Parlare di Adriano Sofri
significa inevitabilmente parlare di quello che, da più
parti, e in maniera assai autorevole, è stato definito
come una sorta di "Caso Dreyfus" italiano. Ed
equiparare il "Caso Sofri" con quello del
povero ufficiale francese significa nientemeno che
qualificarlo come uno scandalo che grida giustizia
davanti al sommo tribunale della storia.
Inevitabile quindi ripercorrere le tappe che hanno
determinato questa vera e propria "stortura"
giuridico-istituzionale.
Adriano Sofri, nato il primo agosto del 1942, negli anni
settanta è stato il massimo esponente del movimento
extraparlamentare di sinistra "Lotta Continua",
ma la genesi della sua carcerazione è però da far
risalire all'episodio del celebre omicidio Calabresi,
generatosi nel clima acceso degli anni settanta.
Più precisamente, il motore di tutto fu la bomba che
scoppiò il 12 dicembre del 1969 alla Banca Nazionale
dell'Agricoltura in P.zza Fontana, nel pieno centro di
Milano. Nell'attentato morirono sedici persone. Polizia,
carabinieri e governo accusarono gli
"anarchici" del delitto. Dopo varie indagini,
venne convocato in questura per un colloquio un semplice
ferroviere di nome Giuseppe Pinelli, esponente
dell'anarchia milanese. Era il presunto colpevole.
Purtroppo però, una notte di tre giorni dopo, durante
uno dei tanti interrogatori a cui era stato sottoposto,
Pinelli morì sfracellato nel cortile della questura. Da
quel momento, ebbe luogo la tragica pantomima che cercò
di stabilire le cause e le responsabilità della morte.
Il questore interpretò il gesto, di fronte alla stampa,
come un suicidio, causato dal senso di colpevolezza di
Pinelli e dal suo sentirsi ormai alle corde. Gli
anarchici e la sinistra, invece, accusarono appunto il
commissario Calabresi di aver "suicidato" il
povero Pinelli.
Per quanto riguarda la strage, in seguito, la questura
designò come colpevole il ballerino anarchico Pietro
Valpreda, poi scagionato dopo un estenuante processo
durato anni (oggi invece si sa che un ruolo decisivo è
da attribuire a gruppi fascisti).
Ad ogni buon conto, tornando a Pinelli, Lotta Continua
scatenò una violenta campagna di propaganda contro
Calabresi. Sofri stesso sul suo giornale cercava in ogni
modo di costringere il commissario alla querela, unico
strumento, secondo il leader di Lotta Continua, per
aprire un'inchiesta sulla morte dell'anarchico.
Calabresi querelò effettivamente Lotta Continua e, nel
1971, cominciò il tanto atteso processo. Poliziotti e
carabinieri furono chiamati a testimoniare. Ma proprio
mentre il processo volgeva al termine, al giudice
istruttore fu tolta la causa poiché l'avvocato di
Calabresi sostenne di aver sentito il giudice dichiarare
di essere convinto della colpevolezza del commissario.
Date queste premesse, dunque, era impossibile andate
avanti e il processo si sgonfiò appunto su se stesso
come un pallone senz'aria.
La conseguenza fu che la mattina del 17 maggio 1972, il
commissario Calabresi venne trucidato per strada, sempre
a Milano. Lotta Continua diventa immediatamente la
sospettata numero uno. Nel 1975 venne fatto un nuovo
processo che si concluse con la condanna di LC per aver
diffamato il commissario Calabresi. La sentenza sosteneva
che i funzionari di polizia avevano effettivamente
mentito per avallare la tesi di Calabresi, ma che Pinelli
era comunque caduto dalla finestra in seguito ad un
"malore attivo", termine che i critici più
accesi della sentenza hanno sempre sostenuto essere vago
e non ben definito.
Il primo arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani (gli
altri due esponenti di punta di Lotta Continua accusati
di aver preso parte all'omicidio), è avvenuto nel 1988,
a sedici anni dai fatti, in seguito alle confessioni
esposte alla Procura dal "pentito" Salvatore
Marino, anch'egli aderente negli anni "caldi"
all'organizzazione Lotta Continua. Marino sostiene di
esser stato lui a guidare la macchina servita per
l'attentato. L'esecutore materiale invece, sempre secondo
la ricostruzione di Marino, priva di qualunque
contraddittorio diretto, di altre testimonianze, sarebbe
Bompressi. Le responsabilità di Pietrostefani e di Sofri
sarebbe invece di ordine "morale" dato che,
essendo i leader carismatici del movimento e quelli che
dettavano gli ordini, sarebbero stati i mandatari.
L'interpretazione di Sofri come "mandatario" è
sottoscritta pure da quelli che, in questi anni, hanno
negato il coinvolgimento diretto del leader (ossia di
essere il mandatario cosciente), a cui tuttavia imputano
una responsabilità morale in qualità di "cattivo
maestro". Una figura insomma che, almeno stando alla
sua personalità del tempo, avrebbe traviato le coscienze
e influenzato i suoi adepti con teorie sbagliate.
Marino, dunque, si dichiara anch'egli colpevole e ha
denunciato i suoi presunti complici dopo settimane di
incontri notturni con i carabinieri, mai verbalizzati.
Dopo un'infinita sequela di processi e di dibattimenti,
che ha sempre visto perdente la linea difensiva (il che
ha dello sconcertante, tenuto conto che la stessa
Cassazione, nella sua massima espressione ossia le
Sezioni Riunite, aveva ritenuto del tutto inattendibile
la denuncia di Marino e aveva pienamente assolto gli
imputati), Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio
Bompressi si sono consegnati spontaneamente al carcere di
Pisa. La Cassazione ha infatti emesso infine nei loro
confronti una condanna a 22 anni di detenzione.
A conti fatti, i protagonisti della vicenda, colpevoli o
innocenti che siano, scontano la loro pena a oltre
trent'anni dal fatto.
Bisogna poi sottolineare che il verdetto è però basato
sulle parole di un unico "pentito". Il vasto
movimento di opinione che si è creato a favore di Sofri,
poi, sostiene che le parole di Marino siano largamente
smentite dai fatti e prive di qualsiasi riscontro
specifico.
In occasione della pubblicazione di un libro di Sofri
"Altri Hotel", e riprendendo il tema della
doverosa Grazia che andrebbe doverosamente concessa a
Sofri (in considerazione del tempo trascorso ma anche di
quello che Sofri ha dimostrato di essere in questi anni,
ossia un intellettuale di grandissimo spessore, senza
contare il suo interessamento diretto in occasione della
guerra Yugoslava), ma che Sofri stesso è ben lontano dal
chiedere, Giuliano Ferrara ha scritto su Panorama parole
che ci permettiamo di riportare quasi integralmente:
"[..] Che ancora non si riesca a tirare fuori di
galera uno così, uno che non muove un dito per sé nel
senso della banale convenienza, uno che si rispetta ma
preferisce combattere a suo modo l'annientamento della
propria esistenza piuttosto che concedere un centimetro
del proprio senso dell'integrità, è davvero doloroso.
Doloroso in senso civile, e molto frustrante.
È ovvio che i verdetti penali definitivi non si
discutono più se non in sede storica. È ovvio che
nessuno può pretendere di avere la libertà perché è
tanto una brava persona o perché ha tanti amici in
Italia e nel mondo. È ovvio che questo non è l'unico
caso di una giustizia che si realizza nell'ingiustizia, e
che dovrebbe essere costituzionalmente completata da un
provvedimento di grazia. Queste tautologie sono piccole
perle di una casistica da minorati morali o semplici
pettegolezzi. Il problema non è di Adriano Sofri, che
non pretende niente come questo suo libro dimostra in
modo indiretto, ma perfetto. Il prigioniero si taglia le
unghie, gioca al calcio, legge, scrive, guarda la
televisione, e il fatto che viva la più pubblica delle
reclusioni nel perfetto rispetto dei regolamenti
penitenziari, che la sua parola abbia uno spazio non
invadente e un peso non schiacciante diffonde intorno a
lui, per le vie misteriose dell'incomprensione umana,
dell'angoscia di sé e dell'invidia, perfino un'aura di
privilegio. Il problema è nostro, è della comunità di
coloro che stanno fuori e non sanno che cosa fare del
loro potere di grazia, non di quello che sta dentro e non
ha nemmeno il tempo di pensare, scrivere, comunicare come
la vede uno la cui finestra affaccia da cinque anni e
mezzo su un muro di cemento.
Che vicenda strana, moralmente ambigua, quella della
mancata clemenza di Stato nel caso Sofri. Lo Stato ha il
privilegio di colmare il diritto con la grazia, ma non lo
esercita perché il prigioniero nel carcere di Pisa ha la
forza di agire da uomo libero, perché la vulgata sociale
vuole che un cittadino ferito da una condanna che
proclama ingiusta, oltraggiato ma non umiliato né
avvilito, non si arroghi il privilegio scandaloso di una
popolosa e produttiva solitudine.
Se Sofri cedesse terreno e potere in qualunque forma,
s'industrierebbero in tanti tra coloro che hanno la
responsabilità di decidere per il meglio. Se tiene duro
senza albagia, nello stile di queste pagine strepitose,
fenomeno anche stilisticamente unico nella storia della
immensa letteratura carceraria europea, tutto resta fermo
a mezz'aria, e non si fa un passo che non sia indietro.
Quello che non la chiede si è già dato tutta la grazia
che può.
Quelli che dovrebbero dargliela, la grazia, non sanno
ancora dove andare a cercarla. Presidente Ciampi,
presidente Berlusconi, ministro guardasigilli: fino a
quando abuserete della vostra distrazione?"
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