BENE ABBIAMO ALTRO TEMPO - e tutti noi non pensavamo affatto di dover dire grazie alla turchia - LA GUERRA SLITTA UN PAIO DI GIORNI - e questo perche' la FRANCIA E LA GERMANIA - si sono rifiutate di difendere questa nazione turca - da sempre filoamericana - da eventuali attacchi.

CARO BERLUSCONI - impari a fare politica - se invece di lanciarsi in un sonoro sissignore nei confronti di BUSH - avesse riflettutto - ora andrebbe tutto - e per tutta l'europa - molto bene.

DA - LA REPUBBLICA

Bocciata la mozione del premier che chiedeva il via libera
Se ne riparlerà martedì prossimo. L'opposizione esulta
Turchia, il Parlamento
boccia le truppe Usa

ANKARA - Colpo di scena ad Ankara. Il Parlamento turco, dopo settimane di rinvii, ha bocciato la risoluzione presentata dal premier Abdullah Gul sull'ingresso e il dispiegamento di decine di migliaia di truppe americane sul suo territorio. Tecnicamente, si è trattato di mancato raggiungimento del quorum, ma l'effetto è lo stesso e Washington non ha gradito lo stop.

Mentre all'esterno dell'aula si svolgeva una grande dimostrazione pacifista, dopo diverse ore di discussione, la risoluzione, che autorizza anche le truppe turche ad entrare in territorio iracheno in caso di guerra, viene messa ai voti: 264 sì, 251 no, 19 astenuti. Sembra fatta. Le agenzie di stampa battono la notizia del via libera per il Pentagono. Ma l'opposizione turca (CHP) non ci sta e contesta la validità del voto in base all'articolo 96 della Costituzione.

Per approvare una mozione del governo serve infatti la maggioranza del 50% +1 dei deputati presenti e votanti. Quindi, su 533 deputati presenti, servivano 267 voti. Il clima si fa teso. Tocca al presidente della Camera, Bulent Arinc, dichiarare la nullità del voto. La mozione è bocciata. Se ne riparlerà il 4 marzo.

"Un risultato storico - dice il Chp - in sintonia con il sentimento dell'opinione pubblica turca". Si capisce che molti deputati del partito di governo, l'islamico Giustizia e Sviluppo (AKP), hanno votato contro la mozione. Il premier convoca il comitato centrale per domani. Urge una decisione. Si deve capire se presentare un'altra mozione dallo stesso contenuto, cercando da qui a martedì prossimo di conquistare quei tre voti mancanti, magari tra gli astenuti.

--------------------------------------

PER L'AMERICA NON BASTA MAI - in questo modo tiene sotto pressione il mercato del petrolio, che rimane a prezzi esagerati, perche' c'e' sempre la possibilita' della guerra, e la famiglia BUSH guadagna con la sua multinazionale petrolifica ed anche l'america rientra per poter pagare i soldati in colonia a baghdad.

DA - LA REPUBBLICA :

Al via lo smantellamento. Ma la Casa Bianca rimane critica
Colloqui "buoni" fra gli ispettori dell'Onu e Bagdad
L'Iraq distrugge i missili
Iniziate le operazioni

BAGDAD - Il governo di Bagdad ha avviato la distruzione dei missili al Samoud 2, di cui l'Onu aveva chiesto l'eliminazione. Per ora il governo di Bagdad ne ha distrutti quattro, come previsto per la giornata di oggi. Il lavoro ricomincerà domani.

Ma i preparativi per la guerra non si fermano. I riflettori sono oggi puntati su Bagdad dove è iniziata la prima fase della distruzione dei missili proibiti. E dove si susseguono gli incontri tra ispettori dell'Onu e membri del governo. Incontri definiti "buoni" dal generale Amir Al Saadi, consigliere scientifico di Saddam Hussein. Ma il risultato ancora non convince la Casa Bianca, che in un comunicato ufficiale parla nuovamente di "inganni". E mentre il cardinale Pio Laghi si accinge a partire per Washington, dove consegnerà al presidente Bush una lettera di Giovanni Paolo II su pace e disarmo, a Sharm el Sheik, in Egitto, si è svolto il vertice della Lega Araba.

Lo smantellamento dei quattro missili Al Samoud ("vietati" dalle Nazioni Unite, in quanto la loro gittata supera il massimo consentito di 150 chilometri) è avvenuto nell'area di Taji, una zona isolata a 40 chilometri della capitale Bagdad. Rispettato anche lo scadenzario: il capo degli ispettori Onu, Hans Blix, aveva posto proprio il primo marzo come data entro la quale doveva iniziare l'eliminazione dei missili.

Anche il portavoce degli ispettori in Iraq, il giapponese Hiro Ueki, ha commentato positivamente l'esito dei colloqui con gli iracheni, aggiungendo che domani sarà annientato un altro dispositivo-chiave degli arsenali missilistici di Bagdad: lo stampo per adattare all'alloggiamento degli Al Samoud, la componente solida del loro propellente. Il funzionario ha ribadito che "tabella di marcia e piano d'azione" sono stati messi a punto anche per i prossimi giorni.

A Mosca la distruzione dei missili è considerata uno sviluppo significativo, una dimostrazione del fatto che "l'Iraq sta effettivamete disarmando". Positivo anche il giudizio del governo di Parigi: "Un passo importante, dimostra l'efficacia delle ispezioni". Ma Washington non si lascia convincere: la distruzione dei missili "è un elemento della partita di inganni", dice un comunicato della Casa Bianca, ricordando che la risoluzione 1441 delle Nazioni Unite chiede un disarmo "completo e totale" dell'Iraq e non "pezzi di disarmo".

E se dall'Iraq giungono segnali di cooperazione, il Vaticano annuncia una nuova iniziativa per arginare il rischio di un conflitto: Giovanni Paolo II ha scritto un messaggio al presidente americano George W. Bush, che sarà portato a Washington, lunedì, dal cardinale Pio Laghi. Cioè a pochi giorni dalle dichiarazioni dello stesso Bush, che aveva detto "Non ci faremo influenzare dal Vaticano". "Il cardinale Laghi - ha detto il portavoce vaticano, Joaquin Navarro Valls - sarà latore di un messaggio di Sua Santità e avrà modo di illustrare la posizione e le iniziative intraprese dalla Santa Sede per contribuire al disarmo e alla pace in Medio Oriente".

---------------------------------------

QUESTA SI CHE SI PUO' RITENERE UNA NOTIZIA - finalmente gli arabi si fanno sentire - ora l'america e' veramente in crisi - fino ad OGGI gli arabi avevano dato consenso alle mosse militari USA - anche perche' e' a loro che vendono il petrolio... vuoi vedere che si svegliano ? - CHE SADDAM sia un dittatore non c'e' ombra di dubbio - ma proprio per questo dobbiamo tutti pensare al popolo dell'iraq.

DA - LA REPUBBLICA.

L'altolà della Lega Araba:
"No alla guerra contro l'Iraq"
Duro scontro tra la Libia e l'Arabia Saudita

SHARM EL-SHEIKH (Egitto) - "La Lega Araba non prenderà parte a una guerra contro l'Iraq" che "sarebbe una minaccia alla sicurezza di tutta la nazione araba". E' un netto "no" al conflitto quello che arriva dai ventidue paesi della Lega Araba a conclusione del vertice dedicato alla crisi irachena, a Sharm el-Sheikh, in Egitto. Il documento uscito dal summit è chiaro: respinge un attacco contro l'Iraq e giudica questa ipotesi "un'aggressione" cui nessuno dei paesi membri ha intenzione di prendere parte. Anche se il comunicato non esclude, esplicitamente, la possibilità di prestare assistenza logistica a una coalizione internazionale decidere una guerra. Il Kuwait e tutti gli Stati del Golfo Persico stanno già ospintando decine di migliaia di militari statunitensi e concedendo le loro basi e porti.

Nel documento i dirigenti arabi "denunciano i tentativi che mirano ad imporre cambiamenti di regime nella regione del Medio Oriente e ad interferire negli affari interni di questi paesi" e affermano che "tocca solo ai popoli dell'area di decidere della sorte dei propri regimi". Il comunicato invece non fa inoltre alcun accenno all'iniziativa degli Emirati Arabi Uniti a favore dell'esilio di Saddam Hussein e di un mandato provvisorio dell'Onu e della Lega Araba in Iraq. "Nessuno ha manifestato interesse a discutere della proposta degli Emirati - dice il segretario generale Amr Moussa - .Non ci riguardano i cambiamenti di regime, non è il nostro compito".

La Lega però ha anche rivolto un appello a Saddam Hussein affinché rispetti le risoluzioni delle Nazioni Unite. I capi di Stato e di governo hanno inoltre convenuto sull'opportunità che la distruzione delle armi di sterminio eventualmente in possesso dell'Iraq avvenga con strumenti pacifici e sotto l'egida delle Nazioni Unite. Chiedendo che agli ispettori Onu per il disarmo sia concesso più tempo per portare a termine il loro lavoro.

Il summit ha visto contrapposti i paesi tradizionalmente filo-americani, su cui si è concentrata la pressione di Washington perché imponessero la loro linea di condanna dell'Iraq, e il fronte più radicale. C'è stato anche un momento di forte tensione tra il leader libico Muammar Gheddafi e il principe ereditario saudita Abdullah. Uno scontro così forte che ha portato alla sospensione, temporanea, del vertice. A quanto si apprende Gheddafi avrebbe accusato il regno saudita di lavorare per gli americani. Secca la replica di Abdullah: "Il mio paese non è un agente del colonialismo". Ma il leader libico non si è fatto zittire e ha chiesto provocatoriamente: "Questo allora significa che non ci sono basi militari americane?". A quel punto la delegazione saudita aveva deciso di abbandonare definitivamente i lavori, ma è poi rientrata in aula su insistenze degli egiziani, dei siriani, dei rappresentanti del Bahrein e degli stessi libici.

Al vertice è stata inoltre decisa l'istituzione di un comitato ristretto, formato da Libano, Bahrein e Tunisia, oltre al segretario generale, cui spetterà avviare una serie di contatti internazionali.

-----------------------------------

ALTRO CHE MATERIALE INUTILE - come dice il ministro martino... I PACIFISTI fanno un buon lavoro - e queste azioni sono da non dimenticare -

DA - IL MANIFESTO :

CATANIA


Il molo arcobaleno
I pacifisti rallentano lo sbarco di mezzi della Us Navy da una nave di linea partita da Napoli e diretti a Sigonella


Ore di fronteggiamento tra i manifestanti e le forze dell'ordine. Poi lo sbarco di materiale: probabilmente rampe per il carico degli aerei militari. Oggi manifestazione in città
PATRIZIA ABBATE
CATANIA
Sono rimasti per ore sul molo, a urlare slogan e dispiegare cartelli e bandiere arcobaleno, i pacifisti catanesi che ieri mattina hanno tentato di bloccare il cammino di due automezzi della Us Navy diretti a Sigonella, imbarcati sulla nave di linea
Partenope che collega Napoli al capoluogo etneo. Il blocco è riuscito solo a metà: intorno alle 14,15, dopo una sfiancante attesa - l'approdo era avvenuto poco dopo le 9 - i due mezzi, che avevano viaggiato confusi tra tir carichi di merci e auto private, sono riusciti a lasciare il porto tra i «vergogna, vergogna» scanditi dai presenti, e hanno continuato il loro viaggio via terra verso la base militare che dista pochi chilometri dalla città. Ai pacifisti è rimasta la soddisfazione di aver comunque ritardato lo sbarco, le cui procedure sono andate avanti lentissime. Cosa ci fosse in realtà attaccato a quelle due motrici militari stipate proprio in fondo alla stiva nessuno ha saputo spiegarlo con esattezza, probabilmente rampe che vengono utilizzate per caricare gli aerei militari. Chi è riuscito a salire sulla nave non ha comunque potuto raggiungere la stiva, mentre da più parti si tentava di accreditare la versione che si trattasse sì di pezzi di rampe destinate a Sigonella, ma per uso civile, visto che lo scalo ha una doppia funzione. Una versione che sembrerebbe aver convinto i rappresentanti della Cgil partecipanti al presidio, che per tutta la mattinata sono rimasti anch'essi lì, «soprattutto per testimonianza, e per capire meglio», spiega Giusy Milazzo della segreteria provinciale; mentre Agrippina Pozzagli della Filt specifica che «è importante capire bene cosa si sta trasportando, perché se si tratta di materiale civile non abbiamo diritto a protestare...».

Sono state lunghe ore di gelo e di rabbia, oltre che di distinguo. E c'è scappata anche qualche scaramuccia tra poliziotti e militari della Capitaneria e i pacifisti che - grazie al tam tam partito nella serata di giovedì dallo scalo napoletano, dove altri attivisti erano riusciti a far ritardare la partenza - già alle 8 si erano ritrovati a decine davanti ai cancelli del porto. Lì, nel tentativo di sbarrare loro l'entrata, due poliziotti sono rimasti lievemente feriti mentre a qualche manifestante sono arrivate manganellate. Ma la tensione per fortuna si è sciolta subito, mentre i pacifisti conquistavano il molo e via via crescevano di numero, fino a diventare un centinaio, rappresentanti del neonato coordinamento catanese «Fermiamo la guerra» del quale fanno parte tra gli altri il Social Forum, l'Arci, Attac, Cgil, Rifondazione, collettivi studenteschi e universitari e vari centri sociali. Che per oggi si sono già dati appuntamento in via Etnea per sensibilizzare i passanti nella strada dello shopping. E già programmano una grossa manifestazione per il 23 a Sigonella, davanti a quella base che «è certamente la più strategica e importante del Mediterraneo» e verso la quale, si teme, continueranno ad arrivare camion carichi di guerra.

------------------------------------

IO HO IMPARATO CHE QUANDO BERLUSCONI dice una cosa - ne fa tutta un'altra - da sempre e' cosi' - e' una tattica la sua - talmente semplice - che come parla bisogna organizzarsi per il contrario :

DA IL MANIFESTO

La doppiezza di Berlusconi


Il premier dice che senza Onu sarebbe «nefasta», ma si prepara e attacca i lavoratori che la boicottano


C. ROS.
«Credo che sia un fatto talmente nefasto, quello di una azione militare contro l'Iraq fuori dall'Onu, che non penso nessuno si caricherà di una responsabilità così grave». Solo che Silvio Berlusconi, nel fare questa affermazione, non spiega se si riferisce all'alleanza con gli Stati uniti di cui fa parte o al Consiglio di sicurezza dal quale invoca da tempo il via libera alle armi, pena la perdita di credibilità delle Nazioni unite. Da parte sua è il ministro degli esteri Franco Frattini che spiega le parole del premier come un monito agli alleati: «Il presidente del consiglio - spiega - ha confermato quello che l'Italia ha più volte detto in diverse sedi, innanzitutto cercando di convincere il presidente Bush a incanalare la sua azione nell'ambito delle Nazioni Unite». Allo stesso tempo, però, Frattini continua a mantenere in vita l'ambiguità della posizione del governo: «L'Italia cerca in ogni modo, con il convincimento e la persuasione, il ricorso ad una soluzione pacifica - dice - ma cerca anche che sia riaffermata la credibilità delle Nazioni unite e del Consiglio di sicurezza».

La dichiarazione del premier sembra calibrata invece per smentire le indiscrezioni pubblicate nei giorni scorse dal francese
Figaro circa l'impegno del cavaliere a persuadere i parter europei alla guerra in nome della realpolitik. Tant'è che Frattini chiosa: Berlusconi «ha smentito con i fatti quelle indicazioni che gli attribuivano, e attribuivano anche all'Italia, una volontà diversa» da quella della pace e della tutela del prestigio dell'Onu.

E anche il presidente della camera Pierferdiando Casini - ai ferri corti con il cavaliere sulla vicenda Rai - spezza una lancia a favore della diplomazia italiana. «Stiamo lavorando tutti perché le Nazioni unite abbiano un ruolo da protagonista e per la pace - dice - Naturalmente questo non può significare una sorta di rassegnazione davanti a regimi dittatoriali». Tanto per salvarsi la coscienza - e la protezione d'oltretevere - comunque Casini parteciperà al digiuno per la pace del 5 marzo.

Intanto il cavaliere non perde l'occasione per polemizzare con i pacifisti italiani e in particolare con i lavoratori. Secondo quanto riferito ieri nel corso della conferenza stampa a palazzo Chigi, i treni boicottati dai Disobbedienti «trasportavano mezzi e attrezzature militari, ma non armi» e, soprattutto, sono ormai giunti tutti a destinazione. Il premier compiace perciò dell'operato delle forze dell'ordine: «I convogli hanno svolto il proprio tragitto come deve essere garantito dai trattati in vigore con il Patto Atlantico - dice - I manifestanti hanno avuto modo di esprimere il proprio dissenso e devo lodare le forze dell'ordine, per essere riusciti ad evitare ogni scontro». Semmai c'è da censurare la «mancanza di riservatezza da parte dei dipendenti pubblici». Cioè i ferrovieri che hanno denunciato i trasporti bellici.

------------------------------------

HANNO CATTURATO LA MENTE DELL'11 SETTEMBRE - ma come al solito si sono dimenticati di fornirci le prove della sua colpevolezza.... gli americani - che spettacolo - e lo hanno beccato proprio quando la guerra sembra ancora non avviarsi - caso strano...

DA - IL CORRIERE DELLA SERA

Arrestato il «regista» dell'11 settembre

Pakistan, agenti dell'Fbi e dei servizi segreti di Islamabad hanno catturato Khalid Mohammed, uomo chiave di Al Qaeda

ISLAMABAD - Khalid Sheik Mohammed, uno dei terroristi di Al Qaeda più ricercati, considerato la mente degli attentati dell'11 settembre, è stato arrestato assieme ad altre due persone a Rawalpindi, città nel nord-est del Pakistan.

LA CONFERMA - Qualche ora prima della conferma che si trattasse di Khalid Sheik Mohammed, il ministro dell'interno Faisal Saleh Hayat aveva parlato dell'arresto di tre «sospetti»: un pachistano e due «stranieri», nei pressi di Islamabad.
Gli arresti sono stati eseguiti a Rawalpindi, nel nord-est del Paese, non lontano dalla capitale pakistana. L'azione è stata rapida e non ci sono state sparatorie.
Il governo pachistano, per bocca del ministro dell'informazione Sheikh Rashid Ahmad, ha già annunciato l'estradizione negli Stati Uniti di Khalid Sheik Mohammed. «Non sappiamo quando avverà. Potrebbe essere domani o fra una settimana» ha detto il ministro.

CHI E' L'ARRESTATO - Khalid Sheikh Mohammed è kuwaitiano e ha 37 anni. E' il nipote di Ramzi Yousef, cioè l'uomo che nel 1993 ideò e coordinò il primo attentato al World Trade Center. Il nome

di Khalid Sheikh Mohammed è stato fatto da Abu Zubaydah, ex numero tre della stessa rete terroristica, attualmente nelle mani degli americani.
Per la cattura di Khalid Sheikh Mohammed l'Fbi aveva offerto una taglia da 25 milioni di dollari. Gli americani puntano il dito contro di lui anche per il suo coinvolgimento nel piano - messo a punto a Manila, nelle Filippine, nel 1995 - che prevedeva il dirottamento e l'abbattimento in contemporanea di 12 aerei commerciali americani in volo dall'Asia agli Stati Uniti.
Le informazioni raccolte dai servizi segreti occidentali lo davano, infine, come l'organizzatore di un progetto, datato 1999, per
assassinare il Papa durante una visita nelle Filippine.

L'INTERVISTA - Assieme a Ramzi Binalshibh, Khalid Sheikh

Mohammed rilasciò una sconvolgente intervista al giornalista Yosri Fouda di Al Jazeera, in cui Mohammed si autodefiniva capo militare di Al Qaeda. Nell’intervista il ricercato affermava che, prima di decidere per l’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono, avevano anche valutato la possibilità di colpire centrali nucleari.
Uno degli altri due arrestati in Pakistan si chiama Ahmed Quddos. Sul suo conto non è stata diffusa alcuna informazione se non i dati anagrafici riportati sulla sua patente di guida.

L'AMICO ATTA - Secondo il dossier dell'intelligence americana sul suo conto, Mohammed in questi anni avrebbe tenuto i contatti tra i vertici di Al Qaeda e le cellule terroristiche sparse in tutto il mondo. Stando alla documentazione avrebbe incontrato nel 1999, ad Amburgo, in Germania, Mohamed Atta, uno dei kamikaze dell'11 settembre per mettere a punto i piani degli attacchi. Infine gli viene attribuita una responsabilitá anche nelle stragi contro le ambasciate americane in Africa del 1998 che provocarono oltre 200 morti.

----------------------------------

ECCO COME DA TEMPO CERCANO DI ROVINARE I GIOCHI - per poi lasciar gestire il tutto alla pay tv - infranto il sogno dei giocatori

DA - IL MESSAGGERO :

«Libera concorrenza anche per i giochi»
Baldassarre: ora non prevale il più efficiente, ma chi firma la migliore convenzione

di CORRADO GIUSTINIANI

ROMA - Per mezz’ora si è tolto il cappello di presidente dimissionario della Rai, Antonio Baldassarre, per indossare quello di presidente della Sisal, che da tre anni e mezzo gli calza a pennello. E lanciare un bel sasso nello stagno, al Convegno internazionale sui giochi: «Noi, Sisal, ci attendiamo una legge di sistema che garantisca la libera concorrenza. La situazione in Italia è deprecabile. Non viene premiato il più efficiente, come richiede il mercato, ma chi sigla la miglior convenzione con lo Stato».
Brusii di sorpresa nell’aula della Scuola superiore dell’economia e delle finanze, che ospitava i lavori. Ma come, non è Sisal uno dei tre concessionari monopolisti del mercato italiano? Da una parte c’è Lottomatica che gestisce l’oro del lotto (7,8 miliardi di euro l’anno, come ha ricordato il suo vicedirettore Piero Alberti, con 7 milioni di consumatori che giocano tutte le settimane). Oro del lotto e non solo, perché Lottomatica grazie alla rete dei tabaccai cura anche pagamento di multe e bollo auto, schede telefoniche, biglietti di teatro e partite.
Dall’altra c’è Snai, che regna sulle scommesse ippiche. E Sisal, con il Superenalotto, affidatole con decreto del ministero. Sisal vorrebbe di più, è forse invidiosa di Lottomatica? Innervosita perché lo scorso anno la raccolta del Lotto è progredita del 7,14 per cento, mentre il 2002 del Superenalotto è andato maluccio, con quel calo dell’8,96 per cento? O invece la proposta del presidente emerito della Corte costituzionale è proprio nell’interesse del mercato? Vero è che Baldassarre ha lanciato un’altra interessante idea: «Una quota dell’incasso dei giochi vada a specifiche attività sociali. Dobbiamo seguire l’esempio della lotteria nazionale inglese».
La finalità sociale esposta da Giovanni Petrucci, presidente del Coni, è quella di finanziare in modo serio, senza elemosine, lo sport italiano. Dal suo discorso si è ben capito che il Coni non ha ben digerito il fatto che, con il passaggio per legge della regia di tutti i giochi all’azienda dei Monopoli, gli sia stata soffiata la gestione delle schedine. «Da parte nostra c’è ampia collaborazione - ha detto - Vogliamo far valere la nostra esperienza». Ma intendeva altro, Baldassarre, che aveva ricordato come la Sisal investa sui poveri dell’Africa.
Una «legge di sistema» l’ha invocata anche Luciano Consoli, amministratore delegato di Formula Giochi, la società del Bingo. «Vogliamo sì un’unica cabina di regia, ma per un mercato che deve essere senza barriere e senza privilegi. Stimo molto Lottomatica e Sisal, ma debbono poter crescere altre società». Consoli ha invocato anche una rete più grande e con sportelli unici, «perché i giocatori non debbano passare più per tre o quattro parrocchie prima di trovare il prodotto che cercano». Sugli stessi concetti ha battuto Luigi Paganetto, preside di Economia a Torvergata: secondo l’Antitrust, ha ricordato, il 75 per cento del marcato è in mano a Lottomatica e Sisal.
I giochi hanno conquistato il cuore del potere politico e sono fra i migliori investimenti economici. Negli ultimi dieci anni, nonostante la crisi generale, hanno avuto una crescita del 10 per cento l’anno. «Mentre l’Italia partecipa per il 5 per cento al prodotto lordo mondiale, per i giochi siamo al 10» ha informato Pier Domenico Gallo, presidente di Meliorbanca. La loro torta e di quasi 16 miliardi di euro, più 15 di clandestini da debellare.
Dai giochi si arriva anche al vertice della Rai, come dimostrano Baldassarre e Marco Staderini, ex consigliere, appena dimessosi anche da presidente di Lottomatica. Ma resterà disoccupato per poco. Di lui si parla per il vertice Inpdap o, più probabilmente, per quello della Sogei, alla quale sarà delegato, fra le tante cose, anche il controllo di rete sui videogiochi. D’altra parte un ex funzionario della Sogei, l’ingegner Vitaliano Casalone, è stato di recente arruolato nel corpo di quelli che un tempo i giornali chiamavano "007 del fisco", per essere immediatamente distaccato, come esperto Secit, presso i Monopoli, a curare l’idoneità del parco macchine per il gioco e l’intrattenimento.

---------------------------------------

DAVVERO SCONVOLGENTE IL CASO DI SOFRI - anche perche' se non lo si lascia libero al piu' presto dobbiamo continuare a seguire il figlio alla 7 - e sta diventando drammatico...

DA - IL MESSAGGERO

Voleva andare alla Corte europea. No del tribunale e polemiche
Strasburgo negata a Sofri

ROMA — Al processo davanti alla Corte Europea di Strasburgo, Adriano Sofri non ci sarà. Lo Stato italiano, che in quel processo Sofri è citato in giudizio, gli ha negato il permesso di espatriare. Non è socialmente pericoloso - hanno ammesso i giudici del Tribunale di sorveglianza di Firenze - ma non è previsto che un detenuto possa interrompere la pena che sta scontando in Italia per andare all’estero. E Sofri sconta 22 anni di carcere come mandante ideologico dell’omicidio Calabresi. Sofri non polemizza, ma fa notare che la sua presenza sarebbe stata simbolicamente importante in un momento per lui così delicato. Unanimi le reazioni politiche: decisione assurda. E Gianni Sofri, fratello di Adriano, parla di «incredibile accanimento».

---------------------------

BERLUSCONI GRIDA DI GIOIA - TREMONTI mette il naso fuori e fa sentire la sua - ma i conti restano disastrosi :

da - IL SOLE 24 ORE

Il 2002 si è dunque concluso per l'economia italiana, in linea con le più recenti attese, nel segno della stagnazione: la crescita del Pil è stata di appena lo 0,4% e per trovare un valore più basso occorre tornare a quasi dieci anni prima (1993). Una performance così modesta colloca il nostro paese nelle posizioni di coda nell'area dell'euro, cresciuta in media dello 0,8%, mentre solo la Germania è riuscita a fare peggio (+0,2%). La fase di diffuso ristagno è da ricondurre a una serie di fattori negativi, dalla persistente debolezza della domanda interna alle difficoltà delle esportazioni per la crisi di importanti mercati di sbocco. Il 2003, a sua volta, non si presenta granché meglio; preoccupano, infatti, sia l'evoluzione sempre molto incerta dell'economia americana >, sia gli incombenti rischi di guerra e la conseguente instabilità geopolitica. La ripresa sarà necessariamente lenta e prenderà vigore non prima del 2004.

Dopo la prolungata battuta d'arresto che ha interessato ben cinque trimestri consecutivi - dal secondo del 2001 allo stesso periodo dello scorso anno - l'economia italiana nel secondo semestre 2002 è tornata a crescere, ma solo di poco: +0,3% e +0,4%, rispettivamente, l'aumento congiunturale del Pil e +0,5% e +1,0% quello tendenziale annuo nel terzo e quarto trimestre, con una crescita acquisita per l'anno in corso pari allo 0,5%, quella cioè che si otterrebbe nella media del 2003 se il livello del Pil restasse invariato nei quattro trimestri. La stima preliminare dell'Istat sul quarto trimestre 2002 - i dati definitivi e completi dei conti economici trimestrali saranno diffusi il prossimo 10 marzo - mette in evidenza un profilo congiunturale poco più che stagnante, su cui ha peraltro esercitato qualche influenza la composizione del calendario. Ma non si tratta di un dato a sorpresa: è questa la dinamica della crescita prevalente in Europa e l'Italia non può certo fare eccezione. Il modesto recupero del quarto trimestre, in particolare, è sostenuto dagli investimenti fissi lordi, mentre dovrebbe essere negativo il contributo delle scorte, a differenza del primo semestre dell'anno. Ancora debole è risultato, inoltre, l'andamento dei consumi privati.

Sull'onda della sensibile frenata della congiuntura internazionale, l'economia italiana - com'era, del resto, nelle attese - aveva fatto segnare già nel 2001 un netto rallentamento del suo ritmo di sviluppo. Dopo la buona performance dei primi tre mesi, il Pil non aveva infatti registrato ulteriori aumenti nei successivi periodi, andando così a chiudere l'anno su un incremento medio dell'1,8% (dal 3,1% messo a segno nel 2000), ma solo grazie al trascinamento dell'ultimo quarto del 2000 e del trimestre iniziale del 2001. L'eredità lasciata al 2002, in termini di accelerazione in entrata per l'anno in corso, è stata dunque leggermente negativa (-0,1% l'effetto trascinamento), a causa del deludente risultato del quarto trimestre 2001 (-0,1% la variazione congiunturale e +0,7% quella tendenziale).

La decelerazione dell'economia italiana è stata, soprattutto, la conseguenza dello sfavorevole andamento dell'industria manifatturiera, mentre i servizi e le costruzioni hanno messo in evidenza una relativa tenuta, sia pure con una dinamica in netta frenata. Dal lato della domanda interna la perdita di colpi della crescita ha risentito del ristagno dei consumi privati e della battuta d'arresto degli investimenti. Per quanto concerne i consumi delle famiglie, hanno influito sia l'erosione del potere d'acquisto, indotta dal risveglio dell'inflazione nella prima metà del 2001 e successivamente dall'effetto changeover dell'euro, sia le negative conseguenze del crollo della fiducia, con l'emergenza terrorismo di settembre. Sulla debolezza degli investimenti si è fatta sentire, invece, l'attesa della nuova legge di incentivazione fiscale (Tremonti bis), insieme al peggioramento della congiuntura internazionale. E' andata meglio, infine, la domanda estera netta; ma ciò è dovuto in larga parte alla caduta delle importazioni.

I dati in dettaglio sui
conti economici nel terzo trimestre del 2002, così come quelli dei trimestri precedenti, confermano, in sostanza, il netto ribaltamento della ripresa produttiva avviatasi nella seconda metà del 1999, che nella prima parte del 2001 ha proceduto su ritmi modesti e sensibilmente al di sotto delle ottimistiche previsioni di inizio anno. La tenuta congiunturale si basa soprattutto sul settore dei servizi, mentre continua a essere negativo il ciclo dell'industria, così come quello degli investimenti in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto; è sempre fiacca la dinamica dei consumi privati (0,9% la crescita annua, dopo la variazione negativa dei due precedenti trimestri). La fase espansiva dell'economia italiana ha raggiunto un picco nel primo trimestre del 2000 (+3,5% tendenziale), per poi via via rallentare, fino a portarsi su un incremento del 2,6% nel primo trimestre 2001 e arrestarsi del tutto (crescita zero) all'inizio del 2002. L'andamento congiunturale è apparso discontinuo, anche a causa della distribuzione delle giornate lavorative. Alla forte crescita del primo trimestre 2000 si sono alternati periodi di quasi stagnazione e successivo recupero. La frenata ciclica, in ogni caso, è stata sensibile.

I segnali provenienti dagli indicatori anticipatori del ciclo economico, come quelli elaborati dall’Isae-Banca d'Italia e da Ref.Irs - che individuano con alcuni mesi di anticipo i punti di svolta dell'economia - registrano una decelerazione a partire dai mesi primaverili del 2002 e, poi, si stabilizzano nel corso dell'autunno. Il rallentamento di questi indicatori, in particolare, è legato alla caduta del clima di fiducia delle famiglie e alla debolezza della domanda interna. La ripresa produttiva, nonostante la frenata conseguente al caro petrolio, ha mostrato, nella sequenza dei dati trimestrali, una discreta tenuta fino al primo trimestre del 2001, dopo un prolungato periodo di tendenziale ristagno, tale da avvicinare l'economia italiana alla media europea (l'area dell'euro, in particolare, è risultata in crescita del 3,5% e dell'1,4%, rispettivamente nel 2000 e nel 2001). Le valutazioni e i giudizi sulla tendenza della produzione e della domanda sono man mano diventati negativi, mostrando una sempre più diffusa incertezza, che condiziona il clima di fiducia e le decisioni di spesa degli operatori.

Anche sulla domanda interna i problemi non sono mancati: la compressione del reddito disponibile delle famiglie, con un potere d’acquisto in crescita zero tra moderazione salariale, inflazione sempre significativa ed elevata pressione fiscale, ha determinato un’evoluzione dei consumi privati che è proceduta un po' con il freno tirato, rendendo così ancora deboli i sintomi di ripresa dell’economia. Questa crescita a piccoli passi ha, dunque, portato a un consuntivo di aumento del Pil per il periodo 1996-2002 pari ad appena l'1,7% in media. Secondo i dati della contabilità nazionale, nel dettaglio per grandi settori il modesto aumento del Pil registrato nel corso del 2002 è attribuibile al settore dei servizi e alla tenuta dell'edilizia, favorita dalle misure di incentivazione delle ristrutturazioni residenziali e delle opere pubbliche. Il contributo dell'industria manifatturiera dopo un mediocre 2001 (+0,9% in termini annui), è tornato a essere negativo (-0,8%) nella formazione del valore aggiunto, così come accade ormai da tre anni per l'agricoltura.

28 febbraio 2003

-----------------------------------------------------

CHE PENA RAGAZZI QUESTA LEGA - peggiora di giorno in giorno :

DA - L'UNITA'

Castelli difende il razzismo contro l'Europa
di Luana Benini

Alla Lega l’Europa dei trattati non è mai piaciuta. Gabbie, vincoli, li ha sempre considerati. L’Europa? Era «Forcolandia» quando si trattava di opporsi al mandato di cattura europeo. «Noi siamo per dare all’Europa il meno possibile» è sempre stato l’imperativo bossiano. Che la Lega avrebbe cercato di seminare macigni sulla strada della costruzione europea era scontato.

Il ministro leghista alla Giustizia, Castelli, lo aveva promesso qualche tempo fa: «Su razzismo e xenofobia ci sarà una grande battaglia in Europa». Parlando al suo elettorato «padano» aveva già agitato il tema: «Vedo benissimo il piano che sta venendo avanti in Europa. Il mandato d’arresto sui reati di razzismo e xenofobia. Nei prossimi mesi tenterò di smontare questo piano». Detto, fatto. L’Italia, grazie a Castelli è stato l’unico paese a mettere il veto e bloccare il pacchetto di misure destinate ad armonizzare in Europa le norme e le sanzioni in materia di lotta al razzismo e alla xenofobia.

E ieri Castelli ha rispolverato accenti da giuramento di Pontida, lancia in resta: «In Europa tira una brutta aria, i nazisti rossi cercano in tutti i modi di negare ai cittadini la libertà di esprimere le proprie opinioni. Ma la Lega si oppone e si opporrà sempre a questi tentativi. Non vogliamo più rivedere i roghi dei libri in piazza».

Ma i roghi dei libri e la libertà di espressione qui ci entrano poco o niente, così come le nuove invettive del ministro contro la «sinistra liberticida». Il più sferzante è Giuseppe Fioroni, Margherita: «Blocco delle leggi antirazziste come nel 1938 con i Savoia? Tutti sanno come andò a finire: l’Italia non solo bloccò le leggi antirazziste ma ne promulgò di razziali. il ministro castelli potrebbe anche farsi spiegare da qualcuno che differenza c’è fra libertà di espressione e offese razziste. basta che non se lo faccia spiegare da Bossi...». Le norme europee in questione puntano a «tutelare valori fondativi unificanti» dice il diessino Pietro Folena. La realtà è che lo stop della Lega a un testo che riscuote il consenso unanime di tutti gli altri Stati membri «la dice lunga sulla deriva illiberale di chi pensa che l’Italia possa andare per conto suo».

Castelli a Bruxelles ha spiegato dunque agli allibiti partner la sua opposizione ad un testo che, secondo lui «minaccia la libertà di opinione». Minaccia la libertà della Lega, ribattono nel centro sinistra, di poter scorrazzare su un crinale pericoloso in continuità con le sue radici, laddove ciò che per gli altri è un valore fondativo, per la Lega diventa un antivalore. Come dice Giovanni Russo Spena (Prc) «teme che potrebbero essere incriminate le porcherie che quotidianamente i leghisti dicono e fanno contro gli immigrati, costruendo odio, pulsioni di paura collettiva».
L’anno scorso Berlusconi giurava soddisfatto a Valencia che ormai non doveva più rassicurare i partner internazionali sulla Lega. Ora il premier tace. In compenso spunta, a difesa di Castelli, il presidente forzista della Commissione Giustizia della Camera, Gaetano Pecorella.

A riprova che l’asse Fi-Lega nella coalizione di centro destra non sono bruscolini. «Ormai - commenta Enrico Buemi, Sdi - è sempre più chiaro che la Lega detta la linea al governo. Il suo è un ricatto strisciante che alcune volte esce fuori come in questo caso, altre volte resta più nascosto...». Pecorella ha giustificato completamente la decisione di bloccare la normativa di Bruxelles: «Prima bisogna definire quali reati d’opinione resteranno nel nostro ordinamento e poi si deciderà a cosa dobbiamo aderire in Europa». Ha spiegato: «Se si dovesse eliminare oggi il reato di opinione sia in materia politica, sia in materia religiosa e razzista, sarebbe incompatibile aderire in Europa a certi trattati».

Questo lascia intendere che Fi spalleggerà Castelli in barba alla solitudine europea dell’Italia. «È una vergogna assoluta - dice la responsabile giustizia della Quercia Anna Finocchiaro - La politica di questo governo ci sta portando all’emarginazione in Europa. Ci sono argomenti come quello del razzismo e della xenofobia sui quali non si può giocare. Farlo significa oltraggiare non solo l’Italia, la sua cultura e la sua storia, ma anche l’Europa. Perché è chiaro che la scelta di introdurre queste norme anti-razziste nasce dalla storia comune di tutti noi, di questo continente, del secolo che è appena trascorso». Per il verde Pecoraro Scanio «Castelli è un irresponsabile e deve dimettersi»: «Sono particolarmente scandalizzato da questa vicenda. Una volta bloccate le norme anticorruzione, poi le norme antirazzismo, si sta offrendo una immagine del nostro paese che è francamente offensiva».

Il suo compagno di partito, Paolo Cento, chiede al ministro di «riferire in Parlamento e di verificare qual è la volontà di tutte le forze politiche sul tema». Anche Russo Spena annuncia: «Chiederemo conto del comportamento del governo giovedì in Parlamento, nel corso del dibattito già fissato sulla Convenzione europea». Per ora il ministro Castelli risponde picche. Dice di aver già affrontato il tema durante una audizione alla Commissione della Camera che si occupa delle Politiche dell’Unione europea. Resta da vedere se centristi e An sono disposti a buttare giù questo ulteriore rospo.


---------------------------------

piu' volte la destra ha detto di aver votato in favore della guerra - quando il centosinistra - sicuramente bigotto - ha chiesto l'unione per bombardare il kossovo - ma questa bellissima intervista spiega tante cose :

DA - L'UNITA'

Assurdo paragonare l'intervento in Iraq con quello in Kosovo

«Paragonare la guerra all’Iraq all’intervento della Nato in Kosovo è un’assurdità. Nel ‘99 c’erano migliaia di profughi albanesi kosovari, oggi non c’è nessuna emergenza umanitaria». Predrag Matvejevic, scrittore croato e docente all’Università di Roma La Sapienza, non ammette paralleli tra Baghdad e i Balcani, chi li fa - dice - «prende in giro l’opinione pubblica». Invitato d’onore alla conferenza romana sulla presentazione ufficiale della candidatura della Croazia alla Ue, Matvejevic lascia intravedere l’urgenza di questo passaggio, tanto più quando soffiano tempi di guerra e l’area mediterranea rischia di accusarne i contraccolpi. Oggi Matvejevic fa parte di un gruppo di saggi che affianca il presidente della commissione europea Romano Prodi, «per piegare - dice - la politica dell’Unione Europea verso il Mediterraneo». E per evitare che l’apertura ad est dell’Unione europea «si faccia a scapito dell’area mediterranea».


Si tende in questi giorni a fare un parallelo tra l’intervento nel ‘99 in Kosovo contro Milosevic e l’attacco all’Iraq di Saddam Hussein. È possibile il confronto?


«Mi sembra un assurdità. Io ero contro i bombardamenti anche nel ‘99. sono andato a protestare con i miei studenti davanti alla base di Aviano da dove partivano gli aerei carichi di bombe. Ma a parte questo, mi sembrano due situazioni completamente differenti. Milosevic aveva espulso dal Kosovo 600.000 kosovari albanesi in modo crudele e spietato. Sono stato ad Otranto ad accogliere i profughi che arrivavano in Puglia stremati, era una situazione tragica.
Non c’è niente di simile nell’eventuale intervento in Iraq, oggi non c’è un’emergenza umanitaria, ci sono altre ragioni. Comparare queste due situazioni per trovare una giustificazione alla scelta di seguire la politica americana è un modo per ingannare l’opinione pubblica».


Il segretario americano alla Difesa Donald Rumsfeld ha fatto una distinzione tra giovane e vecchia Europa, preferendo la prima che ha scelto di stare con gli Usa. Come spiega la linea dei "giovani europei"?


«Il discorso di Rumsfeld è inaccettabile. La cosiddetta vecchia Europa ha un retaggio culturale e politico-culturale che rispetta la propria autonomia, non accetta di assoggettarsi a obiettivi che le sono estranei. Io sono contento del fatto che entrino in blocco nella Ue i paesi dell’est, ma sono stato sorpreso del fatto che abbiano dimostrato una concordanza totale, non dico totalitaria, al momento di decidere tra guerra e pace. Forse quelli che erano abituati ad avere uno statuto di satelliti dell’Unione sovietica, non hanno saputo evitare in questa circostanza di assomigliare a dei vassalli».


Anche il governo croato ha firmato un documento di solidarietà agli Stati Uniti.


«Sì, ma il presidente croato Stipe Mesic è invece decisamente contrario all’intervento in Iraq. Il primo ministro Racan al contrario sarebbe favorevole alla soluzione americana, sia pure condendola con la salsa di una nuova risoluzione delle Nazioni Unite. Ma al momento non c’è ancora una decisione, malgrado le forti pressioni degli Stati Uniti che chiedono di poter usare le basi e lo spazio aereo.
La Croazia cerca di prendere tempo, di orientarsi anche seguendo l’Europa (il premier Racan ha concesso il sorvolo e il rifornimento alle forze Usa ma solo agli aerei civili, ndr). Io personalmente devo dire che questa divergenza di opinioni ai vertici dello Stato mi piace, è un segno di vitalità, di democrazia».


Lei insiste sulla necessità di agganciare all’Europa il Mediterraneo, sua sponda naturale e tramite verso altre culture. Quale rischi vede profilarsi nel caso di un conflitto in Iraq?


«Quest’area già soffre molte contraddizioni, retaggio di un passato recente che ancora dura e che la guerra non potrebbe che peggiorare. Penso alla Palestina e ad Israele, al Libano, a Cipro, agli stessi Balcani. Purtroppo questo non è come dovrebbe un mare di pace, le condizioni che vive sembrano spingere più a dividere che a unire. Per questo sono favorevole alla presenza della Croazia in un blocco dell’Unione Europea che sappia difendere i valori del Mediterraneo, ancorandolo alla pace».


I Balcani e la Croazia in particolare lamentano la diffidenza dell’Europa continentale. Perché?


«Da parte dell’Europa continentale sentiamo riserve e incomprensioni, una griglia di lettura diversa, che non riesce a capire il sud. Da qui il pericolo che si apra un fossato tra il continente e la sponda mediterranea, un fossato che diventa un abisso sull’altra sponda, quella africana: una spaccatura che sarà ancora più drammatica se scoppierà la guerra in Iraq».

-------------------------------------------

E UN'ALTRA BELLA INTERVISTA - per spiegare il futuro del lavoro che ci attende - anche questa settimana ho finito con la mia domenica storica... vi aspetto alla prossima :

DA - L'UNITA'

"Più flessibile, molto precario. Ecco come cambia il lavoro"

MILANO A preoccupare di più è la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Ma a pesare sono anche l’incertezza sul fronte previdenziale e le difficoltà di ritrovare un’occupazione una volta persa l’attuale. È quanto emerge dall’inchiesta - cui oggi l’Unità dedica un inserto - promossa dai Ds sul «Lavoro che cambia» i cui risultati verranno illustrati oggi a Bologna nel corso di un convegno cui prenderanno parte, con gli altri, il segretario della Quercia, Piero Fassino, e i leader di Cgil, Cisl e Uil, Epifani, Pezzotta e Angeletti. Un’inchiesta, come ha sottolineato Fassino, che marca il ritorno del partito ad una tradizione iniziata negli anni settanta. Dei dati più significativi parliamo col sociologo del lavoro Aris Accornero.


Accornero, c’è una tendenza che emerge con più nettezza da questa inchiesta? Si parla molto di mobilità, di flessibilità: cosa emerge dal campione?


«Guardiamo a quanti hanno cambiato lavoro, nella loro vita professionale. Il 30% lo ha fatto una volta, il 25% da tre a cinque volte, il 10 per cento più di cinque volte. Solo il 2% non lo ha mai cambiato. È un segno evidente del lavoro che cambia. Vent’anni fa la percentuale di quanti non hanno mai cambiato sarebbe stata molto più alta».


Ci sono differenze di trattamento tra chi ha cambiato molto e chi non si è mai mosso?


«Anzitutto chi ha cambiato più spesso guadagna di meno e viceversa. Dal punto di vista sociale è ingiusto. È ingiusto che chi si muove di più, in questa era che fa della mobilità un valore, venga penalizzato».


Il 16% del campione analizzato dichiara di avere rapporti di lavoro flessibili, cioè di non avere un posto fisso. Come viene vissuta questa condizione?


«In generale si può dire che chi imbocca questa strada si ritrova poi con maggior frequenza a fare altri lavori temporanei: il doppio della media».


Quindi non si tratta semplicemente di una tappa verso il posto fisso.


«È difficile dirlo. Il 50-55% di quanti si avviano lungo questa strada ci rimangono a lungo, anche se non per tutta la vita lavorativa. Soprattutto in alcune fasce di età questa condizione è molto penalizzante, anche perché tra un lavoro e l’altro non esistono tutele, nemmeno con la legge appena approvata».


Ma preoccupa la flessibilità o è vissuta come un’opportunità?


«Sette su dieci si dicono preoccupati. Più del 50 %, però (più al nord che al sud, per la verità), in caso di perdita del posto pensa di riuscire a trovare un nuovo lavoro nell’arco qualche mese, e il 18% in poche settimane. Questo dimostra che il mercato del lavoro non va male e che la disponibilità a muoversi non manca».


Tornando al discorso generale, il lavoro piace o no?


«Rispetto al passato, conseguenza dell’organizzazione post-fordista, il lavoro soddisfa di più. Le differenze, comunque, restano. Sia in base alla professione che in base che al settore in cui si presta la propria opera. Quadri, professionisti, dirigenti, lavoratori autonomi sono più soddisfatti rispetto agli operai. Chi lavora nell’industria lo è un po’ meno. In generale, però, le soglie sono più elevate che in passato».


Un tempo il lavoro era quasi sinonimo di fatica. Lo è ancora?


«Al primo posto nella classifica del disagio, indicato dal 45% degli intervistati, oggi viene lo stress. È una percentuale altissima. Quindici-vent’anni fa al primo posto c’era la fatica. Anche la ripetitività, una lagnanza classica, oggi viene dopo un altro fattore di disagio: la burocrazia interna alle imprese. Quelle stesse imprese che esaltano la flessibilità, cioè, si impongo con la loro rigidità. Poi, al quarto posto, parente stretta della burocrazia, viene la struttura gerarchica, che le imprese continuano a mantenere. Significa che, a dispetto degli sbandierati "organigrammi piatti", i livelli del potere aziendale restano molti».


E per quel che riguarda prospettive e sicurezza?


«Il 55%, soprattutto uomini, ritiene di avere buone prospettive professionali, anche se non sono viste tanto legate alla carriera. Riguardo la sicurezza, invece, solo la metà, e soprattutto coloro che hanno qualifiche elevate, ritiene il proprio posto abbastanza sicuro. E ciò nonostante l’84% degli interpellati sia titolare di contratto a tempo indeterminato. Anche questo è un segno dei mutamenti in atto. Un quarto, poi, si ritiene poco sicuro, mentre l’altro quarto si sente insicuro. Vent’anni fa le cose erano diverse».


In base a cosa varia questo sentimento di insicurezza?


«I più insicuri, come ovvio, sono gli apprendisti e coloro che hanno le qualifiche più basse. Ma questo sentimento varia anche in relazione alla dimensione aziendale. Più l’azienda è grossa più ci si sente sicuri (e si guadagna di più), anche se diminuisce la soddisfazione».


Oltre il 56% di quanti hanno risposto al questionario è iscritto al sindacato, il 28,8% ha la tessera dei Ds. Qual è la richiesta più frequente che viene loro avanzata?


«Più unità nel sindacato, anzitutto. Lo chiede oltre la metà del campione, il 68% degli iscritti ai Ds e il 63% di quelli della Cgil, mentre scende appena sotto la media tra gli iscritti a Cisl e Uil. È un dato significativo».

-----------------------------------------

un bacio - luana