LUANA - CONFALONIERI DIFENDE BERLUSCONI... la ridicolita' di questa intervista e' che si parla tranuillamente di un potere politico che si lamenta per i giornale che gli vanno contro, come se non avesse ANCHE LUI GIORNALI E TV da utilizzare per le sue campagne elettorali e i conflitti d'interesse.

DA - IL MESSAGGERO - INTERVISTA.

Il presidente di Mediaset contesta gli attacchi alla tv spazzatura del Financial Times e di Amato: «Sono bigotti, e poi il trash l’ha inventato la sinistra»
Confalonieri: la legge Gasparri va riequilibrata
«Il digitale terrestre cambierà molte cose, ma è vero: negli incroci tra i media editori sfavoriti»

di ALBERTO GUARNIERI

ROMA - Il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri ha per le mani il libro di Tobias Jones del "Financial Times" in cui si demolisce il sistema italiano e le sue tv. Tra i giornali che ha sparsi sul tavolo ci sono ancora quelli dove campeggiano le dichiarazioni di Giuliano Amato, che definisce i nostri network irriguardosi verso le donne. Confalonieri scuote la testa e sorride. Proprio lui, colto appassionato di Shakespeare e di musica sinfonica, fautore di un disarmo di audience tra Rai e Mediaset in nome della qualità, respinge le critiche. «Sorprendentemente bigotte quelle di Amato. Un po' colonialiste quelle di Jones, frutto di quel superiority complex tipico dell'inglese all'estero che sente, come Kipling, "Il fardello dell'uomo bianco"».


Reagisce così perché vi avviare a fare un "Grande fratello" un po’ spinto, presidente?


«No, il "Grande fratello" sarà un programma avvincente e adatto alla prima serata. Il direttore di Canale 5 Modina, un bergamasco compaesano di Papa Giovanni, ha le sue idee e fa bene a difenderle. Ma il comune senso del pudore si è evoluto da quando alle Kessler venivano messi i mutandoni. E per capire la tv di oggi basterebbe ripensare alla sua storia, alla sua metamorfosi da tv pedagogica calata dall'alto a tv democratica in cui è il pubblico a decidere».


Però che la tv sia sempre più deficiente lo dicono un po’ tutti.


«Lo dicono soprattutto gli intellettuali. E guardi che sono stati proprio loro a favorire il "tradimento" a favore della tv volgare, in senso latino. Una sorta di "Trahison des clercs". Pensi ai Freccero, agli Antonio Ricci, ai Gori, ai Costanzo che hanno aderito alla tv commerciale di Berlusconi. Pensi alla bella tv di Angelo Guglielmi .


Il creatore della Raitre dei tempi migliori?


«Proprio lui: ha inventato la "tv intelligente" contro la "tv d'èlite" del precedente direttore Rossini. Ed è passato dal 3% al 10% di audience».


Sembra di sentir parlare il premier. Tutta colpa della sinistra e dei giornali che la spalleggiano. Anche la tv spazzatura.


«Berlusconi dice di aver contro l'80 per cento dei giornali. Forse esagera, ma non si discosta troppo dal vero».


Almeno qui il rimedio, secondo la sinistra, è pronto. E’ in discussione il ddl Gasparri che consentirà alle tv di comprare i giornali e non all’editoria di entrare nelle televisioni.


«No. Siamo alla vigilia di una nuova fase che sulla carta potrebbe cambiare il volto della tv, il digitale terrestre. Con il nuovo sistema di trasmissione potrà moltiplicarsi per quattro o per cinque il numero di canali. La tv digitale terrestre visibile gratuitamente (e quindi di massa) potrebbe paradossalmente costituire il punto di svolta verso un sistema dove tv colta e tv popolare siano democraticamente coesistenti».


Magari. Comunque ci vorranno anni per arrivarci.


«Il processo è partito. Mediaset e Rai stanno già lavorando in questa direzione. E ci sono opportunità per moltissimi nuovi soggetti che potranno andare in onda anche senza investimenti strutturali. Questo è pluralismo, non toglierci una rete».


La rete ormai non ve la tolgono più. Piuttosto i tetti previsti vi consentono di crescere.


«Sì, ma quanto? Secondo le stime più ottimistiche il monte complessivo delle risorse del sistema è di 27 miliardi di euro. Il 20 per cento di tetto massimo è quindi di circa 5,4. L'area comunicazione del Gruppo Fininvest, Mediaset e Mondadori, rispetto ai fatturati attuali non ha quindi molto spazio per crescere E pensi che Murdoch supera i 13 miliardi . Ci vogliono far passare per colossi ingordi mentre rischiamo di essere, in Europa, dei nani».


E poter acquistare un grosso quotidiano le sembra poco?


«E' vero che oggi sarebbe più facile per noi comprare un giornale piuttosto che il contrario. Ma per favorire gli editori si può anche pensare a norme asimmetriche».


Insomma, secondo lei Mediaset e quindi anche Rai sono due povere vittime e non un duopolio che soffoca nella culla possibili terzi soggetti?


«Ma quale duopolio. A parte "La 7", già ora la domenica sera, con le partite di calcio, le tv classificate come "Altre" che comprendono le satellitari, arrivano anche all'11 per cento degli ascolti. E poi il pluralismo non si misura solo col numero dei soggetti in campo».


Si riferisce al fatto che da voi lavorano anche persone di sinistra?


«Certo. E sono tante».


Una, e del calibro di Maurizio Costanzo, pare cominciare a trovarsi un po’ a disagio».


«Mi sembra più un fatto generazionale. Maurizio ha un anno meno di me. Siamo capibranco, saggi e un po' attempati. E' normale che i giovani cerchino di "uccidere il padre"».


Che facciamo Lasciamo che ammazzino Costanzo?


«Quelli come noi sanno difendersi».

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LUANA - ancora AGNELLI... ma e' un pezzetto sui colletti bianchi e la loro marcia... vale la pena pubblicarlo per non dimenticare.

DA - IL MESSAGGERO - L'INTERVISTA

ALa marcia dei quarantamila
fu una vittoria di Pirro
Un giorno mi disse: caro mio
segretario, quante fesserie
abbiamo fatto insiemeB

di LUCIANO COSTANTINI

ROMA - Giorgio Benvenuto, insieme a Luciano Lama e Pierre Carniti, è uno dei leader storici del sindacato. I suoi ricordi sono tanti, incastonati in quasi un trentennio. La morte di Gianni Agnelli non lo ha colto di sorpresa: «Sono dispiaciuto anche se me lo aspettavo. Mi aveva drammaticamente colpito la sua assenza al Lingotto in occasione della donazione della pinacoteca al Comune di Torino».


Il primo ricordo che le viene in mente.


«L’ultima volta che l’ho visto per la commemorazione della marcia dei quarantamila. Si rendeva conto che quella fu una vittoria di Pirro e mi disse: "Benvenuto, quante fesserie abbiamo fatto insieme". La Fiat vinse, ma non investì sul prodotto bensì sul processo perchè avendo sconfitto il sindacato cercò di ridurne il ruolo».


E poi?


«Be’ ricordo Agnelli quando non era ancora presidente di Fiat. Mi ero laureato, ero andato a lavorare a Torino con Viglianesi ed avevo pubblicato una tesi sulle Commissioni interne. Lo ricordo ancora durante l’autunno caldo: noi ottenemmo che l’azienda si rimangiasse i licenziamenti che aveva fatto. A quei tempi il sindacato era fortissimo. C’era una cosa che non accettava, che gli dava fastidio: quei cartelli tipo "Agnelli e Pirelli, ladri gemelli". Comunque era un uomo pragmatico, molto sensibile ai rapporti di forza. Negoziava ed era flessibile quando il coltello dalla parte del manico l’avevamo noi, poi quando l’aveva lui...».


Quando lo ha avuto?


«Due volte, nel ’79 quando la Fiat avviò 61 licenziamenti tra i quali alcuni nei confronti di dipendenti sospettati di terrorismo. Ma c’erano anche dei sindacalisti. Andai con Lama e Carniti da lui per invitarlo a dividere le responsabilità, stava per cedere, poi però Carlo Callieri disse: "Avvocato, se accetta di discutere questi licenziamenti, avrà le dimissioni mie e di tutti gli altri dirigenti". Agnelli si pronunciò per il "no" e cambiarono i rapporti di forza. Detto tra noi, sono convinto, che fu una sceneggiata tra i due».


E la seconda volta che ha vinto?


«Con la marcia dei quarantamila che sorprese noi, ma anche loro che stavano per fare l’accordo. Perchè prima ho parlato di vittoria di Pirro? Perchè su quella vittoria loro hanno vissuto per una generazione ed abbiamo perduto insieme l’appuntamento con la globalizzazione. E poi il punto unico sulla scala mobile: divise sindacati e lavoratori. Noi e loro, alla fine, eravamo vittime dei ruoli, una guerra tra giganti. Fu una fase nella quale fu esaltata la conflittualità, spesa a discutere di scala mobile senza esplorare vie alternative».


Agnelli uomo pragmatico. E poi?


«Autoironico e molto studiato nel parlare. Nelle sue cose preparato e verificato. Prima di andare in televisione simulava anche le domande. Un uomo curioso, gli piacevano coloro che avevano ideee contrarie. Si era perfino comprato ad un’asta un manifesto di
Lotta Continua che lo accusava. Nel Duemila, alla Camera, in occasione del centenario della Fiat, dissè: "Siamo sempre stati governativi, anche durante il fascismo. Mio nonno e Mussolini non si intendevano perchè Mussolini lo vedeva come uno che dietro aveva centomila operai neri di fuori e rossi di dentro". Come dire che, in fondo, gli operai sono di sinistra. Per lui c’erano tanti comunismi, quello mondiale, quello europeo e quello tropicale. Cioè quello cubano. Questo per dire del suo spirito. E poi l’amore per Torino e l’auto».

Qual è il futuro della Fiat?


«Innanzi tutto è la fine del capitalismo familiare, che ha segnato la storia del Paese con più luci che con le ombre. Il futuro però è da costruire e spero che non muoia con lui l’amore per l’auto anche se il mio timore è che termini proprio con lui una cosa che va aldilà della vita degli uomini».

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LUANA - e la scala mobile ? che grande truffa anche sindacale...

DA - IL MESSAGGERO

Nei due anni alla guida della Confindustria, l’Avvocato puntò soprattutto a riaprire il dialogo con i sindacati dopo una durissima fase di scontri
Quell’accordo sulla scala mobile pagato caro
L’intesa con Lama sul punto unico di contingenza riportò la pace in fabbrica ma alimentò l’inflazione

di CLAUDIO ALO’

ROMA - Non ne aveva nessuna voglia eppure accettò l’incarico. «Per spirito di servizio», come lasciò capire, in uno dei momenti più difficili per l’industria e per l’intera economia italiana. Riuscì a riaprire un dialogo e un confronto costruttivo con i sindacati, dopo una durissima fase di scontri e di conflittualità permanente, proponendo quello che chiamò «l’Alleanza dei produttori». Ma per raggiungere l’obiettivo firmò un accordo, quello sul punto unico di contingenza, che in poco tempo (esattamente come temeva Ugo La Malfa) si rivelò un clamoroso errore: un detonatore per l’inflazione e un contributo determinante per l’appiattimento dei salari, per lo scasso dei conti aziendali e per una ulteriore perdita di competitività del sistema industriale italiano.
Quando, nel ’74, l’Avvocato - il più prestigioso, il più potente e il più rispettato degli imprenditori italiani - prende il timone della Confindustria, l’Italia attraversa uno dei suoi periodi più oscuri. L’autunno caldo, gli scioperi e l’assenteismo hanno già reso le grandi fabbriche, Fiat in testa, quasi ingestibili, l’inflazione è partita al galoppo (dal 5% del ’72, complice anche la prima crisi petrolifera, è quasi arrivata al 20%), la politica latita, i governi sono più instabili del solito e il terrorismo ha già cominciato a insanguinare il Paese. Gli industriali avvertono l’assoluta esigenza di un leader indiscusso e di massima rappresentatività. Credibile agli occhi dei sindacati, allora al massimo del potere, e capace anche di svolgere un ruolo politico. L’unica risposta possibile sembra la diretta «discesa in campo» dell’Avvocato.
E Gianni Agnelli, sia pure riluttante, non si tira indietro. Accetta la nomina a presidente della Confindustria con due obiettivi precisi. Il primo è quello di imprimere una svolta nei rapporti fra politica e mondo dell’impresa. «Il tempo delle deleghe - dice lui stesso - è finito». Il secondo è quello di riaprire il dialogo con i sindacati e le sinistre più oltranziste, recuperando alle imprese e al Paese una stagione di pacificazione. I due obiettivi sono evidentemente strettamente intrecciati e Agnelli, contando anche sulla statura dei leader sindacali di allora, Carniti, Benvenuto e soprattutto Lama, conta di centrarli. Grazie anche ad una inedita strategia dell’attenzione verso lo stesso Pci che sta raggiungendo i massimi livelli di consenso fra gli elettori.
Con il garbo, la lealtà, l’apertura che ancora ieri i vecchi e i nuovi esponenti dei sindacati gli hanno riconosciuto l’Avvocato si mette al lavoro misurandosi in un ruolo nuovo, più esposto, per molti versi più difficile di quello pure complesso di guidare il primo gruppo industriale del Paese. E alle Confederazioni prima propone una «Alleanza dei produttori», che suona come un esplicito riconoscimento del loro ruolo fondamentale per portare l’Italia fuori le secche della crisi. Poi, interlocutore privilegiato il prestigioso segretario della Cgil, apre le porte ad una delle pretese sindacali sino ad allora più osteggiate dagli industriali: il punto unico di contingenza come difesa generalizzata contro l’iperinflazione. Scala mobile eguale per tutti, insomma, invece che di entità diversa secondo le categorie e i livelli retributivi. «Lama ed io, dirà in seguito lo stesso Avvocato, vedemmo nel meccanismo dell’indicizzazione salariale, soprattutto uno strumento per disinnescare la conflitturalità permanente che stava toccando le punte più elevate». Probabilmente sia lui che Lama si rendono ben conto dei rischi di amplificazione inflazionistica e di appiattimento dei salari che la modifica comporta. Ma di fronte al recupero della pace sociale lo considerano il male minore. Un male forse evitabile, almeno in parte, se l’inflazione piegasse la testa (e non sarà così).
Nel ’75 si firma lo storico accordo sul punto unico di contingenza, che per qualche tempo riporta il dialogo fra le parti sociali e una pace relativa in fabbrica. Gli obiettivi sembrano raggiunti e Agnelli, dopo solo due anni di presidenza (la più breve della storia della Confindustria) lascia Viale dell’Astronomia e torna al timone della Fiat. Ha gettato le basi «per un nuovo dialogo costruttivo fra imprese e sindacato», come ha ricordato ieri Carlo Azeglio Ciampi che della concertazione è poi diventato il portabandiera. Ma ha anche commesso un errore di politica salariale che per anni, contrariamente alle sue intenzioni, costerà carissimo all’industria e all’intero Paese.

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LUANA - finalmente qualcosa accade e speriamo bene:

DA - L'UNITA' -

La Cassazione: la Bossi-Fini è una legge solo repressiva, senza solidarietà
di Maristella Iervasi

Solo repressione, nessuna solidarietà. Ecco cos’è la Bossi-Fini, la legge sull’immigrazione della destra. Lo dice la Cassazione che, respingendo il ricorso di un albanese condannato per sfruttamento della prostituzione, critica duramente il legislatore del 2002 ed esalta la normativa del centrosinistra, la Turco-Napolitano.

Difesa e sicurezza dell’ordine pubblico e null’altro - con una unilaterale lettura della normativa europea - sono il tema centrale del testo che porta il nome del vicepremier Fini e del ministro Bossi. In conclusione, sentenziano i giudici: «un capovolgimento della visione solidaristica» del testo unico del ‘98, sottolineano da piazza Cavour. E aggiungono: tutto ciò veniva già attuato dalla legge del 1998: «con strumenti sanzionatori di vario tipo, senza perdere di vista il legame esistente tra immigrazione, povertà o indigenza; il cosidetto lavoro nero ed i principi espressi nella nostra Costituzuione». Un giudizio severo accompagnato da un raffronto inedito, quello espresso dai magistrati della terza sezione penale. E tanto è bastato per riaccendere lo scontro politico. "Brindano" il centrosinistra e le associazioni di volontariato da sempre al fianco degli immigrati: «parole sante» quelle della Cassazione. S’infuria la destra, con la Lega in testa. Che replica così: «Alla solidarietà ci penseremo dopo. L’obiettivo di voler stroncare l’invasione dei clandestini in Italia è più che legittimo - ha detto Francesco Moro, capogruppo al Senato -, per porre rimedio allo scempio della Turco-Napolitano. Non abbiamo la banchetta magica per fare tutto insieme e subito». Anche An, con il sottosegretario Alfredo Mantovano e Giampaolo Landi di Chiavenna, contesta la sentenza.

Secondo l’Alta Corte, la Bossi-Fini ha accentuato il carattere di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica perseguendo con pene aspre l’agevolazione clandestina. Il legislatore del 2002, rispetto a quello passato, ha «inasprito le pene, continuando a perseguire il fenomeno dell’agevolazione e della migrazione clandestina, rendendo penalmente rilevanti simili attività parassitarie e lucrative», precisano i giudici.

Nella legge precedente, invece, lo straniero era considerato un soggetto titolare di diritti e doveri. Anch’essa puniva l’ingresso clandestino (art.12 primo comma del decreto legislativo 286 del ‘98) ma - sottolineano i magistrati - «esistevano anche una serie di disposizioni tese ad agevolare l’integrazione nel contesto sociale in cui vive, ad assicurargli condizioni di vita civile ed un’adeguata assistenza non solo sanitaria, regolandone i flussi e la permanenza».

Alla base di queste considerazioni della Cassazione, il ricorso di un albanese accusato di aver favorito l’ingresso clandestino di una giovane connazionale, al fine di sfruttarne la prostituzione. L’uomo sosteneva che le disposizioni che puniscono chi agevola l’ingresso senza documenti di extracomunitari, sono rivolte esclusivamente nei confronti degli scafisti, sia nella legge Turco-Napolitano che nella Bossi-Fini. Ma la tesi dell’albanese è stata respinta dai giudici di piazza Cavour: entrambe le normative puniscono non soltanto gli «organizzatori di tratta» ma anche gli stessi clandestini quando compiono «attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri violando la legge».

Tacciono Bossi e Fini, i "padri" della legge contestata. E parlano per loro i «fedelissimi»: «È un giudizio più politico che tecnico», sostiene Mario Landolfi, portavoce di An. «Sono parole sante», ribatte Livia Turco dei Ds: «la Cassazione esplicita una verità che la politica ha negato sulle differenze tra i due testi di legge». Mentre per il leghista Alessandro Cè, capogruppo a Montecitorio, questa sentenza altro non è che «una strana e inaccettabile invasione di campo. Una lettura solo politica e non di legittimità». Di tutt’altro parere Rosy Bindi, responsabile delle politiche sociali della Margherita: «Una sentenza assolutamente condivisibile. Schengen è un trattato nato per garantire la sicurezza in Europa. Si fonda non sull’esclusione ma su integrazione e solidarietà. Non c’è dubbio che la legge Turco-Napolitano - spiega Bindi - avesse questi caratteri e guardasse in prospettiva al futuro. Come l’Ulivo ha denunciato fin dall’inizio, invece, alla Bossi-Fini interessa soo la repressione del fenomeno a breve periodo».

Anche la Caritas e don Vitaliano Della Sala, da sempre al fianco degli immigrati, sono pienamente d’accordo con la Cassazione: «lo avevamo detto subito - spiega don Giancarlo Perone, responsabile immigrazione della Caritas italiana -. La Bossi-Fini tratta l’immigrazione come un fenomeno da cui difendersi, non aiuta la solidarietà e l’integrazione della persona immigrata». Mentre il sacerdote no-global precisa: «Non solo non è solidaristica, è anche razzista e repressiva. Ecco perchè noi del movimento riteniamo che la via della disobbedienza è quella giusta». Lapidario invece il leader del Pri, Giorgio La Malfa: «La Cassazione applichi le norme e non esprima nostalgie per leggi che non ci sono più».

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LUANA - e' incredibile come la guerra possa essere sempre la soluzione del capitalismo, e quando la applica lo fa senza pensare alle vite umane che eliminera', giustificando il tutto che e' per il bene di altri, ma quasi sempre la verita' la si puo' trovare in interessi personali.

DA - L'UNITA

Powell: con gli Usa una dozzina di alleati per la guerra-lampo
di Bruno Marolo

Baghdad come Hiroshima. Il piano di guerra americano prevede un diluvio di bombe nei primi due giorni: 800 missili, il doppio di quelli lanciati sull'Iraq nel 1991, con una potenza superiore a quella delle due atomiche che costrinsero il Giappone alla resa. Il nome in codice dell'operazione è «Shock and Awe», orrore e sgomento. «Non ci sarà in tutta Baghdad un posto sicuro», ha assicurato un generale del Pentagono al corrispondente militare della Cbs. Il piano non esclude l'uso di missili nucleari tattici per eliminare le armi di sterminio in arsenali sotterranei.

I generali preparano la guerra, e il presidente Bush prepara le parole per annunciarla. Da venerdì sta provando allo specchio il discorso «sullo stato dell'Unione» che leggerà martedì alle Camere in seduta congiunta. Sabato, alla radio, ha dato qualche anticipazione. «Il nostro paese - ha detto - corre gravi pericoli e li affronteremo con coraggio e determinazione. La guerra contro il terrore è la priorità assoluta. Faremo il necessario per proteggere il popolo americano dai terroristi e dai regimi banditeschi. Il mondo dipende dalla forza e dalla decisione degli Stati Uniti e noi assumeremo le nostre responsabilità per la pace».

La parola pace, in questo caso, significa guerra. «Il presidente - ha indicato Dan Bartlett, direttore dell'ufficio di informazioni della Casa Bianca - martedì parlerà alla nazione della minaccia che il regime iracheno rappresenta. Stiamo mobilitando le truppe ed egli pensa alle mogli e ai bambini dei soldati. Vuole spiegare al pubblico perché queste misure sono necessarie». Non vi sarà, ha sottolineato Bartlett, una dichiarazione di guerra vera e propria. Bush farà conoscere la sua decisione dopo l'incontro con il premier britannico Tony Blair, il 31 gennaio a Camp David. Ieri Blair gli ha telefonato e secondo un portavoce britannico ha convenuto con lui che se l'Iraq non collaborerà con l'Onu dovrà essere disarmato con la forza. La mobilitazione procede più lentamente del previsto, ma le forze saranno in campo a marzo. Bush è disposto a lasciare ancora due mesi agli ispettori, ma non di più. «Non saremo soli - ha ribadito il segretario di stato Colin Powell, in viaggio per il vertice di Davos - potrei citare a memoria almeno una dozzina di paesi che si schiereranno con noi».

Sarà una guerra come non si è mai vista, promettono i collaboratori del ministro della difesa Donald Rumsfeld. Il ministro ha stracciato i piani preparati dai militari. Ha incalzato i generali riluttanti fino a costringerli a rinunciare alle regole tradizionali della guerra e ad elaborare una strategia innovativa, sui computer della National Defense University. Non tutti i militari che dovranno applicarla sono convinti. «Il piano - si è sfogato uno di loro - è un mucchio di sciocchezze, concepito da gente che non ha mai visto la guerra e vorrebbe vincerla come un videogioco». In ogni modo il ministro ha ottenuto quello che voleva: sulla carta, l'operazione si annuncia rapida e indolore per gli americani.

«Sulla faccia della terra - ha spiegato Harlan Ullman, uno degli autori del piano - non si sarà mai visto nulla di simile. Sarà questione di minuti, non di giorni o settimane. L'effetto dell'attacco sarà simile a quello della bomba di Hiroshima. Immaginatevi di essere un generale seduto al posto di comando a Baghdad. Nel giro di qualche minuto trenta vostre divisioni sono annientate. La capitale è distrutta, senza acqua, senza energia elettrica. Ecco fatto: gli iracheni saranno disperati, privi della volontà di combattere». Orrore e sgomento sono gli ingredienti della vittoria simulata sul computer. Ma gli strateghi che la annunciano sono gli stessi che lanciarono l'operazione Anaconda in Afghanistan. Credevano di avere a che fare con una banda di straccioni sfiniti e sfiduciati, e si trovarono alle prese con uomini decisi a combattere fino alla morte. Se l'Iraq non si arrendesse subito, occorrerebbero battaglie sanguinose per arrivare al bunker di Saddam. William Arkin, uno specialista americano di strategia, sostiene sul Sunday Times di Londra che la peggiore delle ipotesi prese in considerazione prevede l'uso dell'arma nucleare. Sulla base di documenti segreti ai quali ha avuto accesso e di interviste con personale militare, Arkin afferma: «L'amministrazione Bush crede che in certi casi un missile atomico sia l'unico modo di distruggere obiettivi sotterranei, dove possono essere custodite armi non convenzionali capaci di uccidere migliaia di persone».

Per la prima volta verrebbero sperimentate bombe nucleari «chirurgiche», che secondo gli specialisti americani avrebbero un impatto limitato sulla popolazione civile. Naturalmente, il punto di vista di chi lancia bombe non è mai uguale a quello di chi viene colpito.

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LUANA - sono strane queste affermazioni di FAZIO, contrarie a quanto dice berlusconi sul conflitto e le sue alleanza con LA NATO.... per disturbare l'europa... on sopporta di essere stato eliminato dall'attuale tremonti ?... oppure dietro c'e' qualcosa di serio ?

Fazio: «Una guerra ora metterebbe a rischio l'economia»
di red

«La guerra non avrebbe nessun effetto volano sull’economia, anzi ne bloccherebbe i già timidi segnali di risveglio». Per Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, l’attacco all’Iraq, sponsorizzato dall’America come unica alternativa possibile in questa crisi internazionale, metterebbe a rischio l’economia.

Fazio da Agrigento, dove sabato ha incontrato la comunità finanziaria in occasione del IX congresso degli operatori di mercato, ha sottolineato che «l’Europa, l’Italia non hanno bisogno di tensioni e conflitti». Anzi tutto il contrario: «Un rientro dello stato di allerta può dare nuovamente slancio all’attività produttiva a livello globale entro la prima metà dell’anno in corso».

Un conflitto armato, infatti, «ha conseguenza difficilmente valutabili nella loro portata, influendo sui prezzi delle materie prime e dell' energia infrangendo la normalità dei rapporti finanziari e commerciali a livello globale sui quali si è basato lo sviluppo dell' economia mondiale nell'ultimo decennio, aumentando le possibilità di nuovi attacchi terroristici».

L'attenuarsi di quel rischio, al contrario secondo il governatore della Banca d’Italia, «libererebbe le forze latenti, in grado di promuovere ulteriori sviluppi degli scambi e l' accrescimento del prodotto lordo mondiale».

Tanti i temi toccati da Fazio nel suo incontro sabato mattina con la comunità finanziaria. Il rapporto tra spesa pubblica e il prodotto interno lordo, «dopo anni di stasi torna ad innalzarsi».

Solo l’abbassamento del rapporto tra spesa e prodotto interno lordo permetterà nel medio-lungo termine di procedere nella riduzione progressiva della fiscalità.

Parlando di inflazione, Fazio sottolinea come ci sia una netta differenza fra quella percepita dal consumatore e quella rilevata dall’Istat: «L’introduzione dell’Euro ha inciso sull’inflazione per poco più di mezzo punto percentuale e per alcuni generi alimentari anche per il 10%». Poi ha aggiunto: «L’inflazione percepita dai consumatori è nettamente superiore a quella rilevata dall’Istat con metodi rigorosi ma tradizionali».