DOMENICA 16 FEBBRAIO 2003.

questa notizia e' importante ... soprattutto vi invito a leggere quanto hanno scritto DARIO FO E FRANCA RAME su bin laden...( NELL'ULTIMO NAMIR - WWW.NAMIR.IT ) viene fuori sempre all'occorrente... e' evidente che oramai - o non esiste... oppure lavora per gli USA - ... molti di voi penseranno che sono matta... ma guardate l'ultima cinematografia ... riescono a far parlare attori che non ci sono piu' - IL CORVO E' UNO DEI TANTI ESEMPI - , attraverso i computer.... e' facilissimo, basta prendere un testo lungo e letto dall'attore, anche pre-registrato...in questo caso di bin laden.... il computer ne analizza vocale per vocale, poi si pigia su una tastiera e viene fuori la voce .... come se fosse lui a leggerlo. VOGLIO FARE COME SAN TOMMASO - finche' non tocco non credo.... in questo caso - finche' non vedo.

IL PROBLEMA E' CHE ORA SI POTREBBE CRITICARE INTERNET per questa scusa, cercando di bloccare le organizzazioni contro la guerra e per la pace... questo e' uno strumento tecnico che in qualche modo tenteranno di recuperare e controllare.

DA LA REPUBBLICA -

Secondo un giornale arabo il messaggio di Bin Laden
sarebbe stato mandato in onda da un sito Internet
Osama, minacce sul Web
"Combattete l'America"
Ma non c'è alcuna prova che la voce sia la sua

DUBAI - Osama Bin Lader è tornato a farsi sentire. Questa volta ha usato un sito Web in lingua araba. Ad aver ottenuto la registrazione del suo proclama è il giornale in lingua araba Al Hayat, pubblicato a Londra. Il quotidiano sostiene che il miliardario saudita, nel nuovo proclama in cui chiama Bush "idiota" e "faraone della nostra era", minaccia nuovi attacchi contro obiettivi americani in tutto il mondo. E anche in questo messaggio, Bin Laden fa riferimento all'imminente attacco americano all'Iraq, invitando i musulmani a mettere da parte la paura e a combattere. "Nella registrazione, Osama promette di continuare la lotta contro gli americani chiedendo ai paesi islamici di sconfiggere gli Stati Uniti", scrive Al Hayat.

Secondo Bin Laden sarebbe possibile sconfiggere l'America guidata da un presidente "idiota" che vuole essere il "faraone della nostra era "lanciando una "crociata che dividerà la regione per l'interesse di Israele". Di una "grande Israele", che includerebbe anche "una porzione dell'Arabia Saudita". "E' chiaro - dice la voce - che l'attacco all'Iraq è parte di una serie di attacchi che verranno lanciati alle nazioni dell'intera regione, inclusa la Siria, l'Iran, l'Egitto e il Sudan".

Una lunga registrazione in cui, come nel messaggio mandato in onda dalla tv Al Jazeera l'11 febbraio scorso, Bin Laden torna a parlare dell'attacco alle Twin Towers. "I militanti dell'11 settembre - continua il messaggio - hanno distrutto gli idoli dell'America e mandato con il naso nella polvere gli Stati Uniti. Hanno dimostrato come possono essere sconfitti ed umiliati. Musulmani - conclude - non abbiate paura dell'America perché l'abbiamo sconfitta ripetute volte e sono il popolo più vigliacco sulla faccia della terra".

Il quotidiano saudita scrive che la registrazione è di buona qualità, e cita un islamista, di cui non fornisce il nome, secondo il quale Bin Laden avrebbe fatto questa registrazione dopo quella inviata ad Al Jazeera la scorsa settimana. Ma al momento non è stato possibile verificare se la voce è o meno quella di Osama Bin Laden. Né sul sito è indicata la data della registrazione o dell'arrivo della cassetta audio.

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STAI A VEDERE CHE ORA SIAMO NOI a volerla questa guerra... non date credito a questi toni, spesso servono solo a recuperare consensi... per poi continuare a fare i propri comodi, ... interessi.

DA - LA REPUBBLICA

Una nota della Casa Bianca dopo i cortei pacifisti
"Anche noi speriamo ancora in una soluzione pacifica"
"Non è Bush a volere la guerra
dipende tutto da Bagdad"
Rumsfeld: "In caso di attacco non saremo soli"
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON - Aveva sperato a lungo di poter ignorare la voce del mondo, ma alla sera qualcosa Bush ha dovuto dire, di fronte alle immagini e agli slogan contro di lui, che si inseguivano dagli schermi delle tv libere. Ha fatto rispondere quasi con sprezzo, non dal suo portavoce Fleischer, ma da una segretaria dell'ufficio stampa della Casa Bianca, con un comunicato per dire che "anche il Presidente spera ancora in una soluzione pacifica e la pace dipende da Saddam Hussein". Una concessione verbale a quella parola, pace, che milioni di persone hanno ripetuto nella prima manifestazione "global" per la pace, avvenuta in un mondo dove la globalizzione può rivoltarsi anche contro chi l'ha inventata e predicata.

Ma sembrava che Kofi Annn, il segretario delle Nazioni Unite dove è in scena il dramma della grande lacerazione occidentale, aspettasse questo segnale, perché quasi contemporaneamente, diceva alla televisione di una nazione araba, di un emirato del Golfo, Abu Dhabi, che "una seconda risoluzione del Consiglio di Sicurezza potrebbe essere necessaria, per chiarire che Saddam Hussein ha violato l'ordine di disarmare e le ispezioni non possono andare avanti all'infinito". Un modo per tentare di ricucire quello che è stato strappato, di impedire che questa guerra sia non soltanto la fine della Nato come alleanza politica, ma dell'Onu come speranza, richiamando gli Usa alle responsabilità internazionali ma anche i governi dissidenti alla necessità di prendere una decisione.

A questa ipotesi di una risoluzione generica e annacquata, invocata da Tony Blair, lavorano da ieri mattina i consiglieri del war council, del consiglio di guerra riunito nel lungo week end della Festa del Presidente, alla Casa Bianca. I cortei mirati contro Bush non hanno spostato di un giorno il calendario dell'invasione, né fermato l'invio di 46 mila nuove body bags, di sacchi di vinile per i cadaveri, che il Pentagono ha aggiunto alle 31 mila già nel Golfo, ora che la proposta di cremare i caduti è stata respinta, dopo la reazioni delle famiglie dei militari alla notizie. Ma hanno dato forza agli argomenti di Blair, che in privato scongiura Washington di cercare a ogni costo quella copertura formale dell'Onu con la quale i governi "che ci stanno", come il suo, lo Spagnolo, l'Italiano, devono farsi scudo davanti alla crescente impopolarità dell'invasione.

Il Presidente aveva deciso di ignorare le manifestazioni e di parlare soltanto alla propria gente, nel discorso radio del sabato, per invitarla a "stare calma", a non "cadere nel panico" che il suo stesso governo aveva scatenato con la corsa nevrotica ai nastri isolanti e ai teli di plastica per sigillare le case.

Lo aveva confortato, nella sua scelta, il solito Donald Rumsfeld, il settuagenario ministro della Difesa che ha fatto della guerra la sua ultima crociata e della affermazione dell'imperio americano la sua ultima missione di vecchio cold warrior, di combattente della guerra fredda. "Non saremo affatto soli in guerra", aveva detto consegnando una medaglia al governatore militare dell'Iraq designato da tempo, il generale Tommy Franks. "Tutti gli Stati arabi del Golfo sono segretamente con noi, meno uno, e si nascondono per non irritare le loro piazze, ma quando avremo vinto, si manifesteranno". Non si era negato neppure l'ormai classico insulto agli oppositori. "Il dibattito è un fatto normale e comprensibile. Semplicemente, qualcuno impiega più tempo di altri a capire".

Era stato, George Bush, confortato nella sua linea dura anche dalle reazioni dei giornali americani che lui considera di opposizione, e che sono invece scesi compatti in campo contro la Francia e gli altri dissidenti. Il Washington Post aveva scritto che "anche se ad altri governi saltano i nervi, gli Stati Uniti devono assicurare che questa volta il dittatore (Saddam, ndr) soffra le serie conseguenze che si merita", in un editoriale solenne. Il New York Times aveva fatto eco: "Blix e Baradei non possono continuare a giocare a nascondino" e il "Consiglio di Sicurezza non può perdere altri mesi sfogliando rapporti vaghi. Serve il completo e immediato disarmo di Saddam", dove naturalmente disarmo è l'eufemismo politically correct per dire guerra.

Ma la voce della protesta è stata troppo forte, troppo globale e troppo politicamente trasversale, perché la Casa Bianca potesse ignorarla. Ecco la piccola concessione, il fiorellino verbale offerto alle ansie di tanta gente, ricambiata dalla concessione di Kofi Annan per una risoluzione Onu che ponga limiti al gioco del "gatto e del topo" di Saddam con gli ispettori. La strategia del colosso americano è stata già decisa da tempo, ma chi ha sfilato nelle vie del mondo può consolarsi pensando che una lontana eco delle loro grida ha battuto alle finestre blindate dello Studio Ovale. "Il Presidente vede la forza come l'ultima ipotesi, e tutto dipende da Saddam Hussein. Tra i diritti che noi difendiamo nel mondo c'è anche quello di riunirsi e di dimostrare pacificamente". Come dire, e certamente non a torto, che se quei milioni hanno potuto marciare e scandire i loro slogan contro Bush a Roma, Berlino, Mosca, Londra o Tokyo lo devono, in non piccola parte, proprio all'America.

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questo e' una posizione errata politicamente - AZIZ puo' dire quello che vuole... ma noi soprattutto abbiamo il compito di salvaguardare e difendere la pace... cosa piu' importante e drammatica di una risposta sicuramente sciocca data ad un giornalista... la realta' e' che a roma e' diventato difficile muoversi se non si parla prima a destra e poi ancora a destra... veltroni inoltre ha firmato per la proposta dei radicali - disarmare saddam e far dirigere il tutto all'onu - da sempre succubi degli stati uniti - e non ci dimentichiamo che seppur clintiano - il sindaco di roma e' stato sempre filoamericano e lo ha dichiarato con passione spesso non trattenuta.

Roma: Veltroni si rifiuta di incontrare Aziz

ROMA - Il previsto incontro del sindaco di Roma Walter Veltroni con il vicepremier iracheno Tareq Aziz, previsto alle 9 di oggi non è avvenuto perché ieri sera il sindaco ha inviato ad Aziz una lettera, spiegando che non c'erano le condizioni. Veltroni lo ha reso noto a margine della convention per la candidatura di Enrico Gasbarra a presidente della Provincia di Roma. Ai giornalisti che gli hanno chiesto se la lettera è stata motivata dall'atteggiamento di Aziz nella conferenza stampa presso l'Associazione Stampa Estera, Veltroni ha risposto: "Roma è città del dialogo e della pace, dove israeliani e palestinesi si incontrano e dal mio punto di vista non è accettabile che si dica ad un giornalista israeliano 'non rispondo alle sue domande perché lei è israeliano".

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SCALFARI VA SEMPRE LETTO... speriamo che non dimentichi che quando si parla del popolo europeo... l'italia con le sue scelte politiche istituzionali non ne fa parte... ed e' una tragedia !

DA LA REPUBBLICA

E' stato il battesimo
del popolo europeo


di EUGENIO SCALFARI

MOLTI e molti milioni di persone hanno riempito ieri le piazze di mezzo mondo e in particolare d'Europa manifestando per la pace e contro la guerra. Rappresentavano l'avanguardia militante dello spirito pubblico che anima in questo momento il nostro continente, come dimostrano i sondaggi svolti in tutte le nazioni europee; sono cifre impressionanti sulle quali occorre riflettere. Impressionanti soprattutto quelle registrate in Spagna e in Gran Bretagna, due paesi nei quali i rispettivi governi hanno da tempo dichiarato il loro appoggio alla decisione degli Stati Uniti di muoversi contro l'Iraq "con le buone o con le cattive", cioè con la sponsorizzazione dell'Onu o senza di essa. In Italia si registrano percentuali analoghe: l'80 per cento si dichiara contrario ad una guerra americana senza l'approvazione dell'Onu, il 71 per cento contrario anche qualora quell'approvazione ci fosse. Più o meno negli stessi termini si esprime il popolo dell'intero continente.

È vero che i governanti democraticamente eletti debbono possibilmente precedere e non supinamente seguire le opinioni spesso rapidamente mutevoli dei loro elettori, ma è del pari vero che nei regimi democratici decisioni così impegnative come la guerra o la pace non possano esser prese senza il consenso della grande maggioranza del popolo. La differenza tra democrazia e oligarchia risiede proprio in questa necessaria consonanza tra l'azione di governo e lo spirito pubblico. Quando poi non solo la consonanza sia debole ma addirittura sia sostituita da una contrapposizione netta e profonda, l'oligarchia inclina verso l'autoritarismo e il rischio gravissimo di una spaccatura tra il cosiddetto paese legale e quello reale diventa incombente, con tutte le possibili conseguenze che ne derivano.

Noi europeisti di vecchia data ci lamentiamo spesso della mancanza di un'unica voce europea che interpreti i valori e gli interessi del nostro continente nei consessi internazionali e attribuiamo questa lacuna alla persistenza degli egoismi nazionali che continuano a far premio su una visione comune. Purtroppo è ancora così: le "cancellerie" stanno ancora aggrappate al loro piccolo potere e lo difendono con le unghie e con i denti come se fossimo ancora ai tempi del Congresso di Vienna. Ma proprio qui, su questa delicatissima questione, è accaduto negli ultimi mesi il fatto nuovo perché è la prima volta, assolutamente la prima, che il popolo europeo si è manifestato unitariamente e univocamente su un tema capitale che contiene al tempo stesso valori ideali e interessi politici ed economici. Quella voce unitaria che i governi non riescono ad esprimere è sorta dal basso ed è risuonata con assordante fragore dalle piazze di Londra, di Madrid, di Roma, di Parigi, di Berlino e di cento altre città tra l'Atlantico, il Mediterraneo, il Mare del Nord.

Ciò che i trattati e le convenzioni non hanno ancora saputo compiere l'ha fatto il popolo europeo, milioni e milioni di giovani e anziani, di donne e di uomini d'ogni religione o senza religione. L'Europa sta nascendo: questa è la novità sconvolgente. Qualcuno ieri, commentando lo spettacolo che le televisioni mandavano in onda da Piazza San Giovanni e da Hyde Park, si chiedeva con un pizzico d'ironia: "Vedo che cantano e ballano, ma che cosa c'è da ballare?". Ironia patetica perché c'era invece moltissimo per ballare e cantare: se nasce l'Europa all'insegna della pace e della solidarietà, quello è un giorno di grandissima festa e così infatti è stato il 15 febbraio del 2003.
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Resta tuttavia l'ipotesi della guerra, ancora una volta rinviata ma nient'affatto scongiurata né dalle pur imponenti manifestazioni di massa né dalla esplicita contrarietà della Francia, della Russia, della Cina, della Germania a consentire l'imprimatur delle Nazioni Unite alla politica dei falchi di Washington. Il nuovo appuntamento con gli ispettori dell'Onu (l'ultimo, ha detto Colin Powell) è stato fissato al primo marzo; il ministro degli Esteri francese aveva chiesto per loro un mese, ma ha ottenuto soltanto quindici giorni. Poi - come Bush ripete dallo scorso novembre e ancora ieri - "o con voi o senza di voi" a meno che Saddam non si arrenda senza condizioni. La diplomazia francese ha fatto miracoli per fermare la gigantesca macchina di guerra americana ma senza nulla togliere alla tenacia di Chirac, finora questa partita si è giocata in qualche modo sul velluto.

Sapevamo tutti infatti che l'armata americana avrebbe portato a termine i suoi preparativi soltanto nella prima quindicina di marzo. Fino a quel momento, cioè appunto entro i prossimi quindici giorni, si stanno utilizzando i tempi morti poiché l'esercito Usa ancora non è del tutto pronto, è attesa nelle acque del Golfo l'ultima portaerei che attraversa il canale di Suez proprio in questi giorni, gli ultimi cinquantamila riservisti sono stati richiamati quattro giorni fa, da Londra sono partiti l'altro ieri i contingenti dei "Royal Marines" e un altro reggimento di cavalleria corazzata. Dilazionare fino al primo di marzo l'ultimo rapporto degli ispettori non costa nulla alla strategia Usa anche se, per attendere il voto finale dell'Onu, bisognasse arrivare fino a metà del mese prossimo. Saddam si arrenderà entro queste pochissime settimane? Consegnerà le famose armi che gli vengono perentoriamente attribuite? O darà la prova d'averle distrutte? E in questo caso sarà creduto? A quel punto il gioco si farà estremamente duro perché il tempo sarà completamente scaduto e la clessidra non avrà più sabbia. Molti osservatori scommettono che la Cina, la Russia ed anche la Francia, arrivato il momento della verità, rientreranno nei ranghi, ma c'è un serio motivo per dubitare di questa ipotesi e il motivo si chiama Europa.
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Può sembrare un paradosso pensare che un vecchio gollista strutturalmente legato alla grandeur del suo paese, punti l'intera posta soltanto sulla carta europea senza uscite di sorta né possibilità di disimpegno. Ma che altro può fare Chirac dopo aver rotto il fronte con Bush e con Blair sia all'Onu sia nella Nato sia infine nell'Unione europea? Può dire "abbiamo scherzato" senza subire un drammatico crollo d'immagine internazionale? Può negoziare il suo riallineamento chiedendo in contropartita qualche vantaggio petrolifero per la sua "Total"? Vendere la primogenitura finalmente riconquistata in Europa per il piatto di lenticchie della "Total"? Con quali ripercussioni sul consenso di massa dell'opinione pubblica francese che in questi mesi si è stretta compattamente intorno a lui? Chirac è di fronte a un dilemma che presenta comunque altissimi rischi, sia che insista sul no a Bush-Blair, sia che rientri nei ranghi dell'ortodossia atlantica. La sua scelta dipenderà dalle previsioni che il governo francese farà sull'andamento della guerra e sugli scenari che si apriranno sul dopoguerra, cioè sulla natura della "pax americana".

Al novanta per cento la guerra sarà breve se non brevissima. Al novanta per cento la "pax americana" in Medio Oriente non debellerà il terrorismo mancando l'obiettivo dichiarato ma non vero per l'amministrazione Usa e lasciando aperto il passo per altre guerre e conflitti sempre più profondi con l'Islam e con le potenze internazionali emergenti in Asia. Ecco perché non è affatto da escludere che Chirac punti le sue carte su quell'Europa che il popolo europeo sta unificando attorno alla parola pace. Non è forse vero che in politica (e non solo) le parole sono pietre?
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Nel bel mezzo della manifestazione per la pace - che a Roma ha riunito a dir poco tre milioni di persone e soprattutto di giovani in una misura mai vista prima d'ora - è stata diffusa la notizia di una lettera indirizzata dal presidente Ciampi al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Il documento, reso pubblico dal Quirinale, è esplicitamente motivato dalle gravi preoccupazioni indotte dalla situazione internazionale e si snoda intorno a tre punti fermi. Il primo riafferma il concetto che l'Onu è la sola istituzione idonea a dirimere i conflitti internazionali e incita il governo italiano a incardinare la sua azione nell'ambito dell'Onu come finora è apprezzabilmente avvenuto. Il secondo invita il governo a operare per la composizione dei conflitti intra-europei apertisi sia nella Nato sia nella stessa Unione, con l'obiettivo di ricostituire l'unità degli intenti tra i paesi membri e tra l'Europa e gli Stati Uniti. Il terzo raccomanda al governo di puntare alla coesione tra i paesi fondatori dell'Unione, che dovranno comunque essere il motore dell'Europa politica.

I paesi fondatori, come è noto, sono Francia, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Si tratta di un documento complesso dal quale emerge chiaramente l'intento di ancorare l'azione del governo italiano all'Onu, a non operare al di fuori di essa e a privilegiare in Europa il nostro rapporto con gli Stati fondatori e cioè con Francia e Germania. Questa lettura del documento è tanto più corretta in quanto gli stessi uffici del Quirinale che l'hanno diffuso hanno poi protestato con l'agenzia Ansa per una prima sommarizzazione del testo che sottolineava le parole di apprezzamento rivolte al governo sorvolando invece sugli incitamenti a non allontanarsi dalla linea tradizionale della nostra politica europea, che è appunto la vera ragione per cui quella lettera è stata scritta e resa pubblica. Il Quirinale insomma sembra non condividere eventuali iniziative al di fuori dell'Onu e tanto meno comportamenti che dividano l'Italia dagli altri cinque paesi fondatori. Il testo è pubblico e ciascuno potrà leggerlo e comprenderlo. Tirare il Quirinale in ballo nelle dispute politiche è sempre scorretto. Ridurlo, come taluno ha tentato di fare, ad un ossequiente incensatore di Palazzo Chigi è oggettivamente falso e soggettivamente fazioso. Dispiace, anche se a quel tipo di falsità e di faziosità siamo ormai da tempo abituati.

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da PINTOR - questo ed altro...

DA - IL MANIFESTO.

La nostra coscienza


LUIGI PINTOR


E'proprio così, ovunque nel mondo. A volte sognamo e non diciamo la verità perché la confondiamo con i nostri desideri. Ma oggi non sono i pacifisti, non sono minoranze partigiane, non sono ideologie preconcette che affollano le strade di cento capitali. Sono gli abitanti della terra, i cittadini di ogni lingua e cultura, che si riconoscono e si incontrano in un'unica comunità. E' la democrazia che prende corpo, non le sue istituzioni e i suoi meccanismi ma la sua essenza. La pace e la democrazia sono oggi la stessa cosa, se perdiamo l'una perdiamo l'altra. Un'emergenza così non c'è mai stata da mezzo secolo, anche questa è una verità senza retorica. Ed è questa percezione che accomuna le persone, le singole persone, che si affollano ovunque innumerevoli. Questo è il messaggio.

Se questa guerra scoppierà sarà intimamente totalitaria. Non ucciderà solo molti innocenti, non ferirà a morte solo le istituzioni internazionali, non alimenterà solo la spirale del terrore e la instabilità delle nostre economie e della nostra vita quotidiana, ma ucciderà il principio di cittadinanza e di sovranità e violenterà la coscienza pubblica.

Vale anche per gli Stati uniti d'America, dove non sembra esistere più una dialettica democratica ma prende corpo un regime unipolare generato da un colpo di stato invisibile. Vale con tutta evidenza in Italia, dove un potere senza consenso fa di tutto il territorio nazionale una base di supporto militare a sostegno di una guerra unilaterale. Non siamo solo fuori dalla Costituzione ma anche dalle alleanze tradizionali.

Non stiamo esportando la democrazia in Iraq ma importando i mali, i metodi e i fini, che aborriamo e vogliamo combattere ovunque. Oggi li combattiamo con una insorgenza tranquilla, con la forza naturale di una marea, che non dirò pacifica e democratica perché sono parole inadeguate. La pace e la democrazia non sono una sommatoria ma una congiunzione che riassume il senso stesso dell'esistenza. Hanno incombenti di fronte a sé la guerra e il totalitarismo ma non sono mai state così forti come si manifestano oggi. E continueranno a manifestarsi qualunque cosa accada.

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bella intervista - che fa comprendere quanto e' difficile in america manifestare... poter dire la propria.

DA - IL MANIFESTO.

PHYLLYS BENNIS


«Bush ci intimidisce»


La studiosa statunitense: «Washington fa leva sulla paura, ma sbaglia»
PATRICIA LOMBROSO
NEW YORK
«Questa volta la dimostrazione per la pace che si tiene in 528 città del mondo per la pace vedrà una piena partecipazione di pacifisti nelle strade di New York. Non si lasceranno intimidire né dai divieti della polizia, dell'amministrazione Bloomberg, del ministro di giustizia John Ashcroft. Sono 75 le città americane dalla California, al Maine, Hawai che hanno approvato risoluzioni contro la guerra. A livello sindacale, le università sono in stato di fibrillazione. Non era mai successo questo fenomeno prima di una guerra. Neppure in Vietnam.» Questo il commento di Phyllys Bennis, direttrice dell'Institute for policy Studies di Washington, promotore dell'iniziativa di «Cities against the War».

Come interpreta la decisione del magistrato di New York di vietare il permesso di sfilare?

La coincidenza tra il nuovo livello di allerta, il fantasma di un attacco terroristico a New York o Washington e il fatto che si vuole bloccare una imponente dimostrazione di pacifisti, va interpretata come una mossa propagandistica dell'amministrazione Bush: per fomentare lo stato di agitazione e di paura in cui vivono gli americani sin dall'11 settembre. Mira a protrarre questa sensazione di vulnerabilità e di impotenza. Aumenta il disagio per il fatto che manca un'adeguata informazione. Gli americani desiderano poter aver fiducia in qualcuno che fornisca loro protezione e sicurezza. Questo è il contesto che Bush utilizza per avere il consenso alla guerra. Ma dopo il divieto anche coloro che erano reticenti a partecipare scenderanno per le strade di New York, perché è stata lanciata una sfida dal governo e le persone si sono sentite privati del diritto della libertà di espressione.

I sondaggi danno ancora 58 per cento a favore del presidente.

Ma i media non dicono che se si prospetta la possibilità che in questa guerra decine di migliaia di innocenti civili iracheni vengano sterminati la percentuale scende di 20 punti. Gli statunitensi sono portati a credere che la guerra contro l'Iraq servirà a proteggerli da altri attacchi terroristici, ma cominciano ad avere consapevolezza che la guerra avrà un costo umano, economico e politico molto oneroso.

Quale il timore più generalizzato?

Una controreazione terroristica con armi chimiche o batteriologiche dalla quale le stesse autorità governative non garantiscono un'adeguata protezione della popolazione.

La minaccia di Bin Laden di un prossimo attacco terroristico convince l'opinione pubblica?

Bush fa leva su questa sensazione di paura per ottenere il consenso della popolazione a un'invasione dell'Iraq. Ma questa strategia non sta funzionando, perché non tutti vengono influenzati dal clima di terrore. L'opposizione alla guerra nel paese sta crescendo e ha assunto varie posizioni di partecipazione attiva in tutti i livelli e categorie della struttura sociale del paese. E' un fenomeno nuovo che non si è verificato neppure con il Vietnam. Anche i più sprovveduti e apoliticizzati esprimono sospetti che un possibile attacco terroristico ventilato nei confronti della popolazione civile americana sopraggiunge, pochi giorni dopo il discorso di Colin Powell alle Nazioni unite, in un momento in cui la Casa Bianca si rende conto che una mobilitazione a livello mondiale il 15 febbraio per la pace sta producendo l'effetto contrario a quanto desiderato. Resta isolato con Berlusconi, Aznar e Blair. La popolazione italiana e spagnola sono in netta opposizione con la posizione allineata alla guerra di Bush assunta dai loro governi

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due commentini .... uno ragionevole ... e sembra proprio che a dirlo sia d'alema, l'altro totalmente sbagliato perche' oggi bush qualcosa ha ammesso.... per i manifestanti che lo hanno criticato a livello mondiale.

DA IL CORRIERE DELLA SERA.

COMMENTI

D'ALEMA - «La vergogna di questa giornata per la Rai è indimenticabile». Così Massimo D'Alema mentre sfila nel serpentone pacifista che attraversa Roma commenta la decisione dell'ente radio televisivo pubblico di non trasmettere la diretta della manifestazione. «Il fatto che quel moncherino di consiglio di amministrazione - osserva il presidente dei Ds - si sia impegnato a litigare sulla D'Eusanio, mentre il mondo è sull'orlo della guerra non è un problema di destra o di sinistra ma di un'azienda che ha perso i contatti con il mondo».

FINI - «Dopo le manifestazioni la pace non è purtroppo più vicina. Anzi». Questo il commento del vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini sul corteo pacifista di Roma. «L'antiamericanismo ideologico e il pacifismo totalitario, ad ogni costo, compresa l'ignavia di fronte al terrorismo - aggiunge Fini - certo riempiono le piazze di arcobaleni e bandiere rosse, ma ancor più certamente non indurranno Saddam a disarmare».

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ciampi ma e' da tempo che ci delude... quindi non e' una novita', anche se dice di attendere l'onu.

DA - IL CORRIERE DELLA SERA.

Il presidente della Repubblica scrive al premier sulla crisi dell'Iraq

Ciampi: «Apprezzo l'opera del governo»

«Giusto mantenere la questione del disarmo
di Bagdad nell'ambito delle Nazioni Unite»

ROMA - «Apprezzo l'opera compiuta da lei e dal governo da lei presieduto, per mantenere la crisi irachena nel quadro dell'Onu», scrive il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in una lettera inviata ieri al presidente del consiglio Silvio Berlusconi e resa nota da Palazzo Chigi. «Sento il bisogno di condividere con il governo alcune riflessioni» è la premessa di Ciampi, nel sottolineare che viviamo «un momento particolarmente delicato» e che si «approssimano importanti scadenze internazionali Ue, Onu e Nato». «Il mio primo pensiero - aggiunge - va al mantenimento della pace e agli sforzi che tutti debbono compiere per la sua salvaguardia. Conservo la speranza, confortata dall'impegno attivo che i governi italiani hanno sempre assicurato al consolidamento del sistema multilaterale, che le Nazioni Unite riescano a mantenere la pace e la sicurezza internazionale ed ottenere l'eliminazione delle armi di distruzione di massa dall'Iraq. Il Consiglio di Sicurezza esercita una responsabilità primaria nel fronteggiare le minacce alla pace e deve mantenere questo ruolo nelle deliberazioni dei prossimi giorni».

QUADRO ONU - L'azione svolta dal governo per mantenere la crisi irachena nel quadro dell'Onu, sottolinea Ciampi, «s'inquadra nelle linee di fondo della politica estera italiana mantenute costanti nel volgere degli anni e dei governi: il sostegno pieno al sistema delle Nazioni Unite; la complementarietà tra l'integrazione europea e il legame transatlantico incarnato dall'Alleanza Atlantica e che venne definito, a ragione, una scelta di civiltà. Nella convinzione che queste finalità vadano perseguite l'una non a scapito dell'altra, riveste per i paesi europei un particolare importanza, per elevatezza di obiettivi e per la sua complessità il processo di integrazione europea.

RICONCILIAZIONE - «Esso - continua la lettera del capo dello Stato - costituisce un percorso liberamente sottoscritto, imperniato sulla riconciliazione e sulla volontà di vivere insieme; è un disegno di lunga durata; tocca l'avvenire di tutti noi. Lo sostiene un vasto consenso parlamentare, politico, nazionale: ricordo il riferimento al ruolo di Paese federatore storicamente svolto dall'Italia contenuto nella Risoluzione approvata a vasta maggioranza dal Parlamento alla vigilia del Consiglio Europeo di Laeken; avverto nei miei viaggi in Italia la convinzione che l'avanzamento dell'Europa corrisponde a una profonda aspirazione del popolo italiano».

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ieri non sono arrivata in tempo a piazza san giovanni - visto quanto era lungaO - IL SERPENTONE - della manifestazione... allora ho provato ad accendere la mia radio... ma niente... ho seguito da un piccolo monitor LA7 - ma parlavano loro non si ascoltava quanto dicevano sul palco... ecco vorrei una diretta che ci facesse sentire gli ospiti e quello che dicono.... e tra una pausa e l'altra far intervenire la gente che partecipa alla manifestazione invece che le solite voci contrarie e senza logica.

DA IL MASSAGGERO.

In piazza tornano i registi: c’è Benigni
e Spike Lee marcia per le telecamere

di MARCO MOLENDINI

ROMA - Torna in piazza anche Roberto Benigni contro la guerra. Il grande assente dei raduni d’autunno fa la pace con piazza San Giovanni fra i primi, quando ancora le strade che portano al palco non sono intasate. Lo abbracciano, lo chiamano, lo salutano. Roberto risponde, camminando veloce verso la zona ospiti. Ma non è lui la star della giornata: è Nanni Moretti il più richiesto e, fra la folla, è a suo agio come nel salotto di casa. In questi mesi è sceso in campo in modo deciso, è stato tra le voci più presenti, fra gli ideatori e organizzatori della protesta. Ormai, è un vero leader.
E, anche oggi, non rinuncia a farsi sentire, quando i microfoni sono a tiro. «Questa non è solo una manifestazione di pacifisti, qui ci sono tantissime persone contrarie all'idea di una guerra preventiva che creerebbe un pericolosissimo precedente e che rischia di innescare una miccia nei paesi coinvolti» spiega. Non ci vuol molto a capire che il suo obiettivo è Berlusconi, anche perché Nanni lo dichiara senza giri di parole e accusa il premier di «obbedienza cieca verso gli Stati Uniti, mentre altri paesi europei come Francia e Germania hanno cercato di giungere ad una posizione autonoma non per essere antiamericani, ma per ribadire la loro indipendenza».
A pochi metri da lui, Franca Rame porta un cappello con sopra la foto del marito Dario Fo. "Anch’io sono con voi" c’è scritto. Spiega l’attrice: «Dario non è potuto venire perché il nostro contratto lo obbliga ad essere oggi a Fano. Ma è anche lui è con noi con lo spirito».". Quanto alla Rai rimasta a casa, la Rame la pensa come Moretti: «E' un atto di vigliaccheria e di paura. Sono terrorizzati. A parte questo, dimostrano poco rispetto verso l'intelligenza del Parlamento, li hanno trattati come bambini influenzabili e tremanti. E' una vergogna, una delle tante vergogne di questo Paese». Rai sotto accusa anche da parte dell’ex presidente della tv di Stato, Giuseppe Zaccaria, che accusa «Baldassarre e Saccà di aver spento la Costituzione negando la diretta».
Non se la prende con la Rai l’attrice-presentatrice Caudia Koll che coglie l’occasione della ricerca della pace per professare pubblicamente la propria fede in Dio. Sparisce quasi, nel mare di facce, il viso nero di Spike Lee, il regista americano ha anticipato di un giorno il suo arrivo a Roma da Berlino (nel giro di promozione del suo ultimo film,
La venticinquesima ora) proprio per essere presente alla manifestazione: «Sono felice di essere in Italia, di essere a Roma e di essere uno fra i milioni di persone che oggi manifestano a Roma, come nel resto del mondo, per la pace». C’è un altra americana fra la folla, è Sidney Rome che definisce il corteo «una sorta di grande preghiera collettiva» e ricorda di essere anche andata a piazza del Popolo, nella manifestazione di solidarietà a Israele organizzata da Ferrara.
«Viva gli Stati Uniti che stanno sfilando nelle piazze per la pace, viva gli Usa di Bob Dylan e abbasso gli Usa della Cia» dichiara Teresa De Sio, che cammina a braccetto con Fausto Bertinotti e la moglie.
Nel cuore della manifestazione si dà da fare il pool di registi che capitanati da Ettore Scola, Citto Maselli, Mario Monicelli, Wilma Labate e Franco Giraldi daranno il loro contributo al filmato dal titolo provvisorio "La pace nel mondo" che risulterà dal montaggio di tutte le manifestazioni che hanno detto ieri no alla guerra in tante città del mondo.

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carina questa paginetta che ci ricorda che cosa abbiamo urlato in piazza...

da - IL MESSAGGERO

Gli slogan: «Berlusconi
è lo Schifani di Bush».
«Se gli Usa vogliono capperi
bombardano Salina?»

di MARIO AJELLO

ROMA — Una bandiera (l’unica) dell’Onu e una bandiera (fra le tante) con l’effige di Guevara sventolano affiancate. Se la strana alleanza (ma il Che non era un guerrigliero?) reggerà anche quando pioveranno le bombe con o senza avallo dell’Onu, questa immensa folla in marcia avrà vinto. Per ora, dentro il Grande Corteo, in realtà i cortei è come se fossero due. O almeno sono due, e diversissimi, gli approcci alla guerra e alla pace che lungo il percorso convivono in piena armonia e in qualche raro caso si scontrano (ecco infatti alcuni Cobas che gridano in rima pensando al Kosovo: «Centro-destra, centro-sinistra / chi bombarda è sempre fascista!»). Il corteo è lo stesso, eppure il corteo di Cofferati e dei pacifisti «senza se e senza ma» - «Sergio, ti aspettiano al fianco di Prodi!», gli viene gridato - non è il corteo piuttosto minoritario e
low profile di Rutelli o del gruppo dirigente Ds che restano abbarbicati all’Onu e sono pacifisti ma gonfi di «se» e di «ma».
«Laggiù c’è una bandiera dell’Onu? Davvero?», dice quasi commosso D’Alema, e si alza sulle punte per ammirarla. Ma non ci riesce e sarebbe come trovare un ago in un pagliaio fittissimo di immagini di Bush in uniforme nazista o di striscioni del tipo «E se vogliono i capperi, bombardano Salina?» o di cartelloni tossico-etilici dei Disobbedienti («Più canne e cannonau e meno cannoni») o di altri sfoghi dei falchi del pacifismo. I quali - piacevole novità! - stavolta non bruciano bandiere americane. Però vanno sul classico e urlano «Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia» (concetto poco berlingueriano). Alcuni di loro sotto la sede Ds a via Nazionale issano un cartello cattivista: «"I pacifisti, purtroppo, poche volte hanno dimostrato di avere testa". Chi l’ha detta questa: Berlusconi o D’Alema?». L’ha detta il Cavaliere, poche settimane fa, ma l’avanzare il dubbio che possa essere stato quell’altro non è carino. Il fatto è che dietro la distanza che separa il corteo dei pacifisti "di merito" («No a questa guerra») dai pacifisti "assoluti" alla Cofferati («No alle guerre») non ci sono soltanto le beghe per la leadership di uno schieramento in crisi, ma ci passa tutta la storia del ’900. Nel quale il «non morire per Danzica» è entrato nel Dna della sinistra fino allo strappo revisionistico sul Kosovo.
Di colpo, si sente il suono di una sirena. E’ un’autombulanza che entra nel corteo perchè qualcuno è svenuto. E qualcun altro commenta sarcastico: «Sono venuti a prendere Rutelli, che sta male per aver spedito gli alpini in Afghanistan?». Il corteo degli «onu-nisti» (che i detrattori considerano una accolita di onanisti innamorati delle Nazioni Unite come unica fonte di legittimità internazionale) sta procedendo. E così il corteo, assai più consistente, degli altri: che dell’Onu se ne infischiano. Nanni Moretti, che pure è un movimentista, verrebbe da aggiudicarlo al popolo dei «senza se e senza ma». Invece, marciando, precisa: «Io sono contro la guerra preventiva». Che è diverso dal sostenere «io sono contro la guerra». Infatti si definisce «un pacifista non alla Gino Strada». Al suo fianco c’è Flores d’Arcais, che fu interventista per la guerra del Golfo e un tizio gli grida: «Flores, arresta Bush!». Lui non sente e comunque non va ai cortei con le manette anche se il suo amico Travaglio le considera uno strumento «magico».
Dal Campidoglio sta scendendo Veltroni. Ovazione. Lui si guarda intorno soddisfatto ed è come se stesse rileggendo un suo vecchio libro: «La bella politica». Walter si muove con la soavità di chi sente di appartenere contemporaneamente a entrambi i mondi che sfilano in piazza. Gli appartiene la folla di diessini di base che, immobile sulle gradinate del Palazzo delle Esposizioni, grida rivolta alle finestre aperte della sede della Quercia lì di fronte: «Niente se, niente ma, / questa guerra non si fa!». Ma appartiene a Walter anche quel palazzo di partito dentro il quale sembrano penetrare le grida d’ammonimento a non farsi tentare mai più dal moderatismo da «sinistra di governo» stile Tony Blair. Un grido: «Berlusconi è lo Schifani di Bush». Un coro: «Chi non salta per la guerra è, è!». Fassino, che pure non è per la guerra, non salta perchè rischierebbe di sbattere la testa contro il cielo, o forse non sta sentendo l’invito, o più probabilmente non salta perchè i riformisti hanno i piedi ben piantati per terra e i nipotini di Togliatti figuriamoci. Il Corteo dei due cortei ora è quasi a San Giovanni. I viali lì intorno sono tappezzati da manifesti che chiedono: «Sinistra, confederazione possibile?». Oggi sembrerebbe di sì. Ma se l’Onu obbedirà a Bush, sarà difficile rivedere la bandiera delle Nazioni Unite (agitata da qualche diessino o margherito) che sventola insieme al drappo rosso con la faccia barbuta del Che (o è Cofferati?).

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ed ecco come e' andata in america... non nascondiamocelo era la piu' attesa.

New York sfida la Casa Bianca: più di 250 mila nella città blindata
di Roberto Rezzo

NEW YORK. «Il mondo intero è contro questa guerra. C’è una sola persona che la vuole», e in mezzo alla folla si alza un pupazzo con la faccia del presidente Bush, in una mano un barile di petrolio, nell’altra uno pieno di sangue. I newyorkesi non si sono lasciati fermare né dai divieti del sindaco Bloomberg, né dagli allarmi per possibili attentati terroristici, né dalla temperatura sotto zero: oltre 250mila persone ieri sono scese in strada per chiedere alla Casa Bianca di fermare la corsa verso un nuovo conflitto in Iraq. Una manifestazione così in città non si era vista dagli anni ‘70, dai tempi della guerra in Vietnam, specchio dell’America che vuole dare un’altra possibilità alla pace, che non crede nella violenza per affermare i principi della giustizia.
Il successo della manifestazione non è solo nel numero dei partecipanti, più che doppio rispetto alle attese degli organizzatori, ma per il tipo di adesioni che ha raccolto. C’erano tutti: organizzazioni sindacali e gruppi religiosi, associazioni di madri e reduci di guerra, studenti e signore eleganti dell’Upper East Side, una moltitudine che è difficile liquidare come priva di amore per la patria o addirittura fiancheggiatrice dei terroristi, le due definizioni con cui il governo è solito zittire ogni espressione di dissenso.
«Pace! Pace! Pace! L‘America ascolti il resto del mondo; e il resto del mondo sta dicendo di dare più tempo agli ispettori», sono state le parole dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, che si è unito alla manifestazione insieme ai rappresentanti di tutte le principali fedi religiose. «I lavoratori sono intervenuti a migliaia perché sono contrari alla guerra, come lo è la maggior parte degli americani - ha dichiarato Michel Letwin, un sindacalista impegnato nel movimento per la pace – Sono lavoratori, le classi meno abbienti che in tutte le guerre pagano il prezzo più salato: con i figli in divisa che vanno a morire al fronte e con i servizi sociali cancellati dal governo per pagare le spese militari». Sono gli ultimi sondaggi a confermare che sulla guerra in Iraq il presidente Bush non ha convinto l’opinione pubblica: quasi i due terzi degli intervistati ritiene che sia necessario concedere più tempo agli ispettori dell’Onu e che qualunque intervento militare debba essere deciso all’interno del Consiglio di sicurezza. La stessa popolarità di Bush è in brusco calo: nel giro di un mese la percentuale di americani che condivide il suo operato è passata al 64 al 54 per cento.
Susan Sarandon è salita sul palco con la grinta che aveva in Thelma e Louise, saluta la folla dicendo: «Questa è la vera faccia della democrazia. Grazie per essere venuti. Siamo in tanti e dalla nostra arte ci sono milioni di persone in tutto il pianeta. Perché non basta dire che si vuole la pace, nella pace si deve credere e per la pace si deve lavorare». Sarandon è stata la prima fra le stelle di Hollywood a prendere posizione contro il conflitto in Iraq, ma nel mondo dello spettacolo l'ostilità nei confronti del presidente Bush è manifesta. Il cantante Herry Belafonte si è rivolto alla comunità afro americana, mettendola in guardia alla destra conservatrice, per la quale il capitolo de razzismo o si è mai chiuso. Mesi fa, quando ancora il segretario di Stato Colin Powell era nel partito delle colombe e sembrava la voce più sensata della Casa Bianca, lo aveva attaccato duramente per prestarsi a far arte di un governo repubblicano, paragonandolo a quegli schiavi che assecondando il padrone riuscivano a farsi ammettere nella sua casa. «Questa manifestazione è riuscita a dare voce a una maggioranza che sinora è stata ignorata, sia dall’amministrazione che dai grandi mezzi di comunicazione», spiega un portavoce di United for Peace and Justice, l’organizzazione che ha coordinato la partecipazione di centinaia di gruppi. Questa voce il segretario alla Giustizia, John Ashcroft, ha fatto del suo meglio per metterla a tacere. Con una nota trasmessa al sindaco, ha fatto notare che con il rischio di un attentato terroristico, una marcia per la pace avrebbe comportato gravi rischi per la sicurezza. Tesi immediatamente sposata dal sindaco Bloomberg e tradotta in un’ordinanza che ha vietato ai manifestanti di marciare in tutte le strade di Manhattan e ha vietato di avvicinarsi al Palazzo di Vetro dell’Onu. I responsabili hanno lavorato duramente per non regalare alla polizia il pretesto di attaccare e tutti hanno camminato sui marciapiedi verso il concentramento tra la 49ma strada e la Prima avenue, ad appena un isolato dalle Nazioni Unite. Momenti di tensione si sono registrati soprattutto per l’imponente dispiego di forze dell’ordine e per i modi bruschi degli agenti, che controllavano il flusso di manifestanti manganelli alla mano, con squadre a cavallo pronte a dare la carica. Non vi sono stati tuttavia incidenti e l’incendio che è scoppiato ieri a Penn Station, costringendo alla chiusura della stazione ferroviaria, non è stato opera dei terroristi ma un banale cortocircuito. Con il ritratto dei loro cari scomparsi accompagnato dalla scritta «no alla guerra», c’erano anche i rappresentanti dei familiari delle vittime dell’11 settembre: «Siamo indignati per come una tragedia sia stata utilizzata per giustificare scelte politiche del tutto immorali».

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tutte le interviste nel nuovo numero di namir - GUERRA -.

un bacio e alla prossima settimana da LUANA.