera del Commercio
e laltro il Museo. A dividerci il fiume. Alcuni di
noi andarono al Museo altri invece nella Camera di
Commercio che subito soprannominammo Animal
House, (il perché è facile a capirsi).
Lintera Unità di Manovra, che poi è stata
decimata dallattentato terroristico del 12
novembre, si trasferì al di là del fiume.
La sicurezza non era decisamente il punto forte di
queste due basi. Erano vulnerabilissime. Come poi si è
potuto vedere. Io ne sono uscito vivo ma le ferite che ho
dentro di me da quella mattina le porterò per tutta la
vita. Il mio cuore, da quella maledetta mattina del 12
novembre è come se fosse diviso in 19 piccole parti,
ognuna delle quali gronda sangue e amarezza. Perché
quelle morti potevano benissimo essere evitate. Come?
Trasferendoci, ad esempio, in una Base nel mezzo del
deserto. Come era accaduto per dislocare il contingente
italiano dellesercito e come era stato fatto in
precedenza dalle forze armate degli Stati Uniti. E come,
purtroppo, è stato fatto solo dopo. Dopo la
strage.
Dovevamo essere in mezzo alla gente tra la
popolazione civile irachena. Era questo lo scopo della
nostra missione. La popolazione doveva sentirsi protetta
da noi Carabinieri che eravamo di stanza a pochi passi
dal centro abitato. Con la popolazione da subito eravamo
riusciti a instaurare un buon rapporto di collaborazione,
ma secondo il nostro parere, avremmo poturo ottenere il
medesimo risultato anche se, con maggior prudenza, ci
avessero fatto prendere Base nel deserto. Non avremmo
così dovuto pagare il tributo di dolore, sangue e morte
che abbiamo pagato. Per la superficialità e
limprudenza di qualcuno.
Io non ci sto alle spiegazioni ufficiali. Io non ci
sto a tacere sullassoluta mancanza di sicurezza
nella quale siamo stati costretti ad operare. Non può
esserci alcuna giustificazione per quello che è
accaduto. Ripeto: la strage del 12 novembre 2003 si
sarebbe potuta evitare. E si poteva evitare.
Fin dai primi giorni della nostra permanenza a
Nassirya, nella Base Animal House, udivamo
sempre più frequentemente il rumore inconfondibile dei
colpi darma da fuoco. Ci veniva spiegato, per
tranquillizzarci, che si trattava solo di colpi sparati
in aria per motivi di festa, in genere in occasione di
matrimoni. E ci rendemmo conto, familiarizzando con i
luoghi e la poplazione, che in parte questa spiegazione
era vera. Ma non del tutto. Presto ci rendemmo conto che
molti altri colpi venivano sparati volutamente contro le
palazzine della Base.
Allora cosa abbiamo fatto? Autonomamente ci siamo
resi conto ed abbiamo compreso che se quella, proprio in
quei luoghi tanto pericolosi, doveva essere la nostra
Base, doveva essere dotata di minime dotazioni di
sicurezza. E così abbiamo fatto da soli, in alcuni casi
in modo persino artigianale, al fine di poter cercare di
limitare le conseguenze peggiori in caso di un eventuale
attacco terroristico. Purtroppo, quello che avevamo
costruito con le nostre mani è servito solo a
risparmiare la vita di pochi di noi perché le dotazioni
che ci eravamo dati da soli non potevano far nulla di
più di quanto hanno fatto davanti a un attacco
terroristico della portata di quello che abbiamo
subìto.
Ogni giorno sapevamo che cerano tre o quattro
messaggi di allerta per attacchi
terroristici. Ma, ragazzi, eravamo in guerra, (altro che
missione umanitaria!) ed era quindi normale routine
ricevere allerta di quel tenore. Tanto è
vero che con il passare del tempo, dopo il primo mese di
tensione ed allerta continui, non dico che i
messaggi provenienti dallintelligence non venissero
presi con la dovuta considerazione ma, pian piano, erano
diventati, appunto una routine, anche perché molto
generici nei contentuti. Erano diventati una cosa
normale. Ad un certo punto i messaggi di
allerta non ci arrivarono neppure più. E noi
non ci preoccupammo più di tanto.
Noi ci siamo ricostruiti e difesi al meglio la Base
da soli, ma e non finirò mai di ripeterlo quella Base
non doveva proprio esistere così vicino alla strada. E
nel dolore che provo per i colleghi uccisi devo dire che
meno male che gli attentatori hanno deciso di attaccare
Animal House, perché se avessero deciso di
attaccare la base del Museo durante lorario
ordinario, in quanto la mensa era proprio vicina al muro
di cinta adiacente la strada che attraversa il fiume, di
morti ne avremmo contati a centinaia.
Scrivo questo messaggio perché sono assolutamente
convinto, conoscendo le cose delle quali scrivo per
esperienza diretta, che quelle morti si sarebbero potute
evitare. E non con una sofisticata strategia logistica,
ma soltanto con un pizzico di buon senso.
Scrivo e ho scritto non so neppure io per quale
motivo. Perché vorrei poter gridare al mondo intero
tutta la mia rabbia per i colleghi morti. Perché
perché
. perché
sono tanti i perché. Non
riesco ad elencarli tutti. Tra tutti solo uno è
quello che mi sta più a cuore laver ricordato ed
aver parlato in memoria dei miei colleghi caduti
inutilmente. Si, inutilemente. Solo così riesco a lenire
la mia angoscia per quanto accaduto quel maledetto 12
novembre.
Spero di poter un giorno tornare a dormire sonni
tranquilli dopo aver scritto queste poche righe perché
ancora non sono del tutto convinto di inviarle, perché
non vorrei che potessero essere usate in modo diverso da
quello per le quali le ho digitate. Non vorrei che
potessero servire in nessun modo a crare polemiche
politiche. Perché questa è lultima cosa che mi
interessa. Ciascuno risponderà dei propri comportamenti
alla propria coscienza.
Questo è solo lo sfogo di un militare e di un
carabiniere, costretto a rimanere anonimo per motivi
evidenti di sicurezza e tutela personale, che ha perso
tanti suoi amici, prima che commilitoni, e che comunque
sarebbe pronto a ripartire anche domani stesso se dovesse
essere chiamato e verso qualsiasi destinazione fosse
comandato.
redazione@reporterassociati.org
www.reporterassociati.org
|