INTERVISTA - da il manifesto
«Si può trovare l'unità su una legge»
La proposta del giurista Ghezzi sull'estensione dei
diritti. «No alle guerre fratricide a sinistra»
ANTONIO SCIOTTO
Giorgio Ghezzi, docente di diritto del lavoro
all'Università di Bologna e già vicepresidente della
commissione lavoro della Camera, non è d'accordo con il
ricorso al referendum per affrontare i problemi posti dal
comitato promotore, ma, nel merito, ritiene importante
che il dibattito sull'estensione dei diritti sia stato
riavviato. Invita dunque a «non demonizzare
Bertinotti», ma ricorda nello stesso tempo che il voto
potrebbe avere «un effetto deflagrante, come un siluro
gettato sul nuovo Ulivo che sta nascendo». «Io sono
personalmente per una proposta legislativa - spiega - in
modo che si possa evitare il ricorso al voto».
Una legge ha già
annullato, nella storia recente, un referendum su questo
tema. Accadde nel 1990, con il quesito presentato da
Democrazia proletaria.
Sì, la proposta di Bertinotti non è nuova, è molto
simile al quesito presentato da Dp alla fine degli anni
`80. Anche allora veniva chiesta l'estensione
dell'articolo 18 alle aziende sotto i 15 dipendenti, e
pure in quel caso la Corte costituzionale diede il via
libera. Il Pci presentò dunque una proposta, accolta da
un vasto schieramento seppure con alcune modifiche. Fu
approvata la legge 108/90, che estendeva l'articolo 18 ai
dipendenti di datori di lavoro non imprenditori, dava
più tutele sul piano processuale e difendeva dai
licenziamenti discriminatori. La Corte di Cassazione
ritenne che quella legge avesse i requisiti per
proclamare ormai superata la necessità del referendum, e
così non si andò al voto.
Quali sono,
tecnicamente, i requisiti che deve avere una nuova legge
per consentire un simile effetto?
La legge approvata deve muoversi nella direzione
politico-giuridica del quesito referendario e deve
presentare novità rilevanti rispetto alla legge che il
referendum vuole abrogare. Il secondo requisito è
altrettanto importante rispetto al primo, perché la
nuova legge non sia una fotocopia della precedente con
solo qualche aggiustamento formale.
A questo punto,
entriamo nel merito delle proposte - o delle mezze
proposte - attualmente sul tavolo. Fassino e Violante
indicano, come punto di partenza, la «Carta dei
diritti» dell'Ulivo. Angeletti parla dell'idea elaborata
da Ichino. Rizzo, del Pdci, ipotizza un innalzamento dei
risarcimenti rispetto alla legge attuale.
Andiamo con ordine. Seppure per alcuni versi io ritenga
meritoria di attenzione la Carta dei diritti dell'Ulivo,
ritengo anche che non abbia alcun senso proporla come
alternativa a questo referendum in quanto si occupa di
altro. Parla di nuove tutele da fornire a figure come i
parasubirdinati, ad esempio i co.co.co, e non c'è
riferimento all'estensione dell'articolo 18 sotto la
soglia dei 15 dipendenti. La proposta di Ichino, di cui
parla Angeletti, affida a un giudice la decisione del
reintegro o del risarcimento: anche questa, dunque, non
va nella direzione politica del referendum. In più, io
la ritengo improponibile: affidando tutto all'arbitrio di
un giudice, si introducono disparità e si moltiplicano
le ingiustizie. Il garzone di un salumiere, tanto per
fare un esempio, potrebbe essere reintegrato a Torino,
mentre un garzone di Battipaglia potrebbe ricevere
soltanto un risarcimento risibile. La proposta del Pdci
mi sembra già più interessante.
Rizzo porrebbe il
nuovo minimo da risarcire ai licenziati, in caso che il
padrone non applichi il reintegro ordinato dal giudice, a
5 mensilità. Il massimo sarebbe di 15 mensilità per le
aziende sotto i 250 mila euro di fatturato annuo, e di un
numero più alto - al limite indefinito - per quelle che
fatturano di più. Ma basterebbe questo deterrente per
rispondere al principio politico posto dal referendum?
Da solo, io ritengo di no. Credo infatti che bisognerebbe
combinarlo con altri elementi. Della proposta del Pdci
apprezzo l'idea di fissare nuovi margini e nuovi criteri
per il risarcimento: il range non è più, come dispone
la legge attuale, tra 2,5 e 6 mensilità, davvero
ridicolo e per nulla deterrente, ma molto più alto. E
soprattutto, è interessante che la somma definitivamente
liquidata si debba fondare sul danno effettivamente
subito dal lavoratore: il giudice decide il risarcimento
in misura delle condizioni del licenziato, e dunque lo
modulerà tanto più in alto quanto più sarà per
quest'ultimo difficile trovare lavoro. Detto questo, io
credo che bisognerebbe comunque aggiungere altri
elementi: abbasserei l'attuale soglia di applicazione
dell'articolo 18 alle aziende sopra i 7-8 dipendenti,
perché è su questa dimensione che si assomma la
maggiore densità delle piccole imprese italiane.
Soltanto sotto quella soglia, nel caso che il datore di
lavoro non intenda reintegrare di fatto il lavoratore,
applicherei il sistema di risarcimenti di cui abbiamo
parlato. E ancora, darei più poteri processuali alle
parti del giudizio. I meccanismi di un'azienda con cento
dipendenti sono diversi da quelli di una con quattro,
dove spesso l'imprenditore lavora accanto ai suoi
dipendenti. Io credo che sia nostro dovere considerare
queste differenze, piuttosto che basarci solo su principi
astratti. Lo stesso Pci, in cui per lunghi anni ho
militato, ha cercato a lungo il dialogo con la piccola
impresa. Non penso sia intelligente troncarlo di netto.
Dunque il referendum
può solo dividere a sinistra? Anche se vincesse il sì?
Una vittoria del sì, certamente creerebbe nuovi
equilibri nel centrosinistra, dando un grande spazio a
Rifondazione, ma ritengo difficile che si possa
raccogliere uno schieramento così vasto da far vincere
il sì. In questo momento qualsiasi divisione a sinistra
sembra far comodo non solo, come è ovvio, alla
maggioranza e al governo, ma anche alla Margherita. E'
dunque importante non fare guerre fratricide e mantenere
il dialogo aperto con il Prc, anche in vista di prossime
alleanze, per ripetere la vittoria del `96.
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DA IL MESSAGGERO :
LINTERVENTO
«Il premier ha bisogno di più
poteri
ma la quota proporzionale resti»
di LAMBERTO DINI
SI E nuovamente avviata la discussione sulla
necessità di riforma delle nostre istituzioni
democratiche, alle quali il passaggio dal sistema
proporzionale a quello maggioritario non è bastato per
garantire a pieno un punto fondamentale: la
governabilità. Il premier appare infatti dotato di una
investitura diretta, ma è ben lontano dal possedere quei
poteri politici che sono propri di sistemi nei quali
questinvestitura, per regola o per prassi, è da
tempo sperimentata. I termini della discussione non
appaiono oggi sostanzialmente diversi da quelli che
caratterizzarono la mia esperienza di capo del Governo
che nacque al principio del 1995 a seguito della
imprevista crisi del primo esecutivo guidato da
Berlusconi.
Quel Governo nacque con un mandato ben preciso:
affrontare alcune emergenze in tempi brevi e poi
restituire la voce agli elettori. Quel mandato si
concretizzava in quattro punti, fra i quali la necessità
di approvare una legge per le elezioni regionali che
realizzasse a quel livello di governo la stabilità
politica e soprattutto lopzione maggioritaria che
era emersa a seguito dei referendum elettorali. Tale
legge fu portata a compimento, ma in quei mesi
sperimentai sulla mia persona quanto fosse importante per
il Governo poter portare avanti efficacemente la sua
azione e risponderne davanti allelettorato.
Affrontai il tema in un discorso che tenni a Washington
il 10 ottobre 1995. Esso fu considerato in Italia fin
troppo politico per il capo di un Governo, come allora si
diceva, tecnico; in realtà la mia intenzione era di
rendere note le implicazioni che traevo dalla mia
esperienza a Palazzo Chigi, specificando anche alcune
riforme urgenti che potevano essere portate a compimento
senza stravolgere lordinamento istituzionale e
politico. Era un programma in sette punti che
sostanzialmente miravano a: a) rafforzare il
maggioritario nella legge elettorale; b) riconsiderare le
funzioni delle Camere per evitare duplicazioni; c)
introdurre la sfiducia costruttiva come deterrente contro
crisi di Governo a ripetizione; d) rafforzare il ruolo
costituzionale del premier allinterno del Governo
per assicurare la necessaria unità dazione; e)
rendere più rigide le procedure di bilancio, con
direttive legislative più stringenti; f) rafforzare la
responsabilità del Parlamento sui temi legislativi di
carattere generale, aumentando al contempo il potere
regolamentare del Governo in materie specifiche (per
esempio, la riforma della Pubblica Amministrazione e il
recepimento delle direttive europee); g) rafforzare le
autonomie locali con una maggior dose di federalismo
fiscale.
Rimango dellidea che se allepoca quelle poche
ma rilevanti riforme fossero state introdotte,
lefficacia dellEsecutivo ne avrebbe tratto
giovamento, e così pure la stabilità dei Governi.
Ancora oggi quelle riforme appaiono essenziali.
Dopo il fallimento dei due referendum, non è giunto il
momento per eliminare la quota proporzionale dalla legge
elettorale, ma molto si può fare per rafforzare il ruolo
del premier. Di fatto, dalle scorse elezioni gli elettori
si trovano sulla scheda il nome del candidato premier di
ciascuno schieramento. Quello vincente è incaricato di
formare il Governo, ottenere la fiducia del Parlamento, e
dovrebbe avere il potere di revoca dei ministri. Se ci
sono, e credo ci siano, motivi per non riprodurre a
livello nazionale la regola introdotta per le elezioni
regionali, con la legge del 1995 del simul
stabunt, simul cadent fra esecutivo e
legislativo, e se si vuol quindi tenere aperta
lipotesi che il Parlamento possa sostituire il
premier uscito vincente dalle urne, penso sia necessario
prevedere nella legge elettorale che entro un tempo
ragionevolmente breve si ritorni comunque di fronte agli
elettori. Un tale schema di riforme istituzionali sarebbe
sufficiente per far fare un importante passo avanti senza
alterare sostanzialmente lequilibrio istituzionale
fra i poteri dello Stato. Temo che riforme più ambiziose
rischino invece di rendere interminabile il processo.
Speriamo che la politica non perda anche questa
occasione.
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DA - LIBERAZIONE
Chi ha
occultato per 50 anni i fascicoli sulle stragi
nazifasciste?
L'armadio della vergogna
Tonino Bucci
Marzabotto, S. Anna di Stazzema e le Fosse Ardeatine
sono i simboli più eclatanti delle stragi compiute dai
nazifascisti in Italia fra il '43 e il '45. Ma non gli
unici. Né il capitolo storico di cui fanno parte può
dirsi ormai acquisito sotto tutti i risvolti. Quanto sia
fuorviante rinchiudere la Resistenza tra le pareti dei
musei lo dimostra questo intreccio sempre vivo tra
passato e presente. Molto più che in altri ambiti, le
discussioni storiografiche su fascismo e lotta di
Liberazione trascendono le sfere accademiche per
ripercuotersi sulla costituzione culturale e materiale
del nostro tempo. Prova ne sia la vicenda dei 695
fascicoli a lungo tenuti nascosti sulle stragi
nazifasciste e rinvenute appena nel giugno 1994 in un
locale di palazzo Cesi, a Roma, nella sede degli uffici
giudiziari militari d'appello.
Chiuse in un armadio - con le ante rivolte verso il
muro - le polverose cartelle contenevano denunce e atti
di indagine di organi di polizia giudiziaria italiana e
di commissioni d'inchiesta istituite a suo tempo dagli
angloamericani sui crimini di guerra. Gli episodi cui si
fa riferimento, tra gli altri, quelli di Belona, delle
Fosse Ardeatine, di Sant'Anna di Stazzema, di Marzabotto,
di Boves e di Fossano. Di fatto, però, da quel materiale
non è mai scaturito alcun processo verso gli autori e i
responsabili delle stragi, dato che i fascicoli sono
stati archiviati e bloccati. Prevalse - è la conclusione
cui è giunta la Commissione Giustizia della Camera nel
marzo 2001 - «la ragione di Stato» e le cause
dell'occultamento «in massima parte devono essere
rintracciate nelle linee di politiche internazionali che
hanno guidato i paesi del blocco occidentale durante la
Guerra fredda».
Subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale,
gli Alleati fecero qualche tentativo per allestire un
grande processo contro i crimini di guerra. Nell'agosto
del '45, ad esempio, gli inglesi avevano accumulato prove
a sufficienza sugli eccidi compiuti dai tedeschi contro
la popolazione civile - ben al di là quindi di una
"normale" condotta di guerra. In un primo
momento si pensò che per i processi ai responsabili dal
grado di colonnello in giù la gestione dovesse essere
lasciata agli italiani, mentre degli alti gradi si
sarebbe occupata una Corte militare britannica.
Ma il clima dell'unità antifascista durò poco,
appena il tempo di cacciare fuori il Pci dal governo.
Finita la collaborazione subentrò la pregiudiziale
anticomunista col risultato di spostare in secondo piano
la ricerca delle responsabilità storiche e materiali del
fascismo. Nel maggio del 1947 si blocca tutto. Il segnale
d'inversione avviene in concomitanza con il processo a a
Kesselring, comandante della Wehrmacht in Italia dal '43
al '45. In quel mese l'ex ufficiale nazista viene
condannato a morte. Ma il maggio 1947 è anche il mese in
cui il presidente degli Stati Uniti Truman dichiara
davanti al Congresso l'apertura di una fase centrata
sulla nuova guerra tra il mondo della libertà -
naturalmente identificato nell'occidente capitalistico -
e i paesi del "totalitarismo" comunista. Una
delle azioni concrete in cui si traduce la dottrina
Truman è la commutazione della condanna a morte di
Kesselring nell'ergastolo. Ma ci sono anche altri episodi
che dimostrano come la pregiudiziale anticomunista abbia
a poco a poco soverchiato il corso della giustizia contro
i nazifascisti responsabili delle stragi. Nel 1956 si
stabilisce un carteggio tra l'allora ministro degli
esteri Gaetano Martino e quello della Difesa Paolo Emilio
Taviani, in merito ad una richiesta di estradizione di un
ex soldato tedesco dalla Germania federale. Dalle lettere
emerge, appunto, che in nome del rafforzamento della Nato
- la Germania ne fa parte dal maggio 1955 - si ritiene
"politicamente inopportuno" iniziare processi
per crimini di guerra che comprometterebbero l'immagine
dello Stato tedesco e, soprattutto la ricostituzione di
un esercito in Germania. E' in questo quadro di politica
internazionale e di anticomunismo diffuso che si
impedisce la trasmissione dei fascicoli - tranne che di
quelli di minor rilievo - fino a che non si giunge
all'archiviazione provvisoria nel 1960. «E' da ritenere
che i magistrati militari furono in realtà uno strumento
in mano ai politici ed, in particolare, del Governo»,
recita l'indagine conoscitiva già citata della
commissione Giustizia. Del resto, fino alla riforma del
1981 la magistratura militare non godrà delle stesse
garanzie di libertà e indipendenza della magistratura
ordinaria e delle magistrature speciali. Al vertice della
magistratura militare c'è direttamente il presidente del
Consiglio.
Ultimo anello della vicenda è la costituzione di un
coordinamento, nato in Toscana, del quale fanno parte i
sindaci dei Comuni che tra il '43 e il '45 furono teatro
delle stragi nazifasciste, con l'obiettivo di fare luce
su tutta la verità, sull'occultamento dei 695 fascicoli,
e giungere fino alle «estreme conseguenze» - anche a
costo di intraprendere iniziative «clamorose» come il
coinvolgimento dello stesso Ciampi in qualità di
garante.
Per questo i sindaci di Marzabotto e di Stazzema -
Andrea De Maria e Giampiero Lorenzoni - si sono
mobilitati ieri l'altro per accelerare l'iter di una
proposta di legge, già passata alla Camera
all'unanimità il 20 giugno scorso, che istituisce la
Commissione di inchiesta sulle responsabilità
dell'occultamento. In rappresentanza anche degli altri
Comuni, hanno incontrato in Senato i gruppi dei Ds e
della Margherita, oltre al presidente dei senatori
dell'Udc, D'Onofrio. Il timore dei sindaci è che si
voglia, ancora una volta, insabbiare il provvedimento e
impedire la giustizia. «Lanciamo un appello estremo al
Senato - ha esordito il sindaco di Stazzema, Giampiero
Lorenzoni - perché approvi il testo già licenziato alla
Camera, ritirando tutti gli emendamenti presentati in
Commissione dal senatore Melchiorre Cirami che, senza
variarne significativamente il contenuto, allungherebbero
pericolosamente l'iter del provvedimento. E' un
dovere-diritto del Senato affermare la verità e la
giustizia. Noi non rimarremo fermi, vigileremo sui lavori
e se sarà necessario arriveremo alle estreme
conseguenze». Rinvii all'infinito e snaturamento del
testo sono i due rischi paventati anche dal sindaco di
Marzabotto, Andrea De Maria: «Siamo sconcertati. Abbiamo
il dovere morale di far conoscere la verità alle vittime
di quegli eccidi. Ma non solo verso le giovani
generazioni abbiamo l'obbligo di tenere viva la memoria,
unico vero antidoto contro nuove intolleranze. Siamo
determinati a proseguire la nostra lotta». Da quella
verità dipende ancora oggi la memoria di oltre
quindicimila vittime delle stragi nazifasciste.
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DA - IL SOLE 24 ORE
Sconti in busta
paga
a fine mese. La circolare n. 2 dell'Agenzia delle Entrate
con i chiarimenti sulla riforma dell'imposta sulle
persone fisiche. Calcolo obbligato per la no-tax area:
tocca ai sostituti d'imposta a meno di espressa rinuncia
del dipendente.
La nuova Irpef debutta nella busta paga di gennaio.
L'agenzia delle Entrate ha definito le istruzioni per
l'applicazione della riforma dell'imposta sulle persone
fisiche, che ha ridotto a cinque le aliquote e gli
scaglioni di reddito, affidando alla no tax area il
compito di assicurare progressività al prelievo.
È proprio sui meccanismi della no tax area - costituita
da una deduzione base di 3mila euro, oltre a importi
variabili a seconda del tipo di reddito: 4.500 per i
dipendenti, 4mila per i pensionati e 1.500 per gli
autonomi - a concentrasi l'attenzione dell'Agenzia. I
sostituti dovranno applicare la deduzione in
"automatico" (a meno di una richiesta contraria
da parte del lavoratore) e dovranno commisurarla al
reddito globale che, in modo verosimile, corrisponderanno
al dipendente nel corso dell'anno, al netto delle
deduzioni gestite in busta paga.
Gli aggiustamenti in base al reddito complessivo verranno
effettuati, se possibile, con il conguaglio di fine anno.
La clausola di salvaguardia, che consente al contribuente
di scegliere per i redditi 2003 la tassazione più
favorevole tra nuovo e vecchio regime, potrà essere
invocata solo in dichiarazione.
La nuova Irpef debutta nella busta paga di gennaio.
L'agenzia delle Entrate ha definito le istruzioni per
l'applicazione della riforma dell'imposta sulle persone
fisiche, che ha ridotto a cinque le aliquote e gli
scaglioni di reddito, affidando alla no tax area il
compito di assicurare progressività al prelievo.
È proprio sui meccanismi della no tax area - costituita
da una deduzione base di 3mila euro, oltre a importi
variabili a seconda del tipo di reddito: 4.500 per i
dipendenti, 4mila per i pensionati e 1.500 per gli
autonomi - a concentrasi l'attenzione dell'Agenzia. I
sostituti dovranno applicare la deduzione in
"automatico" (a meno di una richiesta contraria
da parte del lavoratore) e dovranno commisurarla al
reddito globale che, in modo verosimile, corrisponderanno
al dipendente nel corso dell'anno, al netto delle
deduzioni gestite in busta paga.
Gli aggiustamenti in base al reddito complessivo verranno
effettuati, se possibile, con il conguaglio di fine anno.
La clausola di salvaguardia, che consente al contribuente
di scegliere per i redditi 2003 la tassazione più
favorevole tra nuovo e vecchio regime, potrà essere
invocata solo in dichiarazione.
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DA - LA REPUBBLICA
Accolto il ricorso contro Buscemi, Farinella, Giuffrè
e Santapaola
la Cassazione conferma le condanne per altri capi e per i
killer
Borsellino, annullate
assoluzioni
Nuovi processi per i boss
ROMA - Annullate le assoluzioni, condanne
confermate per la maggior parte dei boss e killer del
giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Dopo più di
12 ore di camera di Consiglio, la VI sezione penale della
Cassazione ha annullato le assoluzioni decise dalla Corte
di Appello di Caltanissetta nei confronti di Salvatore
Buscemi, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè e
Benedetto Santapaola, prosciolti dall'accusa di strage
per la morte del giudice Paolo Borsellino nel cosiddetto
processo Borsellino Ter. Sarà la Corte d'Assise
d'Appello di Catania a dover nuovamente pronunciarsi sul
caso.
Restano confermate le responsabilità nella strage di
Giuseppe Calò, Filippo Graviano e Francesco Madonia.
Così come restano le condanne per strage di Salvatore
Biondo (classe 1955), Salvatore Biondo (classe 1956),
Cristoforo Cannella, Domenico Ganci, Raffaele Ganci e
Michelangelo La Barbera. La Cassazione ha stabilito che
non debba essere annullata l'assoluzione decisa in
appello per Mariano Agate, Antonino Geraci, Salvatore
Montalto, Matteo Motisi, Benedetto Spera e Giuseppe
Madonia. Mentre per tutti rimane confermata la condanna
per associazione mafiosa, per il solo Giuseppe
"Piddu" Madonia è stata annullata con rinvio
la condanna per associazione mafiosa.
E' stata inoltre annullata la condanna per strage per
Stefano Ganci e Francesco Madonia. Anche in questo caso
rimane in piedi la condanna per associazione. Annullata
con rinvio anche la condanna per associazione per
Giuseppe Lucchese.
Il nuovo processo, per chi ha ottenuto l'annullamento
della condanna (vuoi per l'accoglimento del ricorso del
pm nisseno Dolcino Favi, vuoi per l'accoglimento del
ricorso dei difensori) si svolgerà davanti alla Corte
d'assise d'appello di Catania.
La strage di via D'Amelio, in cui morirono, per
l'esplosione di un'auto bomba, il giudice Borsellino,
allora procuratore aggiunto di Palermo, e gli uomini
della sua scorta, non fu nè un episodio isolato nè il
frutto di una accelerazione voluta soltanto da Totò
Riina, aveva detto ieri il sostituto procuratore Nino
Abbate. Fu "un attacco diretto allo Stato",
alle "istituzioni del Paese" per provocare
conseguenze "nefaste" alla "convivenza
civile". Pur con i distinguo delle singole
posizioni, aveva aggiunto, ci sono tutti gli elementi per
dire che la stragrande maggioranza degli uomini di spicco
di Cosa nostra erano informati di quello che si stava
programmando.
Di un disegno strategico ampio, di un confronto fra tutti
gli uomini di rilievo di Cosa Nostra, di un argomento,
quello dell'eliminazione di Borsellino, al centro di una
discussione insistente fra le varie strutture di Cosa
Nostra ha parlato il pg Abbate, che ha aggiunto: se per
la giurisprudenza è insufficiente la qualifica formale
di componente della Commissione di Cosa Nostra, allorché
questa non sia suffragata da altri indizi sul
coinvolgimento dei componenti in una determinata
situazione, è anche vero che la strage che costò la
vita a Borsellino il 19 luglio 1992 non può essere
ritenuta la conseguenza di una decisione dall'alto,
imposta ai componenti di Cosa Nostra. La stragrande
maggioranza degli uomini di spicco dell'organizzazione
erano informati di ciò che si stava mettendo in moto.
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DA - LA REPUBBLICA
finalmente qualche voce estera si
muove per criticare la sua televisione santita'. .... non
e' bastato SANTORO - BIAGI - GHEZZI - BENIGNI.... vuoi
vedere che ci voleva SANCOSTANZO ? - se potessi mi
rivolgerei direttamente a MICHELONE BELLA CIAO -
consigliandogli di arruolarlo contro il direttivo RAI.
Un lungo articolo mette alla berlina programmi e
personaggi
"Grazie a Berlusconi la televisione è un vuoto
ideologico"
Financial Times
all'attacco
"La tv italiana vecchia e ridicola"
Critiche pesanti agli show, ai telefilm datati, alle
telepromozioni
Gad Lerner "il più intelligente",
"Blob" un programma "geniale"
ROMA - Altro che tv deficiente. Quella italiana
è tutta sbagliata. Vecchia e ridicola. Utile solo a
Berlusconi, che l'ha trasformata "in un vuoto
ideologico in cui il mezzo è diventato il reale
messaggio. Il risultato è che il mogul è diventato
primo ministro". Parola di Tobias Jones, autore di
un saggio sull'Italia berlusconiana dal titolo "Il
cuore scuro dell'Italia". Che dalle pagine del
Financial Times fa un ritratto impietoso della nostra
televisione. Pochissime le eccezioni, non si salva quasi
nulla. E soprattutto non si salva il presidente del
Consiglio, responsabile, secondo l'autore, del tracollo
culturale e politico del Paese.
"Un inferno". L'inserto domenicale, del
quotidiano economico londinese, non sceglie un titolo
sfumato per sintetizzare il contenuto. Né ammorbidisce i
toni lo stesso Jones, parlando dell'oggetto vero
dell'analisi: "Uno dei più grandi protagonisti
televisivi del pianeta, Silvio Berlusconi - scrive - è
primo ministro da 18 mesi ed il suo palazzo televisivo è
ad un paio di mosse dallo scacco matto alla
democrazia".
Ma quel che è più gustoso è il resoconto di
un'accurata operazione di zapping. A partire dagli show
domenicali, "tutti la stessa cosa, ragazze in bikini
e interpreti di vecchie canzoni di Frank Sinatra.
Sembrano estratti di Benny Hill" dice l'autore.
Una stoccata alle canzonette, "L'evento tv più
seguito ogni febbraio è Sanremo, che offre una settimana
intera di canzoni smielate", prima di passare alle
"ine" che popolano l'immaginario degli
italiani: letterine, veline, schedine. Per non parlare
delle telepromozioni (cita espressamente Gerry Scotti, la
cui foto compare sulla prima pagina dell'inserto), che
sul più bello dello show irrompono con "soluzioni
per la cellulite, prodotti depilatori e parrucchini.
Spesso - commenta Jones - sembra che in Italia non ci
siano i break pubblicitari ma piccoli programmi tra gli
spot". E fa notare: "Il 57% del budget
pubblicitario italiano è speso sulla tv contro il 23%
della Germania e il 33,5% dell'Inghilterra".
Una tv vecchia, e pure un po' trombona. "La cosa
più sorprendente - si legge - è che gli uomini-icona
che hanno lanciato la tv negli anni '50, come Mike
Bongiorno e Raimondo Vianello, sono ancora lì. E'
l'equivalente televisivo del trasformismo: i tempi vanno
avanti, i gusti cambiano ma i protagonisti del gioco
rimangono esattamente gli estessi. Così come i politici,
nessuna personalità tv va in pensione. Il che significa
che l'Italia appare come una specie di gerontocrazia
guidata da vacillanti vecchietti". Nel segno del
rimbambimento anche le serie dei telefilm, "che
sembrano bloccate in un loop temporale: Colombo, La
signora in giallo, Il santo".
Maria de Filippi diventa la versione bionda e italiana di
Oprah Winfrey, la celebre giornalista-conduttrice
america. Ma il suo programma, Amici, viene
assimilato a Uomini e donne della D'Eusanio e al Maurizo
Costanzo Show e incluso nella categoria dei
"chat-show", degenerazione del talk show, dove
non si parla ma si chiacchiera e "dove amanti tristi
si urlano contro".
Qualcuno si salva. Gad Lerner, ad esempio, "il più
intelligente degli anchorman italiani". Jones si
dichiara ammiratore de La7, plaude alla ricchezza
del'emittenza locale (che conosce perché lavora in un
programma sportivo della tv Teleducato) ma cita anche,
fra le eccezioni, Blob, "Un programma
geniale, che prende in giro i poteri tele-politici".
Dopo la carneficina riservata a programmi e personaggi,
il lettore si aspetterebbe che anche al pubblico fosse
riservato il medesimo destino. E invece no. Si salva.
Perché gli italiani, secondo Jones, "Non guardano
la tv passivamente, in silenzio e concentrati come in
Gran Bretagna ma in modo attivo. Gli spettatori italiani
- conclude - sono meno supini". La tv è considerata
"un altro membro della famiglia" che
"viene ignorato e costantemente interrotto, come in
tutte le conversazioni italiane". Non a caso,
segnala Jones, una delle frasi più comuni rivolte a chi
parla in tv è "Sei un cretino".
I primi a rispondere a Tobias Jones, Costanzo e De
Filippi. "Ci ha confusi con qualcun altro - dicono -
nei nostri programmi non ci sono né ballerine in bikini
né litigi fra coniugi. Non ospitiamo amanti litigiosi ma
corteggiatori. E poi le nostre ballerine indossano
pantaloni lunghi".
"E' un misto di bacchettonismo e di marxismo. Degno
di un paese dove c'è ancora un ramo del Parlamento in
cui gli uomini usano la parrucca...". Maurizio
Gasparri bolla così la stroncatura del Financial Times.
"Dagli stralci che ho sentito - spiega il ministro
delle Comunicazioni - mi sembra un articolo che è
passato per errore dalla tipografia del
"Manifesto" a quella dell'inserto del giornale
inglese. C'è molta spocchia e disinformazione in chi
definisce "Buona Domenica" e "Domenica
In" alla stregua di porno-soft".
un bacio - da luana - per scrivermi - aaluana@tiscali.it