Pietà per la Fiat
LUIGI PINTOR
Non è un lutto nazionale, la crisi della Fiat. E non è una crisi, ma un fallimento senza riscatto. Una sconfitta padronale, del capitalismo italiano trionfo e inetto, un piccolo otto settembre della classe dirigente. Una caduta degli dei senza grandezza. Lasciamo stare il passato storico, gli esiti monarco-fascisti del risorgimento, la disfatta del movimento operaio dopo la prima guerra mondiale, un triste passato che neppure la lotta di liberazione ha cancellato e che pesa ancora sul presente. Contentiamoci dell'ultimo mezzo secolo.

Per cinque generazioni centomila operai hanno prodotto di decennio in decennio la nostra ricchezza negli stabilimenti targati Fiat, torinesi e decentrati, multinazionali ed extra-nazionali. Emigrati a milioni dal sud al nord e dal nord nelle periferie del mondo. Il lutto riguarda solo loro, il fallimento è consumato a loro spese e ricade sulle loro vite.

La Fiat ha espresso il meglio di sé, sotto questo aspetto. Ha prodotto sì e no un solo modello intelligente di automobile ma, in compenso, ha esercitato splendidamente il suo dominio sulle maestranze del più grande insediamento operaio nazionale umiliandole in mille modi. La gloria dei suoi proprietari e manager non è la Topolino, la cementificazione del territorio, la «qualità totale» millantata e la competizione mercantile affidata alla formula uno, ma si riassume simbolicamente nei reparti confino e nell'espulsione di 61 sovversivi. Me ne ricordo perché fu l'ultima stagione di Berlinguer.

La Fiat ha dato anche il meglio di sé nello scambio politico con i governi del paese, quali che fossero. Protezionismo e rottamazioni, soldi che perfino B. Craxi un giorno le rinfacciò, in cambio di una autorizzazione piemontese a procedere in qualsiasi direzione e con camicie di qualsiasi colore. Oggi si vede a occhio nudo, i suoi giornali e i suoi intellettuali organici sono più berlusconiani di Mediaset, in spasmodica attesa di provvidenze governative che rendano più praticabile la svendita della perla nazionale ai colossi americani o europei.

E' strano che i cantori del capitale, per una volta, non incolpino di questo sfascio gli esuberi, l'avidità contrattuale dei salariati, l'invadenza dei sindacati di classe, dello statalismo e dei comunisti. E' strano che non invochino come giustificazione la crisi epocale del mercato dell'auto. Non è per pudore, è che non sanno cosa dire perché non possono ammettere che un tempio del capitale imploda e crolli su se stesso e su tutti i filistei.

Nessun lutto, il capitalismo è un idolo e quello italiano è dorato solo in superficie. Non è il solo, anche altrove ci sono palloni gonfiati che scoppiano. La dignità abita più in basso, tra le masse di sconosciuti che non profittano ma lavorano e producono senza riconoscimento, senza voce né potere. Se il 18 ottobre riaffermerà questa dignità sarà un giorno, almeno un giorno, di rivalsa e quasi di festa.

Sciopero generale dei meccanici
Incassato il risultato straordinario dello sciopero di ieri in tutte le fabbriche Fiat, la Fiom rilancia e propone a Fim e Uilm lo sciopero della categoria. Ma Cisl e Uil ripetono il ritornello:

la Cgil annulli lo sciopero del 18. Verso la svendita a Gm?
LORIS CAMPETTI
La Fiat non è affare privato degli Agnelli, se non altro perché 200 mila famiglie in tutto il mondo vivono, e neanche bene, del lavoro nelle fabbriche e negli uffici del Lingotto. Dunque, la Fiat è anche di chi ci lavora. Ma ancora, grazie a scelte piuttosto sciagurate che hanno consentito che tutti i marchi automobilistici nazionali si concentrassero nelle mani di un unico proprietario, la Fiat è l'auto italiana. Dunque, è un patrimonio collettivo, nazionale, la cui sorte non può essere decisa dagli azionisti di maggioranza responsabili del disastro e/o dai loro alleati nordamericani. E non è tollerabile l'atteggiamento del governo Berlusconi che usa la crisi, drammatica per tanti lavoratori, per togliersi i sassolini dalle scarpe, nell'ambito dello scontro tra nobiltà familiari e parvenu del capitalismo italiano. Al di là dei toni, delle sensibilità, dei ruoli, a pensarla così non sono in pochi. Intanto, tutti gli uomini e le donne in tuta e in camice che ieri hanno paralizzato la produzione in ogni fabbrica diretta e terziarizzata della Fiat Auto e a Torino come a Termini Imerese anche strade, autostrade, ferrovie. Lo pensano i sindacati dei metalmeccanici, che dalla Fiat neppure sono riusciti a ottenere un piano industriale serio, che faccia intuire la volontà di non chiudere o alienare agli americani . La Fiom, che con mesi di anticipo aveva capito e svelato l'imbroglio della multinazionale torinese e aveva rifiutato di apporre la sua firma sotto un progetto di licenziamenti e dismissioni, ora lancia un messaggio forte a chi quel progetto aveva firmato: se il destino della Fiat è una questione generale, nazionale, non basta lo sciopero unitario di ieri. Intanto serve uno sciopero generale di tutti i metalmeccanici, alle prese con un contratto nazionale che vede indisponibili i padroni e divise Fim, Fiom e Uilm. Uno sciopero generale di categoria che ribadisca l'indisponibilità a discutere di esuberi e strumenti, nonché di chiusura di stabilimenti, in assenza di un piano industriale. Cosa risponderanno Fim e Uilm, che non sia la provocazione che già ieri circolava: se ne può parlare, se la Cgil annullerà lo sciopero del 18?

Ma anche nelle parole pronunciate ieri alle commissioni bilancio di Camera e Senato dal governatore di Bankitalia si ritrova una riflessione in consonanza con le preoccupazioni dei lavoratori e dei loro rappresentanti: se si vuole salvaguardare un patrimonio nazionale, è necessario «un piano industriale che, avendo presente competitività e collocazione del settore nel sistema economico, abbia respiro strategico». Antonio Fazio aveva in testa la difesa dell'occupazione, quando invocava una convergenza tra «poteri pubblici e parti sociali, isitituzioni, iniziativa privata, finanza nell'offrire certezze e prospettive». E ancora: «gli interessi dell'impresa, del settore, del territorio, dell'economia debbono essere strettamente raccordati con gli interessi generali del paese».

Valorizzando la straordinaria partecipazionedei lavoratori allo sciopero unitario di ieri, la Fiom, per bocca del suo segretario generale Gianni Rinaldini, boccia la filosofia che vorrebbe «subordinare l'intervento pubblico all'accordo con la General Motors, come hanno dichiarato diversi ministri. Né è accettabile un intervento sugli ammortizzatori sociali che sarebbe un puro accompagnamento alle scelte di Fiat e Gm». Dunque? Dunque, per la Fiom «è necessario un intervento pubblico con una partecipazione diretta, che sia fondata però su un piano industriale degno di questo nome - continua Rinaldini - finalizzato all'innovazione e alla qualità del prodotto auto, con la salvaguradia degli attuali livelli occupazionali e degli stabilimenti esistenti». Partecipazione diretta, ovviamente, non vuol dire nazionalizzazione ma partecipazione nella proprietà della multinazionale.

L'approccio alla crisi Fiat di azionisti e operatori di borsa è decisamente diverso: vendere, subito, l'automobile a Gm. Dopo aver lasciato sul campo in pochi giorni qualcosa come 2.000 miliardi di vecchie lire, ieri il titolo Fiat ha fatto un forte salto verso l'alto, fino a sfiorare il 10% di aumento. Come mai? Semplicemente perché il presidente Paolo Fresco, in un'intervista al Wall Street Journal, ha parlato apertamente delle trattative in corso con la General Motors per vendere agli americani l'intero comparto automobilistico. La discussione non è semplice, non si concluderà rapidamente perché sul tavolo di trattativa ci sono i soldi, e in particolare la svalutazione del 20% della Fiat comprata da Gm due anni fa, quando il valore del Lingotto era decisamente maggiore di quello attuale. E l'ipotesi, invece, di una fusione tra la Opel e la Fiat Auto? «Non è sul tavolo».

Berlusconi incontra la Fiat
Il governo è pronto a intervenire. La riunione con Fresco oggi o domani
P. A.
Il governo interverrà sulla Fiat. Ma non è ancora chiaro in che senso. Ieri il presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha fatto sapere che incontrerà i dirigenti della Fiat tra oggi e domani, mentre un incontro con i sindacati è previsto per la prossima settimana, molto probabilmente giovedì 17 ottobre. Il premier ha detto che durante la riunione di ieri, originariamente fissata per discutere di finanziaria e Mezzogiorno, si è anche parlato di Fiat, smentendo molte dichiarazioni precedenti sia di sindacalisti che di rappresentanti del mondo delle imprese. Le misure che Berlusconi e i suoi ministri hanno in mente per affrontare la crisi della Fiat sono però ancora tutte da verificare e ieri sono circolate perfino notizie contrastanti sul contenuto della riunione. Quasi tutti gli interpellati hanno infatti dichiarato che di Fiat si è parlato ben poco ieri. Qualcuno, come per esempio il segretario confederale della Cgil, Paolo Nerozzi, ha detto che di Fiat non si è parlato proprio, nonostante la sollecitazione iniziale in questo senso del segretario della Cisl, Savino Pezzotta. Che di Fiat si è parlato poco è stata anche la dichiarazione del presidente di Confesercenti, Venturi, mentre il ministro per le politiche comunitarie, Rocco Buttiglione, ha detto che di Fiat ieri si è parlato poco ieri, ma che se ne parlerà la prossima settimana. Berlusconi, pochi minuti dopo la fine dell'incontro, ha invece smentito tutti durante la conferenza stampa a palazzo Chigi. «Al tavolo sul Mezzogiorno - ha detto il premier - si è parlato del tema della Fiat. Io ho dato garanzie che il governo sta lavorando al riguardo. Tra sabato e domenica incontrerò i responsabili della Fiat. Noi siamo consapevoli delle implicazioni negative che ci potrebbero essere ove non si trovassero rimedi alla crisi e quindi siamo fortemente impegnati a cercare le soluzioni».

Inizialmente la riunione di ieri era stata organizzata per discutere delle questioni relative al Mezzogiorno anche in base alle sollecitazioni di sindacati e industriali. La scorsa settimana infatti il governo aveva ricevuto una lettera firmata dalla Confindustria, insieme alla Cisl e alla Uil, che sollecitavano una discussione approfondita sui problemi dello sviluppo del Mezzogiorno. Sia la Confindustria che Cisl e Uil continuano infatti ad essere insoddisfatti per l'impostazione della legge, mentre la macchina della Cgil è a pieno regime in vista dello sciopero generale del 18 ottobre prossimo. Ieri il segretario generale Guglielmo Epifani ha detto che i motivi dello sciopero sono aumentati, dalla finanziaria alla crisi Fiat.

La riunione di ieri è stata comunque difficile per il governo perché in mattinata il presidente della Confindustria, Antonio D'Amato, durante la sua audizione in commissione alla Camera dei deputati, ha svolto un intervento molto critico nei confronti del governo Berlusconi a proposito della legge finanziaria in generale e della parte che riguarda il Sud in particolare. D'Amato non ha frenato le sue parole durante l'audizione attaccando tutte le recenti scelti del governo. Il presidente degli industriali ha però smussato molto i suoi attacchi dopo la riunione a Palazzo Chigi. Per D'Amato l'incontro di ieri è stato comunque positivo, «un passo avanti», perché il governo si è mostrato disponibile a correggere la legge finanziaria in alcuni punti determinati. Il parziale riavvicinamento di D'Amato al governo deriva anche dal giudizio simile che sia la Confindustria che il governo danno delle possibili vie d'uscita alla crisi Fiat. Sia D'Amato che Berlusconi pensano cioè che il governo non debba mettere in campo nessuna misura assistenziale.

Il leader della Cisl chiede agli imprenditori un gesto
che indichi la volontà di rilanciare la casa torinese
Pezzotta sulla crisi Fiat
"La proprietà venda i gioielli"
I parlamentari siciliani della Cdl: "Non voteremo
la Finanziaria fino a che la vertenza non verrà risolta"

VERONA - Come risolvere la crisi Fiat? Mentre sono al vaglio varie ipotesi - in particolare l'aumento di capitale con l'intervento dello Stato e della General Motors - Savino Pezzotta propone la sua ricetta: "La proprietà deve, magari, mettere a disposizione qualche gioiello, visto che di gioielli ne hanno tanti". Il segretario generale della Cisl, insieme alla necessità di un piano industriale che il governo dovrà sostenere, propone insomma alla proprietà della casa automobilistica torinese di fare un gesto "per far capire se si vuole rilanciare la Fiat". Visto che, aggiunge Pezzotta, "non è che stiamo parlando di imprenditori che non hanno possibilità".

Ricordando che in settimana avrà un incontro con il governo per discutere della crisi Fiat, Pezzotta mette in chiaro "che non si può partire da tagli così larghi". L'attacco del leader della Cisl al 'taglio degli esuberi' è duro: "Per fare questo non serve affatto partire dagli esuberi, né tanto meno fermare gli stabilimenti: e in questo caso mi riferisco in particolare ad Arese, a Termini Imerese e a Cassino, tutte realtà che hanno problematiche da valutare con attenzione". Per risolvere la situazione della casa automobilistica torinese, è necessario "un piano industriale che punti sul settore auto". Chiediamo al governo - sottolinea Pezzotta - che anche lui creda in una politica industriale che riguardi questo settore".

Ma prima dell'iniziativa del governo, il leader sindacale auspica che "lo sforzo primario sia fatto dalla proprietà". E chiede alla Fiat di presentare "un piano preciso, che definisca quali sono le alleanze internazionali, come l'azienda intende modificare il settore commerciale, quali prodotti vuole mettere in campo e con quale soldi intende farlo". "Credo vi siano delle responsabilità chiare anche da parte degli azionisti della Fiat, che per rilanciare l'azienda - afferma - devono mettere in campo delle risorse".

Dal collega della Uil Luigi Angeletti nessuna obiezione di principio a un intervento diretto dello Stato nel capitale Fiat Auto. "Il problema - spiega Angeletti - è quello di salvare l'azienda dell'auto in Italia che nel nostro paese è la Fiat. Se per raggiungere questo obiettivo è necessario distinguere il destino della Fiat dagli azionisti, separiamo questo destino". Secondo Angeletti, dunque, se anche
l'intervento diretto dello Stato fosse "l'unica salvezza per l'azienda, va bene anche così". Netta contrarietà, invece, del segretario generale della Uil all'ipotesi di una eventuale vendita dell'azienda mentre - dice - le "alleanze si possono approfondire".

All'incontro col governo i sindacati andranno con la rassicurazione del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ribadite oggi dal vicepremier Gianfranco Fini. "Tutte le iniziative che il governo può e deve prendere - dice Fini - in modo da garantire che vi sia innanzitutto la tranquillità dei lavoratori della Fiat, che non vi siano conseguenze gravi come potrebbero esservi qualora vi fosse davvero un così drastico ridimensionamento degli occupati" verrano prese. "Stiamo valutando - aggiunge - una serie di ipotesi, ovviamente compatibilmente con quello che il governo può fare. Va ricordato che l'Europa è esplicita nel negare la possibilità di aiuti di Stato. Va altresì ricordato che il presidente Berlusconi incontrerà i vertici della Fiat per valutare in profondità il piano di rilancio di una grande azienda italiana che rappresenta un marchio prestigioso per la nostra economia".

Mentre dal Lingotto arriva un "no comment" sulle numerose indiscrezioni, anche di carattere finanziario, che stanno circolando in questi giorni a proposito di una possibile soluzione della crisi di Fiat Auto, dalla Sicilia i parlamentari della Casa delle libertà hanno accolto l'invito a non votare la Finanziaria "se non si risolve la crisi". L'iniziativa, del deputato nazionale di Nuova Sicilia e sindaco di Corleone Nicolò Nicolosi - che ha anche minacciato dimissioni dei parlamentari siciliani della Casa delle Libertà in massa se lo stabilimento Fiat di Termini Imerese dovesse esser chiuso - è stata avanzata davanti ad alcuni legislatori presenti nell'aula consiliare del comune di Termini Imerese, dove si sta svolgendo un incontro cui partecipano sindacalisti, operai e politici.

I parlamentari della Cdl hanno risposto alla proposta con un documento in quattro punti con il quale si impegnano "a non votare la Finanziaria fino a quando non sarà risolta la vertenza con l'azienda torinese".

(12 ottobre 2002)

Il premier: "No alla chiusura di Termini Imerese"
E annuncia un incontro con i vertici aziendali
Berlusconi promette
"Interverremo sulla Fiat"
Il governo disponibile a cambiare la Finanziaria
ma rispettando "gli impegni con l'Europa"

ROMA - "Siamo impegnati a cercare soluzioni. Chi guarda con angoscia alla situazione della crisi Fiat sappia che lo Stato farà la sua parte, nessuno deve temere che la crisi possa portare negatività dolorose per i lavoratori". E ancora: "No alla chiusura dello stabilimento di Termini Imerese". Le parole di conforto per gli operai delle fabbriche Fiat arrivano dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, dopo aver incontrato Cgil, Cisl e Uil e Confindustria, parla della crisi dell'industria torinese.

In serata il premier ha discusso della questione con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti e con quello delle Attività produttive Antonio Marzano, per preparare l'incontro con il management della Fiat che ci sarà fra domani e dopodomani. E uno dei temi dell'incontro sarà la questione General Motor. "Quello dell'alleanza fra Fiat e General Motor - ha detto Berlusconi - è un argomento delicato, su cui interverrà anche il governo e sarà uno degli oggetti del nostro incontro con i vertici della Fiat". Il progetto del governo lo spiega lo stesso premier: "Il nostro intendimento è sostenere i lavoratori e non avere chiusure di stabilimenti dolorose come a Termini Imerese".

Quanto alla Finanziaria di cui ha discusso con le parti sociali, Berlusconi ha detto che il governo è disponibile a rivedere l'art. 37 della legge (quello che prevede il cambiamento dei finanziamenti a fondo perduto previsti dalla 488 in prestiti agevolati) solo se si troveranno in altro modo 3.000 miliardi di vecchie lire (1.600 milioni di euro, circa).

"Ci è stato chiesto - ha riferito il presidente del Consiglio - di rinunciare all'art. 37 che prevede un nuovo modo di finanziamento delle imprese. Se questa formula non è ritenuta felice siamo disposti a esaminare la possibilità di modifica ma bisogna rinunciare a 3000 miliardi di vecchie lire". Berlusconi ha ricordato come questo corrisponderebbe a due punti di Irpeg ma la Confindustria è comunque contraria a rinunciare ai tagli di Irpeg annunciati.

Il premier ha sottolineato che ci sono impegni precisi con l'Europa e che la Finanziaria mantiene l'obiettivo dell'aumento del 2,3% del Pil e di un rapporto tra deficit e Pil dell'1,5. "Da questi dati - ha detto Berlusconi - non si può prescindere".

(11 ottobre 2002)

Con la crisi Fiat servirebbe l'unità sindacale
Invece raccogliamo i frutti avvelenati di mesi dissennati
Lacrime ipocrite
sulla pace sociale
di EUGENIO SCALFARI

Mai come in queste settimane il governo ha tanto annaspato e la sua maggioranza è apparsa tanto divisa su alcuni problemi di fondo: la riforma della giustizia, la legge Cirami, la politica economica, il federalismo, la sicurezza. In altri tempi si sarebbe detto: la maggioranza si sfarina. Ma qui sta avvenendo qualche cosa di diverso e di più profondo: a sfarinarsi è lo stesso blocco sociale ed elettorale che il 13 giugno del 2001 scelse questa maggioranza. La questione dunque è molto più seria.

Dall'altra parte del campo tuttavia le cose non vanno meglio; anche lì, nel centrosinistra e nella sinistra si vanno acuendo tensioni e rivalità. Nella Casa delle Libertà il solo a non essere in discussione è il padre-padrone, Silvio Berlusconi. A sinistra viceversa il problema preminente è proprio quello di individuare un gruppo dirigente e un leader che ne incarni la linea e il programma. Non fatevi ingannare dall'unificante parola riformismo. Tutti sono, tutti siamo riformisti, persino Berlusconi lo è e dal suo punto di vista sarebbe difficile negare che lo sia, visto che, almeno a parole, vorrebbe riformare tutto l'esistente.

Ma tra i riformisti del centro e della sinistra esistono parecchie varianti: c'è un riformismo forte e uno debole, uno mirato a recuperare elettori che si sono ritirati sotto la tenda, un altro che vuole riportare a casa fasce sociali di operai e pensionati che votarono a destra un anno fa, un terzo che mira a spostare almeno una parte di borghesia moderata disillusa da Tremonti e dai furori leghisti.

Si potrebbe dare il nome di un leader a ciascuna di queste varianti di riformismo ma sarebbe un inutile esercizio. La lotta in corso all'interno dell'area di opposizione verte proprio a stabilire chi sia il meglio posizionato per riagguantare la vittoria quando sarà.

Ciascuno dei protagonisti ritiene di esserlo lui e opera per migliorare il proprio posizionamento. E poiché siamo in piena civiltà dello spettacolo il terreno di scontro è quello mediatico, controllato a dir poco per quattro quinti dal padrone delle televisioni private e pubbliche.

Quest'anomalia, tutta e soltanto italiana, spiega le difficoltà di una partita che si gioca con carte truccate perché chi tiene il mazzo non è un normale croupier ma un giocatore in proprio che ha anche la possibilità di scegliersi gli avversari che preferisce. Una situazione simile non s'era mai vista prima d'ora. Adesso la stiamo vivendo.

Lo scontro avviene su vari campi di gioco. Uno di essi è quello dell'economia e del sociale. Anzi è il campo che coinvolge tutti gli imprenditori, tutti i lavoratori, tutti i contribuenti, tutti i consumatori, tutti i risparmiatori.
Insomma tutti i cittadini del nostro paese.

Se l'andamento dell'economia fosse di ordinaria amministrazione si potrebbero analizzare con distaccata oggettività le tesi (e i sottostanti interessi) sostenute dai vari attori della vicenda. Ma non è così. Stiamo infatti attraversando una fase percorsa da scosse profonde e da terremoti: una recessione mondiale appena superata e l'ipotesi di un'altra che potrebbe riaprirsi nelle prossime settimane; comunque un ristagno di investimenti e consumi che dura ormai da trenta mesi (come passa il tempo e nemmeno ce ne accorgiamo); caduta verticale dei profitti; sofferenze crescenti del sistema bancario.

In Italia - come se tutto questo non bastasse - si è drammaticamente aperta la crisi della Fiat. Era l'ultima grande impresa manifatturiera del nostro paese di dimensioni adeguate a fronteggiare la concorrenza mondiale. Il gruppo familiare che le stava alle spalle era riuscito a diversificare i propri interessi entrando nell'alimentare, nell'elettricità, nell'informatica, nelle assicurazioni, nelle banche.

Sembrava il punto di eccellenza dell'industria italiana e invece deperiva un anno dopo l'altro. Nel 1990 la quota Fiat sul mercato automobilistico italiano era pari al 52 per cento (con Lancia e Alfa Romeo) ma oggi è crollata al 31: ventuno punti percentuali lasciati sul terreno in dodici anni, ai quali vanno aggiunti quelli perduti nel resto del mondo di cui 6 in Europa (dal 14 all'8 per cento).

Il crollo è stato verticale e si porta appresso i destini di decine di migliaia di persone. Soltanto con i provvedimenti annunciati l'altro ieri dai vertici del gruppo i lavoratori sulla soglia del licenziamento sono più di 8 mila e diventeranno 11 mila a giugno.

L'indotto coinvolto è attendibilmente stimato a 40 mila lavoratori. Si tratta in sostanza di 50 mila posti distrutti, 50 mila famiglie senza più reddito, 200 mila persone a dir poco gettate nell'incertezza e nella miseria.
Quando si parla di costi, ricavi, deficit, debiti, forse non si riflette abbastanza sul fatto che dietro quei numeri ci sono persone, anime disperate, occhi e gesti di rabbia e rancore. La crisi Fiat rischia di provocare un'esplosione di rabbia sociale estremamente pericolosa che andrà a sommarsi ad altre incertezze già presenti nella società italiana: una disoccupazione giovanile endemica nel Sud, pensioni d'anzianità a rischio, tutele fragili o addirittura inesistenti, servizi sociali senza un soldo da spendere.

Tutto ciò genera al tempo stesso rabbia e paura, crepe profonde nel tessuto sociale, sfiducia nelle istituzioni. Mai come adesso ci sarebbe stato bisogno della concertazione tra le parti sociali e d'un sindacato forte, unitario, responsabile.

Ma purtroppo mai come adesso la concertazione è stata deliberatamente ridotta in pezzi e l'unità sindacale frantumata. Raccogliamo ora i frutti avvelenati di quindici mesi di governo dissennato che ha avuto in testa una sola riforma cui tutto il resto doveva subordinarsi: isolare il più forte sindacato italiano, violare l'intangibilità di un diritto, puntare verso un mercato del lavoro precario che mettesse il singolo lavoratore a tuppertù e senza intermediari validi con l'impresa datrice di lavoro.

È esattamente in queste condizioni che affronteremo le acute spine del 2003 dopo il cupissimo 2002.

Naturalmente si moltiplicano in questi giorni gli appelli a ritrovare l'unità sindacale. Vengono da sinistra, dal centro e perfino da destra; vengono dall'opposizione e addirittura dal governo e dalla Confindustria ed hanno la Cgil come unico destinatario.
Un gruppo di parlamentari della Quercia e della Margherita, rispettivamente vicini alle posizioni di D'Alema e di Rutelli, hanno addirittura stilato un documento che invita Epifani, il nuovo segretario della Cgil successore di Cofferati, a sospendere lo sciopero generale del prossimo 18 ottobre per concordare con la Cisl-Uil un'altra data o preferibilmente altre forme di lotta unitarie.

Queste iniziative hanno del fantastico. Non s'era mai visto fino a ieri che parlamentari dell'opposizione entrassero con i piedi nel piatto di decisioni esclusivamente competenti al sindacato pur di indebolire uno sciopero che ha come bersaglio principale quella stessa legge finanziaria che l'opposizione giudica nefasta in ogni suo punto, mentre la Cisl-Uil, checché ne dicano i dirigenti di quei sindacati, ne ha accettato ad occhi chiusi le cifre e quanto da quelle cifre logicamente discendeva.

La verità è che il famoso "Patto per l'Italia" firmato da governo, Confindustria, Cisl, Uil ed altre numerose categorie del commercio e dell'artigianato, è diventato una foglia secca in balìa della tempesta congiunturale; gli spiccioli stanziati per gli ammortizzatori sociali dovranno essere in larga misura dirottati per lanciare qualche zattera di precaria salvezza ai 50 mila Fiat e indotto messi in "mobilità lunga", cioè licenziati; gli incentivi per il Mezzogiorno sono stati aboliti e figurativamente ripristinati per il 2005; i servizi sociali erogati dalle Regioni e dai Comuni saranno ridotti all'osso; i licenziamenti da pioggia sono diventati grandine.

Si vede ora quanto fosse bugiardo lo slogan berlusconiano, fatto ingenuamente proprio da molte teste d'uovo del centrosinistra, che bisognasse togliere privilegi ai padri per aprire un futuro ai figli. Ci ha pensato la crisi Fiat a farci toccare con mano quanto poco solidi fossero quei famosi privilegi dei padri. Andatelo a raccontare ai 40-50enni di Termini Imerese, di Melfi, di Cassino, di Arese e di Mirafiori e sentirete come vi risponderanno a nome dei padri e dei figli.

Mentre tutto questo accade, mentre il governo pensa prioritariamente a bloccare il processo contro Previti e Berlusconi e a censurare le trasmissioni satiriche di Blob, i pensatori "liberal" continuano a sparare sui girotondisti. È diventato una specie di esercizio quotidiano che rimbalza da un giornale ad un altro: sarebbero loro i responsabili di tutto quello che va storto nel nostro paese.
"C'est la faute à Voltaire" cantava il monello Gavroche sfidando gli sbirri del re dalla barricata repubblicana dei "Miserabili". Nell'Italia del 2002, anno II dell'era berlusconiana, Voltaire sarebbe forse Nanni Moretti e Rousseau probabilmente Paolo Flores D'Arcais. Povero Moretti e povero Flores, ma soprattutto poveri Voltaire e Rousseau ridotti ad una dimensione così strapaesana.

Che cosa vogliono i girotondisti? Martellano i loro critici. Hanno proposte concrete da fare? Hanno un programma riformista? Oppure seguono solo la loro pulsione di sfasciacarrozze impenitenti? Personalmente non vado a girotondare, non è il mio genere e il mio gusto, né ho alcun titolo a rispondere per loro. Però credo di capire che cosa vogliono anche perché non ne fanno alcun mistero. Vogliono che la Costituzione non sia presa in giro e sistematicamente violata in materia di giustizia, di giurisdizione, di scuola pubblica, di divisione dei poteri, di pluralismo dell'informazione e perfino di pace e guerra (articolo 11 che "ripudia la guerra").

Se dovessi dirla tutta, i girotondini non sono riformisti ma conservatori visto che difendono la Costituzione esistente. Ma poiché di questi tempi difendere la Costituzione significa compiere un atto rivoluzionario, ecco che quei conservatori in giacca e gilè diventano rivoluzionari. Così va il mondo, caro Ernesto Galli Della Loggia. Tu dovresti del resto saperlo che la colpa non è sempre di Voltaire.

(11 ottobre 2002)

Per Bankitalia "mancano riforme strutturali" e la ripresa
si vedrà nel 2003, sempre che non ci sia la guerra all'Iraq
Fazio critica la Finanziaria
"Il condono toglie credbilità"
Il governatore ritorna sulla "mancanza di coraggio"
e sulla necessità di una riforma delle pensioni

ROMA - Un giudizio tiepido, qualche critica, l'affossamento del condono fiscale e l'accusa di mancanza di coraggio. Al governatore della Banca d'Italia, così come al presidente di Confindustria Antonio D'Amato, questa Finanziaria non piace granché. Intanto perché "mancano riforme strutturali che incidano, in prospettiva, sulla dinamica della spesa primaria" e poi perché il condono, anzi il "concordato fiscale" che prevede mina la credibilità di tutto il sistema fiscale. Complessivamente, il disegno di legge "può essere considerato soltanto un primo passo verso nella direzione di un più rapido e sostenuto sviluppo della nostra economia''

Antonio Fazio ha reso pubbliche le sue perplessità durante l'audizione a Montecitorio davanti alle commissioni riunite di Camera e Senato: "Il periodico ricorso a forme di concordato fiscale rischia di incidere sulla credibilità dell'amministrazione finanziaria", anche se "può contribuire a far emergere la base imponibile". Quanto alle previsioni sulla ripresa, il governatore ritiene che "sarà visibile" purché non esploda il conflitto con l'Iraq: "Qualora la crisi politica internazionale non si aggravi - ha detto Fazio - la ripresa dovrebbe prendere forza nel prossimo anno, sostenuta principalmente dall'accelerazione nel commercio mondiale, con riflessi rilevanti anche sulla domanda di beni di consumo e di investimento".

Ma, tornando al progetto di Finanziaria, serve, per il numero uno di Bankitalia, più coraggio: "La politica economica volta al risanamento definitivo del bilancio pubblico e a creare lo spazio per la riduzione del carico fiscale e per un consistente aumento degli investimenti, con la finalità di portare stabilmente il ritmo di espansione del reddito verso un tasso annuo del 3%, è affidata a interventi strutturali che dovranno integrare i contenuti della legge finanziaria".

Sempre in tema di tasse, il governatore ha fatto notare come l'imposizione sulle imprese, "è stata accresciuta rispetto al tendenziale per 3,4 miliardi nel 2003, come effetto netto dei provvedimenti dello scorso settembre e della manovra di bilancio".

E ciononostante è ancora lunga la strada da percorrere. "Secondo le ultime valutazioni del ministero dell'Economia, relative al mese di ottobre, il fabbisogno netto dei primi 10 mesi raggiungerebbe i 49 miliardi" un dato che fa sì che "lo scarto rispetto al 2001 rimarrebbe sostanzialmente costante".

I
(11 ottobre 2002)

Il presidente della Bce lascia invariati i tassi di interesse
"Alcuni Paesi non si impegnano nella politica di stabilità"
Duisenberg pessimista
"La ripresa tarderà"

FRANCOFORTE - La ripresa dell'economia tarderà, ma i tassi di interesse restano invariati. La stabilità monetaria è il miglior antidoto anti-crisi, ma alcuni Paesi (tra i quali l'Italia) destano "preoccupazione" per le loro scelte di politica economica. Lo ha detto Wim Duisenberg al termine del direttivo di oggi. Secondo il presidente della Banca centrale europea, le prospettive di una ripresa dell'economia restano molto incerte anche se la crescita dovrebbe ripartire nel 2003. Nel terzo trimestre di quest'anno la Bce prevede una crescita del Pil di Eurolandia in linea con quella registrata nei due trimestri precedenti, dell'ordine dello 0,4%. Fine delle speranze, quindi, anche per i più ottimisti che attendevano un balzo in lato nell'ultima parte dell'anno,

Ma, come previsto, la Bce non interviene sui tassi. Duisenberg sostiene il livello reale del costo del denaro è il più basso degli ultimi 40 anni. La politica non è restrittiva, aggiunge il banchiere centrale, e il sistema dispone di ampia liquidità. Il presidente dell'istituto di Francoforte ha sottolineato che una linea di "stabilità" è "il miglior contributo che la politica monetaria può dare nelle attuali circostanze", con l'economia segnata da uno stato di incertezza.

Poi Duisenberg rimprovera la politica economica di alcuni paesi. La Bce, dice, "nota con preoccupazione che in alcuni paesi c'è ancora un impegno insufficiente a portare i propri bilanci vicino al pareggio o in surplus nel medio termine". E per questi paesi "non ci sono alternative" rispetto a quelle di "evitare deficit eccessivi" e di avviare i necessari aggiustamenti "nel più breve tempo possibile" e cioè nel 2003. Questi aggiustamenti devono basarsi "sia su una realistica valutazione della situazione economica, sia su specifiche misure di consolidamento". Inoltre devono contenere "significativi miglioramenti annuali". A tal fine la Bce chiede "rigorose procedure di monitoraggio per l'applicazione delle regole contabili".

A chi gli chiedeva se Italia, Francia, Germania e Portogallo, cioè i quattro paesi più in difficoltà a rispettare le politiche di bilancio previste dal patto di stabilità, dovessero iniziare a ridurre dello 0,5% il loro deficit depurato dai fattori ciclici già nel 2003 e non nel 2004, Duisenberg ha risposto: "Sì, lo ripeto. Devono cominciare il prima possibile e nel comunicato redatto dai ministri insieme a noi si dice che la riduzione deve essere almeno dello 0,5%".

Duisenberg ha poi ribadito che "il consolidamento dei bilanci non va a detrimento delle previsioni di crescita" e ha invitato i governi "a superare la loro inerzia e ad implementare le riforme strutturali", sia per quanto riguarda la spesa e le entrate di bilancio, sia per quanto riguarda il lavoro e i mercati di produzione.

(10 ottobre 2002)

12.10.2002
Il cardinal Poletto alla Fiat: «Non si tiri da parte. E' una questione di giustizia»
di red

«La proprietà deve fare, anche per giustizia, la sua parte, dando segnali
concreti e credibili di non volersi arrendere». Così l'arcivescovo di Torino, il cardinale Severino Poletto, ha detto la sua sulla crisi Fiat. Poletto dopo aver sottolineato che non ci sono solo bilanci, ma «persone che di questa crisi sono destinate a pagare le conseguenze», ha aggiunto :«Deve essere chiaro che il percorso tracciato non è per uscire dall'impresa ma per rilanciarla con programmi innovativi. Non possiamo permetterci che Torino e l'Italia perdano l'industria dell'auto».

Poletto ha chiamato in causa pure l'impiego del «capitale pubblico» nella logica «di una reale ed efficace ricerca del bene comune» ed ha ha invitato tutti «ad un'assunzione di responsabilità: la proprietà, il governo, le istituzioni locali, i sindacati, i politici, gli economisti, i lavoratori stessi e le agenzie informative e formative».

11.10.2002
Migliaia a Termini Imerese. Fassino: «Questa fabbrica deve vivere»
di Aldo Varano
Mogli, madri, compagne, fidanzate e figlie degli operai Fiat "gettati sulla strada", come dicono qui. Con loro, le professoresse, le impiegate, le donne dei commercianti e degli artigiani. Anche suore. Ognuna di loro ha un parente che rischia di essere risucchiato dalla disperazione. Gli operai hanno riempito il piazzale dell'ingresso 1 fin dal mattino. Sciopero, ovviamente, totale. A Termini tre giorni fa è stato montato un palco davanti ai cancelli Fiat. Chi vuole - operai, sindacalisti, politici - può chiedere di parlare. A metà mattina sono arrivati gli studenti. A migliaia. Stipati sulle macchine, coi camion dei trasportatori, perfino con un trattore. Moltissimi si sono fatti i chilometri dal paese fin qui a piedi. Hanno urlato solidarietà e slogan. Dopo, ad abbracciare il padre o lo zio in tuta, lì accanto. Non erano figli di papà che vanno verso il popolo, ma in gran parte ragazzi che studiano con lo stipendio da un milione e ottocento che papà guadagnava in Fiat. Fassino ha trovato ad accoglierlo una gran folla. Gli operai, molti con la famiglia, tutti quelli dell'indotto, grappoli consistenti di studenti.

Moltissimi, prima e dopo il suo intervento, gli incontri con vecchi amici e compagni: operai Fiat di Torino tornati nella propria terra grazie all'impianto di Termini. "Mi raccomando Piero, non ci abbandonare". "Tieni duro". Sotto il palco a riceverlo il sindaco di Forza Italia con tanto di fascia tricolore: "Si consideri il mio segretario", gli ha poi detto dal palco. "E Violante - ha aggiunto - è il mio capogruppo. Anzi siete il segretario e il capogruppo di tutti i siciliani. Grazie per essere venuti". Sopra il palco, agli angoli, c'erano piantate tre bandiere: della Uilm, della Fim Cisl, della Fiom. Una specie di miracolo unitario dopo le rotture e contrapposizioni del patto per l'Italia e quelle del prossimo sciopero Cgil. Non era stato Fassino, del resto, a dire "Io Cisl e Uil e non li regalo a nessuno"? Un miracolo ancor più marcato dagli interventi - prima che parlassero Violante, Lumia e Fassino - dei rappresentanti Cgil, Cisl e Uil. Non per portare il saluto, ma per entrare nel merito delle proposte. Le migliaia di persone attorno al palco hanno percepito subito che i Ds hanno trasformato la loro visita in una iniziativa politica unitaria per ragionare su come procedere non solo per bloccare la chiusura ma anche per rilanciarne la competitività della fabbrica.

E' stato questo il centro dell'intervento di Fassino, il segretario Ds cresciuto a politica, Torino e Fiat che ha passato una parte importante della propria vita, l'ha ricordato ieri, a occuparsi di crisi Fiat. Seguito con straordinaria attenzione, il segretario Ds ha detto cose chiare e semplici. Intanto, i Ds sono contro la cancellazione di Termini Imerese e lavorano perché "sia uno stabilimento produttivo di auto". Secondo, proprio per questo trovano "inaccettabile" un anno di cassa integrazione a zero ore: chiudere per un anno, ha argomentato il leader dei Ds, "significa per la fabbrica morire". Terzo, esistono le condizioni, se ognuno farà la propria parte, per impedire la chiusura di Termini Imerese e di tutti gli altri stabilimenti Fiat in Italia. Fassino ha riconosciuto la situazione di una crisi profonda della Fiat sottolineando le responsabilità del suo gruppo dirigente che non ha capito le modificazioni del mercato dell'auto nel mondo. Questa crisi non è mai stata grave come oggi quando si parla addirittura di possibile scomparsa della Fiat: è la crisi di un pezzo dell'economia italiana, di un pezzo dell'Italia. In questo quadro, ha detto il capo della Quercia, "si tratta di lottare fino alla certezza del futuro vostro e delle vostre famiglie".

Insomma, per Fassino - restando i lavoratori e le loro organizzazioni uniti - si può discutere di tutto, di cassa integrazione, di rotazioni, di quel che si vuole. Ma ha scandito: "Si discuta di tutto, ma sapendo dove si va e in che modo e avendo, alla fine, la certezza per il lavoro di tutti i lavoratori di tutti gli stabilimenti". Parole coraggiose che, collocate nel cuore di un ragionamento di merito, hanno fatto scattare un lunghissimo e non scontato applauso. Da qui la proposta immediata dei Ds: "Il governo non si limiti a fare il notaio, attivi un tavolo in cui siedano sindacati, azienda, enti locali interessati, governo stesso con l'obiettivo di dare garanzie occupazionali a tutti gli stabilimenti Fiat". Positiva la reazione degli operai. I Ds sono convinti, lo ha detto Violante, che Termini è "una grande questione nazionale" e che lo stabilimento va recuperato "non per un problema di bisogno ma di merito e di capacità", non perché qui altrimenti si farebbe la fame ma per salvare competenze, capacità produttiva, esperienze accumulate a Termini. "Speriamo non sia necessario - ha detto Violante - ma se occuperete la fabbrica saremo al vostro fianco". Sarà una battaglia difficilissima, ha avvertito Fassino. "Serve l'unità dei lavoratori della Fiat e dell'indotto. Dei sindacati, perché abbiamo bisogno del massimo di compattezza. Unità col territorio e gli enti locali, con le donne e gli uomini che sanno che da questa fabbrica dipende il loro futuro". E "serve anche unità politica" ha aggiunto il segretario riprendendo un concetto già espresso da Violante. "Se il governo fa proposte credibili e giuste sosterremo queste cose e con la stesso spirito avanzeremo proposte, non per competere col governo, ma per raggiungere gli obiettivi che servono ai lavoratori".


12.10.2002
"Se restiamo separati, non andremo lontano"

MILANO l leader Uil Luigi Angeletti replica a Guglielmo Epifani cercando di andare alle origini delle divisioni, ma anche indicando alcuni temi su cui riprendere almeno l’unità d’azione. Alla radice della rottura Angeletti colloca «l’atteggiamento unilateralista prevalso nella Cgil: da qui l’interruzione dei colloqui, poi implacabilmente la serie di decisioni che hanno determinato l’attuale difficoltà unitaria».
Angeletti, ma ora si può fare il disgelo?
«Non sarà semplice perché nella Cgil è prevalsa l’idea di poter fare da sola, idea non ancora del tutto superata anche se prima o poi lo sarà. Ad esempio prima o poi la Fiom capirà che scioperare da sola vuol dire solo far buttar via soldi ai lavoratori. Poco fa ha fatto uno sciopero alla Fiat che non è nemmeno apparso sui giornali e non ha avuto influito sulle decisioni della Fiat. La Cgil prenda coscienza della propria relatività: capisco che non fa piacere, però questo è “il” problema. Poi, semplicemente per utilità pratica e sapendo che separati non si va lontano, si potrà riaprire il dialogo».
Da più parti si solleva il tema del rapporto con la bipolarità. Che ne pensa Angelettii?
«È l’altro corno del problema che anche la Cgil deve affrontare e che la porterà a ripensare la sua strategia: nell’ultimo anno la Cgil ha dato al centrosinistra più problemi che contributi. Anche noi continuiamo a pensare che l’ efficacia dell’iniziativa sindacale dipende da un sistema che poggi almeno sull’unità d’azione. Non abbiamo mai avuto problemi per riaprire il dialogo, né li avremo in futuro, anche se significa misurarsi, scontrarsi».
Adriano Musi e Franco Lotito propongono di ripartire subito insieme su Fiat, Mezzogiorno, Finanziaria, regole. Angeletti è d’accordo?
«Le considero del tutto condivisibili. Sulla Fiat stiamo incalzando sia l’azienda che il governo perché finalmente si faccia un piano credibile dell’industria dell’auto che arresti il declino, e non per risparmiare i costi cosicché la Fiat possa vendere a migliori condizioni».
Il Mezzogiorno.
«Nel sindacato è condiviso che il Sud è una risorsa del Paese, ma l’opinione pubblica non ha ancora ben capito che la crescita economica dell’intero Paese è condizionata dal fatto che il Mezzogiorno cresca di più rispetto al resto del Paese. Non è solo un fatto di solidarietà: se il Sud cresce, ne trae vantaggio anche chi lavora a Ivrea o Treviso».
Le regole: ormai sono indispensabili per varare piattaforme unitarie.
«Il problema c’è. Se è vero che c’è pluralismo sindacale, dobbiamo però sapere che non è scontato che le opinioni combacino su una piattaforma o su uno o su un accordo. Lo dobbiamo dare per scontato, altrimenti ritorna il diritto di veto».
E allora come pensare un nuovo sistema di regole?
«Servono regole certe ed esigibili, che nessuno può applicare secondo le sue convenienze, per cui tutti possono esigere che gli altri le rispettino. Servono per impedire la paralisi o la divisione traumatica. Basterebbe applicare un principio: si misura la rappresentatività del sindacato attraverso il voto di tutti i lavoratori, come nelle elezioni delle Rsu. Questo può essere frutto non solo di un accordo, che comunque è necessario tra tutti i sindacati ed anche con le controparti in quanto l’esercizio del voto dev’essere garantito anche nelle piccole aziende che sono il 92% dele imprese, ma queste regole devono anche essere recepite da una legge che le renda esigibili. Quando le opinioni su un problema divergono, allora i rappresentanti, eletti da tutti, votino a maggioranza».
Pezzotta potrebbe fare obiezioni.
« La Cisl ha accettato questo sistema nel pubblico impiego: perché dovrebbe negarlo al privato? Non accettiamo però che, come vorrebbe la Cgil, l’unica forma di democrazia sia il referendum: l’idea sottende il concetto che i sindacati non esistano e che essere o non essere iscritti sia indifferente. Se però proprio si vuole questo modello, che comunque non dà stabilità ai rapporti, allora deve valere per tutte le scelte, anche per lo sciopero».
Si può superare l’impasse delle piattaforme separate?
«Bisognerebbe farlo, ma francamente non so come. Non mi viene in mente nulla. Bisognerebbe dire alla Fiom di ritirare la sua, ed allora si potrebbe ridiscutere e fissare delle regole che però siano valide sempre e per tutti».

Troppe anime a destra in cerca di sintesi politica

E ra prevedibile che l’incidente tra La Russa e i post-democristiani della Casa delle Libertà sarebbe stato chiuso in tutta fretta, almeno sotto il profilo formale. Troppo plateale e imbarazzante per il centrodestra. Difatti Gianfranco Fini, come sempre uomo di equilibrio, ha spento il fuoco. Sono lontani i tempi della piena sintonia tra Fini e Casini, i due «giovani leoni» della destra che sembravano condividere una strategia comune. Tuttavia almeno in questa occasione l’interesse politico immediato era convergente e il caso è stato tamponato. Anche se, al di là dello screzio, resta l’impressione che ci sia dell’altro. Per la precisione sono troppe le anime della maggioranza che convivono senza essere realmente amalgamate tra loro: la democristiana, quella di derivazione missina, la leghista, l’aziendalista del «partito Mediaset». Tutte guardano a Silvio Berlusconi come all’unico in grado di fonderle insieme, come si conviene a un leader. «Ci fidiamo solo di lui» dice Buttiglione.
Ma proprio l’incidente di Montecitorio lascia intuire che c’è ancora molto da fare. Le anime restano divise, anzi persino estranee tra loro, non avendo in comune nemmeno la valutazione storica sugli ultimi dieci-vent’anni di vicenda italiana. E non ha torto Gianni De Michelis quando rileva che l’istinto della destra post-missina, rispetto a Tangentopoli e allo smantellamento di Dc e Psi, si esprime in termini del tutto opposti a quelli usati da Berlusconi, nostalgico del pentapartito, commemorando il socialista Moroni.
E’ una contraddizione grave e Fini prova ad aggirarla rispolverando un’idea che finora non ha avuto fortuna: la commissione d’inchiesta sugli anni di Tangentopoli. Vedremo. Sta di fatto che l’episodio La Russa potrebbe esser solo l’antipasto di ben altre tensioni, riflesso a loro volta di questioni di potere insolute all’interno della maggioranza. Soprattutto tra i centristi dell’Udc. Lo verificheremo presto, via via che l’esame della legge finanziaria entrerà nel vivo.
Per il momento si può solo registrare che le ripetute critiche alla Finanziaria mosse dal presidente della Confindustria trovano d’accordo nella sostanza lo stesso presidente della Camera, Casini. Mentre colpisce che il governatore della Banca d’Italia abbia di nuovo lanciato i suoi moniti, per la seconda volta in meno di una settimana: il che forse non semplifica il lavoro del ministro dell’Economia, Tremonti. Gli appelli di Fazio in favore di «riforme strutturali» possono servire da stimolo per il governo oppure possono metterne in luce debolezze e difficoltà. Specie se cadono in un’atmosfera parlamentare già elettrica di suo. La seconda ipotesi è più probabile.
B erlusconi ha dunque un duplice problema di leadership. Governare (con l’aiuto di Fini) le inquietudini della maggioranza. Ricostruire un rapporto con il mondo economico, evitando che si crei una saldatura tra quest’ultimo e settori della Casa delle Libertà.
Sull’altro piatto della bilancia, c’è il fatto che la legge Cirami, con il suo carico velenoso, sembra finalmente un capitolo chiuso. Il Senato si appresta a votarla (forse il 22 o il 23 del mese) e non pare che l’opposizione, a parte qualche salva di fucileria, abbia voglia di tornare in trincea. E’ significativo che ieri sera a Roma quasi nessun esponente dell’Ulivo abbia partecipato al «girotondo» di Moretti che ha lambito il Quirinale. Segno che di fronte alla prospettiva di chiamare in causa il capo dello Stato, fingendo di ignorare il suo ruolo nel miglioramento della legge (e nella soluzione dei dubbi di costituzionalità), il vertice del centrosinistra si è arrestato.
di STEFANO FOLLI