«Abu Mazen non può governare contro Arafat»

da - l'unita'


«Israele e Stati Uniti più abbracciano Abu Mazen e più lo indeboliscono e fanno crescere invece il sostegno popolare ad Arafat. In passato non ho mai nascosto le mie critiche ad Arafat per la conduzione fallimentare dei negoziati con Israele e per una concezione accentratrice e assolutista della gestione del potere. Non rinnego quei giudizi ma oggi dico che Abu Mazen commetterebbe un errore gravissimo se pensasse di poter governare senza o contro Arafat». A parlare è Hanan Ashrawi, parlamentare indipendente, già portavoce della Lega Araba e ministra dell’Anp, da sempre coscienza critica della leadership palestinese. Nei giorni scorsi, Hanan Ashrawi è stata tra i promotori di un appello ad Arafat e Abu Mazen, perché «ritrovassero le ragioni del dialogo», sottoscritto da oltre 200 personalità politiche e intellettuali palestinesi. «Resto convinta - sottolinea Ashrawi - della necessità, rimarcata dallo stesso Abu Mazen, di smilitarizzare l’Intifada e di contrastare la pratica terrorista, ma non c’è dubbio che con le “eliminazioni mirate” e le punizioni collettive, atti illegali che confliggono apertamente con la Convenzione di Ginevra, Israele abbia rafforzato quanti in campo palestinese sostengono la lotta armata». E sulla resa dei conti tra Abu Mazen e Arafat, Hanan Ashrawi è perentoria: «Intendo battermi - dice - per evitare una lacerazione che avrebbe ricadute devastanti per tutti i palestinesi».


C’è chi sostiene che la prima parte della riunione del Consiglio legislativo si sia conclusa con un cedimento di Abu Mazen ad Arafat.


«Conosco da molto tempo Mahmoud Abbas (Abu Mazen, ndr.) e so che è un politico navigato, perfettamente consapevole che la sua legittimazione non può prescindere dal consenso della società palestinese. I palestinesi sono un popolo orgoglioso, fortemente ancorato alla propria identità nazionale e alla sua autonomia politica. Ed è per questo che non accetteremo mai che i nostri dirigenti vengano decisi a Washington e Tel Aviv».


È ciò che è avvenuto con Abu Mazen?


«A torto o a ragione questa è la percezione che si è diffusa nei Territori, e a rafforzarla c’è la constatazione che mentre Abu Mazen veniva ricevuto da Sharon e Bush, Arafat, eletto liberamente dai palestinesi, continuava ad essere confinato a forza a Ramallah. Con la sua logica militarista, Sharon ha trasformato Arafat agli occhi dei palestinesi, da presidente contestato ad un simbolo intoccabile. Credo che Abu Mazen abbia compreso che quello di Sharon e Bush possa rivelarsi per lui e la sua politica un abbraccio mortale».


Da qui le accuse rivolte dal premier a Israele per aver fatto fallire la tregua?


«Non leggerei queste accuse in chiave interna. Più semplicemente, Abu Mazen ha dovuto prendere atto del fatto che Israele, o quanto meno l’attuale governo, non ha abbandonato quella cultura militarista e quella pratica colonizzatrice che ha finora impedito il raggiungimento di una pace giusta, tra pari».


Una pace che i gruppi terroristi palestinesi contrastano a colpi di attentati che hanno provocato la morte di centinaia di civili israeliani.


«La mia condanna della pratica terrorista è totale, e abbraccia ragioni etiche e politiche. Smilitarizzare l’Intifada non è un cedimento a Israele, al contrario è il presupposto per rafforzare la nostra resistenza al regime di occupazione, con strumenti di lotta che ridiano all’Intifada i caratteri di una rivolta popolare non violenta, riuscendo così a ricostruire forti legami con quella parte d’Israele che si oppone al militarismo della destra. Esiste, però, anche un terrorismo in divisa, quello praticato a più ripresa da Israele, che non è meno nemico della pace di quanto lo sia il terrorismo dei kamikaze. La pace passa per una sconfitta dei terrorismi, di tutti i terrorismi, e per la rimozione della causa che è all’origine del conflitto israelo-palestinese: l’oppressione esercitata da uno Stato su un popolo».


Israele, avverte il ministro della Difesa Shaul Mofaz, intende aumentare la pressione militare nei Territori.


«Ma questi tre anni di pressione asfissiante hanno moltiplicato lutti e sofferenze per ambedue i popoli. Occorrerebbe invece fermare le uccisioni di civili, gli arresti di massa, le punizioni collettive. Solo in seguito, Usa e Israele potranno pretendere, a ragione, lo smantellamento delle infrastrutture terroristiche nei Territori».


In passato lei si è spesso scontrata con Yasser Arafat. Oggi sembra sostenerlo. Perché?


«Non rinnego quelle critiche ma esse non mi portano a cancellare un dato del presente: gli Stati Uniti hanno commesso un tragico errore nel voler estromettere Arafat dal processo di pace e questo perché Arafat resta l’unico interlocutore in grado di rilanciare il dialogo nell’ambito della road map. E senza Arafat, Abu Mazen ha le mani legate».

Meno letteratura più pace

David Grossman, uno dei più amati scrittori israeliani, è in Italia (di passaggio a Milano per raggiungere poi Mantova, dove ieri sera ha incontrato il pubblico del Festivaletteratura) con il suo nuovo libro, Col corpo capisco (Mondadori, pagine 300, euro 17), due racconti lunghi, due viaggi alla ricerca di un sentimento: la gelosia.


Da dove arriva, Grossman?


«Da Gerusalemme».


E dove andrà?


«In Islanda, per un congresso».


Com’era a Gerusalemme?


«Faceva molto caldo».


Bollente in tutti i sensi, immagino.


«Sì, ma anche noi abbiamo diritto al caldo meteorologico».


Scusi, lei è qui con un nuovo libro, che naturalmente noi leggiamo in italiano, un bell’italiano, merito della traduttrice, Alessandra Shomromi. Seducente, avvolgente, inquietante, quanto il sentimento che descrive... Ignoriamo però la sua lingua. Leggo una frase che lei ha usato a epigrafe per il romanzo, "Che tu sia per me il coltello": “Quando la parola si farà corpo/ e il corpo aprirà la bocca/ e pronuncerò la parola che l’ha creato/ abbraccerò questo corpo/ e lo adagerò al mio fianco”. È di Hezi Leskli. Mi sembra una dichiarazione di principio...


«Mi commuove la domanda. La mia scrittura è la traduzione verbale di sensazioni fisiche. Cerco di dare le parole al corpo, che solo è muto, cerco di dare voce alle nuance del corpo, alle sue vibrazioni. Forse è la pratica dello yoga che mi insegna qualcosa, a leggere i movimenti, a conoscerne il senso, i sensi. Poi quel senso, quei sensi, devo riuscire a comunicarli. La protagonista del secondo racconto è un insegnante di yoga che aiuta un ragazzo che quasi rifiuta di parlare e il corpo del ragazzo è per lui e per la donna la via di un linguaggio comune...».


Nili e Kobi. Alcuni critici sostengono che lei “ha rinnovato” la lingua.


«Sarebbe difficile un esempio perchè la lingua ebraica non si presta alla traduzione. Uso le metafore, uso le immagini. A volte inseguo dei gesti e mi ritrovo in parti del cervello oscure e mi prende paura. Altre volte mi sento aggredito dalla parole degli altri, mi difendo, mi devo chiudere, cerco il mio modo di respirare».


È una lingua di contaminazioni?


«L’ebraico è una lingua flessibile, molto vitale, ricca, costruita per strati che conserva e per aggiunte. C’è la lingua della Bibbia, quella del Talmud, quella degli immigrati di un tempo e quella degli immigrati d’oggi, la cui prima lingua non è l’ebraico. L’ebraico moderno è di uno slang vivacissimo, che riesce a tenere assieme tutto, la memoria del passato e le condizioni del presente. Questo è bello, questa sovrapposizione in ogni singola frase...».


La fortuna del multiculturalismo...


«Fortuna di cui non si sa approfittare, perchè i gruppi etnici continuano a coltivare il reciproco sospetto, l’antagonismo, gli etiopi contro i russi, gli aschenazi contro i safarditi. Potrebbe essere un paradiso multiculturale, è un inferno d’ignoranza».


È vero, come hanno scritto alcuni, che con questo libro è a una svolta?


«Ogni libro è una rivelazione. La novità per me sta nel secondo racconto perchè scelgo il punto di vista di due donne, la figlia che legge alla madre morente il racconto scritto proprio a proposito di un episodio della vita della madre..».


Sono assenti le vicende collettive, presenti o passate.


«Mi sono sentito avvelenato da troppa storia, la storia che mi salta ogni giorno sulle spalle».


Quanto tempo ha speso per scrivere queste trecento pagine?


«Due anni, ma potrei dire molto di più, dieci undici anni. Consideriamo il primo racconto, "Follia", avevo in mente Shaul, il protagonista, avevo in mente la gelosia, ho scritto e riscritto, poi all’improvviso ho scoperto Esti, la cognata che ascolta, il testimone che non giudica, la persona giusta, perchè chiunque altro avrebbe lasciato Shaul alla sua “follia”, al suo parlare del tradimento della moglie, al suo immaginare luoghi, incontri. Esti con la sua voglia di capire permette a Shaul di spiegare la sua sofferenza e lascia andare alla sua fine il racconto».


Come scrive? Al computer?


«Prima a mano, annoto. Ho bisogno del contatto fisico con le parole. Quando comincio non ho idea della conclusione: la conoscessi, mi annoierei. Scrivo e riscrivo: le versioni sono tante. Ce ne sono ventotto di "Che tu sia il mio coltello". Comincio camminando. Mi piace camminare sulle colline di Gerusalemme. Cammino, ogni tanto mi fermo e scrivo una frase. Adesso sarebbe pericoloso, ci tolgono anche questa libertà, ma ho due o tre posti che io, soltanto io, considero sicuri e lì torno. Capita che un’idea mi venga di notte, afferro una penna, ce ne sono tante in giro, mi segno qualcosa sul palmo della mano. La mattina mi odio perchè non capisco quei segni».


La strada la ispira?


«"Che tu sia il mio coltello" è nato al Covent Garden. Assistevo alla performance di un clown che davanti a una gigliottina invitava uno spettatore a prestarsi da cavia. Uno spettatore offrì la sua testa alla lama lucente. Il clown dispose un cesto per raccoglierla. Lo mise male, troppo spostato a destra. Il signore allungò un mano e lo sistemò al centro, al posto giusto...».


Bisogno d’ordine...


«Sì, bisogno d’ordine. Se hai tempo ti racconto un’altra vicenda... Davanti a casa, a fine mattina, vidi un uomo con un cane al guinzaglio. Mi chiese se era mio. Dissi di no. Lo vidi chiedere ancora. Poi mi spiegò che era dalla prima mattina che girava alla ricerca. Mi spiegò anche che era un dipendente comunale e che quando avesse trovato il proprietario del cane gli avrebbe fatto pagare il compenso per le ore di lavoro... Sono rimasto in macchina fermo un’ora, ma così è nato il romanzo del ragazzo che trova un cane e di strada in strada insegue la ragazza che l’ha smarrito e mentre le risolve un grande problema si innamora: Qualcuno con cui correre


Perchè adesso proprio la gelosia?


«La gelosia attrae, anche se è una malattia orrenda. È difficile liberarsene, anche se ti fa sembrare un po’ pazzo agli occhi degli altri. Ho cercato di capire la gelosia, perchè si cade in situazioni così assurde, magari senza ragione. Anche la gelosia di Shaul appare a volte un’invenzione: è il modo di usare i sentimenti per combattere contro la moglie».


E parla, parla...


«Cerca la liberazione attraverso la letteratura. Shaul esce dal suo tormento, quando trova qualcuno che l’ascolta».


Letteratura appunto: Israele ha una grande letteratura...


«Sarei pronto a un patto con il diavolo: meno letteratura, più pace».


La road map è fallita?


«Gli americani semplificano. Israeliani e palestinesi sanno benissimo quale è la strada della pace, ma non sono capaci di percorrerla. Adesso ci sarebbe bisogno di una grande forza internazionale, che facesse da filtro, da mediazione. Abbiamo bisogno di qualcuno che viene da fuori, di un amico che ti aiuta».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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