SCRIVONO DI LUI

Caso Sofri. L'incontrovertibile depistaggio

Una donna paffuta o un uomo baffuto? Cosa insegna la "prova maestra"? La strana storia del bloccasterzo della Fiat 125 blu. Ecco la prima parte dell'analisi puntuale e minuziosa degli atti processuali, integrati dall'istanza Gamberini. La seconda parte verrà pubblicata martedì

Guido Viale, dal Manifesto 28 e 30 dicembre 1997


S ULL'OMICIDIO del commissario Calabresi (1972) c'è stato un depistaggio, che ha impedito di identificare immediatamente l'assassino, ad opera dell'allora capo della squadra politica della Questura e terminale milanese del famigerato Ufficio Affari Riservati di Umberto Federico D'Amato.

Lo si ricava in maniera incontrovertibile dalla testimonianza resa da Luciano Gnappi, testimone oculare dell'omicidio e raccolta dall'avvocato Gamberini nell'ambito delle indagini svolte per preparare l'istanza di revisione della sentenza che ha condannato in via definitiva Sofri, Bompressi e Pietrostefani.

Luciano Gnappi è un testimone non sospetto: in tutte le sentenze sull'omicidio Calabresi viene considerato degno della massima fede; ha visto con i suoi occhi il delitto e l'assassino; è stato lui ad avvertire per primo la polizia; ha subito messo a verbale che sarebbe stato in grado di riconoscerlo. Gli hanno impedito di farlo. La sua testimonianza attuale è confermata da un altro teste che gli era vicino all'epoca di questi fatti. Entrambi non hanno e non hanno mai avuto alcun legame con gli imputati.

Il fatto che si sia deciso a parlare sul risvolto oscuro della sua vicenda è perfettamente spiegabile: innanzitutto con il clima di terrore che accompagnava i depistaggi sui diversi e successivi episodi della strategia della tensione all'epoca: i testimoni che hanno avuto a che fare a vario titolo con la strage di Piazza Fontana, "morti" in circostanze "strane" sono più delle vittime della bomba. Gnappi stesso racconta che dopo aver assistito all'omicidio del commissario, e soprattutto dopo l'episodio di depistaggio, vissuto nel terrore per alcuni mesi, e con il fermo proposito di non venir più coinvolto in quella vicenda per molti anni. D'altronde, poche settimane dopo l'omicidio, a Gnappi fu data una scorta. Perché?

Gnappi si è deciso a raccontare quello che sapeva dopo aver preso atto che tre persone innocenti sono state condannate in via definitiva a molti anni di carcere ed effettivamente incarcerate. Un motivo molto valido per rompere il silenzio c'è senz'altro.

Gnappi ha reso la sua testimonianza, la più eclatante, ma non l'unica presentata come "elemento nuovo" nell'istanza di revisione dell'avvocato Gamberini, in un diverso contesto, caratterizzato - alla buon'ora - dal passaggio dal vechio al nuovo rito processuale, previsto dal nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore, si badi bene, poche settimane dopo l'arresto di Sofri Bompressi e Pietrostefani.

Il vecchio rito fa dell'accusa - Procura, pubblico ministero, giudice istruttore - il dominus incontrastato del processo; la difesa è messa in un angolo. Che uso abbiano fatto di questo vantaggio gli uomini a vario titolo reclutati nel team degli accusatori (compreso il sedicente avvocato "difensore" di Leonardo Marino, il Presidente della Corte nel giudizio di primo grado - già a tutti gli effetti membro della Procura di Milano all'epoca del processo - carabinieri, giudice istruttore e pubblico ministero) è cosa che supera ogni immaginazione e che ha potuto essere nascosto all'opinione pubblica solo grazie alla colpevole disattenzione, o alla vera e propria connivenza, che ha caratterizzato la cronaca giudiziaria di quegli anni.

Ci penserà Dario Fo a portare in giro, in tutto il mondo, la cronaca di quel processo attentamente e scrupolosamente riletto attraverso la lente della sua vena ironica e della sua passione per il grottesco. A 27 anni dal suo Morte accidentale di un anarchico, la nuova piece Marino è innocente far così capire a tutto il mondo, dalla Cia al Canada, dalla Terra del Fuoco alla Svezia, dagli Stati Uniti alla Turchia, che in Italia la strategia della tensione non è mai morta.

Il nuovo rito consente invece al difensore di svolgere indagini, di interrogare direttamente i testimoni - senza il filtro di un presidente compiacente (con l'accusa) come Manlio Minale - di raccogliere testimonianze direttamente, senza incorrere nell'accusa di voler minacciare Marino e di voler pugnalare alle spalle il suo ipocrita "difensore", con cui durante tutto il corso di questa infinita vicenda processuale, è stato eretto un vero e proprio muro a difesa della veridicità e poi della santità dell'unico testimone di accusa di questo processo.

L'avvocato Gamberini si è imbattuto nella testimonianza esplosiva di Luciano Gnappi - che chiama ormai in causa, in modo incontrovertibile, il Ministero degli Interni retto da Giorgio Napolitano e la commissione Stragi del Parlamento, presieduta dal Senatore Pellegrino - per puro caso: stava semplicemente verificando la congruenza delle testimonianze oculari rese alla polizia giudiziaria tra di loro e la loro incongruenza con la ricostruzione dell'omicidio fatta da Marino.

Ma la testimonianza di Gnappi getta finalmente un fascio di luce anche su tutto quello che è successo dopo: dalle indagini immediatamente indirizzate su Lotta Continua - ve lo ricordate il giudice Amato, subito dopo la strage di Piazza Fontana? "Cercate tra gli anarchici!" - fino alla più che sospetta comparsa dei carabinieri a fianco di Marino - o, meglio, di Marino a fianco dei carabinieri - nel 1988 - ed alla ancor più singolare conduzione di molti dei processi di questa vicenda.

Adriano Sofri e i suoi coimputati, a proposito della vicenda che li ha trascinati in carcere, si sono sempre rifiutati di usare il termine complotto - parola che invece stata sempre rievocata, per negarlo e per irridere agli imputati - dal team dell'accusa. Non hanno voluto usare questo termine non per ingenuità (nessuno li potrebbe accusare di sprovvedutezza); ma nel - vano - tentativo di costringere i loro accusatori ad attenersi solo ed esclusivamente agli atti processuali, cosa che questi non

hanno mai fatto, preferendo attenersi al loro pregiudizio e perseguirlo contro ogni evidenza.

Qui facciamo altrettanto. Dagli atti processuali integrati con l'istanza presentata dall'avvocato Gamberini risulta peraltro incontestabile:

- che Marino è l'unico teste (impunito e premiato: con la prescrizione del reato e l'improvviso benessere economico che gli ha permesso di saldare i suoi molti debiti, comprarsi due case, un furgone-bar di notevoli dimensioni, dove peraltro fa lavorare altri al posto suo) a carico di Sofri, Bompressi e Pietrostefani e che tutti i presunti riscontri a sostegno della sua deposizione non hanno alcun fondamento.

- che la sua compagna Antonia Bistolfi, unico teste utilizzato a supporto di Marino dall'accusa e dalla cosiddetta difesa di Marino, è un teste falso: ha sempre negato di essere stata messa al corrente delle dichiarazioni che Marino stava concordando con i carabinieri, mentre dal suo diario, acquisito dall'avvocato Gamberini e certificato da una perizia grafica, risulta che sapeva e si compiaceva di quanto stava accadendo.

- che la "prova maestra" (usata per tutti questi anni a sostegno della credibilità di Marino: dagli inquirenti, dal pubblico ministero, dallo pseudodifensore di Marino, dagli avvocati di parte civile e dello Stato, dai giudici, ma anche da non meno di un migliaio di giornalisti e di commentatori "colpevolisti") e cioè che non c'era altro modo di spiegare perché Marino, incensurato e libero, si sarebbe dovuto accusare di un delitto che gli avrebbe procurato molti anni di prigione, se non con il fatto che lo aveva effettivamente commesso ed era poi stato preso dal rimorso, non prova in realtà un bel niente. Innanzitutto si tratta di un classico caso di inversione dell'onere della prova: si chiede agli altri imputati di trovare una spiegazione, altrimenti si dà per scontata la veridicità dell'accusa, mentre toccava proprio agli inquirenti indagare, caso mai, sulle settimane e sui mesi che hanno preceduto la confessione di Marino, per trovarne un perché. Cosa che non hanno mai fatto. In secondo luogo, perché Gamberini ha dimostrato che Marino era perfettamente al corrente dei meccanismi premiali a vantaggio dei "pentiti", da cui risulta peraltro aver tratto molti vantaggi anche materiali. Ma soprattutto perché questa storia ha un riscontro preciso nel caso di Maria Fontana, una prostituta libera e incensurata, accusatasi "spontaneamente, perché rosa dal rimorso", di essere stata l'autista nel corso di una rapina e del conseguente omicidio di un testimone, svoltisi a Bologna nel 1989. Grazie alla sola confessione di Maria Teresa Fontana, sono stati condannati in primo grado e in appello alcuni malavitosi catanesi, mentre la sedicente autista ha avuto una condanna a soli sette anni, mai scontati. E' risultato poi che gli autori di quella rapina erano stati invece i fratelli Savi, protagonisti di tutta la vicenda della cosiddetta Uno bianca, che hanno confessato anche quel delitto, e che Maria Teresa Fontana era stata indotta a prestarsi a questo depistaggio dal ricatto di un commissario di polizia di cui era precedentemente confidente. Più chiaro di così si muore!

- che Leonardo Marino non ha partecipato all'attentato al commissario Calabresi e che la ricostruzione dei fatti che ha raccontato (o che gli stata suggerita) non regge. Tutte le deposizioni rese dai testimoni oculari dell'attentato collimano tra loro, e con la ricostruzione dell'attentato fatta dalla polizia nell'immediatezza del fatto, e, ancor più in dettaglio, con la ricostruzione tridimensionale fatta al computer dall'avvocato Gamberini, mentre si scontrano frontalmente con il racconto di Marino.

- che alla guida dell'auto del commando che ha ucciso Calabresi c'era una donna bionda, con i capelli lisci e paffuta, e non un uomo nero, con i capelli a cespuglio e baffuto (come Marino). Questo emerge in modo incontrovertibile dalle deposizioni degli unici due testi oculari (Pappini e Dal Piva) che hanno visto l'autista del commando; tanto vero che i primi fermati e indiziati per l'omicidio del commissario Calabresi (militanti di Lotta Continua) erano un uomo e una donna e, quando le indagini sono state rivolte sul fascista Gianni Nardi, insieme a lui è stata indiziata la sua compagna Gudrun Kiess, come possibile autista (ma non aveva la patente!); e a fare un riconoscimento era stata chiamata proprio la teste Dal Piva, che aveva visto di dietro e di profilo l'autista del commando e che così ne aveva descritto, nell'immediatezza del fatto, le sembianze: ragazza, 20 anni, capelli biondo oro, pantaloni attillati (bel sedere), borsetta a tracolla color nero. Un esatto ritratto di Leonardo Marino!

- che l'alibi di Ovidio Bompressi è incontestabile: è stato fornito al processo di primo grado da tre testimoni, giudicati nelle diverse sentenze di condanna inaffidabili perché amici dell'imputato ed ex-militanti di Lotta Continua; ma oggi viene confermato negli stessi termini da un testimone, che non è né amico di Bompressi né ex di Lotta Continua, e che era già stato individuato, come gli altri tre, pochi giorni dopo l'arresto di Bompressi. Per nascondere questo fatto, cioé che le persone in grado di fornire un alibi a Ovidio Bompressi erano già state individuate pochi giorni dopo il suo arresto, tra l'altro dal giornalista Paolo Vagheggi, il giudice Della Torre, che ha steso l'ultima sentenza di merito, ha dolosamente alterato la data di un articolo comparso sul quotidiano la Repubblica il 29.7.88, sostenendo che era uscito un anno dopo il suo arresto!

- che i proiettili sulla base delle cui fotografie (gli originali sono stati venduti all'asta dopo l'arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, come è stata rottamata nello stesso periodo l'auto del commando omicida, gelosamente custodita fino ad allora) si è sostenuto che i colpi che hanno ucciso il commissario Calabresi fossero stati sparati da un revolver proveniente da una rapina che Marino attribuisce (de relato) a Lotta Continua, sono stati in realtà sparati da due armi diverse. Dunque, quello intero, sulla cui base sono state effettuate le perizie utilizzate dalla corte e dalle sentenze di condanna, è stato aggiunto in un secondo tempo (l'altro, il frammento, è stato estratto dal corpo del commissario Calabresi: quindi è sicuramente autentico) e non ha alcun valore di prova. Cosa che era già nota precedentemente, ma che è stata documentata con perizie di altissimo valore scientifico presentate dall'istanza dell'avvocato Gamberini.

- che la Fiat 125 blu utilizzata dal commando omicida (anch'essa distrutta nel corso dell'istruttoria) non era dotata di bloccasterzo, ma che ciò era perfettamente riconoscibile da una foto pubblicata all'epoca dalla rivista Panorama. La mancanza di bloccasterzo, pertanto, non può costituire conferma dell'autenticità del racconto di Marino. Peraltro che le auto rubate all'epoca non avessero il bloccasterzo è cosa nota tra tutti gli operatori del settore (ladri di auto) e tra tutti coloro che, per motivi carcerari, li hanno frequentati. Il fatto è che, in entrambi i casi, invece di effettuare delle vere perizie, il Pm e la Corte hanno assunto come perizia il racconto di Marino.

- che le testimonianze relative a pretese esercitazioni militari del "gruppo di fuoco" di Lotta continua sono un falso clamoroso dei giudici che hanno redatto la sentenza. Sono state ricostruite in base alla deposizione (peraltro del tutto induttiva: niente ha visto direttamente il teste) di una guardia forestale, tale C. Boria, che ha preso servizio in valle di Corio, teatro delle presunte esercitazioni, un anno dopo l'omicidio Calabresi, quando lo stesso Marino sostiene di non averci più messo piede. Questi tre ultimi punti congiunti sono significativi, perché sono quelli utilizzati da alcuni esponenti della Procura di Milano (segnatamente il Procuratore aggiunto De Ambrosio) per sostenere la presenza di autentici riscontri alla deposizione di Marino.

INCONTESTABILE risulta dagli atti processuali integrati con l'istanza presentata dall'avvocato Gamberini anche:

- che il giudice Della Torre, nella sua sentenza, ha resuscitato i morti, attribuendo una deposizione "lucida e convincente" al teste Biraghi (morto nel 1972) durante il processo di primo grado, svoltosi nel 1990! Questo falso non è casuale. Al teste Biraghi si aggrappano tutte le sentenze per avallare la ricostruzione dell'omicidio fatta da Marino. Marino sostiene di aver posteggiato in prima fila, davanti a un passo carraio, il che gli avrebbe permesso sia di vedere l'uscita del commissario Calabresi nello specchietto retrovisore che di fare marcia indietro. Peccato che il teste Biraghi, interrogato nell'immediatezza dell'omicidio (e morto pochi mesi dopo) abbia visto sì una 125 blu posteggiata davanti alla sua agenzia, ma in seconda fila, davanti a un furgone di acqua minerale, anch'esso posteggiato in seconda fila, che avrebbe comunque impedito all'autista della 125 sia di fare marcia indietro che di vedere l'uscita del commissario Calabresi; e non avesse comunque notato alcun motore acceso. La ragione di questo particolare attaccamento delle sentenze alla testimonianza di Biraghi, nonostante che anch'essa sia in aperto contrasto con la ricostruzione di Marino, e pienamente congruente con quella di tutti gli altri testimoni, sta nel fatto che si è sempre fraudolentemente cercato di usarla per invalidare la credibilità del teste Pappini (e quindi anche della teste Dal Piva), che aveva incontestabilmente visto una donna al volante dell'auto degli omicidi.

- che Marino ha a lungo preparato la sua deposizione con i carabinieri (sulla scena muta che, secondo Marino e i carabinieri, avrebbe caratterizzato questi incontri, durati almeno due settimane e, verosimilmente, alcuni mesi, Dario Fo sta preparando uno dei pezzi più esilaranti del suo prossimo lavoro, Marino è innocente).

- che i Carabinieri hanno continuato a imboccarlo durante la fase istruttoria. Per esempio mostrandogli la pianta della casa del presunto basista dell'attentato; casa che Marino non aveva neppure saputo individuare in un primo momento, e che in una seconda ispezione riconosce invece perfettamente, compreso lo spostamento di cinquanta (50) centimetri del muro di un bagno. Inducendo sia Marino che la sua compagna a ricostruire la storia dei sospetti di quest'ultima (che suffragherebbero la versione di Marino) sulla base di un fotofit che non può essere assolutamente, per ammissione stessa dell'accusa, ricondotto a quello di Bompressi; ma che Marino utilizza comunque lo stesso, in un suo libro, a suffragio della veridicità del suo racconto. Mostrandogli la foto del basista destinato a tenere compagnia a Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani per 22 anni al Don Bosco di Pisa, se questo fortunato imputato non avesse potuto dimostrare di aver avuto, all'epoca dell'omicidio Calabresi, una folta barba: che Marino non ricordava perché non compariva nella foto utilizzata dai carabinieri. Infine, scorrazzando con Marino in giro per Milano, tra la casa del presunto basista e il luogo dell'attentato, per aiutarlo a orientarsi!

- che fin dai primi giorni successivi all'omicidio venne messo in atto un depistaggio: mentre Allegra si rifiutava di utilizzare il testimone Gnappi per individuare il vero assassino, gli organi inquirenti avevano già aperto la caccia a Lotta Continua con il fermo di Angelo Tullo e Francesca Solani, due militanti dell'organizzazione che, si badi bene, anche se scarcerati, grazie ad alibi di ferro, sono rimasti nella posizione di inquisiti fino al 1988, quando il giudice Lombardi, titolare dell'istruttoria, ha potuto disporre di ben più ghiotti bocconi.

- che il depistaggio è stato ininterrotto: innanzitutto a opera del colonnello Bonaventura, che già nel '72, con il grado di tenente, aveva indirizzato le indagini su Lotta Continua (come pochi mesi dopo verranno indirizzate su Lotta Continua le indagini sulla strage di Peteano, a opera del colonnello dei carabinieri Mingarelli!), e che nell'88 ritroviamo nel ruolo di paziente ascoltatore dei silenzi di Marino nella caserma di Sarzana.

Al processo di primo grado, il colonnello Bonaventura, dopo aver ammesso, in via del tutto incidentale, i colloqui con Marino non verbalizzati e da questo fino ad allora taciuti, dichiarerà "che l'omicidio Calabresi era stato opera di un servizio d'ordine di Lotta continua... io questo, mi perdoni, lo davo come scontato dentro di me". Solo questa ferma determinazione al depistaggio può peraltro spiegare altre assurdità del processo. In particolare:

1) Marino ha fin dall'inizio cercato di coinvolgere nelle sue confessioni tutto il cosiddetto esecutivo di Lotta Continua, i cui membri non sono stati perseguiti, ma vengono comunque citati in tutte le sentenze come veri mandanti dell'omicidio (Sofri doveva soltanto "confermarlo"); a suo tempo erano stati comunque inviati avvisi di garanzia in merito a Marco Boato, Paolo Brogi, Roberto Morini e Mauro Rostagno e probabilmente, nel disegno iniziale, l'intero "esecutivo" dell'ex Lotta Continua era destinato alla galera;

2) Marino ha cercato di documentare la persistenza negli anni di un'organizzazione armata di Lotta Continua (persino dopo il suo scioglimento come gruppo politico) coinvolgendo come uno dei suoi ufficiali reclutatori l'attuale direttore del notiziario di Italia Uno Paolo Liguori (accusa prima stralciata dal processo e poi archiviata, ma che comunque aveva spinto i carabinieri a pedinare e a filmare i movimenti di Paolo Liguori).

3) Marino ha ripetutamente denunciato presunte e mai dimostrate minacce subite a opera di altri due ex militanti di Lotta Continua, motivo per cui ancora oggi si trova sotto la protezione dei carabinieri; cosa che gli consente di continuare a vendere crepes a Bocca di Magra, piazzando il suo furgone in un posto che occupa abusivamente;

4) I carabinieri - in particolare il capitano Elio Dell'Anna del Ros di Trapani - avallati dalla Procura di Trapani e dall'avvocato di parte civile del processo Calabresi, Luigi Ligotti, hanno cercato di attribuire l'assassinio di Mauro Rostagno a questa stessa struttura, allegando presunte dichiarazioni del giudice istruttore Lombardi (che ha negato, ma non ha mai sentito il bisogno di denunciare Dell'Anna per calunnia) e del giudice a latere del primo processo d'assise d'appello, dottoressa Bertolé Viale (niente a che fare con il sottoscritto), dalla quale siamo in attesa di una smentita e di una chiarificazione dei suoi rapporti con questa storia.

Depistaggi a tavolino

Molto verosimile risulta inoltre:

- che tutti questi depistaggi hanno trovato il loro brodo di coltura (vedi deposizione già citata del colonnello Bonaventura) nell'attività della Procura e di alcuni giudici istruttori di Milano, che non hanno perso occasione per interrogare, nel corso degli anni, i pentiti di terrorismo su presunti rapporti tra Lotta Continua e l'omicidio Calabresi, avallando e spesso sollecitando accuse e dichiarazioni prive di qualsiasi riscontro; che hanno, con ripetuti interventi extragiudiziali, alimentato il clima di sospetto da cui sono scaturiti i falsi del capitano Dell'Anno; che sono arrivati a sostenere, come ha fatto recentemente il sostituto procuratore Spataro, che è certo che Lotta Continua aveva una struttura armata e clandestina; ma che non si è potuto procedere contro i suoi membri perché... non se ne avevano le prove!

- che tutta la vicenda giudiziaria, sviluppatasi per nove anni e sette sentenze (più tre ulteriori sentenze per cause stralciate e rinviate a Torino e Aosta, dove tutti i coimputati di Marino sono stati assolti, mentre Marino ha dovuto "patteggiare" per strappare una condanna che non inficiasse totalmente la sua credibilità) è stata caratterizzata da continue pressioni esercitate sui giudici sia popolari che togati, per condurla all'esito di una condanna definitiva.

Alcune pressioni sui giudici popolari sono state documentate dall'indagine svolta dal sostituto procuratore di Brescia, Fabio Salamone; di altre si è avuta notizia, ma non è stato possibile documentarle. Ma è difficile comunque spiegare eventi come l'accanimento che ha sorretto la stesura della cosiddetta sentenza suicida: quella che ha portato all'annullamento dell'assoluzione di tutti gli imputati (Marino compreso) al secondo processo di appello; o la solerzia del giudice Della Torre (all'epoca sotto schiaffo da parte dei carabinieri di Bergamo, che lo avevano sorpreso a dar consulenze giuridiche a due notori mafiosi) nel perseguire una sentenza di condanna contro il parere dei giurati della sua corte; o il transito del primo ricorso in Cassazione dalla prima alla sesta Sezione - prima di approdare, per le proteste che coinvolsero a suo tempo alcune migliaia di persone, alle Sezioni Unite; o la scomparsa dei corpi del reato subito dopo l'omicidio (come i vestiti del commissario Calabresi) o, peggio ancora, dopo l'arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani (come i proiettili o l'auto del commando omicida); o l'imboscamento per ben venticinque anni delle carte del commissario Calabresi a opera del giudice istruttore Lombardi; o le messe in scena del sostituto Pomarici, che dichiara di "cascare dalle nuvole" quando sente dire ai carabinieri quello che essi stessi avevano concordato con lui e con il procuratore Borrelli in sede extragiudiziale poche ore prima, e che Pomarici sapeva sicuramente da parecchio tempo.

E' difficile spiegare tutto ciò, e altro ancora, senza supporre dietro tutta questa vicenda una regia occulta, che non ha mancato di far sentire il suo peso anche in sede giudiziaria al momento opportuno. L'istanza dell'avvocato Gamberini ce ne fornisce una chiave.

Un proiettile spuntato

di Manuela Cartosio da Il Manifesto, 12 marzo 1997

"Hanno ancora qualcosa da dire oggi, a venticinque anni di distanza dall'uccisione del commissario Luigi Calabresi, i due proiettili che lo uccisero?". Si apre con questa domanda l'articolo di Enrico Deaglio su Diario oggi in edicola. La risposta non viene tenuta in sospeso, segue alla riga successiva. "Sì, e comunicano verità scomode. Per esempio che non furono sparati dalla stessa arma. Per esempio, che non furono sparati da una pistola a canna lunga, ma da una a canna corta. Per esempio, che - forse - uno dei due proiettili non c'entra nulla con il delitto".
Per chi ha seguito nei suoi meandri l'inchiesta e il processo Calabresi non sono affermazioni o ipotesi del tutto inedite. Il pregio del pezzo sta nel mettere in fila, con lucidità e maestria, fatti, particolari, singolari stranezze che incrinano la verità di Marino sottoscritta dai giudici che hanno condannato Sofri, Bompressi e Pietrostefani a 22 anni. Quella verità sostiene che per uccidere Calabresi fu usata una Smith and Wesson calibro 38 a canna lunga, rapinata dallo stesso Marino e da altri di Lc nel '70 all'armeria Leone di Torino. La "letteratura" giornalistica sul delitto Calabresi, l'inchiesta e il processo si sono adagiati sull'ipotesi Smith and Wesson.

Una vulgata calibro 38
A partire dal 21 maggio '72, quattro giorni dopo il delitto, quando ancora non è stata fatta alcuna perizia balistica, l'Unità e il Corriere cominciano a scrivere che in via Cherubini ha sparato una Smith and Wesson calibro 38. Si fonda una tradizione, una vulgata, che con il passare degli anni diventerà una realtà. Confortata da perizie che - si scoprirà al dibattimento - si esercitano su un proiettile che non si sa da dove venga (l'unica cosa certa, in questo mare di dubbi, è il "grosso frammento" deformato di un proiettile Fiocchi calibro 38 estratto dal capo di Calabresi). Il grande pubblico sa che quel proiettile è stato eliminato "per motivi di spazio" dopo l'arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani (contemporaneamente l'auto del delitto veniva demolita perché "non aveva pagato il bollo). Non sa, invece, che di quel proiettile è oscura anche l'origine. Compare per la prima volta ufficialmente il 3 agosto '72 quando la questura lo deposita all'ufficio "corpi di reato" scrivendo che è stato "repertato in ospedale". Non è vero. Lettighieri, medici, infermieri del San Carlo, sentiti al processo, hanno escluso che il proiettile sia stato raccolto o trovato da loro. Quel giorno la questura deposita altro materiale interessante (questo è l'elemento, sfuggito alla difesa, che Deaglio scopre leggendo gli atti dell'epoca) da cui si evince che il proiettile Calabresi è stato confrontato con proiettili esplosi da armi della Baader Meinhof e da un revolver sequestrato a un boliviano. Spariti pure quelli, naturalmente. Forse il proiettile che il perito Salza confronta è quello Fiocchi calibro 38 trovato da un signore il 28 maggio del '72 (un po' troppo tardi) a quaranta metri (un po' troppo distante) dal luogo del delitto e consegnato ad un agente di polizia. Forse, perché non è stata rilasciata alcuna ricevuta. Di certo quel proiettile la questura se lo tenne un po' di tempo per sé e lo diede a Salza da studiare prima d'informare il magistrato.
Il secondo pilastro dell'articolo di Deaglio è una rilettura delle centoventi cartelle del parere pro veritate steso dal professor Antonio Ugolini nel '91 per la difesa Pietrostefani. Non essendoci più né il proiettile, né il grosso frammento il perito lavora solo su fotografie. Ma, potendosi avvalere di tecniche più raffinate di quelle usate vent'anni prima, conclude che proiettile e frammento non sono stati sparati dalla stessa arma. E' una conclusione che le sentenze di condanna hanno accantonato. I giudici hanno ritenuto superflua una nuova perizia d'ufficio e poi hanno sposato la memoria della parte civile (uno strano modo di essere "terzi").
Deaglio considera "surreale" l'ipotesi di due sparatori, "teoricamente possibile" quella di un killer che ha usato due pistole. Ma gli elementi che più gli stanno a cuore sono non sono ipotesi: il grosso frammento, frettolosamente dichiarato inutilizzabile, era "ben utilizzabile"; del proiettile peritato ancora oggi nessuno conosce la provenienza. Forse non basterà per ottenere la revisione del processo. Basta per ribadire che quando i dubbi e le stranezze sono così abbondanti, si assolve.

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L'antipatica dignità

Il comportamento dell'ex leader di Lotta continua davanti alle telecamere

di Miriam Mafai da La Repubblica, 25 gennaio 1997

L'OPERAZIONE di semplificazione di fatti e personaggi, propria della nostra televisione (con pochi passaggi sul video si può creare l'immagine del mostro o quella della vittima, del colpevole o dell'innocente) nel caso di Adriano Sofri non è riuscita. Eppure c'erano tutti gli elementi. La sentenza della Cassazione in primo luogo che, confermando una precedente condanna ha detto con la massima solennità che fu lui, proprio lui, a dare a Marino e agli altri l'ordine di uccidere con un paio di colpi di pistola il commissario Calabresi all'uscita della sua casa milanese. La protesta e l'incredulità di buona parte della pubblica opinione in secondo luogo, i dubbi di molti giuristi e uomini politici che ricordano le stranezze a dir poco dell'inchiesta, le contraddizioni dell'unico teste, la mancanza di riscontri e prove definitive. Sofri da "sbattere in prima pagina", secondo il titolo di un famoso film, come un mostro come un assassino o come l'innocente vittima di una orrenda macchinazione. Eravamo tutti lì a Tavernuzze, decine di operatori, di giornalisti e di fotografi pronti a rubare un'immagine o una dichiarazione, a cogliere un sorriso o una smorfia per comporre l' una o l'altra immagine. Sembrava facile e invece ancora una volta Adriano Sofri ci ha spiazzato. Avrebbe potuto barricarsi in casa (ne avrebbe avuto dopotutto il diritto visto che non sa quando potrà tornarci) o avrebbe potuto cogliere questa occasione per gridare in faccia a milioni di telespettatori la propria innocenza, per imprecare contro una sentenza che lo spedisce per il resto della vita in carcere.

E invece no. Sofri ha reagito alla nostra invadenza lasciandoci entrare in casa sua a curiosare tra i suoi libri e le sue cose, parlando con tutti nel modo lieve, ironico e orgoglioso che gli appartiene. Non ha dato spettacolo di sé, non ha gridato la sua innocenza, non ha inveito contro il pentito che lo accusa. Ha avuto qualche battuta amara anche nei confronti di se stesso, ha cercato ancora una volta di spiegare il complicato iter giudiziario che lo ha visto alla fine soccombente. E ieri a ora di pranzo, davanti a tutti noi e alle telecamere, è andato tranquillamente incontro agli agenti della Digos che erano venuti a prelevarlo.

Forse c'è una certa dose di arroganza in tanta dignità, in tanto controllo di ogni muscolo della faccia, in tanto pudore dei propri sentimenti, nel tentativo di nascondere alle telecamere persino un gesto casalingo e affettuoso come l'abbraccio all'amico o la carezza al cane. Tuttavia così, senza concedersi agli stereotipi, Adriano Sofri ha sconfitto il grande baccano e la semplificazione delle telecamere. In questa dignità che può essere giudicata arroganza sta una delle ragioni dell'antipatia che in molti suscita Adriano Sofri. Per quanto possa sembrare incredibile anche questo argomento è stato usato una volta contro di lui dal pubblico ministero. Sofri non è un personaggio accattivante, il suo comportamento davanti alle telecamere non risolve l'interrogativo: si tratta di un colpevole o di un innocente? La televisione in questo caso non ci ha mandato un messaggio semplificato, non ci ha trasmesso una verità, ci ha lasciati nel dubbio.

Proprio qui sta forse, per una volta, il valore di quelle immagini che ci invitano a conservare, come una risorsa di spirito critico, le nostre incertezze che ognuno potrà risolvere alla luce della propria sensibilità, intelligenza e conoscenza della vicenda.

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Sono un complice di Sofri

di Guido Viale da Il Manifesto, 25 giugno 1992

Al Procuratore della Repubblica di Milano: mi chiamo Guido Viale; insieme ad Adriano Sofri sono stato per sette anni, ininterrottamente, dalla sua fondazione al suo scioglimento, uno dei dirigenti di maggior rilievo del gruppo extraparlamentare Lotta Continua. In più, nel 1971 e nel 1972 ero il responsabile politico dell'organizzazione torinese del gruppo, cioè di quella in cui, secondo la versione delI'accusa, sarebbe stata messa a punto la struttura clandestina che avrebbe poi portato a termine l'omicidio del commissario di Ps Luigi Calabresi. Data la mia incontestabile posizione all'interno dell'organizzazione, è assolutamente impossibile che una struttura del genere potesse venir organizzata e una decisione del genere venir presa senza il mio esplicito consenso, o, addirittura, a mia insaputa. Da questa ovvia considerazione io traggo l'inoppugnabile certezza dell'innocenza di Bompressi, Pietrostefani e Sofri rispetto alle accuse per cui sono stati condannati in prima e seconda istanza.

Al contrario, da questa stessa considerazione chi ha mosso l'accusa e chi ha giudicato Sofri, Pietrostefani e Bompressi dovrebbero trarre l'inevitabile conseguenza che io sono colpevole quanto loro. Queste cose le ho già dichiarate più volte in pubblici interventi, nonché nella deposizione che ho reso di fronte alla Corte di Assise di Milano durante il dibattimento di primo grado, senza incorrere in alcuna misura giudiziaria.

L'idea di una chiamata di correo assai più estesa di quella limitata ai tre principali imputati era sicuramente alla base della deposizione messa a punto nei lunghi colloqui intercorsi tra Leonardo Marino ed alcuni ufficiali dei carabinieri, e successivamente raccolta dal sostituto procuratore Ferdinando Pomarici, deposizione su cui si regge l'intera accusa.

Questa stessa impostazione è stata peraltro pedissequamente ripresa nella sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio a suo tempo redatta dal giudice istruttore Lombardi e poi meccanicamente ricopiata nelle motivazioni della sentenza di primo e di secondo grado che hanno condannato gli imputati. Secondo questa tesi, a decidere l'uccisione del commissario Calabresi sarebbero stati non solo gli imputati Sofri e Pietrostefani, bensì un intero organico dirigente, dai confini incerti, ma di cui io avrei dovuto inevitabilmente far parte.

L'accusa di omicidio, in base a quanto era stato più volte anticipato dalla stampa dell'epoca, e da oculate fughe di notizie dalla Procura di Milano, si sarebbe presto estesa a tutti i dirigenti del gruppo. Tanto è vero che comunicazioni giudiziarie in tal senso erano state a suo tempo inviate all'allora senatore Marco Boato, a Mauro Rostagno - ucciso dalla mafia poco dopo aver ricevuto questo avviso - a Roberto Morini e a Paolo Brogi.

Se questa impostazione iniziale non è stata mantenuta nel tempo, al punto che gli inquirenti non hanno nemmeno sentito il bisogno di convocare gli indiziati durante l'istruttoria, è solo perché l'impianto accusatorio costruito sulle deposizioni di Leonardo Marino ha cominciato a far acqua da tutte le parti. Sicché le energie degli inquirenti si sono dovute concentrare sul tentativo di tappare queste falle, che sarebbero state ancora più clamorose se avessero allargato ulteriormente il campo di indagine.

Cercare di tappare le falle ha comunque richiesto alla conduzione del processo continui cambiamenti delle versioni dei fatti fornite sia da Marino che dagli inquirenti, soppressione di corpi di reato, menzogne in aula. Per concludere con il grottesco escamotage giudiziario secondo cui alcuni dirigenti di Lotta continua che avrebbero partecipato alla riunione in cui sarebbe stata decisa l'uccisione del commissario Calabresi - tra cui io - non dovevano essere incriminati perché... avrebbero votato contro!

In realtà, il mezzo legale per tenere fuori queste persone dal processo - e non dover così affrontare contraddizioni ancora più eclatanti è stato molto semplice: mentre in aula e sui mass-media si discuteva di Lotta continua come di una vera e propria organizzazione terroristica - anzi, la prima organizzazione terroristica italiana - questo capo di accusa, con la conseguente imputazione di banda armata, non è mai stato sollevato formalmente nel corso del dibattimento, né compare nelle motivazioni delle sentenze di primo e di secondo grado.

Ora apprendo che, a pochi giorni dalla sentenza della Cassazione, per sottrarre gli imputati al loro.giudice naturale, con un semplice atto amministrativo e non con una sentenza, è stato stabilito che l'omicidio del commissario Calabresi sarebbe stato effettivamente un atto di terrorismo, compiuto quindi, da una "banda armata".

Si tratta di una ennesima operazione per cambiare le carte in tavola, analoga a quelle compiute durante le precedenti fasi istruttorie e dibattimenti, con il solo scopo di assicurare una condanna definitiva, già scritta molto tempo prima che l'intera vicenda processuale avesse inizio. Ciò rigetta però sull'organizzazione di cui io ho fatto parte e sono stato dirigente per anni l'accusa di banda armata, inficiando tutto il precedente svolgimento della vicenda processuale. Chiedo pertanto che questa imputazione venga sollevata in modo formale anche contro di me, giacché sono deciso a comparire in giudizio per rispondere a questa infamia.

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Entro la fine dell'anno

di Pierluigi Sullo da Il Manifesto, 2 marzo 1997

Due ore con Sofri, Bompressi e Pietrostefani nella saletta dei colloqui del carcere di Pisa. Per capire, dopo la Cassazione, che cosa accadrà.

Felice ha ricevuto molta posta, ed era così contento che il giornale parlasse di lui che ha detto alla sua ragazza di conservare il ritaglio. Poi è uscito dal carcere. Aveva un residuo di pena da scontare - per un furto o una cosa così - e il suo datore di lavoro si è offerto per l'affidamento. Così adesso lavora da qualche parte in Toscana, ha la ragazza, la sera va a giocare a calcetto - è un portiere molto bravo - e in più ha questo bel ricordo. Che una persona nota, chiusa in carcere, abbia scritto di lui nel giorno in cui diecimila o più persone si radunarono a Pisa per chiedere la scarcerazione di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, e per simboleggiare questo desiderio liberarono centinaia di palloncini gialli verso le nuvole della giornata piovosa, e il manifesto intitolò la lettera di Sofri "Un palloncino giallo anche per Felice".
In compenso, le quotidiane partite di pallone all'aria, se hanno perso un buon portiere, hanno acquistato un mediocre centravanti: è Adriano, al quale, come dice Giorgio (cioè "Pietro", come tutti lo chiamano), "fanno segnare i gol". Infatti sono un tantino eccessive le pretese di Sofri, che, ammiratore di Sylvester Stallone, immagina "di portare una metaforica fascia rossa sulla fronte e di avere poderosi muscoli morali". E pertanto l'altra sera si è entusiasmato, guardando in tv il film in cui Stallone è un detenuto che combatte contro un direttore perfido: curiosa sensazione, guardare il carcere in tv stando chiusi in cella, "e quando Stallone ha gridato 'Agente!' - ridacchia Pietrostefani - l'agente è venuto a chiedere cosa c'è".

I colori della tv
Quella del film di Stallone è stata una delle volte in cui Adriano ha alzato il volume della tv, mentre di solito scrive, e tiene acceso il televisore solo per guardare i colori: "La tv - spiega lui - è l'irruzione dei colori nella bicromia del carcere, grigio e bianco, bianco e grigio. Ed è una delle sofferenze, insieme al non poter guardare oltre una certa distanza, circondato di muri come sei, tanto che la vista peggiora subito". Il direttore del carcere di Pisa, a differenza del suo collega nel film, si mostra affabile e gentile. Quando siamo arrivati, Valentino Parlato e chi scrive, ci ha fatto accomodare nel suo ufficio e si è complimentato per il modo in cui abbiamo pubblicato gli stralci delle motivazioni della Cassazione, dopo la sentenza che ha definitivamente condannato a 22 anni i tre detenuti che siamo venuti a visitare. "Me l'hanno segnalato gli educatori - dice il direttore Cerri - e così ho potuto documentarmi un po'". Sofri si è documentato a sua volta, da un paio di giorni ha le cento e passa pagine della Cassazione, "e ho cominciato a scrivere, in proposito", dice. Il colloquio si tiene in una saletta dove sono un tavolo, alcune sedie di plastica da bar estivo e un mobile vetrina pieno di libri di tutti i generi, compreso Gramsci, e che nelle interviste televisive ad Adriano in queste settimane ha fatto da sfondo, perché gli altri muri sono bianchi e grigi. Noi aspettiamo che arrivino con una certa ansia, perché tutto questo aprire e chiudere cancellate pesanti e porte blindate non può non innervosire. C'è un gruppo di detenuti in arrivo, le mani legate e accompagnati da carabinieri. Normale vita carceraria, sembra la solita miscela di ospedale psichiatrico, caserma e collegio maschile. Ma le tre persone che entrano dalla "blinda" della saletta colloqui - Ovidio dall'espressione triste, Pietro placido, Adriano ironico e rapido nello svolgere concetti complicati - sono amici, sono innocenti e sono uguali a noi. Perciò si è inquieti, nello stringere mani, dare baci sulle guance, accendere sigarette, sedersi e parlare. Più tardi, già fuori del carcere, Valentino, che conosce Adriano da quasi trent'anni, dirà che gli è parso animato da una tensione molto forte, e dolorosa, nonostante abbia sempre parlato in quel modo svelto, sempre accostando ai concetti forti l'ombra di un sorriso un po' ironico e un po' cordiale.
Ora le giornate del carcere impongono a tutti e tre il faticoso tentativo di adattarsi a un ritmo, usandolo. Ore 8, si apre la blindata; ore 8,30 il cancello della cella. Ore 9, si va all'aria. Ore 11, si rientra; ore 11,30, si richiude il cancello dopo che è passata la "casanza" (il cibo che passa la casa, cioè, e che tutti, "tranne i poverissimi", rimpiazzano con quello che comprano alla "spesa"). Ore 16,30, si sta "aperti nel corridoio", poi di nuovo l'aria e il gioco del pallone; ore 18 si chiudono blindata e cancello, fino al mattino successivo. Pietro elenca: "Proibiti gli occhiali da sole, gli accappatoi con il cappuccio, i libri rilegati...". "Proibito il walk-man, proibite le cassette con l'involucro opaco, proibite le stilografiche...", continua Adriano, e mostra la sua, che ha alla fine ottenuta, ma ha dovuto fin qui rinunciare alla sua musica lirica, "che mi ha aiutato a Bergamo, nell'altro mio carcere". La lirica? Lui sorride: "Quando sono dentro, devo espandermi". In questo percorso obbligato s'incastrano le attività di ciascuno. Pietro va in giro a parlare coi tossicodipendenti, e ha cominciato a scriverne. Ovidio, tra l'altro, comincerà presto a rispondere in pubblico alle molte lettere che gli arrivano, sul manifesto, una volta la settimana. Adriano, oltre a quel che scrive sul Foglio e su Panorama, ha deciso di rispondere a tutte le lettere che gli sono arrivate: "Finora sono riuscito a scriverne tra le tre e le quattrocento, ma sono in un ritardo irrimediabile", dice. Che persone ti scrivono? "La cosa sorprendente è che ricevo moltissime lettere di signore di una certa età, o di persone invalide o malate. O all'incontrario scrivono moltissimi ragazzi e ragazze dai 14 anni in su, che, con un tono di estrema confidenza, mi chiedono spiegazioni e racconti degli anni settanta, e qualche volta chiudono con frasi come 'Adesso la professoressa mi chiama, devo interrompere'". Sulla sentenza, poche parole. Seguiranno analisi a fondo, tempo ce n'è. "Ci hanno trattato da impuniti", dice solo Ovidio, che poi esce perché sono arrivati i parenti. "Di cosa dovremmo pentirci?", chiede Pietro. Adriano dice: "Per vendicarsi avevano bisogno di dissociarci dal nostro passato. Questa sentenza è una vendetta sul nostro presente, in cui si mescolano vanità personali, disegni politici, l'aver voluto usare questa vicenda via via per far fuori i socialisti, confermare il primato della procura di Milano, difendere la legislazione sui pentiti. E in questa cattiveria da vicepresidi di provincia è scomparso l'apparato di prove e di confutazioni delle presunte prove: non interessa più se quel certo giorno a Pisa pioveva o no. Questo l'ho capito a una udienza dell'ultimo processo d'appello, eravamo forse in sei persone, quando il procuratore generale Lo Russo disse due cosa inaudite. Disse nella sua arringa che esiste una Cassazione vecchia e una Cassazione nuova, e che la sentenza delle Sezioni Riunite che ci aveva dato ragione era frutto di quella vecchia, e citò nome e cognome di uno dei giudici 'vecchi'. Poi se la prese con il procuratore generale della Cassazione, Brancaccio, quasi come con un complice di Sofri, perché aveva risposto - polemicamente - a una mia lettera. Allora capii che in Italia siamo in un regime di semi-legalità, peggiore dell'illegalità perché è ipocrita".

Tutte le vie possibili
E adesso? "Adesso percorreremo tutte le vie possibili. Chiederemo la revisione del processo, ma è una procedura talmente lunga da essere in pratica priva di conseguenze pratiche. Faremo il ricorso europeo. E poi siamo grati di tutte le cose che si fanno, della manifestazione, la raccolta di firme, i comitati e i dibattiti. Ringraziamo tutti". Un "ma" resta sospeso. I tre non si guardano neppure, tra di loro, forse ne hanno discusso molto e hanno preso una decisione. Aggiunge Adriano con il tono spassionato di chi fa una constatazione: "Entro la fine dell'anno ci comporteremo in modo estremo". E subito dice qualcos'altro, riavvia la conversazione, Pietro esce e rientra, Ovidio va via. Infine ci salutiamo, sono passate quasi due ore, usciamo dalla saletta e noi ci avviamo verso il cancello a destra, Pietro e Adriano verso quello a sinistra. Aspettiamo che la guardia ci apra, e loro due alzano automaticamente le braccia, per farsi perquisire. I cancelli si aprono, l'uno e l'altro. Mentre usciamo nel cortile pieno di sole ci voltiamo indietro, e li vediamo già a metà del corridoio, Adriano si gira e alza il braccio in un segno di saluto, la mano chiusa in un pugno, o così sembra nella penombra. Sarà che non riesce a non fare dell'ironia, forse.

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Le allucinazioni di Marino

Intervista a Luciano Della Mea

di Erasmo d'Angelis da Il Manifesto, 6 febbraio 1997

Luciano Della Mea oggi ha 73 anni e vive a Torre Alta, una frazioncina di Lucca; rappresenta una bella pagina della sinistra italiana: guerra in Montenegro, Resistenza, poi l'inizio dell'attività giornalistica a Milano all'Avanti! e quindi la militanza che lo portò a fondare nel '67 con Adriano Sofri il Potere operaio pisano, la rivista di cui divenne direttore e intorno a cui nacque poi il gruppo del Potere operaio. "Sofri - racconta - l'ho conosciuto nel '64 quando era studente a Pisa e conobbi allora anche Bompressi e Pietrostefani. Mi considero il loro fratello maggiore. L'altro giorno, quando ci siamo rivisti con i vecchi amici davanti al carcere di Pisa per salutare Pietrostafani, ho scoperto che il più anziano del gruppo sono io".

Della Mea restò con Sofri fino al '69 quando Adriano ruppe e decise di fondare Lotta continua. "Anche se all'inizio non mi convinceva - ricorda - restai vicino a Lc fino al marzo 1972, quando Sofri e Lanfranco Bolis misero a punto le Tesi. A quel punto rompemmo, perché le consideravo caratterizzate da estremismo infantile. Loro adombravano un colpo di stato imminente, davano per spacciata la sinistra, io le discussi una per una e l'editore Bertani pubblicò le mie considerazioni nel libro "Proletari senza comunismo"".

Dunque c'eri anche tu a Pisa quel 13 maggio 1972, quattro giorni prima dell'assassinio di Calabresi, quando Lotta Continua organizzò il comizio per la morte dell'anarchico Serantini?


C'ero anch'io, e ricordo che fui contrario a quella manifestazione. Talmente contrario che presi l'iniziativa e telefonai a Cossutta, a Botteghe oscure, perché volevo spingere anche il Pci a ricordare Serantini. Così quello stesso giorno, accanto alla manifestazione di piazza San Silvestro con Sofri, c'era quella di piazza Carrara del Pci con Giancarlo Pajetta. Questo si è rivelato un particolare importante, perché i testimoni delle due manifestazioni, politicamente avversi, affermano che quel giorno pioveva a dirotto. Solo Leonardo Marino afferma che quel giorno non pioveva ed è stato creduto.

Del resto, basta scorrere le cronache dei giornali dell'epoca, dal "manifesto" a "Paese Sera", alla "Nazione", per leggere una serie di "pioggia battente", "pioggla insistente", "fuggi fuggi per la pioggia". Ma secondo Marino proprio al termine del comizio, in un bar della piazza, Sofri e Pietrostefani gli avrebbero impartito l'ordine di eseguire l'attentato...


Intanto, quel giorno Pietrostefani non era a Pisa. Mi pare poi che fosse un giorno di festa, e nei dintorni della piazza c'era solo un bar frequentato da sportivi, talmente pieno di gente e incasinato che difficilmente poteva essere quello il posto adatto per dare mandati. Mi domando perché molti testimoni non sono stati creduti, come Guelfo Guelfi, che stette sempre accanto a Sofri e dichiarò che Adriano non si allontanò mai da solo e ne tantomeno andò in un bar. Dopo il comizio Sofri andò con Guelfo a casa di Soriano Ceccanti e poi a casa sua...

Dove li raggiungesti anche tu...


Andai a casa di Sofri in via Pellizzi dove c'erano la moglie, Alessandra Peretti, con i figli Nicola e Luca. C'erano alcuni compagni che volevano salutare Sofri e c'era anche Marino, per cui non si capisce perché quel mandato Sofri doveva darlo al bar e non piuttosto a casa sua, dove avrebbero potuto appartarsi tranquillamente. La verità è che sono innocenti tutti e tre, io li conosco bene. Se Sofri avesse voluto la morte di Calahresi sarebbe andato lui di persona ad ammazzarlo, questa è la sua struttura morale. E' scandaloso giudicare attendibile una persona che presenta un racconto del tutto privo di riscontri. Ci sono testimoni che affermano che Bompressi era a Massa il giorno dell'omicidio Calabresi ma nessuno ha proceduto a riscontri. Mi ricordo che quando andai a testimoniare a Milano, al primo processo, il giudice mi ritenne inattendibile per partito preso e non c 'e stata nessuna accusa di falsa testimonianza.

Ti aspettavi questa sentenza?


No, mi illudevo che non reggesse, un'accusa del genere. Ma non credo sia una vendetta politica, è piuttosto la dimostrazione di una logica perversa interna alle istituzioni, alla magistratura, alla sfera politica: una volta presa una determinata direzione non tornano indietro anche se è sbagliata. Ma oggi abbiamo l'assoluta necessità della continuità nell'azione di denuncia, perché il rischio e che pian piano le cose cadano nel silenzio. Il comportamento di queste tre persone, che accettano la galera pur essendo innocenti, e un esempio di dignità rara. Bisogna fare di tutto per tirarli fuori.

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Noi, i colpevoli

di Carlo Oliva da Il Manifesto, 4 febbraio 1997

Una premessa personale. Provo un certo imbarazzo ad occuparmi della sentenza della Cassazione che ha segnato la condanna definitiva e la successiva incarcerazione dei miei ex compagni Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. Sara' perche' in quella brutta storia mi sono sempre sentito coinvolto, giacche' ho fatto parte anch'io di Lotta continua e non ho mai avuto motivi di deprecare quella mia scelta. Sara' perche', nonostante questo, non sono mai riuscito a riconoscermi in quella che i giornali definiscono la "lobby") di Lotta Continua, dei cui esponenti non mi piacciano ne' le posizioni ne' gli argomenti. E sara' perche' ho avuto la strana impressione che nell'emozione che la pronuncia della Cassazione, con le sue assurdita', ha suscitato nel paese ci fosse qualcosa che non andava. Come se fosse la testimonianza del fatto che vent'anni di dibattito sulla giustizia, sul garantismo, sulla logica coercitiva con cui lo stato si ostina ad affrontare i movimenti antagonisti, siano stati piu' o meno o meno inconsapevolmente rimossi. Che senso ha sottolineare le contraddizioni e i controsensi nelle accuse di Marino? E' vero, Marino ne ha detto di tutte: ha fatto splendere il sole quando pioveva, ha fatto partecipare latitanti a un pubblico comizio, ha sbagliato il colore dell'auto e la direzione in cui e' fuggita e cosi' via, ma tutto questo non inficia i motivi per cui i giudici, a quanto pare, gli hanno creduto. Motivi che si identificano solo e soltanto nel suo status di pentito. Non dobbiamo lasciarci fuorviare da quanto e scritto nei codici sulla "coerenza" e i "riscontri" necessari perche' sia data fiducia alle chiamate di correita'. Sono belle parole, ma di fatto e' da vent'anni che qualcuno ha deciso che ai pentiti bisogna credere sempre, che buona parte della magistratura ha interiorizzato la convinzione di non avere altri strumenti, o altre capacita' con cui risolvere i casi che le vengono proposti se non attraverso questi malinconici "collaboratori".

Dopo venti anni, non e cambiato niente. Anzi, sappiamo che oggi nessuno e sicuro di fronte a un pentito, nemmeno se e' stato quarant'anni al governo. Chi ha assistito alla Prima serata di giovedi' scorso avra' notato l'accanimento con cui Vigna e Caselli, con qualche distinguo non significativo, difendevano il meccanismo delle leggi premiali. Quel meccanismo, ricorderete, innestato in nome della necessita' di stroncare la lotta armata, e' stato rafforzato e istituzionalizzato perche' bisognava farla finita con la criminalita' organizzata e ha finito per improntare delle sue contraddizioni buona parte della prassi giudiziaria. Niente di strano che lo si applichi, oggi, a persone che, pur imputate di un reato di sangue, con la lotta armata o con la criminalita' organizzata non hanno evidentemente nulla a che fare. A Marino si e' creduto come si e' creduto ai=46ioroni, ai Peci, ai Sandalo, ai Barone, ai Savasta. Cose vecchie, forse. Ma non tanto vecchie da impedire che oggi nelle prigioni italiane, oltre ai miei tre ex compagni, ci siano almeno altri 180 prigionieri politici di vecchia data (per non dire di quelli costretti all'esilio e di quelli che in esilio e di esilio sono morti). E tutti ricordiamo lo zelo con cui la classe politica ha fatto muro contro le timide, ma ricorrenti proposte di dare una qualche "soluzione politica" ai loro casi.
Anche l'ultima, moderatissima, proposta di una legge di indulto, che all'inizio della legislatura sembrava avere qualche possibilita', oggi sembra aver fatto definitivamente naufragio. In compenso molti, compresi molti di quelli che si sono sempre virtuosamente opposti a ogni proposta di amnistia, chiedono la grazia per Sofri, Bompressi e Pietrostefani ( che hanno dichiarato, con molta' dignita' di non volerla): evidentemente, perche' considerano il loro caso diverso da quello degli altri; in qualche modo piu' scandaloso. Ma lo fanno anche perche' la grazia, con il suo carattere di eccezionalita' e, appunto di "gratuita'") e' un buon mezzo per chiudere un episodio che potrebbe ridestare il classico can che dorme, richiamando l'attenzione su cose che si preferirebbero morte e sepolte. Non sara' un caso se e' d'accordo anche qualcuno che l'ha pronunciata. Non credo che si possa condividere questa logica: non sono di principi tanto rigidi da sostenere che sarebbe meglio tenere i miei ex compagni in galera piuttosto che ricorrere a uno strumento cosi' peloso, ma e ovvio che la via da seguire dovrebbe essere altra. Ma non e' questo il punto. Il punto e' che non bisogna dimenticare che il problema non riguarda solo loro e non puo' essere risolto solo per loro.

E poi c'e' un'altra considerazione. I tre condannati evidentemente, non sono visti dall'opinione pubblica come persone pericolose. Sono ovviamente diversi da com'erano quando sono stati commessi i fatti di cui sono accusati. Questo rafforza, anche dopo la condanna, una certa presunzione di innocenza. Ma io non credo che vadano considerati innocenti. Mi spiego: sono sicurissimo che non hanno avuto nulla a che fare con l'assassinio del commissario Calabresi. Ma questo non significa che siano innocenti. Hanno comunque una colpa grave, che non gli e stata perdonata e che spiega l'accanimento di cui sono stati oggetto. Hanno cercato, a suo tempo, di cambiare la societa' in cui vivevano, non hanno accettato la logica che la reggeva (e la regge), le gerarchie che vi vigevano, le procedure e le modalita' di intervento che esse avevano predisposto. Hanno cercato, come si diceva con qualche inutile pomposita', di "fare la rivoluzione"). E, soprattutto non ci sono riusciti, che e', in ultima analisi, il motivo per cui sono finiti come sono finiti.
Certo, in questo dissennato proposito non erano i soli: erano - eravamo - in parecchi. Ma non potevano condannarci tutti, naturalmente. E non ce n'era neanche bisogno. Le condanne politiche, quali che siano i fatti in nome di cui vengono irrogate, hanno sempre una forte valenza simbolica, non riguardano soltanto chi viene occasionalmente spedito in galera, ma chiunque abbia motivo per identificarsi in lui. Ma se sui condannati (sugli sconfitti) ricade la "colpa" del tentativo, anche chi li condanna ha le sue responsabilita'. Chi vince vince: il mondo che si ritrova per le mani e' quello che ha voluto lui. Be', si guardino intorno, i vincitori di oggi. Prendano buona nota della ferocia e della fatuita' che dominano le nostre (e le loro) vite. E si vergognino.

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Il mio giudizio su di voi

Ovidio Bompressi, da Il Manifesto, 13 maggio 1990.

Mi domando: perché parlarne? perché scriverne? Per non essere messo a tacere dal gran dire di altri? Perché questo mio silenzio non venga frainteso? - Se il mondo ti scrive addosso, tu scrivi addosso a lui!-mi ha suggerito qualcuno. Far sentire la propria voce nel coro. Sciogliere la propria campana in risposta alle trombe altrui. Ma la mia voce è stonata, la mia campana è fessa. Molti giudicano: e io rilutto a farlo, a distinguere le parti, a dividere. Ogni parola suona quasi come una sentenza: ciò che si sente, che si ritiene. Ma talvolta, proditoriamente, è anche una sorta di sentinella posta sul percorso: che sta in ascolto del nemico. Questo è ben più pericoloso di quanto possa sembrare: non un semplice tranello, ma un farsi fuori. Porsi di fronte all'altro come davanti a un nemico, e riconoscersi nel considerarlo tale. In questa caccia al nemico, che è il proprio simile, il fratello, sta la violenza della parola e la forza dei fatti. Quando pensiamo "sono i fatti che contano, non gli uomini", è come se sentissimo chiaramente ciò di cui siamo vanamente in ascolto. Il mio simile mi calunnia, mi arreca danno e dolore, calpesta la mia vita, i miei affetti: aspira a considerarmi suo nemico. Cerco di difendermi come posso, ma di lui, come nemico, non riesco ad accorgermi. Il mio simile parla bene di me, ma col nemico nel cuore. Sente di volermi bene, mentre ascolta il nemico. Mi considera suo amico, per riconoscersi nemico. E il mondo frazionario del politico: ogni causa, ogni ideologia riporta ad antiche divisioni fratricide. La falsa coscienza di sé nell'altro si ravviva in una temperie sociale dove ostilità e diffidenza permeano i rapporti umani e civili fino alle più alte istituzioni statali e religiose.

Ci vuole prudenza a parlare. La legge che ci informa è da sempre quella dei vincitori, le cui parole, i cui fatti si legittimano attraverso il nemico. Questa legge è depositaria tra gli uomini della necessità del nemico, e del suo annientamento.

Perché Marino mente? Perché ce l'ha tanto con me, con Sofri e Pietrostefani, con Lotta Continua, con coloro che in un recente passato e con inequivoca amicizia si sono prestati ad aiutarlo? E perché viene ritenuto sincero contro di noi, da uno schieramento colpevolista già ben organizzato dall'inizio e prima ancora di un qualunque accertamento istruttorio? Schieramento che ha visto furoreggiare, purtroppo fino alla sentenza, in una larga acquiescenza, carabinieri, magistrati in cordata e apparati ideologici con il loro codazzo di legulei e pennivendoli. Tutti coloro che si sono qualificati puntando il dito accusatore contro di noi - noi tre imputati, i nostri familiari e amici - certo sono coscienti di aver autorevolmente brigato per la rovina di alcune centinaia di persone.

Lasciamo da parte la Storia e la notte della repubblica. Ci sono solo le menzogne e il rancore di Leonardo Marino e Antonia Bistolfi, suffragati da vari personaggi, non meno meschini e falsi, intervenuti a vario titolo nel caso sia prima che durante la fase istruttoria e quella processuale. Sono trascorsi pochi giorni dalla sentenza, pronunciata in nome del popolo italiano, che ci condanna alla pena di anni ventidue di reclusione, più gli spiccioli. Poi ci sarà il giudizio in appello, tra un anno, forse prima. Il tempo passa. Nell'incapacità di darmi un nemico, svanisce in me l'autorità della legge, mentre aumenta il senso di appartenenza al tutto racchiuso anche nella più piccola cosa.

Dal giorno del nostro arresto, il 28 luglio 1988, all'inizio del processo, quasi un anno e mezzo dopo, avevo rivisto Marino solo due volte. La prima nel corso del nostro confronto, da me richiesto, davanti al G.I. Lombardi, poi in occasione di una intervista televisiva. Al confronto era ancora lui, quello che mi aspettavo: turbato. impacciato, la testa china. gli occhi che misuravano lo spazio tra i piedi, la voce che tradiva la vergogna di chi sa di compiere un atto inqualificabile. Dopotutto come aveva ripetuto nelle sue precedenti deposizioni. gli dispiaceva perché mi considerava un amico. Ma tornando a Massa dopo il confronto, riaccompagnato dai carabinieri alla mia prigione domiciliare, ebbi da loro la sgradevole sorpresa di quanto Marino già fosse umanamente lontano da me. Mi raccontarono, infatti, come Marino, alla fine del confronto, appena scorti gli ufficiali dei carabinieri che lo aspettavano fuori nel corridoio, avesse rivolto loro un gesto di esultanza levando le braccia in alto, sorridente, soddisfatto. Ce l'aveva fatta! Non aveva perso! Ed era grato ai suoi sostenitori. I carabinieri erano già i suoi veri complici. Nella sua prima apparizione televisiva, poco dopo, se la cavò pietendo. Ma andava prontamente imparando che qualificarsi attraverso un nemico, può rendere anche sotto il profilo di un consenso più vasto. Al processo, l'ho visto finire quasi in bellezza. Man mano che più serrata e sfrontata si faceva l'accusa nei nostri confronti, man mano che l'individuazione di noi come nemici mafiosi. barbari si arricchiva di nuove ingiurie e voci, più Marino si ringalluzziva. Più crescevamo ai suoi occhi come nemici, più Marino si sentiva legittimato nella sua parte di pentito accusatore. Più voci si aggiungevano al coro degli accusatori e dei detrattori, più la legge gli conferiva una inopinata stima di sé. Arriva il giorno della sentenza: la sua condanna (sic!), e la nostra. Ma Marino non demorde. Ormai sa che con il nemico si deve condurre una guerra guerreggiata fino in fondo. Diventa più accortamente spavaldo, abile ormai davanti ai media: si rivolge con naturalezza a Sofri esortandolo a confessare e ironizzando sui motivi del suo mancato appello; divulga a mezzo stampa una energica richiesta di chiarimento indirizzata alla sezione del Pci dove risultava iscritto prima della sospensione cautelativa. Marino è oggi altro da sè, perso a se stesso. E' diventato, proprio lui, l'uomo politico capace di percorrere le vie più abiette e fratricide dell'animo umano.

Che si vuole da coloro che si vorrebbe annientare, dichiarare vinti, soggiogati a una siffatta giustizia? Nessuno di noi imputati e dei nostri amici, lo so per certo, coltiva scientemente in cuor suo il proprio nemico. Abbiamo cercato di difenderci, prima e durante il processo, mantenendoci su un piano strettamente giudiziario e di fiducia nel diritto. Ci siamo sempre proclamati innocenti. Centinaia di testimoni, pressoché tutti quelli addotti e dalla difesa e dall'accusa, hanno smentito categoricamente Marino. Le difese degli imputati, le arringhe e le memorie difensive, l'attento vaglio delle carte dell'istruttoria, hanno messo in luce le innumerevoli menzogne, contraddizioni, imbrogli e falsificazioni del racconto di Marino. In questo modo, forse, siamo scivolati nella palude dell'impianto accusatorio. Rispondere a tutto, di tutto, con puntiglio, con generoso rigore. Forse un eccesso di fiducia verso chi ci ascoltava, poiché fallacie e volgari insinuazioni, pur smascherate, sempre rispuntavano come le teste dell'idra. In questo modo, ancora, è possibile che sia uscita un'immagine contraffata di noi: siamo scesi, perché costretti, sul terreno dei nemici, ma senza designarne uno a nostro vantaggio.

Oggi più di ieri, dopo la sentenza, c'è chi penserà che siamo colpevoli, o ancora più colpevoli, che siamo innocenti; che Marino mente, che dice il vero, per intero o a metà. Non so che aggiungere a una tale partizione. So di essere parte in causa, e, quindi, quanto sia improbabile la neutralità, per non parlare dell'astensione dal giudizio. Ma non siamo sempre e comunque parte in causa? Non sono io, ad ogni respiro, anche inconsapevolmente, in intimo rapporto di spirito e di sangue col mondo? Inconsapevolmente... E' arduo farsi piccoli della vastità sconsolata.

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"Gli imputati dovevano essere assolti"

Paola Sacchi intervista Stefano Rodotà, da L'Unità, 12 novembre 1995

"La formula americana per cui la condanna arriva solo quando la colpevolezza dell'imputato è stata provata al di là di ogni ragionevole dubbio è la formula della civiltà giudiridica. Io credo che è quella implicita ormai anche nel nostro sistema. Ma, ora, di fronte a queste carte io non credo che nessuno possa dire che ogni ragionevole dubbio sia stato superato...". Stefano Rodotà commenta a caldo la sentenza che condanna a 22 anni Sofri, Bompressi e Pietrostefani. Una decisione che giudica "estremamente grave, sorprendente, ingiustificata".

Allora, la decisione della Corte d'Appello di Milano giunge dopo un lungo e frastomante carosello di condanne e assoluzioni. Che ne pensa professor Rodotà?

La mia reazione non può che essere di incredulità dopo una vicenda così lunga e dopo l'intensa discussione svoltasi sia all'interno dei diversi gradi di giurisdizione sia nell'opinione pubblica. Io credevo francamente che tutto ciò avesse chiarito i limiti dell'impianto accusatorio.

E, invece, pare che si ricominci da capo...

Sì, ora ci ritroviamo a partire da capo. Devo dire, certo, che in questi casi si usa sempre la clausola prudenziale in base alla quale si aspetta di leggere le motivazioni della sentenza. E però io sono tra quelli che hanno avuto occasione di vedere molte di queste carte, le sentenze precedenti, quindi mi sento non dico di sbilanciarmi, ma di esprimere il mio giudizio anche prima che queste motivazioni vengano. Ripeto, di fronte alla debolezza di quell'impianto accusatorio, mi sembrava del tutto naturale e corrispondente al direi elementare criterio di giustizia che si assolvessero gli imputati da un'accusa così grave e sostenuta da indizi così deboli, contraddittori. Un'accusa sostenuta da indagini che hanno manifestato non solo estrema approssimazione ma anche molti dubbi: il rapporto di Marino con i carabinieri...

Un passato lontano sembra quindi tornare con tutti i suoi in quietanti dubbi, fantasmi ed aloni di mistero mai fugati.

Insisto, ci troviamo di fronte ad una fragilità di fondo dell'impianto accusatorio e anche a dubbi su come nasce questo impianto accusatorio. Una inconsistenza che viene fuori chiaramente leggendo tutti i pronunciamenti precedenti sia quelli di condanna sia quelli di assoluzione.

Ma qui siamo in presenza ad una condanna a 22 anni di reclusione, una decisione che i magistrati avranno ben ponderato...

Io lo giudico un fatto estremamente grave tenendo conto del particolarissimo caso che abbiamo di fronte, all'insistenza dei magistrati di voler ad ogni costo tirare da quelle premesse questa conclusione accusatoria. Ripeto, a me sembra che non ci fossero gli elementi...

Sono tempi in cui il tema della giustizia è al centro del dibattito. Nelle sue considerazioni si riferisce anche alla discussione generale di questi giorni?

No, assolutamente. Questa è una vicenda di straordinario rilievo e a mio giudizio anche di grande gravità, ma, per carità, non mettiamo tutto nel calderone, non diventi questo un altro elemento accusatorio della magistratura. E' un caso che va valutato per la vicenda particolare che esprime.

C'è una vicenda giudiziaria e c'è il lungo incubo umano dei suoi protagonisti diretti ed indiretti. A Sofri cosa si sente di dire in questo momento?

Mi sono occupato a lungo di questa vicenda, per collaborare con la giustizia ma anche per esprimere una testimonianza nei confronti di persone come Sofri tirate in questa storia da un impianto accusatorio che mi sembra inconsistente. La solidarietà personale mi pare che sia del tutto ovvia.

 

 

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