Il sesso del
prigioniero mandrillo
di
Adriano Sofri
"Si rigira continuamente in
quei tre metri per tre... Solo, con tutta la carica
sessuale che gli scoppia dentro... Nei maschi come lui la
sessualità è un segno forte della personalità".
Di chi parlo? Scopritelo.
Stavo finendo di scrivere un
ennesimo trattatello sulla sessualità degli uomini
prigionieri, commissionato per un libro sul carcere,
quando finalmente ho trovato la notizia che fa fare un
salto di qualità alla discussione. Il quotidiano Il
Messaggero ha avuto la sensibilità di metterla in prima
pagina. Il protagonista della storia è fra le sbarre dì
una cella, a Roma, da 13 anni. Si rigira continuamente in
quei tre metri per tre, di colpo poi si ferma, ti fissa
immobile con occhi che sono due buchi neri... Apre la
bocca in una smorfia cattiva... Fa paura. Da sette anni
è solo, in quella gabbia. "Solo, con tutta la
carica sessuale che gli scoppia dentro...". Si
legge, negli studi specialistici: "Nei maschi come
lui la sessualità è un segno forte della personalità,
e la masturbazione è una forma di esibizione, un modo di
comunicare, un comportamento sociale: per questo accade
con altissima frequenza".
Vi ho ingannato per una decina di
righe, ma solo in apparenza. La gabbia di cui si tratta
non si trova a Regina Coeli, né a Rebibbia, ma allo zoo
di Roma. Il protagonista della storia è una scimmia di
13 anni (la piena maturità) di nome Hurrà. Più
esattamente un mandrillo: cioè la scimmia africana
cinocefala magnificamente colorata, con il naso e il culo
rossi e le gote azzurre. Un mandrillo, cioè il nome che
la lingua romanesca ha preso in prestito per designare il
campione di virilità sessuale umana. Che cosa è
successo allo zoo di Roma? Che, dopo tanti anni, sono
state procurate due compagne al mandrillo solitario,
acquistate dallo zoo tedesco di Halle.
Bene, lasciamo in pace le scimmie
prigioniere e torniamo agli animali umani. Ma i mandrilli
e gli altri ospiti dello zoo, diranno subito i miei
piccoli lettori, non sono né in attesa di processo, né
condannati. Giusto: a maggior ragione non dovrebbero
essere schiacciati nei tre metri per tre di gabbia. Ma,
quanto alla sessualità, che essa venga loro concessa o
no dipende da che cosa? Si troveranno degli zoologi che
chiamino in causa i rischi destinzione della specie
e la necessità di favorirne la riproduzione in
cattività. Ipocrisia. In realtà, è chiaro che la
forzata privazione sessuale è una crudeltà e una
brutalità, una forma di mutilazione fisica e di tortura.
Vedete, quando si parla del sesso dei reclusi (umani o
altri animali) viene in luce la concezione che del sesso
in generale ha, dichiarata o no, una società. La
sessualità non le appare come una dimensione naturale,
necessaria e ineliminabile della persona, bensì come una
concessione, un di più, se non un vizio: il vizio. La
prigione svela questi sentimenti.
Larredo elementare della
vita ordinaria appare, alla sua torbida vocazione
punitiva, una concessione lussuosa. Un fornello in cella:
una concessione revocabile. Tre docce alla settimana. Una
cartolina illustrata incollata alla buona sul muro. Di
questo elementare corredo della vita quotidiana, visto
dal sorvegliante come una concessione fatta al piacere,
cioè al vizio, del sorvegliato (tutto ciò che
oltrepassa la mera sopravvivenza è inquinato ai suoi
occhi dal piacere) la permanenza del desiderio e della
relazione sessuale è il centro innominato e aborrito.
Il sesso è piacere e vizio: è
peccato. Dunque, la privazione sessuale non ha bisogno
neanche di essere presa in conto nei codici, nominata nei
regolamenti, per essere imposta come costitutiva della
prigionia. Essa appartiene alla necessaria afflizione: di
più, essa è il cuore dellafflizione. Tutto ciò
ha fatto dimenticare che la privazione sessuale è una
barbarie che si aggiunge alla privazione della libertà e
al dolore: e fa apparire lipotesi della
possibilità regolata di una relazione sessuale come un
cedimento spericolato e lussurioso fatto al piacere,
cioè alla peccaminosa superfluità, dellanimale
umano in gabbia. Vi si svela il fondo sessuofobico di
ogni reclusione e di ogni castigo.
La privazione sessuale non è una
privazione: non è cioè lassenza, la mancanza di
qualcosa. Non è un vuoto, una mutilazione. Perfino la
mutilazione è una versione eufemistica della realtà.
Nella realtà, in quel vuoto cresce una distorsione,
tortura, alla lettera, una deformazione che lo riempie
fino a forzarne le pareti e farlo esplodere in malattia,
pazzia, dolore senza controllo, mania e abiezione.
Desiderio sessuale, e amore, non sono un di più della
vita umana, da far comparire e scomparire con misure
regolamentari o materiali. Sono altrettanto
incancellabili e naturali che il pensiero o il battito
cardiaco. Forzatelo, e crescerà storto e forte come una
pianta nana.
La bibliografia sul tema è
incredibilmente laconica. Meglio non vedere, non sapere.
Chi ne scorra le pagine, noterà lassoluta
affinità coi resoconti etologici stesi dai tenutari e
guardiani di gabbie zoologiche. Soprattutto sul sesso, e
le sue pratiche immaginate animalesche e innominabili:
irriferibili, cioè riferibili soltanto dal paziente al
medico, dal penitente al confessore, dallanalizzato
allanalista. Ne risulta un grottesco tecnicismo
voyeuristico. Un esotismo, anche. Le abitudini
riguardanti il sesso sono il muro più invalicabile fra
italiani e stranieri, soprattutto la maggioranza
musulmana fra gli stranieri. Come i detenuti italiani
vecchi e allantica, i giovani musulmani fanno la
doccia in calzoncini, e si castigano i corpi tagliandoli.
Nel loro caso, unesistenza
mutilata di animali in gabbia, che è quella di tutti i
detenuti, diventa esistenza di animali esotici, e
selvatici (cioè selvaggi, cioè feroci), in gabbia.
Parlando a vanvera di risocializzazione la nostra
civiltà autorizza (e di fatto incita) una vita sessuale
di giovani umani ridotta a masturbazione meccanica e
sfinita. Come nelle gabbie dei mandrilli celibi. Davanti
alle quali si dice alle scolaresche di voltarsi un
momento dallaltra parte.
In carcere non è prevista la
gita delle scolaresche.
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Cari pacifisti,
anche le armi
possono fermare i massacri
di ADRIANO SOFRI
CARO Gino Strada, voglio litigare con te, di brutto.
Sarebbe meglio farlo di persona, nel Panshir, magari a
Pinerolo: peccato. Ma tu sarai così generoso da litigare
senza scrupoli, come se fossimo tutti e due a piede
libero, in un autogrill. Comincerò con l'elogio dello
sminatore, che in questo momento storico è il mio eroe.
Ne ho appena visto uno in tv, militare di professione,
ora smina da volontario coi miei amici di InterSos in
Afghanistan. Ne conobbi altri. Una giovane donna, in
Bosnia - là si chiama diverzant, lo sminatore -
mutilata, temeraria. Voleva salvare vite, dicevano di lei
che volesse morire. Ho sentito dire di campioni dello
sminamento, che erano stati in passato collocatori di
mine: gente che tornava sui suoi passi, come dovrebbe
fare l'umanità intera. Fin qui siamo d'accordo, anzi,
tante cose le ho imparate da te. Ora lo sminatore - la
sminatrice volontaria - è dunque il mio eroe: tuttavia
bisogna che qualcuno si occupi della questione generale,
di mettere al bando le mine, la produzione, lo smercio,
l'impiego eccetera.
Proprio tu ti impegnasti in questa campagna generale. Si
striscia a disinnescare o a far brillare una mina dietro
l'altra, per milioni e milioni di mine; si cura un
mutilato dopo l'altro, si fabbrica una protesi su misura
dietro l'altra - ma bisogna pure provare a interrompere,
almeno a ridurre, la guerra, posatrice di mine e avida di
mutilazioni. Tu curi la gente, e quanto alla questione
generale, la guerra, che aborrisci, ti affidi
all'educazione alla pace. Fra la mirabile cura chirurgica
delle vittime di ogni colore, e un'umanità ricreata
dall'educazione alla pace, c'è, a esser molto ottimisti,
un enorme intervallo. È su questo intervallo che voglio
litigare.
Nella guerra, le guerre, afgane, più lunghe di quella di
Troia, tu curavi la gente: ti chiedevi chi e come potesse
far finire la guerra? (Non è una domanda retorica: non
lo so davvero. Non lo ricavo neanche dal tuo bel libro:
"Buskashi"). Non era certo affar tuo; forse
credi che nessuno possa far niente per far finire le
guerre, e che si possa solo curare, operare, sminare. Il
problema nasce quando qualcuno prova a far finire la
guerra. In Afghanistan non ci ha provato nessuno, a
lungo: l'hanno combattuta ed eccitata, ognuno dalla sua
parte, ogni potenza dalla sua parte, finché una specie
di stallo ha consegnato gran parte del paese al truce
fanatismo Taliban. Stato-non Stato, tirannide brutale
contro donne e bambini, territorio infeudato a
un'Internazionale del terrore.
Bisognava o no che qualcuno si ponesse il problema di
metter fine alla tirannia dei Taliban? Di strappare la
frusta dalle mani degli squadristi? Prima dell'11
settembre, anni prima, io battevo le mani al lavoro
afgano tuo e dei tuoi, e del dottor Cairo, e pensavo che
la comunità internazionale dovesse intervenire a
riportare le condizioni minime della convivenza civile in
quel paese. Non sapevo come; condivisi l'illusione che
Shah Massoud fosse il leader da sostenere. Massoud venne
in Europa a chiedere aiuto, ignorato. Non era l'eroe
senza macchia, benché fosse un eroe. Pensavo che la
condizione delle donne equivalesse a uno smisurato campo
di concentramento e di torture. Che si fosse nel caso in
cui guerra e oppressione non sono state prevenute, e c'è
bisogno urgente di soccorso. È così nella cura per la
salute e la medicina, no? C'è un'educazione alla salute,
c'è una medicina preventiva, c'è, quando si sia a quel
punto, il ricorso alla chirurgia. Le persone possono
trovarvisi, che abbiano gozzovigliato o seguito una dieta
salutista, che si siano educate alla prevenzione o che
abbiano creduto all'omeopatia: e però ormai devono
affidarsi al chirurgo. E i paesi, i popoli? Nel tuo
Afghanistan non successe niente.
Non gliene fregava niente a quasi nessuno. Poi c'è stato
il 9 settembre, l'assassinio di Massoud, e poi l'11
settembre. L'amministrazione americana - e la coalizione
adunata attorno a lei col mandato dell'Onu - ha additato
in Al Qaeda (che l'ha rivendicato) l'autrice dell'assalto
a Manhattan e a Washington, ha preteso la consegna di Bin
Laden, è intervenuta militarmente contro l'Afghanistan
del mullah Omar. Ogni volta che si ricorre alla forza, tu
dici, le vittime sono i civili innocenti. Ma in
Afghanistan da anni e anni i civili innocenti erano
vittime di guerre. Tu lo sapevi meglio di chiunque: li
ricoveravi, li operavi. Nell'Afghanistan del dopo 11
settembre, non-Stato escluso dall'Onu, infeudato ad Al
Qaeda, bisognava intervenire? Bisognava impegnare le
proprie energie perché il modo di intervenire fosse il
più rispettoso della vita e della dignità umana, o
opporglisi comunque come a un'infamia bellicista?
Credo questo: si può fare obiezione a qualunque
decisione che, anche col proposito di salvare vite umane
in numero ingente, sacrifichi la vita di innocenti, fosse
pure un solo innocente. Questa obiezione di coscienza
può segnare insuperabilmente il convincimento morale di
un singolo individuo. Non quello di un responsabile
pubblico, un militare o uno statista. Un responsabile
pubblico misura relativamente la sua morale, che, per
essere relativa, non è meno rigorosa. Non si illude di
escludere in assoluto il sacrificio di vittime innocenti,
ma vuole ridurne al minimo il rischio. Non ammazza né
tortura prigionieri, anche i più colpevoli. Rifiuta, in
Palestina, di far esplodere una vettura sulla quale, con
un pericoloso capo terrorista, viaggiano persone
innocenti, e dei bambini. Non ammette che, in nome del
pericolo probabile ma futuro, si sacrifichino oggi degli
innocenti. Apprezza l'incolumità della gente del
"nemico" come quella della propria gente.
Questo era il problema imposto dall'intervento in
Afghanistan, e in qualunque altro luogo del mondo.
Opporsi in assoluto a ogni ricorso internazionale alla
forza equivale esattamente a negare l'esistenza di una
polizia entro i confini di uno Stato. Solo il
pregiudizio, e l'abitudine, impediscono ancora di
vederlo.
L'intervento in Afghanistan è avvenuto. È costato lutti
evitabili e delitti cercati, ai civili e ai combattenti.
Ti domando: i civili colpiti oggi in Afghanistan sono
più numerosi o molto meno? Gli arti mutilati sono più o
meno? Le mine collocate sono più o meno? Si mettono
nuove mine o si smina? Le frustate alle donne sono più o
meno?
È vero, secondo una quantità di fonti attendibili, che
la maggioranza delle donne indossa ancora il burqa. A
Herat, è stato ripristinato l'obbligo. A Kandahar, lo
portano pressoché tutte. A Kabul sono numerose quelle
che se ne sono sbarazzate. Ti domando: quelle che possono
scegliere di non indossarlo sono molte di più o no? Tu
sei arrivato a dire che le uniche donne senza burqa sono
pagate dai fotografi occidentali! Affermazione enorme, se
fosse vera, e degna di verifica. Intuisco quanto ti stia
a cuore quel paese. Ma allora: perché la - precaria,
difettosa, mediocre - liberazione di Kabul non viene
festeggiata con le lacrime agli occhi da te e da tutti
noi? Perché nelle cose che dici e nell'espressione del
tuo viso, al contrario, sembra di leggere un rammarico?
Un rimpianto per la Kabul com'era? Perché il ritorno di
due milioni e passa di profughi in Afghanistan non viene
salutato con le lacrime agli occhi?
Non smetto di chiedere perché i convinti pacifisti che
non mossero un dito per liberare Sarajevo dall'assedio
(il più lungo della storia moderna, più che a
Leningrado) e dallo stillicidio delle bombe e dei
cecchini, e anzi proclamarono la loro opposizione attiva
a un intervento militare internazionale che sbloccasse
l'assedio, e profetizzarono lo scoppio della Terza Guerra
Mondiale, quando quell'intervento avvenne, con gli aerei
della Nato, e in pochi giorni, e senza vittime innocenti,
sbloccò l'assedio e liberò Sarajevo, non festeggiarono
con le lacrime agli occhi? Non era la pace, si sapeva, lo
sapevo: era solo (solo!) la fine del massacro quotidiano.
L'interruzione del massacro, vegliata, ancora oggi, dalla
polizia internazionale. Sono innumerevoli i posti della
terra in cui si può pregare per la pace, ma per
interrompere i massacri occorre mettere in campo una
forza armata internazionale, e tenercela. E magari farle
patrocinare libere elezioni, come a Timor est.
Sono contrario alla guerra minacciata contro l'Iraq e
alla sua filosofia, e spaventato dalla sua ignota
modalità. Ma mi sembra pazzesca l'assimilazione fra
Saddam Hussein e Bush, che tu proclami a muso duro.
Pazzesca l'indifferenza alla democrazia, per formale e
imperfetta e violata che sia. Alla distanza fra governi
eletti a suffragio universale e sanguinarie dittature
assirobabilonesi. So darmene solo una, ma
inadeguatissima, spiegazione. Io credo che la - brutta,
difettosa, violata - democrazia debba essere la
condizione della convivenza civile in ogni parte del
globo.
Tu forse pensi - come certi etnologi relativisti che non
sono ancora tornati a casa, come i leader cinesi, come i
capi tribali patriarcali, come i fedeli della sharia -
che la democrazia sia il pregio o il tic di un pezzetto
di mondo, e sia fuori posto e disadatta a tanta altra
parte del globo. Non riesco a capacitarmene, e mi
spaventa. Mi spaventano le persone che mi sono care, note
e ignote, che ripetono generosamente di essere sempre e
comunque contro l'impiego della forza. Si sono
dimenticate di Auschwitz, e non hanno voluto imparare
dov'è Srebrenica, e che cosa è successo, e quando.
(15 ottobre 2002)
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Alle
Olimpiadi dello stile di vita
di
Adriano Sofri
Mi preparo ai Giochi e penso
all'amico Alexander Langer. Per il quale il modello della
gara è diventato lo scopo della nostra esistenza. Un
incubo, come l'idea di progresso.
Questo numero esce (ma io scrivo un po' prima) quando si
inaugurano le Olimpiadi di Atene. La cerimonia
inaugurale, si dice, eclisserà ogni precedente. Ci
sarà anche il cavallo di Troia, si dice. (Non ho mai
avuto simpatia per l'inganno del cavallo. Conclusione
meschina per tutto quel trucidarsi). Sportivi,
tossicologi, terroristi, poliziotti si aspettano un
evento senza precedenti. Anche noi carcerati. Siamo
pronti, o quasi. Ho dimenticato solo di rifarmi gli
occhiali da lontano, tre metri lontano, voglio dire. Vado
male nella lettura dei sottotitoli, delle liste dei
gareggianti, dei tempi e delle misure realizzati: tutti
record, c'è da scommetterci. Ma non importa. Le
Olimpiadi si possono guardare anche a occhi chiusi. Mi
affiderò al replay, e al ralenti, soprattutto. Questa
metà di agosto volerà. Uno è contento che il tempo
voli, qua dentro. Qua il tempo non passa mai: replay e
ralenti. A proposito, mi viene in mente il mio caro amico
Alexander Langer. Per via delle Olimpiadi.
Alex cercava degli slogan, come tutti i politici. Siccome
era un buon politico, anzi buonissimo, aborriva gli
slogan facili, a effetto, gli slogan demagogici, quelli
che fanno vendere la cosa senza dire che cos'è la cosa,
e tanto meno le avvertenze cautelari.
Allora Alex rifletté sul motto delle Olimpiadi
moderne. No, non quel «l'importante non è vincere,
ma partecipare» del barone de Coubertin, magnifico
slogan, di quelli che si ripetono con tanto maggior
piacere perché si è senz'altro d'accordo che è tutto
uno scherzo e che l'importante è vincere, costi quel che
costi. Però ogni tanto ci sono delle eccezioni, dei tipi
che, per qualche anacronismo, o per un guasto nelle
comunicazioni sociali, prendono ancora sul serio lo
slogan e arrivano lì davvero per partecipare, anche a
costo di arrivare penultimi, o ultimi. Alex era uno
così, gli piaceva essere della partita, con le altre e
con gli altri, e se succedeva che gli altri andassero
piano, lui aspettava, e regolava il suo passo sul loro.
Non è un'abitudine molto diffusa, al contrario. Non è
nemmeno del tutto sensata. A volte sì, a volte no. Come
in tutte le cose, non bisogna esagerare. Ci sono
circostanze in cui bisogna andare col proprio passo,
anche a costo di correre troppo avanti, anche a costo di
uscire dal gruppo e restare soli. Insomma, il motto delle
Olimpiadi moderne è: «Citius, altius, fortius». Vuol
dire più velocemente, più alto, più forte.
Alex aveva pensato che, se non per le Olimpiadi, che
vengono ogni quattro anni, almeno per la vita di tutti i
giorni il motto andasse rovesciato: lentius, profundius,
suavius più lentamente, più in profondo, più
dolce.
«La corsa al più» diceva Alex «trionfa senza pudore,
il modello della gara è diventato la matrice
riconosciuta ed enfatizzata di uno stile di vita che
sembra irreversibile e incontenibile. Superare i limiti,
allargare i confini, spingere in avanti la crescita ha
caratterizzato in maniera massiccia il tempo del
progresso dominato da una legge dell'utilità definita
"economia" e da una legge della scienza
definita ''tecnologia, poco importa che tante volte
di necroeconomia e di necrotecnologia si sia trattato».
La grande causa che ci sta di fronte, diceva (diceva
queste cose una ventina di anni fa), è il passaggio da
una civiltà del «più» a una del «può bastare» o
del «forse è già troppo».
Dopo secoli di progresso, diceva, in cui l'andare
avanti e la crescita erano la quintessenza del senso
della storia e delle speranze terrene, può sembrare
impari pensare di regredire, di invertire o almeno di
rallentare la corsa del citius, altius, fortius. La quale
è diventata autodistruttiva, e lo documentano l'effetto
serra, l'inquinamento, la deforestazione, l'invasione di
composti chimici non più domabili... Bisogna dunque
riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di
crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di
inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la
nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di
violenza). Un vero regresso, rispetto al più veloce,
più alto, più forte. «Difficile da accettare,
difficile da fare, difficile persino a dirsi».
Regresso: era pronunciata la parola più impopolare di
tutte. Perché noi, qualunque fede professassimo, siamo
stati per lo più credenti devoti e superstiziosi nel
Progresso. Rinunciare alla superstizione, ammettere
che il Progresso era stato un surrogato della
Provvidenza, oltretutto a scadenza assai più breve, era
già seccante. Ammettere che, all'opposto, la storia
fatta da noi era andata verso una consumazione e una
precipitazione, è quasi impossibile. Che la storia non
sia guidata da nessuna razionalità, da nessun fine
superiore e salvifico, si può anche dire. Ma che, così
velocemente, battendo un record dietro l'altro, citius,
altius e fortius, avesse proceduto all'indietro, una
Provvidenza alla rovescia, un Regresso: questo è troppo
per il nostro amor proprio. Il Regresso riparatore cui
Alex aveva l'ardire di esortare era una ritirata
ordinata, una retrocessione ragionevolmente
demoralizzata, una smobilitazione di imprese troppo
enormi per non travolgere tutto nella propria rovina. A
questo penso, mentre mi preparo a guardare le Olimpiadi
di Atene, un po' seccato per quella idea di inaugurarle
con il cavallo truffatore, il contrario dello spirito
olimpico. Una bottiglia d'acqua accanto alla branda, gli
occhiali un po' rigati, un paio di spighe di lavanda sul
davanzale e i giochi comincino. Sono già passati nove
anni e un mese da quando Alex Langer si è impiccato a un
albero di albicocco, a Firenze, un pomeriggio in cui era
rimasto solo.
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Caso
Cogne, la galera e i poveracci
di
Adriano Sofri
Chi s'indigna per la mamma rimasta
in libertà sbaglia. Non è contro il carcere rinviato
che dovrebbe protestare, ma contro quello che si chiude
ineluttabile sopra miriadi di disgraziati.
Non direi una parola sulle responsabilità per la
tragedia di Cogne. Non giudicare è un precetto
fondamentale, ed è anche un privilegio del quale non
farei a meno. Non invidio chi, per professione o per
vocazione, giudica. Quella tragedia è stata giudicata,
in prima istanza, e la signora Annamaria Franzoni è
stata condannata. Mi importa la decisione della procura
competente di non dare esecuzione alla condanna, in
attesa dei gradi ulteriori. Mi importa e, dico subito, mi
fa piacere, qualunque sia la motivazione reale della
decisione. La motivazione dichiarata è nota: prima della
sentenza definitiva, non esiste pericolo di fuga, né di
inquinamento delle prove, e la signora Franzoni non è
socialmente pericolosa.
Il codice consente queste
valutazioni, benché siano raramente seguite. Può
darsi che sulla procura abbia avuto parte il desiderio di
smentire il sospetto, quando non laccusa esplicita,
di un partito preso nei confronti dellimputata, o
anche di rinviare un provvedimento impopolare, di fronte
a una madre di bambini piccoli. Si è visto bensì che la
decisione ha sollevato anche le reazioni opposte, di
persone indignate che la condannata non sia subito finita
in galera: indignazione forse sincera in qualche caso, ma
più probabilmente suscitata da quel piacere intimo che
si prova alla disgrazia e alla galera altrui.
I magistrati che hanno deciso di non dare per ora
esecuzione alla condanna hanno dovuto, immagino,
affrontare lunico rovello capace di far tremare le
vene, cioè la domanda se una condannata per
luccisione furiosa del suo bambino non potesse
ripetere quella furia. Devono essersi detti di no, con
convinzione, perché da una persona, e quel che più
conta da una madre, dichiarata pienamente capace di
intendere e di volere, non ci si può aspettare un
delitto così folle. Cè qui una contraddizione
insolubile di questo come di altri tragici eventi
delittuosi: perché perizie e pronunciamenti psichiatrici
vengono a dire a posteriori se siano folli o normali atti
che, per definizione, eccedono ogni possibile normalità.
Se cedere al furore fino a straziare e uccidere la
propria creatura non basta a definire la follia, vuol
dire che una strana inversione fra la cosa e il suo nome
ha vinto sulle nostre intelligenze.
Per una coincidenza, a pochi giorni dalla sentenza di
Aosta è venuto un trafiletto appena su qualche
quotidiano il provvedimento del tribunale di
sorveglianza di Milano che ha messo in libertà vigilata,
dalla clinica in cui era curata dopo essere stata assolta
per totale vizio di mente, la giovane madre che aveva,
ricordate?, chiuso la sua bambina di otto mesi nella
lavatrice, e uccisa. Decisione anche qui
«sconcertante», che è laggettivo al quale
riparano la viltà e la paura, ma piuttosto penosamente
ovvia: perché il gesto di una madre che butta coi panni
sporchi la sua creatura nella centrifuga di cucina non ha
bisogno dessere certificato pazzesco da periti. Se
non fosse pazzia quella, che cosa potrebbe più esserlo?
Per quanto abbia frugato nei giornali, non ho trovato
cenno del vero problema posto dalla sentenza di Aosta,
per il caso che venisse confermata nei gradi successivi,
anche attenuata nella durata della pena. Il vero problema
è che, dilazionata per qualche tempo qualche
anno, magari, fra appello e Cassazione e chissà quali
imprevisti la galera per la signora Franzoni
diventerebbe ineluttabile. Così questa vicenda,
deccezione per il dolore che ha evocato e per la
risonanza spettacolosa e impudica, solleva una questione
notissima agli esperti e ignoratissima, fino alla
rimozione, da tutti gli altri, cioè la questione della
pena. La giustizia ha perfino dimenticato, per
distrazione e per abitudine, di distinguere fra la
condanna e la pena, e fra la pena e la galera. La
giustizia ha scelto, non so più da quando, di chiamarsi
«penale», testimoniando così, a chi volesse ancora
interrogarsi, di mirare soprattutto alla pena: e le
nostre culture non hanno saputo liberarsi
dallidentificazione fra pena e reclusione dei
corpi.
Ecco che un evento tragico come quello di Cogne
mostra, quasi senza volere, la pigra assurdità di questa
cultura. Perché se la signora Franzoni fosse innocente
mai bisogna escluderne la possibilità, e non certo per
effetto di una sentenza giudiziaria la sola
idea di incarcerarla suona atroce e raccapricciante.
Se fosse colpevole piuttosto, se fosse
lautrice delluccisione del suo piccolo
la galera, per lunga e dura che fosse, non potrebbe
rivaleggiare neanche da lontano con la pena che lei e i
suoi provano e scontano dentro di sé, dal momento stesso
di quella sventura. E allora, perché la si
chiuderebbe in una galera? Cè qualcuno che
pensa che la sua galera serva a far da deterrente
allemulazione del suo delitto? Cè una paura
del carcere che valga a trattenere una madre dalla furia
omicida rivolta contro la propria creatura?
Ho sentito qualche commento amaro alla galera scampata
provvisoriamente della signora Franzoni,
paragonata alla galera che ingoia senza scampo miriadi di
poveri disgraziati da quattro soldi. Lo capisco, ma è
un equivoco, uno sbaglio. Non contro la galera
rinviata di una persona di cui si è tanto parlato
bisogna indignarsi e protestare, ma contro la galera che
si chiude ineluttabile sopra le miriadi di disgraziati.
Laltro giorno un servizio di Marco Imarisio
sul Corriere si concludeva con lopinione di un
magistrato del ministero di Giustizia, incaricato dei
problemi penitenziari: «In Italia la funzione penale
viene esercitata a tappeto. E i benefici di legge non
funzionano per i poveracci, le nostre carceri sono piene
di gente povera, che sconta reati banali». Lo dice lui.
Io non ho più neanche voglia di dirlo.
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Al
bivio fra Bush e Saddam
di
Adriano Sofri
La memoria degli orrori di Hussein
non può essere un'attenuante alla tortura esercitata da
soldati Usa. Solo se saremo più severi con noi stessi
potremo guardare nelle vergogne altrui.
Ci sono due argomenti della polemica politica che il
disastro delle torture ha rinfocolato. Sono fra loro
legati. Uno è quello che rimprovera di usare due metri
per gli stessi fatti: le torture perpetrate dagli
americani vengono giudicate con uno sdegno e un clamore
che stridono col silenzio e l'indifferenza verso altre
torture, ben più sistematiche, comprese quelle della
lunga tirannide di Saddam Hussein. Il secondo argomento
è quello che rimprovera la pronta disponibilità allo
sdegno e alle manifestazioni per errori o malefatte
dell'America (o di Israele) e il silenzio su tutte le
guerre micidiali e i genocidi che non coinvolgono la
potenza occidentale. Ambedue gli argomenti hanno un
fondamento. Ma non devono diventare a loro volta un alibi
per le responsabilità dell'America (o di Israele) e
nostre di europei e italiani.
Infatti l'adozione di un metro differente per il
giudizio su paesi diversi ha una sua ragione, anzi ha una
sua necessità morale. Noi avversiamo la pena di
morte e la consideriamo un indice principalissimo di
crudeltà delle leggi e di cattiveria degli animi. In
Cina si compiono tante e più esecuzioni capitali di
quante non se ne compiano in tutto il resto del mondo.
Sarebbe imperdonabile che ce ne dimenticassimo. Ma è del
tutto comprensibile che ci addolori e scandalizzi
diversamente la fede e la pratica della pena di morte
negli Stati Uniti, in cui riconosciamo una cultura e un
modo di vita vicini e decisivi per la nostra cultura e il
nostro modo di vita, e di cui ascoltiamo l'aspirazione a
guidare e difendere libertà civile e leggi umane nel
mondo.
Sono successi, nella orribile vicenda delle torture in
Iraq, lapsus rivelatori di un abisso nel quale non si ha
voglia altrimenti di guardare. In fondo, i lapsus hanno
dominato l'intera vicenda: il piacere domestico di farsi
le fotografie ricordo coi corpi nudi dei torturati, la
candida recita della violenza e della mortificazione
sessuale inflitta da ragazze acqua e sapone su maschi
denudati, le spiegazioni affettuose: «goliardia»... Uno
degli aguzzini, un richiamato che in patria faceva il
secondino in una galera americana, ha dichiarato: «Non
sapevo che qui non si potessero fare le cose che facciamo
da noi».
Lapsus che inducono a riguardare dentro le nostre case
(le nostre galere: per me è la stessa cosa) e a
reinterrogarci sulla nostra «differenza», su quanto sia
realtà e quanto illusione e vanteria. Tuttavia, a parte
questa angosciosa raccomandazione (il nostro occhio, una
pagliuzza? Una trave?), il paragone fra un regime come
quello di Saddam Hussein e del suo clan e la democrazia
americana è grottesco, e chi voglia compiacersi
dell'assimilazione (Bush come Bin Laden, Bush come
Saddam) è solo pazzo. Bisognerebbe solo
accompagnarlo a un bivio, di là Manhattan, di qua la
Baghdad di Saddam o la Kabul dei talebani, e guardare
dove andrà.
Dunque la memoria lucida e intransigente dell'infamia
del regime di Saddam e del modo in cui la tortura vi
imperava sovrana, esercizio ordinario della cittadinanza
e della vita pubblica, non deroga alle leggi e alla
morale, non è affatto una attenuante né materiale
né morale al ricorso dei militari, e dei civili a
contratto, americani (o inglesi) in Iraq, alla infamia
della tortura, che dovrebbe essere per noi oltre che un
atto proibito una degradazione impensabile, un tabù.
Tabù è, vorrei osservare, non ciò che non si può
provare l'impulso a compiere, ma ciò che non si
compirebbe mai, tanto è l'orrore e la vergogna e la
paura che suscita (Giocasta che dice a Edipo: quale
figlio non ha sognato di giacere con la propria madre? Ma
Giocasta è disperata e fra un momento si impiccherà, ed
Edipo sta per trafiggersi gli occhi).
L'impulso a tormentare i propri simili sta in agguato nel
fondo di tanti animali umani e aspetta l'occasione per
emergere: la guerra è la migliore delle occasioni. Le
democrazie non cancellano questo impulso: devono tenerlo
a bada, vergognarsene e temerlo, e castigarlo, più che
ogni altro modo di convivenza. E un comportamento
differente, un'obbligazione più stringente, non è
affatto, nella democrazia, il frutto orgoglioso di una
superiorità culturale, almeno non soltanto. È anche il
costo moralmente obbligato di un privilegio, di un lusso
solo in piccola parte meritato. Chi protesti contro il
metro più severo usato per deplorare la tortura
esercitata da americani o inglesi (o italiani, o
francesi, o svedesi), accetti di accogliere un metro
unico col resto del mondo anche quando si siede a tavola
per il pranzo. Se fossimo capaci di adottare un metro
unico, una legge uguale per tutti, la pazzia e
l'anoressia e il rogo di noi stessi sarebbero il nostro
destino. Se vogliamo tenerci la nostra normalità, cioè
il colossale privilegio che ci è toccato, nel giorno
delle elezioni e all'ora dei pasti, dobbiamo almeno
accettare per noi comportamenti umani regolati e
rispettosi, tanto più quando teniamo il coltello dalla
parte del manico in casa d'altri, e altri, chiunque
siano, si trovano in nostra balia. Dunque non si ceda per
un momento di fronte alla tortura che danza come la
regina della festa nelle corti dei tiranni della Terra,
ma ci si vergogni soprattutto, e soprattutto si punisca,
la propria tentazione.
Quanto alle guerre e ai genocidi, che coprono a decine
il pianeta, la stessa considerazione vale non a
giustificare, ma a illuminare una differenza di
sensibilità e di giudizio. Dobbiamo aspettarci
dall'America, da Israele, da noi, un comportamento
migliore di quello che osserviamo spaventati, o ignoriamo
per convenienza o demagogia, presso sudanesi e
nordcoreani e congolesi. Dobbiamo usare il metro più
severo per le nostre malefatte. È la condizione per
guardare dentro gli orrori altrui, e per affrontare il
più delicato dei nostri cimenti, l'obbligo al soccorso,
il peccato mortale dell'omissione.
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Maurizio
che tiene su la Torre di Pisa
di
Adriano Sofri
Ho sotto gli occhi la fotografia di
un detenuto uscito per la prima volta in permesso dopo
otto anni. È quello che prepara il miglior caffè del
carcere, molto apprezzato da Marco Pannella.
Quando un detenuto va in permesso per qualche ora o
per qualche giorno, e magari non vedeva la luce della
libertà da anni, gli sembra che tutte le persone lo
guardino come per dire: «Questo dev'essere un
detenuto». C'è Maurizio. È un bravo ragazzo come
ce ne sono pochi al mondo. Ha 32 anni, gli ultimi otto li
ha passati qui dentro. Non lo meritava affatto, ma non vi
racconterò perché: sarebbe lungo e poi voi avrete i
vostri pregiudizi, e teneteveli pure. Il punto è che
Maurizio è uscito nel mondo, dopo tutti questi anni, in
permesso. Come la colomba spedita fuori dall'arca. È
tornato dentro e ha raccontato tutto. È andato al mare.
Siccome non sa nuotare, e ha una specie di fobia per
l'acqua fonda (gliela faremo passare, prima o poi), è
restato dove si toccava. Ragazze ce n'erano? Sì, molte,
e anche famiglie, coi bambini... E le ragazze, com'erano?
Certe belle, certe brutte, così. Maurizio è cauto, e fa
bene. Quando uno dopo tanti anni esce, e poi rientra, la
gente fa a gara a chiedergli quella cosa sola. Ha visto
la piazza dei Miracoli, questo lo racconta più
volentieri. Due volte, una volta di sera, un'altra di
mattina presto: di mattina presto è più bella, con il
cielo di madreperla rosa. Di sera ci è andato con la
famiglia.
La sua famiglia è toscana, ma non avevano mai visto
la Torre pendente e il Duomo e il Battistero e tutto.
Eppure, vengono a visitare Maurizio ogni settimana da
anni. Va bene, ma quando si va a visitare un figlio o un
fratello in galera non si ha voglia di andare a vedere
niente. Invece questa volta sono andati a vedere tutto e
Pisa gli è sembrata bellissima, benché sia tutta un po'
storta, e non solo la Torre. Sonosaliti su un trenino che
fa il giro della piazza e si sono fatti la fotografia con
la mano che tiene su la Torre che pende. Al cognato di
Maurizio è piaciuto specialmente l'intonaco del Museo
delle sinopie, e ha proposto a sua moglie di intonacare
così anche la facciata della casa che si stanno
costruendo, vicino a Vinci: Vinci, sapete, il paese di
Leonardo. A cena sono andati da McDonald's, le nipotine
erano contente. Maurizio era stato un promettente
ciclista prima della dannata galera, e la nostra suora
gli ha prestato la sua bicicletta per farsi un giro in
città. Bicicletta da donna e troppo bassa per lui, ma si
è divertito lo stesso a pedalare a tutta forza sul
lungarno.
È andato a trovare una professoressa che lo aiuterà
il prossimo autunno, quando Maurizio frequenterà
l'ultimo anno dell'Istituto agrario fuori, insieme agli
alunni normali. La signora abita al numero 24 di una
via, dirimpetto alle belle mura medievali, e Maurizio non
riusciva a raccapezzarsi. Aveva trovato il numero 23, poi
il numero 25, e mancava proprio il numero 24. In questi
anni si era dimenticato tante cose, compresa l'abitudine
di mettere i numeri pari da un lato e i dispari
dall'altro. Quando finalmente è riuscito ad acchiappare
il 24, non aveva il coraggio di dire alla signora perché
aveva fatto tardi. Per consolarlo, gli abbiamo spiegato
come funziona la toponomastica a Tokyo.
La signora gli ha chiesto se gli piacesse leggere, e
che libro avesse letto di recente. Maurizio aveva
letto, posso testimoniarlo, Il segreto di Luca di
Silone, Il Principe di Machiavelli, e una vita
di San Francesco di Chiara Frugoni, ma lì per lì
non gliene è venuto in mente neanche uno, così si è
vergognato di nuovo. Quando è rientrato mi ha chiesto di
dargli tre libri e ha dichiarato che li avrebbe letti
entro la notte. Gli ho dato Le tigri di Mompracem,
La storia di Elsa Morante e L'isola del tesoro.
A quest'ora (scrivo di notte) deve aver finito Le
tigri di Mompracem e starà menando sciabolate sulla
branda. Sappiate però che Maurizio conosce la musica e
sa suonare, e nella chiesa del carcere suona l'armonium e
la fisarmonica e canta.
Quando uno va in permesso tutti gli danno qualche
incarico: telefonare a casa, comprare una canottiera
gialla, eccetera. Io gli avevo chiesto di mangiare un
gelato enorme alla mia salute. Maurizio è stato
sbalordito dalla quantità di sapori del gelato e,
cercando di indovinare i miei gusti, ne ha mangiato di
pompelmo rosa, ananas, noce, pistacchio e melone. È
anche andato col nostro prete, il quale dirige il
seminario pisano, a vedere la Biblioteca
dell'arcivescovado, che a partire dall'autunno aiuterà a
riordinare e ricatalogare. Era un po' in soggezione per
tutti quei libri, per giunta così antichi e voluminosi,
ma poi si è accorto che alcuni erano addirittura
infilati con la costola in dentro e il taglio in fuori,
sicché non si poteva neanche leggerne il titolo, e si è
rinfrancato (i nomi tecnici glieli insegnerò io, che ho
nostalgia di libri vecchi e di cataloghi).
Le regole del permesso gli prescrivevano di restare in
casa dalle 10 di sera alle 6 di mattina: alle 6 e un
minuto era già fuori, dopo aver rifatto il letto, fatto
le pulizie, preparato il caffè ed essersi guardato cento
volte allo specchio. Il caffè di Maurizio, con la crema,
come si fa in carcere, sapete, si mette in un bicchiere
un po' del primo caffè che viene fuori, si zucchera
parecchio, si mescola con convinzione mentre esce il
resto del caffè, e si versa. Ci sono file di
parlamentari trasversali, a cominciare da Marco Pannella,
che vengono in visita nella nostra galera per bere il
caffè di Maurizio. A volte penso che dovrebbe aprire un
bar fuori, «Che bello o cafè».A Maurizio fuori
è piaciuto andare a ordinarsi il caffè nei bar, e
mangiare le brioche croccanti alle 6 e mezzo di mattina.
Quando un detenuto in permesso entra in un bar e chiede:
«Un caffè, per favore», gli sembra senz'altro che il
barista lo guardi, e anche la cassiera e tutti gli
avventori lo guardino, e anche i cani e i gatti,
pensando: «Questo è un detenuto». In realtà il
secondo pomeriggio Maurizio ha incontrato al bar un
agente penitenziario napoletano, che è stato molto
contento di vederlo fuori, e gli ha offerto un Campari
Soda. Non è che l'inizio.
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Baldoni,
uno che non si faceva i fatti suoi
di
Adriano Sofri
Il giornalista ucciso in Iraq si
definiva un ficcanaso. E davanti alle tragedie del mondo
andava a vedere. Aveva dei meravigliosi precedenti: per
esempio, Francesco d'Assisi.
Ho conosciuto solo da spettatore e lettore, e solo nei
giorni dell'allarme e della tragedia, Enzo Baldoni e la
sua famiglia, provando per loro una fortissima simpatia. Ho
pensato che il sarcasmo su Baldoni, la partita giocata
fra un Fabrizio Quattrocchi «mercenario» e un Baldoni
in cerca del brivido guerriero, l'insulto gratuito e
compiaciuto verso una persona in balia di manigoldi
sgozzatori, la sventata sottovalutazione della ferocia e
poi il dolore tardivo, siano stati fra i sintomi più
tristi della nostra pubblica faziosità. Ci sono
pacifisti che confondono l'amore per la pace con la
cecità di fronte all'esistenza di una guerra. Ci sono
realisti che denigrano l'amore per la pace fino al punto
di darne per scontata la compromissione con gli assassini
e dimenticare solidarietà e compassione umana. Ce n'è
abbastanza per ripensare a se stessi e alla propria
comunità, se se ne abbia l'umiltà e il coraggio.
Voglio estrarre un dettaglio di questa amarissima
vicenda, prologo prevedibile di tante altre, per
mostrarne la faccia opposta. Una energia polemica è
stata impiegata per denunciare la sventatezza presunta (o
vera, a volte) di un turismo di guerra e in genere di
rischi estremi, che mette a repentaglio i suoi cultori e
tante altre persone, e chiama in causa, come nel caso dei
sequestri e dei ricatti, i sentimenti e la
responsabilità di intere comunità nazionali e dei loro
governi. È un problema che esiste. Perfino nella pancia
delle nostre pacifiche e sfibrate esistenze quotidiane
pullulano impulsi alle sfide estreme, al culto della
messa alla prova di sé di fronte a qualche strapiombo,
alla diffusione, contagiosa come una peste, di quel
feticcio retorico, «la scarica di adrenalina».
Questa programmazione del cimento estremo a riscatto
della vita mediocre sta al bordo dell'ideologia del
provare tutto: bella idea, tanto tempo fa, coraggiosa
e generosa, prima di diventare un'aggressione cieca al
mondo e una resa di sé. E tuttavia, bisogna pure che si
prenda in conto l'opposto, la prudenza spinta fino
all'opportunismo e all'omissione di soccorso, la paura
che paralizza, la viltà. Non amo la retorica e non
presumo molto delle forze mie, e dunque delle altrui. Non
ho niente contro la paura: contro la viltà sì. Forse la
viltà è solo la paura non confessata, la paura di cui
ci si vergogni di nascosto, preferendo sacrificarle la
verità e la giustizia.
Vile è la paura che induce a decidere di non vedere,
a negare ciò che ci sta vistosamente di fronte, e chiede
una scelta. I giornalisti sono una categoria troppo
vasta e generica per essere sottoposti, da questo punto
di vista, a qualche comune dovere. Le circostanze o la
vocazione possono portarli, donne o uomini, a misurarsi
con la questione della guerra, del rischio, della vita
minacciata propria e altrui, della paura e della viltà.
La (mirabile) crescita del volontariato internazionale ha
ancora più stemperato i confini fra giornalismo di
guerra, impegno umanitario, e con lo stesso volontariato
militare.
Ebbene: ci sono situazioni (molte, sempre di più) sul
mappamondo di oggi in cui la semplice decisione di andare
implica una forte abdicazione ai criteri che guidano
l'aspirazione alla sicurezza e al controllo di sé nella
nostra vita quotidiana. Scendete da un aereo di fortuna,
o da un'auto coi vetri verniciati da simboli speranzosi,
e in un momento la vostra vita non vi appartiene più.
Siete alla mercé di persone sconosciute di cui dovete
fidarvi e che a loro volta arrischiano la propria vita
per voi; di sparatorie incrociate e imprevedibili; di
giochi torbidi e incomprensibili. La vostra vita è
traslocata in un altro mondo, e sospesa, a tempo
indeterminato, come una monetina lanciata in aria: forse
ricadrà giù, forse una mano svelta la afferrerà e la
farà sparire. Se ne verrete fuori, quando ne verrete
fuori, non avrete neanche voglia di descrivere
quell'avventura, così estranea e grottesca rispetto al
mondo vostro e dei vostri, al mondo che vi pareva
normale, ora non sapete più che cosa sia normale.
Si può morire, con una leggerezza volubile e
improvvisa, e un momento dopo i sopravvissuti
riconosceranno quella morte per ineluttabile. Può
darsi che siate un ragazzo cattolico mandato ad
attraversare un ponte di Sarajevo, un operatore e una
giornalista a Mogadiscio, una giornalista del Corriere
su una stradaccia afghana, un misconosciuto free-lance
radicale in una valle georgiana. Ci sono inviati di
guerra che non escono dalla hall del loro albergo, altri
che si avventurano in deserti e città più infidi di una
palude. Ce ne sono di grandi e di piccoli, di vecchi e
gloriosi, che continuano a partire, e di giovani e
ambiziosi, che inventano una loro truffa.
Ci sono state tragedie così feroci da scoraggiare
qualunque turismo da brividi, ma anche il cauto, saggio e
sobrio giornalismo professionale. Nel pieno della
tempesta del terrore islamista algerino e della risposta
militare, a pochi passi da noi, più di centomila persone
vennero massacrate in un raccapricciante silenzio, o poco
meno, dei nostri media e dei nostri politici. Non si è
mai fatto un bilancio onesto di quella voragine.
L'Algeria è qui di fronte, come la Bosnia. Erano in
agguato bande di sgozzatori. Si poteva non andarci, era
molto ragionevole. Sarebbe stato bene dirlo: è troppo
pericoloso, tengo famiglia, ho paura. Sarebbe stato bene,
soprattutto, non voltare la testa dall'altra parte. Non
nascondere, con una superflua vergogna per la propria
paura, lo spettacolo di una strage immonda e a lungo
indisturbata. Non farsi i fatti propri. Enzo Baldoni si
definiva scanzonatamente un ficcanaso. Ci sono
meravigliosi precedenti. Uno che non si faceva i fatti
suoi, per esempio, era Francesco d'Assisi.
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Pamuk,
che mi ricorda Dostoevskij
di
Adriano Sofri
Credevo di conoscere la Turchia, ma
dopo aver letto il romanzo di questo scrittore ho capito
di non saperne nulla. E una specie di vento impetuoso ha
travolto i miei giudizi.
Voi sapete che cosa sono gli eleagni? Sono alberi, dal
nome composto fra ulivo e agnocasto, detti anche
ulivagni. Io non lo sapevo, prima di leggere,
l'altroieri e ieri, un romanzo ambientato a Kars, città
vicina al confine della Turchia con l'Armenia, le cui
strade sono appunto alberate di eleagni. Ho dovuto
consultare lo Zingarelli. Non è l'unica cosa, né la
principale, che ho imparato. Dunque, ho letto per intero
un romanzo di 460 pagine, e questo è già un
avvenimento. Poi, mi è piaciuto molto, e perciò ve ne
faccio partecipi. L'autore è Orhan Pamuk, è nato nel
1952, è turco, è importante e tradotto in mezzo mondo,
e anche in Italia, ma io non l'avevo mai letto. Il
romanzo si intitola Neve, lo ha appena pubblicato
Einaudi. Eleagni a parte (ma ci sono anche pioppi e
castagni), l'altra cosa che ho dovuto ammettere è che
sono spaventosamente ignorante della Turchia.
Ho provato a ricapitolare i
precedenti: lessi una biografia di Ataturk, attraversai
la Turchia all'andata in corriera, verso l'Iran, e passai
al ritorno qualche giorno estasiato a Istanbul (tornavo
da una guerra, a Istanbul infuriava la pace), abbastanza
per vedere che alla morte di Ataturk, che aveva rimesso
la Turchia al passo coi tempi, tutti gli orologi erano
bizzarramente stati fermati.
E poi ho amici turchi, ho letto parecchio sul
genocidio armeno, ho frequentato turchi di Germania, sono
senz'altro favorevole all'ingresso della Turchia
nell'Unione Europea.
Detto ciò, non ne so niente. Mi è
bastato leggere questo romanzo per accorgermene. E ora ne
so di più? Sì e no. Sì, perché il romanzo è così
bello che se andassi a Kars ora mi sembrerebbe di esserci
vissuto da piccolo. No, perché il guaio dei buoni
romanzi è che, a differenza dei cattivi saggi,
confondono le idee e prima ancora le vite delle persone,
travolgendole in una specie di vento anzi, qui, di
una nevicata eccezionale che offusca i confini cui
i nostri giudizi pretendono di affidarsi: fra islamici e
islamisti, fra teocratici e laici, fra democratici e
militargolpisti, fra oppositori marxleninisti e
islamisti, fra donne suicide per amore e donne suicide
per fanatismo, e così via.
Non solo, ma i buoni romanzi si permettono anche di
raccontare il trapasso dall'una all'altra di queste
figure dentro la vita delle stesse persone, da un
tempo all'altro, o addirittura, come nel caso del
protagonista, il poeta Ka, nello stesso tempo, secondo
gli incontri che il destino e la piccola città gli
mettono di fronte nel breve spazio del suo ritorno
dall'esilio tedesco. Io, lettore arrugginito e benedetto
probabilmente da un'ingenuità di ritorno, resto a bocca
aperta di fronte a quella che mi sembra una fantastica
sapienza della fabbrica romanzesca di Pamuk e alla
vivacità quasi virtuosistica dei suoi racconti, nella
quale mi pare di riconoscere il colore locale della
periferia dell'Anatolia, dunque il più interessante
connotato per ripensare all'ingresso della Turchia in
Europa, e dell'Europa in Turchia. (Questione quasi
risolta, alla fine: perché l'una e l'altra cosa sono
già avvenute, oppure non avverranno mai).
Insieme mi sembra di riconoscere nel romanzo di Pamuk
la febbre e la precipitazione nell'estremo che tendevano
fino all'esplosione certi grandi romanzi dei quali si
ubriacava la nostra adolescenza. Leggete per esempio
questo brano (la traduzione di Neve è di Marta
Bertolini e di Semsa Gezgin): «Ma anche lei guardava il
viso di Ka per poter capire come gli altri dove fosse il
pericolo. Anni dopo, il signor Serdar, il giornalista, mi
avrebbe detto che in quel momento il viso di Ka divenne
bianco come la calce, tuttavia gli era apparsa in viso
una profonda felicità, e non l'espressione di chi abbia
paura o soffra di vertigini. La domestica, esagerando
ancor di più, mi raccontò che nella stanza si diffuse
una luce così viva da avvolgere tutto. Ka, ai suoi
occhi, già da quel giorno era un santo. Una delle
persone nella stanza in quel momento aveva detto:
"È arrivata la poesia", e tutti l'avevano
accolta con grande agitazione e paura, considerandola
più pericolosa di un'arma».
Io ci sento senz'altro Dostoevskij, benché Pamuk
faccia citare più volte Turgenev dal suo protagonista.
E non tanto il Dostoevskij dei Karamazov, o dei Demoni,
cui più strettamente la trama lo avvicina Ka
infatti è tornato a Kars per scrivere «sulle elezioni
comunali e sulle donne che si suicidano» quanto
il Dostoevskij dell'Idiota. Ka è un idiota senza
sublimità, la cui vita crede d'un tratto, nella città
in capo al mondo, isolata dalla neve e squartata da
suicidi e attentati omicidi e golpe teatrali e
sanguinosi, di guadagnarsi la propria verità nell'amore
e nella promessa di felicità che l'amore chiude in sé.
Arriva quasi a toccarla, la felicità hanno già
fatto le valigie, lui e la bellissima donna che vuole
portar via quando tutto crolla. Peccato,
naturalmente. Peccato, pensa il lettore. Potevano
farcela. Qualcuno può farcela?
Nemmeno il criterio cui ci si illude di affidarsi a
occhi chiusi, la libertà di mettere o smettere il velo
per qualsiasi ragazza, esce illeso dal tumulto del
romanzo. La Turchia modernizzatrice obbligò per
prima le donne a togliere il velo (e inchiodò il fez a
colpi di martello sulle teste musulmane tradizionaliste),
sicché una ribellione di donna può di volta in volta
coprire o scoprire il capo, secondo il comando arrogante
cui vuole opporsi. La Turchia governata da un partito
islamico, in cui la moglie del presidente non partecipa a
una cerimonia pubblica con altri governanti perché le è
interdetto il velo, mostra alla rovescia la
contraddizione che ha travolto la Francia. L'Europa, uno
spera, è quella grande comunità in cui ogni donna sia
libera davvero di decidere della propria capigliatura.
Poi si legge un romanzo turco, o uno di una scrittrice
iraniana, e ci si trova a dubitare perfino di questo
caposaldo. Ma solo per un momento.
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Torno
a scrivere «con osservanza»
di
Adriano Sofri
Era una formula che mi insegnò mia
madre e che abbandonai quando cessai di credere in Dio.
Ora l'ho riadottata. Anche per merito di un grande
antifascista: Leone Ginzburg.
Per l'età, e le circostanze deplorevoli, inclino a
ripensare al passato remoto e agli antenati. Occasioni
fortuite risuscitano ricordi e suscitano domande.
Scrivo spesso istanze di vario genere per i miei vicini
detenuti, o correggo le loro, moderando certe
formulazioni di ossequio barocco o servile, in favore di
parole più controllate e dignitose. Il passaggio più
delicato è il saluto finale, che precede la firma. Opto
per un «Rispettosamente», o un «Ringrazia e
cordialmente saluta».
Tuttavia ho in mente un'espressione
che impiegava mia madre, e che insegnò a noi bambini,
iniziandoci alla compilazione per nostro conto di domande
in fogli protocollo. Bisognava scrivere: «Con
osservanza...». Mia madre era riservata e attenta alle
forme. Aveva una bella scrittura corsiva, di quelle che
si sono perdute, e ogni tanto ne riconosco l'eleganza
sobria in qualche lettera di vecchie signore gentili.
Sapevo imitare bene la sua scrittura, specialmente in
quella conclusione: Con osservanza, e la firma.
Venne poi un momento in cui non fui più disposto a
scrivere per mio conto Con osservanza. Dev'essere
successo più o meno al tempo in cui non mi sembrò più
possibile credere in Dio. Le autorità andavano
destituite e le stesse formule del linguaggio comune,
pronunciate da tempo immemorabile senza ricordarne
un'origine umile o servile, finivano sotto osservazione.
Perfino i saluti. «Servus!». Chi si farebbe una
questione dell'origine dell'affabilissimo «ciao», che
è la parola «schiavo»? Eppure, viene una stagione in
cui ci si vergogna anche di dire «ciao». Avevo un
cugino, coetaneo, che l'educazione più rigidamente
triestina aveva addestrato a rispondere al richiamo
paterno: «Comandi!». Quel «comandi!» aveva ormai poco
di disciplinare o di militaresco ed equivaleva a un
«sì», un «eccomi» (sarà quella l'origine del
cordiale saluto friulano «Mandi»?). Insomma, in quella
ribellione al linguaggio costituito per una
adolescenziale correttezza politica, non c'era parola
comune che la passasse liscia. Figuriamoci: «Con
osservanza». Nell'osservanza risuonava un'obbedienza
più ligia e conforme, una soggezione conventuale o una
sudditanza asburgica.
Fra tutte le autorità quella anonima della burocrazia
sembrava poi la più immeritata e offensiva: dunque
le mie domande, a un'anagrafe o un ministero o una
direzione didattica o qualunque altro ufficio competente,
curavano di concludersi seccamente, con qualche formula
brusca, o senz'altro con la firma nuda.
Mi accorgo ora che, sia pure a passioni spente, qualche
coda di quell'iconoclastia è durata, sicché una delle
prime imprese in cui mi impegnai al mio ingresso in
galera, alcuni anni fa, fu di protestare contro le
domandine carcerarie prestampate in cui figurava la
formula: «Il sottoscritto... prega...». Mi sembrò che
pregare fosse più appropriato a sudditi o devoti che a
cittadini, sia pure a diritti sospesi, e che andasse
meglio: «Chiede». Il ministero mi diede ragione,
benché non del tutto. Sui nuovi prestampati è scritto:
«Richiede». Così, per salvare la faccia. Bene. Di
tanto in tanto, in calce alle istanze dei miei compagni
detenuti, tornavo a scrivere: «Con osservanza». Alle
mie no.
Ora è successo che da Einaudi siano uscite le lettere
dal confino (1940-1943) di Leone Ginzburg, che ho letto
con grande emozione.
Ginzburg fu infatti un uomo di
ammirevole intelligenza, cultura, rettitudine e coraggio.
E poi io ho conosciuto e amato le persone della sua
famiglia, suo figlio Carlo mi è carissimo. Le lettere
hanno un interesse soprattutto culturale e letterario,
riguardando il lavoro editoriale della Einaudi negli anni
di guerra. Io sono stato piuttosto colpito e commosso dai
rari e discreti accenni alla vita di famiglia che Leone
conduceva nel confino di Pizzoli, in Abruzzo, con la
moglie Natalia e i bambini. Ne parlerò un'altra volta.
Adesso mi premeva un dettaglio. Ricorderò che Leone
Ginzburg sarebbe morto nel 1943 nel carcere romano di
Regina Coeli. Claudio Pavone ha ricordato che quando
Ginzburg venne consegnato dal braccio degli italiani a
quello dei tedeschi che lo avrebbero torturato a morte,
«da una cella qualcuno cominciò a fischiare l'inno del
Piave. Fu un fischio limpido e sicuro. I Tedeschi
probabilmente non compresero, gli Italiani si
commossero».
Il dettaglio sta nelle istanze che dal confino di
Pizzoli Leone Ginzburg indirizzava al ministero
dell'Interno, per esempio per essere autorizzato a
recarsi fino all'Aquila a farsi curare da un dentista.
«Il sottoscritto sarebbe grato a codesto on. Ministero
se l'autorizzazione di cui sopra potesse essergli
rilasciata con cortese sollecitudine, dati i forti dolori
da cui è affetto. Con osservanza» (4 febbraio 1942).
Oppure per chiedere di essere autorizzato a soggiornare
all'Aquila nella circostanza del parto della moglie
Natalia, previsto per il marzo del 1943: «Il
sottoscritto confida che codesto Ministero vorrà
concedergli l'autorizzazione di temporaneo soggiorno
all'Aquila. Con perfetta osservanza». Oppure per
trasferire il confino in un comune della Valle d'Aosta,
dove Natalia e i bambini avrebbero potuto trovare il
sostegno dei genitori di lei: richiesta respinta.
«Confidando in un sollecito accoglimento della presente
domanda, il sottoscritto porge i sensi della sua perfetta
osservanza» (10 febbraio 1943).
Dunque io ho ricominciato a chiudere le mie istanze di
qualunque genere, comprese le autorizzazioni alle cure
dentistiche, con la formula che mi insegnò mia madre:
«Con osservanza». Ho fatto un lungo giro, prima di
tornarci. Quando lo scrivo, provo una certa fierezza.
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