Abbandonare, finanziare senza vincoli o irizzare l'auto italiana?
Il giorno più nero della Fiat
Il governo rinvia ogni decisione sulla crisi del Lingotto, proprio nel giorno più difficile: crollano le azioni in borsa, Moody's minaccia di gettare i titoli dell'avvocato Agnelli nella spazzatura. Oggi l'incontro a Roma tra la direzione aziendale e i sindacati
LORIS CAMPETTI


Ogni giorno ha la sua pena, ma ci sono giorni in cui le pene si assommano vorticosamente e la precipitazione verso il fondo fa venire il sospetto che il fondo non ci sia. Per dirla in un altro modo, il meglio è alle spalle. Il titolo Fiat ieri ha chiuso al punto più basso da 17 anni, 8,79 euro ad azione, dopo aver lasciato sul terreno un altro 6,69%. Come se non bastasse Moody's, una delle principali aziende di rating, ha mandato a dire al Lingotto, ai suoi padroni e ai suoi manager, ai suoi operai e agli azionisti, che se non venderà immediatamente l'intero comparto automobilistico, il suo titolo finirà nel libro nero dei titoli spazzatura. Così si è chiusa una giornata terribile, iniziata con il solito rincorrersi dei numeri della crisi Fiat in attesa che la premiata Fabbrica Italiana Automobili Torino faccia sapere nel dettaglio ai sindacati quanti operai le «avanzano» e quanti stabilimenti vorrebbe chiudere. In realtà, all'inizio della mattinata si sperava anche che sua emittenza Silvio Berlusconi si interessasse in qualche modo al fatto che la più grande multinazionale italiana sta andando a ramengo, e con essa uno degli ultimi pezzi della nostra industria, un'immagine dell'Italia nel mondo. Per non parlare di decine di migliaia di lavoratori a cui rischia di saltare in aria il futuro. Il previsto incontro del governo non c'è stato, il massimo grado incaricato di ascoltare i vertici Fiat è stato il ministro delle attività produttive, Antonio Marzano. Il governo ne parlerà, prima o poi, della crisi Fiat. Certo dopo l'incontro previsto oggi a Roma tra la direzione aziendale e i segretari di Fim, Fiom e Uilm. Berlusconi e qualche suo ministro sono troppo impegnati in ripicche e vendette nei confronti della Fiat. Nella Casa delle libertà c'è chi invita la Fiat ad assumersi le proprie responsabilità (la Lega) e chi spera che si eviti la perdita di posti di lavoro (Forza Italia). Come se il problema di difendere il lavoro e il futuro industriale dell'Italia riguardasse soltanto gli attuali padroni della Fiat.

Il massimo che in casa Berlusconi si riesce a pensare è il prolungamento dei termini di scadenza degli ecoincentivi. Incredibile: proprio lo strumento che è servito ad aumentare le vendite di tutti i produttori mondiali di automobili tranne che delle macchine targate Fiat. Perché la Fiat è presente sul mercato con prodotti non competitivi, comunque non più apprezzati dai consumatori. L'immagine dell'automobile italiana si è logorata profondamente, speriamo non irrimediabilmente. Lo spirito patriottico non funziona, chi deve comprarsi una vettura nuova sceglie in base a criteri che, ragionevolmente, poco hanno a che fare con il tricolore. Anche perché quel tricolore, con molte probabilità, verrà ammainato e sugli stabilimenti Fiat non chiusi preventivamente sarà issata la bandiera a stelle e strisce della Gm.

Ora che i buoi sono scappati dalla stalla fioccano le preoccupazioni, per esempio della Cisl e della Uil che tra i tanti contratti separati firmati in questi mesi hanno sul groppone anche quelli di Fim e Uilm con la direzione aziendale, con cui si è dato il via all'espulsione di un primo esercito di lavoratori esuberanti. Sul versante politico, governo a parte, l'ipotesi lanciata da Rifondazione comunista di nazionalizzare la Fiat, respinta con sfottò dal ministro Maroni, ha aperto qualche breccia. Per esempio nel correntone Ds: Salvi e Di Siena fanno centro sulla proprietà. «Essenziale - dicono - è che l'intervento pubblico non si traduca, per l'ennesima volta, in un sostegno al patrimonio degòli attuali proprietari, senza alcuna garanzia per i lavoratori e il sistema Italia». Quindi, è «inevitabile ripensare all'assetto proprietario della Fiat, senza escludere le più diverse soluzioni, compresa, come in altri paesi, una presenza pubblica (si pensi alla Renault e alla Volkswagen». La Lega invece, che è notoriamente più creativa, federativa e antiitaliana, propone per bocca di Borghezio, la «regionalizzazione» della Fiat. Presumibilmente la regione dovrebbe essere il Piemonte, non certo la Sicilia.

«Ma Torino si salverà»
Il sindaco Chiamparino chiede discontinuità a Fiat e sindacati
LO. C.
«Nulla può indurre all'ottimismo, ma non sono disperato. Torino ha le risorse per superare questo momento difficile. Molto dipenderà dall'atteggiamento Fiat: se al Lingotto hanno in testa di far pagare pagare sic et simpliciter i costi ai lavoratori; se non opereranno una discontinuità nei rapporti con i sindacati, allora la gestione sociale della crisi sarà complicata». Parla il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, mentre lo spettro dell'80 si aggira nel cielo di Torino.

Sindaco, qual è l'aspetto più grave della crisi Fiat?

L'avvitamento, la spirale che allontana il marchio Fiat dai consumatori. C'è una crisi di fiducia grave, ma penso che la fiducia nel futuro vada ricostruita innanzitutto all'interno dell'azienda, tra i quadri e nel management diffuso. Il cambiamento radicale nel gruppo dirigente ha spiazzato un'azienda dove la burocrazia conta ancora molto.

C'è chi pensa: poteva andar peggio per Torino. Le prime vittime saranno Termini e Arese, magari Mirafiori si salverà...

Se non si investe su prodotti competitivi, senza un vero piano industriale per il rilancio, nessuno stabilimento sarà garantito, tanto meno Mirafiori. Si dice che Torino dovrebbe ripartire con i modelli che usciranno nei prossimi anni. E' una scommessa, una speranza. Non chiedere a me se poi le cose andranno per il verso giusto... Senza una base industriale forte, neanche una seria finanziarizzazione è possibile, lo stanno comprendendo anche i rami della proprietà propensi a liberarsi della produzione per concentrarsi nella finanza..

Ma il futuro non si vede senza discontinuità nella gestione e nella proprietà, nelle relazioni, nella progettazione di propolsori.

I manager Fiat mi dicono che i modelli in uscita entro il 2004 dovrebbero colmare il gap esistente. Poi, sono convinto anch'io che servono nette discontinuità. Nel rapporto con i sindacati, intanto. Serve un nuovo clima concertativo.

Ma se tutti sono stati informati delle intenzioni della Fiat salvo i sindacati. Eppoi, i sindacati sono divisi, reduci da un accordo separato firmato da Fim e Uilm su un piano finto rifiutato dalla Fiom, facile profeta di sventura.

Non credere che la Fiat mi abbia detto chissà cosa. Non giova a nessuno gridare «l'avevamo detto», piuttosto andiamo a vedere il gioco del nuovo management.

Ce la farà Torino, e a che prezzo, a uscire dalla crisi? Le Olimpiadi bianche salveranno la città orfana dell'auto?

La città ha le risorse per farcela, soprattutto in campo industriale. E non sottovalutare il traino, anche psicologico, delle Olimpiadi. Ma dobbiamo salvare il polo d'eccellenza sull'auto sostenendo la nascita di un grande produttore europeo, la Gm europea, integrando Fiat e Opel. Non credo alla nazionalizzazione e rifiuto la prassi dei finanziamenti pubblici a pioggia. Penso invece a una società mista per rilanciare la ricerca sui propulsori. Il comune è disponibile a investirci.
«Licenziano per vendere»
Claudio Sabattini parla della crisi di oggi e di quella dell'80
P. A.
Sulla crisi della Fiat e sui riflessi industriali in Sicilia, abbiamo intervistato Claudio Sabattini, segretario della Fiom siciliana, un sindacalista che da segretario generale della Fiom e prima ancora da responsabile nazionale del settore auto per la Fiom ha seguito tutto il percorso della Fiat dalla crisi del 1980 a oggi.

Sabattini, come giudichi la crisi attuale e quali sono le similitudini - se ci sono - con l'80?

Quella di oggi è una crisi pesantissima in un settore molto importante che però ha smesso di innovare sul piano soprattutto del prodotto. Una innovazione che implica investimenti giganteschi di fronte a ciò che altri già stanno facendo, come per esempio il motore a idrogeno. Questa mancanza di scelte strategiche della Fiat spiega l'alto indebitamento e la perdita di quote di mercato soprattutto in Italia. E causa di tutto ciò sta solo nella Fiat in quanto tale. Rispetto poi alle similitudini con l'80 a me sembra che ci sia soprattutto una differenza sostanziale tra quella crisi e questa di oggi. Nell'80 la Fiat rilanciava se stessa e si proponeva un ammodernamento e una innovazione tagliando in modo drammatico la forza lavoro. Oggi il presupposto della ristrutturazione è invece quello di poter acquisire la possibilità di vendere Fiat auto in condizioni possibili, dato che oggi è invendibile.

Che cosa succederà ora in Sicilia? Ha un futuro lo stabilimento di Termini Imerese?

Sia per la Sicilia, ma anche più in generale c'è da dire che si tratta della solita operazione senza un filo strategico. Un'operazione funzionale solo a tagliare per diminuire il debito. Credo che d'altra parte a Termini Imerese ciò non avrà nessuna possibilità di verificarsi perché qui si sono riassunti tutti i problemi di quest'ultimo decennio. Semmai il problema vero per la Fiat di Termini Imerese è quello del rilancio strutturale di prodotto e di processo. E' una questione generale che vale per la Sicilia, ma vale per tutto il gruppo e per tutte le realtà di Fiat auto. Non ha alcun futuro il tentativo di affrontare e risolvere la crisi attraverso un durissimo processo di ristrutturazione.

In questi giorni sono state avanzate proposte precise a proposito del ruolo che lo stato italiano dovrebbe avere in questa vicenda. Ci sono state anche proposte di «nazionalizzazione», come quella avanzata per esempio dal segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti. Che cosa ne pensi?

Credo sia prima di tutto interessante dare uno sguardo all'Europa. Ci si accorgerà, valutando lo stato di salute delle industrie automobilistiche degli altri paesi, che gli esempi più positivi, quelli che più hanno saputo reagire alla crisi, sono quelli della Renault e della Volkswagen, due grandi gruppi industriali che sono a capitale misto. Intanto però dobbiamo capire se il piano Fiat serve ad azzerare il debito per facilitare la cessione a General Motors, cioè se serve solo alla famiglia Agnelli, oppure punti a rilanciare sul serio la principale industria italiana partendo dal Mezzogiorno. Questo lo capiremo già oggi a Roma all'incontro con Fiat.
Arese senza futuro
Operai in lotta per un «altro» posto di lavoro
MANUELA CARTOSIO
MILANO


Per sventare la chiusura dello stabilimento Fiat di Termini Imerese gli operai fanno i blocchi stradali, le forze politiche siciliane lanciano Sos bipartisan, definiscono «questione nazionale» la sopravvivenza della fabbrica, rilanciano la proposta della Fiom di produrre lì «l'auto all'idrogeno». Ad Arese non sta succedendo nulla di questo, a riprova che la chiusura dell'Alfa, «preparata» da tempo, è già stata metabolizzata. «Non ci faremo chiudere», garantisce lo Slai Cobas, staremo «incessantemente» nelle piazze per rivendicare il lavoro e il rilancio dell'Alfa Romeo. Venerdì scorso lo sciopero proclamato a botta calda da Cobas e Flmu aveva fermato la fabbrica. E, qualche giorno prima, a scioperare era stata la Fiom. Sulla disponibilità a lottare degli alfisti non ci piove. Il problema è «per cosa» lottare. Tutti, comprese Fim e Uilm che con l'accordo separato sulla mobilità hanno dato l'ennesima bottarella ad Arese, dicono che la fabbrica non va chiusa e richiamano la Fiat al dovere di rispettare i patti. Ma la Fiat ha usato i patti a modo suo: ha incassato i finanziamenti pubblici e ha diluito nel tempo la chiusura di Arese. Adesso la fabbrica è arrivata al capolinea e le crude cifre parlano da sole. In due anni sono state fatte 50 settimane di cassa integrazione, il taglio «strutturale» dei 700 addetti alle carrozzerie che assemblano 100 multiple al giorno è dato per certo e presto anche gli operai delle meccaniche resteranno senza lavoro. Il motore a 16 cilindri con caratteristiche ambientali «Euro 3» andrà fuori produzione. Si passerà alle caratteristiche «Euro 4» e la Fiat dirà che conviene produrli da qualche altra parte. Così i 1.150 operai di Arese saranno tutti «esuberi strutturali», cioè senza ritorno. E allora, anche se brucia ammetterlo, la lotta degli alfisti può avere realisticamente solo un obiettivo: mantenere il posto di lavoro sotto un padrone diverso che non costruisce automobili. «Chiudendo Arese la Fiat non risolve i suoi problemi», obietta il segretario della Fiom lombarda, Ermes Riva. Vero. Però la Fiat taglia e chiude non per rilanciarsi ma per rendersi «vendibile» alla General Motors, una volta fatto il lavoro sporco.

L'assessore regionale all'industria Massimo Zanello ha convocato per domani tutte le parti coinvolte nella crisi dell'Alfa e firmatarie dell'accordo di programma per la reindustrializzazione di Arese. Il vertice, sicuramente, non farà miracoli. Si spera che almeno faccia chiarezza sull'Alfa business park. E' il polo logistico che la multinazionale Aig Lincoln vuole costruire nell'area dismessa di Arese. Dovrebbe reimpiegare 545 lavoratori «esuberanti» dell'Alfa ma Aig Lincoln e sindacati non si sono mai incontrati, nonostante la Fiat abbia già venduto anche i capannoni ancora in produzione. Il sito internet dell'Alfa business park è piuttosto striminzito: quattro paginette decantano le potenzialità del polo logistico con tanto di pianta e modellini. Sulla carta geografica l'Alfa di Arese è già scomparsa e il sito non precisa che fine faranno quelli che ancora ci lavorano.

Incentivi per l'auto, ci sarà una proroga?


Il precipitare della crisi Fiat potrebbe spingere il governo a prorogare per il primo semestre del 2003 gli incentivi per l'acquisto di nuove auto. La richiesta c'è già ed è un coro, dalla Fiat al presidente della regione Piemonte Enzo Ghigo, al ministro dell'ambiente Altero Matteoli, ai costruttori stranieri, rappresentati in Italia dall'Unrae. Il governo tace. Sia perché gli attuali incentivi scadranno a dicembre, sia perché ci vuole una copertura finanziaria non prevista e anzi, con l'aria che tira dalle parti di Giulio Tremonti, non prevedibile visto che il bilancio fa acqua da tutte le parti. Il presidente dell'Unrae, Salvatore Pistola, presenterà comunque presto a palazzo Chigi uno studio che evidenzia come un'eventuale proroga degli incentivi possa aiutare le casse dello stato - oltre che Fiat e gli altri produttori.

Pistola sottolinea come gli incentivi attuali - scattati l'1 luglio - hanno fatto registrare in settembre il primo segno positivo dell'intero 2002 nelle vendite. Il mercato dell'auto è in crisi dopo un anno record ed è attestato per ora a meno 10 per cento rispetto al 2001. La Fiat è scesa sotto il 30 per cento di quota mentre le straniere sono salite al 70. «Il mercato dell'auto - spiega Pistola - può dare un contributo significativo, stimabile in un 0,3%-0,4% all'incremento del Pil nel 2003». Come? Secondo lo studio dell'Unrae, gli incentivi già stanziati procureranno in sei mesi la vendita aggiuntiva di 150.000 macchine, portando la quota prevista del 2002 a circa 2.200.000. «L'incemento che analoghe misure potranno dare nel 2003 - dice ancora Pistola - dipenderà anche dall'andamento generale dell'economia, ma è molto probabile che su base annua non sia inferiore alle 250.000 unità». Le previsioni indcano un mercato italiano per l'anno prossimo pari a 2.050.000 unità, che salirebbe a 2,3 nel caso di una proroga governativa degli aiuti. Le 250.000 auto in più, si legge ancora nei calcoli dell'associazione degli imporatori stranieri, assicurerebbero un'Iva aggiuntiva di 650 milioni di euro, con un effetto positivo per l'erario di 15 milioni di euro dopo aver scontato sia il costo dell'Ipt (imposta di trascrizione) non incassata sulla vendita di auto nuove e di quelle usate incentivate (310 milioni di euro), sia il costo dei tre anni di tassa di possesso non incassata sulle auto nuove incentivate (325 milioni di euro). Insomma, l'Unrae chiede che gli incentivi diventino strutturali. E chissà che la crisi della Fiat non dia una mano.

La protesta disperata di Termini Imerese


Sempre più disperata la protesta dei lavoratori della Fiat di Termini Imerese, tremila lavoratori, fra dipendenti ed indotto, che rischiano il posto di lavoro per i tagli strutturali decisi dalla Fiat. A singhiozzo per l'intera giornata di ieri le tute blu hanno bloccato l'autostrada Palermo - Catania, e la linea ferroviaria Palermo - Messina. Chiedono aiuto, al governo regionale affinché si attivino presso il governo nazionale per scongiurare la chiusura dello stabilimento. La Fiat di Termini Imerese cominciò la produzione nel 1970. Molti artigiani e braccianti lasciarono le loro occupazioni per il posto in fabbrica, ritenuto più «sicuro». A metà degli anni ottanta lo stabilimento attraversò il suo periodo migliore: tre turni di lavoro e quasi 3200 dipendenti. Negli anni 90 iniziò la fase discendente con i primi operai in cassa integrazione e la diminuzione della produzione. Nell'ultimo periodo 220 contratti a termine non sono stati rinnovati e 320 operai sono finiti in mobilità.

I consiglieri comunali di Termini Imerese occupano da tre giorni l'aula consiliare del municipio e non intendono «smobilitare» fino a quando non vedranno un atto concreto del governo per evitare la chiusura dello stabilimento. Questa mattina un'intera città scenderà in piazza a fianco degli operai della Fiat e dell'indotto. I sindacati, che chiedono che venga riscritto il piano industriale, hanno chiamato a raccolta tutta la cittadinanza per dare vita ad una grande manifestazione contro la chiusura dello stabilimento. Moltissime le adesioni anche dal mondo della politica, Ds in testa.

Il mondo politico di entrambi gli schieramenti è sul piede di guerra. Il sindaco di Termini, Luigi Purpi (centro destra) ha chiesto un incontro urgente al ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano. Il primo cittadino sostiene che «l'accordo tra il presidente Berlusconi, Marzano e la Fiat non può prescindere da un'intesa sui livelli occupazionali in Sicilia e nel Meridione». L'assessore regionale all'Industria, Marina Noè, ha sollecitato l'intervento di tutti i ministri siciliani. «Il governo nazionale - sostiene la Noè - deve intervenire per costringere la Fiat a trattare. Nessuno può assumersi la responsabilità di chiudere uno stabilimento che dà lavoro a tremila famiglie». Sempre più duro nei toni il diessino Giuseppe Lumia che parla di «irresponsabilità della classe dirigente del Polo senza precedenti. Il ministro Marzano non si puo' permettere di perdere tempo per parlare al presidente del Consiglio del problema Fiat e di quello della sorte dello stabilimento di Termini Imerese in particolare».

Il governo regionale, al termine di un vertice tenutosi ieri mattina, ha accolto una delle proposte avanzata dai sindacati: chiedere al governo di Roma e alla Fiat di sperimentare allo stabilimento di Termini la produzione dell'auto ad idrogeno. La regione sarebbe disponibile ad intervenire finanziariamente per sostenere i costi dell'operazione. (Teresa Campagna)

Le due crisi
VALENTINO PARLATO


Dove va la Fiat? A questa domanda viene da rispondere con un'altra domanda: dove va l'Italia? La Fiat e l'Italia hanno molti vizi e virtù in comune e, per un certo verso, anche storie parallele: ora si trovano entrambe di fronte a una crisi seria, di difficile uscita poiché tutte le «italiche genialità» sono difficili da ripetere nella comunità europea e nel mondo globalizzato. L'Italia è stata protezionista (l'autarchia non è stata un'invenzione di Benito Mussolini) e la Fiat è stata protetta e continuamente aiutata dallo stato, a cominciare dalle commesse belliche per la guerra di Libia del 1911. L'Italia è stata imbrogliona, ancor prima di Tangentopoli c'era stato lo scandalo crispino della Banda Romana, del buon Tanlongo. La Fiat anche: il suo rifondatore, il rag. Valletta, fu protagonista di uno storico imbroglio processuale che assolse Giovanni Agnelli primo dalla truffa azionaria fatta ai danni dei suoi soci. L'Italia è stata trasformista e la Fiat anche: bastano le foto del vecchio senatore Agnelli in camicia nera. E in mezzo a tanti vizi c'è stata anche una convergenza di virtù di entrambe le imprese: audacia, capacità di innovazione, l'abilità di mettere insieme le cose più contrastanti: tra la siderurgia pubblica dell'Iri e la meccanica privata della Fiat il matrimonio fu eccellente: le carrozzerie Fiat con i laminati d'acciaio dell'Italsider erano le meno costose del mondo. Entrambe le imprese (mi scuso con molti compagni per l'uso di questo termine, che però mi sembra storicamente appropriato) soffrono del degrado, forse è meglio dire decadenza, dei gruppi dirigenti. Da una parte non ci sono più Valletta, Costa, Romiti e dall'altra (un po' più in su) non ci sono neppure De Gasperi, Togliatti, Amendola che a suo tempo, in una delle ennesime crisi Fiat, si oppose a una possibile irizzazione del gruppo automobilistico. Era il tempo quando Pasquale Saraceno mi diceva con grande soddisfazione: adesso dopo i transatlantici abbiamo anche Motta e Alemagna. La Fiat fu sul punto di passare all'Iri, che sarebbe stato come l'ufficializzazione di un matrimonio morganatico. Ora le due crisi coincidono: c'è un declino dell'economia italiana e la Fiat è sul punto di portare i libri in tribunale. E chi ci va di mezzo, o meglio sotto i piedi, sono i lavoratori, che oggi, come spiega D'Alema, non hanno più la forza e la ragione di avere una rappresentanza diretta nei partiti di sinistra: solo i conservatori - ci dicono sempre dall'attuale sinistra - continuano a pensare che il lavoro sia elemento costitutivo della società e delle persone.

Due crisi coincidenti rendono difficile ogni soluzione. L'Italia non è più quella di Pasquale Saraceno e la nazionalizzazione della Fiat, come con buona volontà qualche compagno suggerisce, sarebbe per un verso la replica del vecchio adagio della polemica socialista, quello della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti. Per altro verso sarebbe impossibile, sia perché mancano i soldi sia perché non sarebbe consentito dalle regole della comunità europea. Tuttavia, proprio da vecchi comunisti, non possiamo dire «è affare di lor signori»: in mezzo, sotto, ci sono le vite di decine di migliaia di operai e delle loro famiglie. Lo stato, ancorché berlusconiano, deve intervenire: deve dare soldi e dettare condizioni, indirizzi di ricerca e di produzione. Se la maggiore industria del paese sta per crollare, non possiamo cavarcela con provvidenze caritatevoli e aiuti al padrone perché eviti l'onta del fallimento. Ma qui si torna al punto, al problema: quale politica economica vogliamo per questo paese in crisi che non sia il tirare a campare dell'attuale governo blindato nella sua maggioranza e paralitico nel suo agire, incapace anche di essere di destra: che avrebbe pur sempre una sua dignità.

La riorganizzazione del gruppo Fiat coinvolgerà complessivamente 8.100 lavoratori:

«Complessivamente - si legge nel piano - la cassa integrazione guadagni straordinaria e la mobilità interesseranno circa 8.100 lavoratori del gruppo Fiat ». La Fiat ha chiesto ufficialmente lo stato di crisi aziendale. Quattro ore di sciopero venerdì 11 ottobre, e un' altra giornata di protesta in un giorno da stabilire, sono la prima risposta di Fiom, Fim, Uilm e Fismic. Il Lingotto sta presentando alle parti sociali il piano di ristrutturazione in queste ore mentre Berlusconi ha convocato un tavolo interministeriale per analizzare la grave crisi torinese. Il gruppo Fiat presenterà la richiesta di stato di crisi per Fiat Auto e per alcuni stabilimenti di Comau e Magneti Marelli le cui attività sono strettamente condizionate dall'andamento di Fiat Auto. Oltre alla cassa integrazione, il gruppo Fiat intende far ricorso, per le altre società del gruppo, alla mobilità: il provvedimento interesserà 300 addetti della componentistica e 200 delle società dei servizi e di capogruppo, per un totale di 500 lavoratori, di cui 300 nell'area torinese. Un piano definito da Umberto Agnelli, presidente di Ifi e Ifil, triste ma necessario. La Cigs che parte da dicembre 2002 e per la durata di 1 anno, sarà così articolata: - TORINO: 1.000 lavoratori di Fiat Auto e 350 di Comau e Magneti Marelli che rappresentano meno del 5% dell'occupazione del gruppo Fiat nell'area torinese. A luglio 2003 la Cigs scatterà per altri 2.000 lavoratori (1.700 di Fiat Auto e 300 di Comau Service) per la cessazione dela Panda. Per i lavoratori dell'attività produttiva è previsto il rientro al lavoro in relazione all'avvio dei nuovi modelli ed alla crescita dei volumi. Per gli altri lavoratori verrà predisposto un piano di formazione per al ricollocazione e l'eventuale ulteriore utilizzo di strumenti di accompagnamento alla pensione. - ARESE: circa 1.000 lavoratori (25% degli addetti nel comprensorio e il 50% dell'occupazione di Fiat Auto nell'area) per i quali sono previsti la ricollocazione nell'ambito delle iniziative avviate nel comprensiorio da parte degli acquirenti dell'area e la predisposizione di un piano di formazione per nuovi impieghi e l'eventuale ulteriore utilizzo di strumenti per l'accompagnamento alla pensione. - CASSINO: 1.200 lavoratori (25% occupati) che potranno rientrare la lavoro nel 2003 in relazione alla salita dei volumi produttivi dalla Stylo station wagon. COSTI. «Si rende necessario adottare un più incisivo piano di ridimensionamento dei costi a tutti i livelli, anche con la revisione delle strutture di management». È uno dei passaggi chiave del piano presentato oggi dalla Fiat ai sindacati.La produzione dei veicoli a minimo impatto ambientale (Vamia) e delle costruzioni sperimentali, attualmente ad Arese, sarà trasferita a Torino. È quanto si legge nel piano del gruppo torinese presentato ai sindacati. PRODOTTI. Per l'innovazione dei prodotti, la Fiat Auto «ha un programma di investimenti in attivo fisso e in Ricerca e Sviluppo per 2,5 miliardi di euro in media l'anno tra il 2002 e il 2005». «Questi investimenti - si legge nel piano - sono finalizzati alla realizzazione di nuovi prodotti che andranno a coprire anche alcuni segmenti di mercato in espansione nei quali oggi l'azienda non è presente. Al termine del rinnovo della gamma l'età media dei modelli di Fiat Auto scenderà al di sotto dei quattro anni».

CRISI FIAT

Epifani: "A rischio migliaia di lavoratori"

ROMA, 9 OTTOBRE 2002 - Se la Fiat non presenterà un vero e proprio piano industriale il rischio è quello di migliaia di licenziamenti. Lo ha detto il segretario confederale della Cgil, Marigia Maulucci, responsabile per le politiche economiche della confederazione guidata da Guglielmo Epifani. «Se la proposta della Fiat - ha spiegato Maulucci, a circa due dall' incontro tra Fiat e sindacati - è quella trapelata in questi giorni, credo ci saranno migliaia di lavoratori che saranno licenziati. Purtroppo, credo che quello che ci diranno risponderà proprio a questa entità e a queste caratteristiche. Infatti - ha spiegato - gli strumenti che vengono indicati per gestire gli esuberi, in assenza di un vero piano industriale e di sviluppo, sono sostanzialmente ammortizzatori senza futuro». «Noi, dunque, - ha proseguito Maulucci - confermiamo la scelta fatta non sottoscrivendo il precedente accordo con Fiat e la necessità che ci venga presentato un vero piano industriale che salvi l' asset industriale della casa torinese e l' occupazione. I posti di lavoro non vanno assolutamente dispersi. Per noi - ha concluso - se si parla di esuberi dovranno essere esuberi che devono ritrovare una collocazione lavorativa e produttiva»

Allo studio interventi a favore dei lavoratori

Vertice di governo sulla crisi Fiat

Incontro a palazzo Chigi con i ministri economici e del welfare: al centro della discussione le possibilità di sostegno sociale

ROMA - La crisi della Fiat diventa un caso politico. È in corso dalle 19.15 un vertice di governo a palazzo Chigi. Partecipano alla riunione Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, Giulio Tremonti, Antonio Marzano, Roberto Maroni, Maurizio Gasparri e Rocco Buttiglione. Al centro della discussione le possibilità di intervento del governo sulle ripercussioni sociali dei tagli previsti dal piano di di ristrutturazione presentato oggi ai sindacati.9 ottobre 2002

Fiat, la riorganizzazione coinvolgerà 8.100 lavoratori
Umberto Agnelli: dai sindacati ci aspettiamo collaborazione
L'azienda investirà 2,5 miliardi entro il 2005: i nuovi modelli

9 ottobre 2002

ROMA. La riorganizzazione del gruppo Fiat coinvolgerà complessivamente 8.100 lavoratori. È quanto prevede il 'Piano per superare la crisi di Fiat Auto' presentato oggi a Roma ai sindacati.Chiesto lo stato di crisi per Fiat Auto e per alcuni stabilimenti di Comau e Magneti Marelli. I lavoratori di Fiat auto sono attualmente 27.050. Oltre alla cassa integrazione, il gruppo Fiat intende far ricorso, per le altre società del gruppo, alla mobilità per 500 lavoratori. Cinquemila in cigs da dicembre a 0 ore, 1500 da luglio.

I sindacati chiederanno l'intervento del governo per risolvere la crisi della Fiat. Lo ha detto il segretario generale della Uilm, Antonino Regazzi, che, nel corso della conferenza stampa seguita all'incontro con i vertici della casa torinese, ha ribadito come i sindacati «siano assolutamente contrari a discutere sulle eccedenze». «Allo stato dei fatti - ha aggiunto - non c'è alcuna garanzia per il rientro dei lavoratori dichiarati in esubero».

Maroni precisa di essere contro l'ipotesi della reintroduzione di strumenti come prepensionamenti e mobilità lunga per la crisi Fiat. E aggiunge che le decisioni del Governo vanno nella direzione di incentivare la presenza al lavoro e non l'uscita sottolineando che la crisi riguarda l'intero governo e che sarà gestita dalla Presidenza del Consiglio. Per il vicepremier Fini, la chiusura di Termini Imerese è 'inaccettabile'. 'Sarebbe una tragedia sociale, dice, che avrebbe ripercussioni drammatiche in tutto il Sud'. Il ministro delle attività produttive Marzano ritiene che si possa valutare la possibilità di prorogare gli eco-incentivi per contribuire alla soluzione della crisi.

Umberto Agnelli: «Dai sindacati ci attendiamo una risposta collaborativa perchè credo che sia nell'interesse nazionale che sia collaborativa». Il presidente di Ifi e Ifil sottolinea che la crisi 'va affrontata', in relazione alle trattative per sciogliere il nodo degli esuberi dei lavoratori. Le operazioni previste fino ad adesso - aggiunge - sono tutte in funzione di un rilancio'. Lo conferma D'Amato per il quale la Fiat sta creando i piani per provvedere al rilancio con una ristrutturazione significativa.

Il piano industriale presentato oggi dalla Fiat ai sindacati prevede sostanzialmente un rinnovo della gamma prodotti, l'incremento delle vendite sui mercati europei e una crescita della redditività delle azioni commerciali. Per quanto riguarda l'innovazione dei prodotti che significa sostanzialmente l'ingresso in nuove fasce di mercato come quella delle MPV con la Punto monovolume e delle vetture a quattro ruote motrici con un fuoristrada e un SUV oltre a dei modelli nei settori dell'alto di gamma, la Fiat Auto prevede di investire tra il 2002 e il 2005 2,5 miliardi di euro in media ogni anno.

Oltre a entrare in nuovi settori del mercato lo sforzo dell'azienda dovrebbe essere mirato ad abbassare l'età media dei modelli in gamma della Fiat Auto al di sotto dei quattro anni. Secondo l'azienda torinese inoltre il rinnovo dei prodotti passerà attraverso le piattaforme e i componenti comuni derivanti dall'alleanza con General Motors. Nel 2005, sempre secondo quanto ha affermato la Fiat nell'incontro con i sindacati, il 50% dei componenti sarà comune con il colosso di Detroit. Prevista anche una nuova generazione di motori a partire dal 2003 e in particolare un piccolo diesel common rail 1.3 che verrà assemblato sempre in comune in uno stabilimento polacco.

Nella riunione con i sindacati, inoltre, Fiat ha delineato le strategie per quanto concerne la capacità commerciale e soprattutto la possibilità di portare a buoni livelli di redditività le attività di vendita. Per questa ragione saranno investiti più di 150 milioni di euro ogni anno nel periodo dal 2002 al 2005. Proseguirà inoltre la riduzione dello stock di vetture presenti sia in fabbrica sia nella rete di vendita con l'abbattimento delle famigerate immatricolazioni a km-0 e una minore presenza nelle fasce meno redditizie delle vendite agli autonoleggi. La riduzione degli organici secondo quanto presentato oggi ai sindacati è motivata da Fiat con il perdurare scostamento tra capacità produttiva e volumi di vendita ma soprattutto, ammette l'azienda, le misure sin qui adottate inclusi i quasi 3mila esuberi del mese di luglio sono state insufficienti.

Tra le cause della non riuscita del primo piano di risanamento la Fiat individua la «pesante debolezza della domanda sul mercato europeo» che nei primi 9 mesi 2002 ha registrato una flessione di circa il 4% rispetto ai 9 mesi 2001 e in Italia dell'11% sempre rispetto ai nove mesi dell'anno scorso. C'è inoltre a parere della Fiat a incidere sulla contrazione della domanda la bassa crescita dell'economia europea e l'incertezza che grava sulla sua evoluzione e soprattutto il fatto che per il breve-medio periodo non si intravedono sostanziali di tendenza. Nel piano di tagli presentato dalla Fiat ai sindacati c'è comunque ancora una lieve possibilità di «trattativa». Il Lingotto infatti si è dichiarato «disponibile ad un confronto sulle iniziative anche in sede di ministero del Lavoro».

09.10.2002
Sabattini (Fiom-Cgil): «Ci vuole uno sciopero generale, la Fiat deve adeguarsi ai tempi»
di Antonio Iovane

«Sciopero generale dell'intera categoria dei meccanici»: dovrà essere questo lo strumento per ribadire il «no ai pannicelli caldi della cassa integrazione a zero ore per un anno». È il parere del segretario siciliano della Fiom-Cgil, Claudio Sabattini.
Ma uno sciopero generale troverebbe consensi?
«Io penso che nella situazione attuale non rimangano molte altre alternative. La questione riguarda l'insieme del gruppo e, quindi, la fine dell'auto in Italia».
Ma i vertici Fiat dicono che i conti non tornano e, quindi, tagliare è l'unica soluzione possibile
«Non è così, le soluzioni sono molto elementari: l'auto non è un prodotto maturo perché sta avendo una delle più grandi innovazioni tecnologiche dai primi del '900. Sta scomparendo il motore a scoppio, sta prendendo forza l'uso di risorse alternative come l'idrogeno. Stiamo, insomma, dentro un cambiamento epocale in cui l'auto sarà la sperimentazione ideale. Non avere un settore automobilistico che innova vuol dire arretrare. Il problema dell'auto non in Italia riguarda l'industria italiana. Noi non lottiamo perché la famiglia Agnelli possa vendere al meglio alla General Motors, ma perché il settore automobilistico si adegui ai grandi mutamenti epocali».
Della Fiat non vi fidate più?
«In tutti gli incontri che hanno fatto col governo i vertici Fiat hanno chiesto solo risorse. In una situazione come questa se ci limitassimo a puntare l'attenzione sul ridimensionamento dei posti di lavoro vorrebbe dire che aiuteremmo il processo di distruzione del panorama automobilistico».
Sì, ma intanto la situazione è quella che è. Ritiene che il governo possa fare qualcosa?
«Molte cose. Innanzitutto deve capire, come ho detto, che il mondo dell'auto non è più riferibile agli Agnelli ma riguarda il rilancio dell'auto».
I soliti incentivi, quindi?
«Non solo incentivi, ma anche sviluppo e interventi sul gap tecnologico. Non è un caso che di fronte agli eco-incenvtivi la Fiat abbia perso altri pezzi di mercato. Vuol dire che il problema della Fiat è un problema generale»
A proposito di eco-incentivi, oggi il ministro Marzano ci è tornato sopra proponendo una proroga
«Gli eco-incentivi favoriscono Renault e Wolkswagen, non certo la Fiat. È una questione di qualità».
Quindi lo sciopero generale servirebbe a chiedere una ristrutturazione dell'intero settore. I vertici Cgil oggi hanno tuttavia dichiarato che lo sciopero del 18 sarà anche a sostegno degli operai Fiat. Non crede che sarà sufficiente?
«No, non basta, ci deve essere uno sciopero generale dei meccanici».
E per quando l'avete previsto?
«Domani abbiamo una riunione. Valuteremo in quella sede».

Questo autunno italiano
di Rinaldo Gianola

La drammatica crisi della Fiat è oggi il paradigma di questo autunno italiano. Da un anno e mezzo Berlusconi, D’Amato e Fazio vanno in giro a raccontare che siamo alla vigilia di un nuovo miracolo economico, che il vero problema del Paese è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che bisogna spendere invece di risparmiare perché il futuro ci sorride.
Questo ottimismo propagandistico e irresponsabile, alimentato e condiviso acriticamente dai mezzi di informazione, contrasta con la realtà economica, industriale, finanziaria del Paese. La Fiat arriva a un punto di non ritorno: dopo questa ristrutturazione non sarà più la stessa. Quando una casa automobilistica taglia la produzione del 20-30%, chiude impianti storici, riduce la mano d’opera di un quinto significa che altera le sue dimensioni, le ambizioni, le prospettive. Oggi i vertici della Fiat fanno il lavoro sporco per conto del futuro padrone americano, si apprestano a lucidare gli ottoni in attesa di poter spuntare un prezzo migliore quando presto si siederanno al tavolo con la General Motors per vendere l’auto. È un’operazione tutta finanziaria, imposta dal sistema bancario che ha rinegoziato il debito del Lingotto e pagata, come sempre, dai lavoratori
Ma le difficoltà non sono solo della Fiat. Oggi sono minacciati oltre 15mila posti di lavoro nel sistema bancario, altre migliaia sono a rischio nell’edilizia, nel Mezzogiorno la sciagurata decisione di Tremonti di tagliare le politiche di incentivazione mettono sul lastrico decine di aziende e, in assenza di interventi immediati di segno opposto, è facile immaginare l’esplosione di altre emergenze occupazionali e sociali. Persino il mitico Made in Italy della moda e dei mobili accusa difficoltà crescenti sui mercati internazionali.
Di fronte a situazioni come queste, in parte determinate dalla debole congiuntura internazionale e in parte preponderante da clamorosi errori aziendali e da scelte sbagliate di politica industriale, in un Paese normale il governo, le forze politiche, gli Enti locali si metterebbero a disposizione per risolvere con le imprese e i sindacati i gravi problemi presenti. Anche in Germania la Volkswagen ha attraversato periodi difficili, anche in Francia la Renault ha chiesto ai suoi lavoratori pesanti sacrifici. Ma quelle due imprese automobilistiche, simboli delle economie di quei Paesi, ne sono uscite con la piena, responsabile collaborazione dell’esecutivo, delle istituzioni che vedevano nel mantenimento delle produzioni, nella qualità dello sviluppo, le condizioni essenziali per garantire l’occupazione e il benessere.
In Italia di fronte alle difficoltà del primo gruppo industriale un ministro come Gasparri si propone di andare a Torino a dare lezioni di liberismo. Come si fa a governare con gente come questa che pensa solo a spararle più grosse per avere un titolo sul giornale? Il governo Berlusconi, per molti mesi, ha sottovalutato l’allarme che i sindacati e la sinistra avevano lanciato sui gravissimi problemi del gruppo torinese. La maggioranza di centro-destra ha preferito attaccare i magistrati, dedicarsi alla Cirami e a risolvere i problemi giudiziari di Berlusconi e Previti, piuttosto che adoperarsi per prevenire una crisi devastante. Eppure qualche segnale c’era stato: persino al Lingotto avevano licenziato prima il capo dell’auto, Roberto Testore e poi l’amministratore delegato del gruppo, Paolo Cantarella. Invece Berlusconi si limitava a guidare la nuova Lancia nel cortile di Palazzo Chigi.
La caduta della Fiat, oggi, è la cartina di tornasole di una retrocessione del nostro sistema industriale: non abbiamo più la chimica, non c’è più l’informatica, la farmaceutica è finita nelle mani degli stranieri. Stiamo diventando un Paese di bravi assemblatori, non si fa ricerca, non c’è una formazione adeguata. Per un anno e mezzo il governo e la Confindustria hanno concentrato i loro sforzi per manomettere lo Statuto dei lavoratori, per poter licenziare liberamente, convinti di poter utilizzare questa scorciatoia - meno diritti meno costi - per poter recuperare quei margini di competitività persi per strada negli ultimi anni, per mancanza di investimenti, di ricerca, di qualità. Una volta c’era la svalutazione del cambio a salvarci, adesso c’è il vincolo europeo della moneta unica e così questo governo e questa Confindustria pensano che riducendo i diritti delle persone si possano ritrovare i profitti e le quote di mercato.
Siamo pronti a rinunciare all’industria dell’auto? Siamo disposti ad accettare la chiusura di Arese, di Termini e magari domani di Mirafiori? Un Paese può anche scegliere di uscire da un settore industriale ritenuto maturo - ma che all’estero produce ancora enormi profitti, innovazioni e lavoro - come l’auto se ha qualche cosa di alternativo su cui puntare. Ma che cosa abbiano noi di alternativo e di strategico? L’unico grande gruppo di valore e dimensione internazionale è l’Eni. Forse qualche cosa potrebbe fare l’Enel. L’Olivetti-Telecom è oberata dai debiti e l’obiettivo principale è non disturbare le attività del presidente del Consiglio. Poi scendiamo subito giù a gruppi medi e piccoli, magari di grande successo ma che non bastano.
Certo, oggi, che ci troviamo ad assistere a una nuova, forse decisiva crisi della Fiat è doveroso interrogarsi sul potere pervasivo che il gruppo torinese e la famiglia Agnelli hanno sempre avuto nel Paese. Il condizionamento delle politiche economiche, la prevalenza degli interessi del gruppo su quelli generali, l’esercizio di un potere che sarebbe apparso irrituale in altri paesi industrializzati. Questa sorta di protezionismo di Stato a favore della Fiat, tuttavia, non è servito a garantire l’indipendenza del primo gruppo industriale. Quindici anni fa quando Craxi regalò l’Alfa Romeo ad Agnelli, la Fiat deteneva circa il 60% del mercato italiano dell’auto, in settembre la quota è scesa sotto il 30%. Di chi è la colpa di questa sconfitta? Non andate a cercare i responsabili tra gli "esuberi".
09.10.2002 Una sconfitta annunciata.

Un paese che perde i pezzi Luciano Gallino, professore universitario, è uno dei più attenti studiosi della realtà torinese e piemontese.

Professore, una crisi scontata?

«La notizia della crisi stava nelle dichiarazioni stesse della dirigenza Fiat, dichiarazioni di parecchi anni fa. Dissero che per sopravvivere era necessario superare i tre milioni di veicoli prodotti... Con il tempo questa quota-obiettivo sarebbe salita. La Fiat non è mai arrivata a produrre tanto. Negli anni di punta raggiunse due milioni e mezzo o poco più di veicoli, ben sotto comunque il limite di.».

Crisi scritta, dunque. La città, le sue istituzioni, la società torinesi hanno saputo rispondere?

«Nella Grande Torino, la città e la sua provincia, gli sviluppi significativi sono riconoscibili. L’industria informatica, ad esempio, la cosioddetta Ict, information comunication tecnology, occupa cinquantaquattromila addetti, molti di più ormai della Fiat, che è ferma a quarantamila. Non c’è ovviamente solo l’informatica. Sta di fatto che i centomila posti persi dalla Fiat in dieci anni sono stati assorbiti e questo dimostra tutto sommato la vitalità della struttura produttiva. Solo che quei centomila se ne sono andati gradualmente, pensionamenti, nuovi lavori. Adesso sono migliaia a rischiare e tutti assieme nel giro di pochissimo tempo. Il processo di crisi si è drammaticamente accelerato. Inoltre, senza eccedere nel pessimismo, non si deve mai dimenticare che il 65 per cento di un’auto Fiat esce da aziende non Fiat, che per ogni dipendente Fiat ce ne sono altri due che lavorano allo stesso prodotto nella componentistica e nelle aziende terze negli stessi stabilimenti Fiat, alla manutenzione, ad esempio, o alla verniciatura. Se Mirafiori chiude per una anno, altri sei mila lavoratori sono a rischio».

La critica tocca le politiche nazionali a favore della Fiat: troppi aiuti concentrati sul gigante torinese, dimenticando il resto che poteva svilupparsi, approfittando di una cultura manifatturiera...

«Perdere l’industria dell’auto sarebbe stato ed è gravissimo. Non solo per una tradizione che finisce. Perdendo l’auto si perdono, nella ricerca e nella produzione, connessioni con altri settori d’avanguardia, dai nuovi materiali all’elettronica. Nel momento peraltro in cui si vive l’inizio di una rivoluzione dei combustibili e dei motori, una rivoluzione che trascinerà con sè nuove tecnologie. Penso solo alla produzione dell’idrogeno. Voglio dire: se cade l’auto, cade il nucleo portante, trainante della ricerca, dell’industria, in settori d’avanguardia».

Come sempre in questi casi ci si interroga sulle responsabilità...

«Si può ragionare di una serie di cerchi concentrici. Il primo: questo paese non ha una politica industriale. Gli imprenditori di un tempo, da Olivetti a Pirelli agli stessi Agnelli, personaggi singolari ma straordinari come Mattei, grandi funzionari di stato come Pasquale Saraceno, sono scomparsi o sono invecchiati. Succede così che in Italia non vi siano più grandi imprenditori di livello mondiale. Sono stati sostituiti da un ceto imprenditoriale, la cui massima preoccupazione è l’articolo diciotto o la flessibilità, temi di quarto o quinto ordine. La politica pubblica, che ha avuto un valore determinante in paesi come la Francia, la Germania o gli Stati Uniti, s’è ritratta. La conseguenza è stata che progressivamente s’è lasciato un primato italiano o un vantaggio italiano in tanti settori, nell’informatica, nella chimica, nell’aereonautica dove c’erano Siai Marchetti, Macchi, Agusta, la stessa Fiat. Considero ad esempio deleterio il mancato ingresso nel consorzio europeo per l’airbus».

Il cerchio più ristretto?

«L’assetto della Fiat: troppe attività nello stesso gruppo, più finanza, assicurazioni, energia che auto. Se devi produrre auto ti devi concentrare sull’auto, come hanno deciso le grandi aziende mondiali...».

L’ultimo cerchio?

«La mancanza di modelli competitivi, che altre aziende europee hanno saputo invece presentare, modelli nuovi o risultato di un buon restyling. I francesi hanno per un secolo prodotto solo oneste carrette, come la R4. Nell’ultimo decennio hanno saputo organizzare un sistema di progettazione e produzione che ha garantito ogni anno nuovi modelli. La Volkswagen vive da trent’anni con la Golf, che però ha sempre rinnovato. La Fiat ha perso questi appuntamenti».

Il bis degli anni Sessanta bocciato nel Terzo mondo

Marco Revelli, docente universitario, ha dedicato molte pagine del suo lavoro saggistico alla Fiat e a Torino. In un libro pubblicato nel 1997, "La sinistra sociale" (Bollati Boringhieri), scriveva «se Torino uscirà dallo stallo in cui si trova... lo dovrà fare nonostante e contro la Fiat».
Revelli, Torino dovrà fare nonostante e contro la Fiat. Doveva provarci prima?
«La Fiat era diventato un peso, non un fattore di sviluppo, paralizzava ogni scelta, imponeva il proprio controllo. Cinque anni fa si erano create condizioni per una vertenza tra la città e la Fiat. Ci hanno risposto: ciò che è bene per la Fiat, è bene per la città. Un luogo comune di apparente buon senso, catastrofico in momenti straordinari che chiedevano coraggio. Quante volte ci è stato raccomandato: non fasciamoci la testa prima del tempo...».
Ora è peggio perchè il sistema Italia rischia d’affondare.
«Non solo manca politica industriale. Ci sono paesi in cui una socialità dinamica compensa la fragilità del progetto pubblico... S’assiste a un effetto sistemico di decomposizione che cancella ogni ragione di aggregazione. Per questo faccio il tifo per la Fiom, che tiene in piedi un meccanismo che almeno aggrega e che ci salva da questa deriva».
Solo la Fiom?
«Se fossi un operaio Fiat mi costituirei parte civile contro Cisl e Uil, che in questi anni ci hanno inondato con dichiarazioni di impressionante superficialità».
Anche per l’intesa sugli esuberi di qualche mese fa?
«Certo. Regolarmente in questi tempi, per lo meno dall’accordo con Gm, si sono ripetute le notizie di un precipitare della crisi. Ogni volta abbiamo ascoltato vacue rassicurazioni e avvertito invece il fastidio per chi denunciava la gravità della crisi. Tutto quello che sta succedendo non è privo di una propria storia e di un proprio sviluppo, non è il prodotto di circostanze che improvvisamente si manifestano... L’anamnesi è già stata scritta due anni fa, per certi versi cinque o sei anni fa, negli eventi degli anni novanta, dalla cacciata di Ghidella in poi, dalle scelte di Romiti, in una megalomane forma di globalizzazione, che lasciava intravvedere lo svuotamento dell’epicentro piemontese, nell’idea di Cantarella di puntare sui grandi numeri, nella fragilità del prodotto in un un mercato saturo come quello europeo... Quando un anno fa la Fiom lanciò l’allarme sui rischi per l’occupazione, le sono saltati tutti addosso... Ricordo le pagine torinesi della "Stampa" e di "Repubblica", le accuse, anche allora, di catastrofismo, di pessimismo».
La Fiat ha pagato e paga la sua globalizzazione. Sarà stata una scelta sbagliata, ma anche sfortunata.
«La Fiat ha scoperto tardi la globalizzazione, quando i giapponesi e gli americani la praticavano da tempo e l’ha realizzata in forma concentrata, massiccia, con un processo d’esplosione dal centro alla periferia, inseguendo il sogno di essere grande, tra coloro che stanno sopra i quattro milioni di automobili, con risorse finanziarie, familiari, sproporzionate per questo progetto. La Fiat ha cercato di ripetere il modello italiano, un’utilitaria a tutti, puntando alla motorizzazione di massa in America latina e in paesi dell’est come la Polonia, in Medio oriente, mettendo un piede in India e poi nel Maghreb e delocalizzando la produzione dove i costi erano più bassi. Nella grande illusione liberista della globalizzazione che distribuisce un po’ di ricchezza alle neo borghesie del terzo mondo. Hanno scambiato l’ideologia della globalizzazione con la realtà. Le cose infatti sono diversamente. Era prevedibile. C’erano stati gli avvertimenti della crisi brasiliana e di quella asiatica».
La sua accusa alla Fiat è di aver divorato risorse che avrebbero giovato altrove.
«Per una sorta di riflesso condizionato a Torino ma non solo a Torino si è non solo accettato ma anche attivamente premuto perché continuassero ad affluire risorse per tentare di salvare il salvabile. Sono stati dati fondi pubblici, sono state impegnate le banche che hanno investito migliaia di miliardi, senza garanzie per la comunità. Risorse che sono finite nei canali finanziari della Fiat, non certo a creare nuovi posto di lavoro. È gravissimo che non si siano considerate soluzioni alternative al salvataggio del gigante».