ALCUNI ARTICOLI DI ADRIANO SOFRI

Il sesso del prigioniero mandrillo


di Adriano Sofri

"Si rigira continuamente in quei tre metri per tre... Solo, con tutta la carica sessuale che gli scoppia dentro... Nei maschi come lui la sessualità è un segno forte della personalità".

Di chi parlo? Scopritelo.

Stavo finendo di scrivere un ennesimo trattatello sulla sessualità degli uomini prigionieri, commissionato per un libro sul carcere, quando finalmente ho trovato la notizia che fa fare un salto di qualità alla discussione. Il quotidiano Il Messaggero ha avuto la sensibilità di metterla in prima pagina. Il protagonista della storia è fra le sbarre dì una cella, a Roma, da 13 anni. Si rigira continuamente in quei tre metri per tre, di colpo poi si ferma, ti fissa immobile con occhi che sono due buchi neri... Apre la bocca in una smorfia cattiva... Fa paura. Da sette anni è solo, in quella gabbia. "Solo, con tutta la carica sessuale che gli scoppia dentro...". Si legge, negli studi specialistici: "Nei maschi come lui la sessualità è un segno forte della personalità, e la masturbazione è una forma di esibizione, un modo di comunicare, un comportamento sociale: per questo accade con altissima frequenza".

Vi ho ingannato per una decina di righe, ma solo in apparenza. La gabbia di cui si tratta non si trova a Regina Coeli, né a Rebibbia, ma allo zoo di Roma. Il protagonista della storia è una scimmia di 13 anni (la piena maturità) di nome Hurrà. Più esattamente un mandrillo: cioè la scimmia africana cinocefala magnificamente colorata, con il naso e il culo rossi e le gote azzurre. Un mandrillo, cioè il nome che la lingua romanesca ha preso in prestito per designare il campione di virilità sessuale umana. Che cosa è successo allo zoo di Roma? Che, dopo tanti anni, sono state procurate due compagne al mandrillo solitario, acquistate dallo zoo tedesco di Halle.

Bene, lasciamo in pace le scimmie prigioniere e torniamo agli animali umani. Ma i mandrilli e gli altri ospiti dello zoo, diranno subito i miei piccoli lettori, non sono né in attesa di processo, né condannati. Giusto: a maggior ragione non dovrebbero essere schiacciati nei tre metri per tre di gabbia. Ma, quanto alla sessualità, che essa venga loro concessa o no dipende da che cosa? Si troveranno degli zoologi che chiamino in causa i rischi d’estinzione della specie e la necessità di favorirne la riproduzione in cattività. Ipocrisia. In realtà, è chiaro che la forzata privazione sessuale è una crudeltà e una brutalità, una forma di mutilazione fisica e di tortura. Vedete, quando si parla del sesso dei reclusi (umani o altri animali) viene in luce la concezione che del sesso in generale ha, dichiarata o no, una società. La sessualità non le appare come una dimensione naturale, necessaria e ineliminabile della persona, bensì come una concessione, un di più, se non un vizio: il vizio. La prigione svela questi sentimenti.

L’arredo elementare della vita ordinaria appare, alla sua torbida vocazione punitiva, una concessione lussuosa. Un fornello in cella: una concessione revocabile. Tre docce alla settimana. Una cartolina illustrata incollata alla buona sul muro. Di questo elementare corredo della vita quotidiana, visto dal sorvegliante come una concessione fatta al piacere, cioè al vizio, del sorvegliato (tutto ciò che oltrepassa la mera sopravvivenza è inquinato ai suoi occhi dal piacere) la permanenza del desiderio e della relazione sessuale è il centro innominato e aborrito.

Il sesso è piacere e vizio: è peccato. Dunque, la privazione sessuale non ha bisogno neanche di essere presa in conto nei codici, nominata nei regolamenti, per essere imposta come costitutiva della prigionia. Essa appartiene alla necessaria afflizione: di più, essa è il cuore dell’afflizione. Tutto ciò ha fatto dimenticare che la privazione sessuale è una barbarie che si aggiunge alla privazione della libertà e al dolore: e fa apparire l’ipotesi della possibilità regolata di una relazione sessuale come un cedimento spericolato e lussurioso fatto al piacere, cioè alla peccaminosa superfluità, dell’animale umano in gabbia. Vi si svela il fondo sessuofobico di ogni reclusione e di ogni castigo.

La privazione sessuale non è una privazione: non è cioè l’assenza, la mancanza di qualcosa. Non è un vuoto, una mutilazione. Perfino la mutilazione è una versione eufemistica della realtà. Nella realtà, in quel vuoto cresce una distorsione, tortura, alla lettera, una deformazione che lo riempie fino a forzarne le pareti e farlo esplodere in malattia, pazzia, dolore senza controllo, mania e abiezione. Desiderio sessuale, e amore, non sono un di più della vita umana, da far comparire e scomparire con misure regolamentari o materiali. Sono altrettanto incancellabili e naturali che il pensiero o il battito cardiaco. Forzatelo, e crescerà storto e forte come una pianta nana.

La bibliografia sul tema è incredibilmente laconica. Meglio non vedere, non sapere. Chi ne scorra le pagine, noterà l’assoluta affinità coi resoconti etologici stesi dai tenutari e guardiani di gabbie zoologiche. Soprattutto sul sesso, e le sue pratiche immaginate animalesche e innominabili: irriferibili, cioè riferibili soltanto dal paziente al medico, dal penitente al confessore, dall’analizzato all’analista. Ne risulta un grottesco tecnicismo voyeuristico. Un esotismo, anche. Le abitudini riguardanti il sesso sono il muro più invalicabile fra italiani e stranieri, soprattutto la maggioranza musulmana fra gli stranieri. Come i detenuti italiani vecchi e all’antica, i giovani musulmani fanno la doccia in calzoncini, e si castigano i corpi tagliandoli.

Nel loro caso, un’esistenza mutilata di animali in gabbia, che è quella di tutti i detenuti, diventa esistenza di animali esotici, e selvatici (cioè selvaggi, cioè feroci), in gabbia. Parlando a vanvera di risocializzazione la nostra civiltà autorizza (e di fatto incita) una vita sessuale di giovani umani ridotta a masturbazione meccanica e sfinita. Come nelle gabbie dei mandrilli celibi. Davanti alle quali si dice alle scolaresche di voltarsi un momento dall’altra parte.

In carcere non è prevista la gita delle scolaresche.

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Cari pacifisti, anche le armi
possono fermare i massacri


di ADRIANO SOFRI

CARO Gino Strada, voglio litigare con te, di brutto. Sarebbe meglio farlo di persona, nel Panshir, magari a Pinerolo: peccato. Ma tu sarai così generoso da litigare senza scrupoli, come se fossimo tutti e due a piede libero, in un autogrill. Comincerò con l'elogio dello sminatore, che in questo momento storico è il mio eroe. Ne ho appena visto uno in tv, militare di professione, ora smina da volontario coi miei amici di InterSos in Afghanistan. Ne conobbi altri. Una giovane donna, in Bosnia - là si chiama diverzant, lo sminatore - mutilata, temeraria. Voleva salvare vite, dicevano di lei che volesse morire. Ho sentito dire di campioni dello sminamento, che erano stati in passato collocatori di mine: gente che tornava sui suoi passi, come dovrebbe fare l'umanità intera. Fin qui siamo d'accordo, anzi, tante cose le ho imparate da te. Ora lo sminatore - la sminatrice volontaria - è dunque il mio eroe: tuttavia bisogna che qualcuno si occupi della questione generale, di mettere al bando le mine, la produzione, lo smercio, l'impiego eccetera.

Proprio tu ti impegnasti in questa campagna generale. Si striscia a disinnescare o a far brillare una mina dietro l'altra, per milioni e milioni di mine; si cura un mutilato dopo l'altro, si fabbrica una protesi su misura dietro l'altra - ma bisogna pure provare a interrompere, almeno a ridurre, la guerra, posatrice di mine e avida di mutilazioni. Tu curi la gente, e quanto alla questione generale, la guerra, che aborrisci, ti affidi all'educazione alla pace. Fra la mirabile cura chirurgica delle vittime di ogni colore, e un'umanità ricreata dall'educazione alla pace, c'è, a esser molto ottimisti, un enorme intervallo. È su questo intervallo che voglio litigare.

Nella guerra, le guerre, afgane, più lunghe di quella di Troia, tu curavi la gente: ti chiedevi chi e come potesse far finire la guerra? (Non è una domanda retorica: non lo so davvero. Non lo ricavo neanche dal tuo bel libro: "Buskashi"). Non era certo affar tuo; forse credi che nessuno possa far niente per far finire le guerre, e che si possa solo curare, operare, sminare. Il problema nasce quando qualcuno prova a far finire la guerra. In Afghanistan non ci ha provato nessuno, a lungo: l'hanno combattuta ed eccitata, ognuno dalla sua parte, ogni potenza dalla sua parte, finché una specie di stallo ha consegnato gran parte del paese al truce fanatismo Taliban. Stato-non Stato, tirannide brutale contro donne e bambini, territorio infeudato a un'Internazionale del terrore.

Bisognava o no che qualcuno si ponesse il problema di metter fine alla tirannia dei Taliban? Di strappare la frusta dalle mani degli squadristi? Prima dell'11 settembre, anni prima, io battevo le mani al lavoro afgano tuo e dei tuoi, e del dottor Cairo, e pensavo che la comunità internazionale dovesse intervenire a riportare le condizioni minime della convivenza civile in quel paese. Non sapevo come; condivisi l'illusione che Shah Massoud fosse il leader da sostenere. Massoud venne in Europa a chiedere aiuto, ignorato. Non era l'eroe senza macchia, benché fosse un eroe. Pensavo che la condizione delle donne equivalesse a uno smisurato campo di concentramento e di torture. Che si fosse nel caso in cui guerra e oppressione non sono state prevenute, e c'è bisogno urgente di soccorso. È così nella cura per la salute e la medicina, no? C'è un'educazione alla salute, c'è una medicina preventiva, c'è, quando si sia a quel punto, il ricorso alla chirurgia. Le persone possono trovarvisi, che abbiano gozzovigliato o seguito una dieta salutista, che si siano educate alla prevenzione o che abbiano creduto all'omeopatia: e però ormai devono affidarsi al chirurgo. E i paesi, i popoli? Nel tuo Afghanistan non successe niente.

Non gliene fregava niente a quasi nessuno. Poi c'è stato il 9 settembre, l'assassinio di Massoud, e poi l'11 settembre. L'amministrazione americana - e la coalizione adunata attorno a lei col mandato dell'Onu - ha additato in Al Qaeda (che l'ha rivendicato) l'autrice dell'assalto a Manhattan e a Washington, ha preteso la consegna di Bin Laden, è intervenuta militarmente contro l'Afghanistan del mullah Omar. Ogni volta che si ricorre alla forza, tu dici, le vittime sono i civili innocenti. Ma in Afghanistan da anni e anni i civili innocenti erano vittime di guerre. Tu lo sapevi meglio di chiunque: li ricoveravi, li operavi. Nell'Afghanistan del dopo 11 settembre, non-Stato escluso dall'Onu, infeudato ad Al Qaeda, bisognava intervenire? Bisognava impegnare le proprie energie perché il modo di intervenire fosse il più rispettoso della vita e della dignità umana, o opporglisi comunque come a un'infamia bellicista?

Credo questo: si può fare obiezione a qualunque decisione che, anche col proposito di salvare vite umane in numero ingente, sacrifichi la vita di innocenti, fosse pure un solo innocente. Questa obiezione di coscienza può segnare insuperabilmente il convincimento morale di un singolo individuo. Non quello di un responsabile pubblico, un militare o uno statista. Un responsabile pubblico misura relativamente la sua morale, che, per essere relativa, non è meno rigorosa. Non si illude di escludere in assoluto il sacrificio di vittime innocenti, ma vuole ridurne al minimo il rischio. Non ammazza né tortura prigionieri, anche i più colpevoli. Rifiuta, in Palestina, di far esplodere una vettura sulla quale, con un pericoloso capo terrorista, viaggiano persone innocenti, e dei bambini. Non ammette che, in nome del pericolo probabile ma futuro, si sacrifichino oggi degli innocenti. Apprezza l'incolumità della gente del "nemico" come quella della propria gente.

Questo era il problema imposto dall'intervento in Afghanistan, e in qualunque altro luogo del mondo. Opporsi in assoluto a ogni ricorso internazionale alla forza equivale esattamente a negare l'esistenza di una polizia entro i confini di uno Stato. Solo il pregiudizio, e l'abitudine, impediscono ancora di vederlo.

L'intervento in Afghanistan è avvenuto. È costato lutti evitabili e delitti cercati, ai civili e ai combattenti. Ti domando: i civili colpiti oggi in Afghanistan sono più numerosi o molto meno? Gli arti mutilati sono più o meno? Le mine collocate sono più o meno? Si mettono nuove mine o si smina? Le frustate alle donne sono più o meno?

È vero, secondo una quantità di fonti attendibili, che la maggioranza delle donne indossa ancora il burqa. A Herat, è stato ripristinato l'obbligo. A Kandahar, lo portano pressoché tutte. A Kabul sono numerose quelle che se ne sono sbarazzate. Ti domando: quelle che possono scegliere di non indossarlo sono molte di più o no? Tu sei arrivato a dire che le uniche donne senza burqa sono pagate dai fotografi occidentali! Affermazione enorme, se fosse vera, e degna di verifica. Intuisco quanto ti stia a cuore quel paese. Ma allora: perché la - precaria, difettosa, mediocre - liberazione di Kabul non viene festeggiata con le lacrime agli occhi da te e da tutti noi? Perché nelle cose che dici e nell'espressione del tuo viso, al contrario, sembra di leggere un rammarico? Un rimpianto per la Kabul com'era? Perché il ritorno di due milioni e passa di profughi in Afghanistan non viene salutato con le lacrime agli occhi?

Non smetto di chiedere perché i convinti pacifisti che non mossero un dito per liberare Sarajevo dall'assedio (il più lungo della storia moderna, più che a Leningrado) e dallo stillicidio delle bombe e dei cecchini, e anzi proclamarono la loro opposizione attiva a un intervento militare internazionale che sbloccasse l'assedio, e profetizzarono lo scoppio della Terza Guerra Mondiale, quando quell'intervento avvenne, con gli aerei della Nato, e in pochi giorni, e senza vittime innocenti, sbloccò l'assedio e liberò Sarajevo, non festeggiarono con le lacrime agli occhi? Non era la pace, si sapeva, lo sapevo: era solo (solo!) la fine del massacro quotidiano. L'interruzione del massacro, vegliata, ancora oggi, dalla polizia internazionale. Sono innumerevoli i posti della terra in cui si può pregare per la pace, ma per interrompere i massacri occorre mettere in campo una forza armata internazionale, e tenercela. E magari farle patrocinare libere elezioni, come a Timor est.

Sono contrario alla guerra minacciata contro l'Iraq e alla sua filosofia, e spaventato dalla sua ignota modalità. Ma mi sembra pazzesca l'assimilazione fra Saddam Hussein e Bush, che tu proclami a muso duro. Pazzesca l'indifferenza alla democrazia, per formale e imperfetta e violata che sia. Alla distanza fra governi eletti a suffragio universale e sanguinarie dittature assirobabilonesi. So darmene solo una, ma inadeguatissima, spiegazione. Io credo che la - brutta, difettosa, violata - democrazia debba essere la condizione della convivenza civile in ogni parte del globo.

Tu forse pensi - come certi etnologi relativisti che non sono ancora tornati a casa, come i leader cinesi, come i capi tribali patriarcali, come i fedeli della sharia - che la democrazia sia il pregio o il tic di un pezzetto di mondo, e sia fuori posto e disadatta a tanta altra parte del globo. Non riesco a capacitarmene, e mi spaventa. Mi spaventano le persone che mi sono care, note e ignote, che ripetono generosamente di essere sempre e comunque contro l'impiego della forza. Si sono dimenticate di Auschwitz, e non hanno voluto imparare dov'è Srebrenica, e che cosa è successo, e quando.

(15 ottobre 2002)

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Alle Olimpiadi dello stile di vita

di  Adriano Sofri

Mi preparo ai Giochi e penso all'amico Alexander Langer. Per il quale il modello della gara è diventato lo scopo della nostra esistenza. Un incubo, come l'idea di progresso.
Questo numero esce (ma io scrivo un po' prima) quando si inaugurano le Olimpiadi di Atene. La cerimonia inaugurale, si dice, eclisserà ogni precedente. Ci sarà anche il cavallo di Troia, si dice. (Non ho mai avuto simpatia per l'inganno del cavallo. Conclusione meschina per tutto quel trucidarsi). Sportivi, tossicologi, terroristi, poliziotti si aspettano un evento senza precedenti. Anche noi carcerati. Siamo pronti, o quasi. Ho dimenticato solo di rifarmi gli occhiali da lontano, tre metri lontano, voglio dire. Vado male nella lettura dei sottotitoli, delle liste dei gareggianti, dei tempi e delle misure realizzati: tutti record, c'è da scommetterci. Ma non importa. Le Olimpiadi si possono guardare anche a occhi chiusi. Mi affiderò al replay, e al ralenti, soprattutto. Questa metà di agosto volerà. Uno è contento che il tempo voli, qua dentro. Qua il tempo non passa mai: replay e ralenti. A proposito, mi viene in mente il mio caro amico Alexander Langer. Per via delle Olimpiadi.
Alex cercava degli slogan, come tutti i politici. Siccome era un buon politico, anzi buonissimo, aborriva gli slogan facili, a effetto, gli slogan demagogici, quelli che fanno vendere la cosa senza dire che cos'è la cosa, e tanto meno le avvertenze cautelari.

Allora Alex rifletté sul motto delle Olimpiadi moderne. No, non quel «l'importante non è vincere, ma partecipare» del barone de Coubertin, magnifico slogan, di quelli che si ripetono con tanto maggior piacere perché si è senz'altro d'accordo che è tutto uno scherzo e che l'importante è vincere, costi quel che costi. Però ogni tanto ci sono delle eccezioni, dei tipi che, per qualche anacronismo, o per un guasto nelle comunicazioni sociali, prendono ancora sul serio lo slogan e arrivano lì davvero per partecipare, anche a costo di arrivare penultimi, o ultimi. Alex era uno così, gli piaceva essere della partita, con le altre e con gli altri, e se succedeva che gli altri andassero piano, lui aspettava, e regolava il suo passo sul loro. Non è un'abitudine molto diffusa, al contrario. Non è nemmeno del tutto sensata. A volte sì, a volte no. Come in tutte le cose, non bisogna esagerare. Ci sono circostanze in cui bisogna andare col proprio passo, anche a costo di correre troppo avanti, anche a costo di uscire dal gruppo e restare soli. Insomma, il motto delle Olimpiadi moderne è: «Citius, altius, fortius». Vuol dire più velocemente, più alto, più forte.

Alex aveva pensato che, se non per le Olimpiadi, che vengono ogni quattro anni, almeno per la vita di tutti i giorni il motto andasse rovesciato: lentius, profundius, suavius – più lentamente, più in profondo, più dolce.
«La corsa al più» diceva Alex «trionfa senza pudore, il modello della gara è diventato la matrice riconosciuta ed enfatizzata di uno stile di vita che sembra irreversibile e incontenibile. Superare i limiti, allargare i confini, spingere in avanti la crescita ha caratterizzato in maniera massiccia il tempo del progresso dominato da una legge dell'utilità definita "economia" e da una legge della scienza definita ''tecnologia”, poco importa che tante volte di necroeconomia e di necrotecnologia si sia trattato». La grande causa che ci sta di fronte, diceva (diceva queste cose una ventina di anni fa), è il passaggio da una civiltà del «più» a una del «può bastare» o del «forse è già troppo».

Dopo secoli di progresso, diceva, in cui l'andare avanti e la crescita erano la quintessenza del senso della storia e delle speranze terrene, può sembrare impari pensare di regredire, di invertire o almeno di rallentare la corsa del citius, altius, fortius. La quale è diventata autodistruttiva, e lo documentano l'effetto serra, l'inquinamento, la deforestazione, l'invasione di composti chimici non più domabili... Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza). Un vero regresso, rispetto al più veloce, più alto, più forte. «Difficile da accettare, difficile da fare, difficile persino a dirsi».

Regresso: era pronunciata la parola più impopolare di tutte. Perché noi, qualunque fede professassimo, siamo stati per lo più credenti devoti e superstiziosi nel Progresso. Rinunciare alla superstizione, ammettere che il Progresso era stato un surrogato della Provvidenza, oltretutto a scadenza assai più breve, era già seccante. Ammettere che, all'opposto, la storia fatta da noi era andata verso una consumazione e una precipitazione, è quasi impossibile. Che la storia non sia guidata da nessuna razionalità, da nessun fine superiore e salvifico, si può anche dire. Ma che, così velocemente, battendo un record dietro l'altro, citius, altius e fortius, avesse proceduto all'indietro, una Provvidenza alla rovescia, un Regresso: questo è troppo per il nostro amor proprio. Il Regresso riparatore cui Alex aveva l'ardire di esortare era una ritirata ordinata, una retrocessione ragionevolmente demoralizzata, una smobilitazione di imprese troppo enormi per non travolgere tutto nella propria rovina. A questo penso, mentre mi preparo a guardare le Olimpiadi di Atene, un po' seccato per quella idea di inaugurarle con il cavallo truffatore, il contrario dello spirito olimpico. Una bottiglia d'acqua accanto alla branda, gli occhiali un po' rigati, un paio di spighe di lavanda sul davanzale e i giochi comincino. Sono già passati nove anni e un mese da quando Alex Langer si è impiccato a un albero di albicocco, a Firenze, un pomeriggio in cui era rimasto solo.

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Caso Cogne, la galera e i poveracci

di  Adriano Sofri

Chi s'indigna per la mamma rimasta in libertà sbaglia. Non è contro il carcere rinviato che dovrebbe protestare, ma contro quello che si chiude ineluttabile sopra miriadi di disgraziati.
Non direi una parola sulle responsabilità per la tragedia di Cogne. Non giudicare è un precetto fondamentale, ed è anche un privilegio del quale non farei a meno. Non invidio chi, per professione o per vocazione, giudica. Quella tragedia è stata giudicata, in prima istanza, e la signora Annamaria Franzoni è stata condannata. Mi importa la decisione della procura competente di non dare esecuzione alla condanna, in attesa dei gradi ulteriori. Mi importa e, dico subito, mi fa piacere, qualunque sia la motivazione reale della decisione. La motivazione dichiarata è nota: prima della sentenza definitiva, non esiste pericolo di fuga, né di inquinamento delle prove, e la signora Franzoni non è socialmente pericolosa.

Il codice consente queste valutazioni, benché siano raramente seguite. Può darsi che sulla procura abbia avuto parte il desiderio di smentire il sospetto, quando non l’accusa esplicita, di un partito preso nei confronti dell’imputata, o anche di rinviare un provvedimento impopolare, di fronte a una madre di bambini piccoli. Si è visto bensì che la decisione ha sollevato anche le reazioni opposte, di persone indignate che la condannata non sia subito finita in galera: indignazione forse sincera in qualche caso, ma più probabilmente suscitata da quel piacere intimo che si prova alla disgrazia e alla galera altrui.

I magistrati che hanno deciso di non dare per ora esecuzione alla condanna hanno dovuto, immagino, affrontare l’unico rovello capace di far tremare le vene, cioè la domanda se una condannata per l’uccisione furiosa del suo bambino non potesse ripetere quella furia. Devono essersi detti di no, con convinzione, perché da una persona, e quel che più conta da una madre, dichiarata pienamente capace di intendere e di volere, non ci si può aspettare un delitto così folle. C’è qui una contraddizione insolubile di questo come di altri tragici eventi delittuosi: perché perizie e pronunciamenti psichiatrici vengono a dire a posteriori se siano folli o normali atti che, per definizione, eccedono ogni possibile normalità. Se cedere al furore fino a straziare e uccidere la propria creatura non basta a definire la follia, vuol dire che una strana inversione fra la cosa e il suo nome ha vinto sulle nostre intelligenze.

Per una coincidenza, a pochi giorni dalla sentenza di Aosta è venuto – un trafiletto appena su qualche quotidiano – il provvedimento del tribunale di sorveglianza di Milano che ha messo in libertà vigilata, dalla clinica in cui era curata dopo essere stata assolta per totale vizio di mente, la giovane madre che aveva, ricordate?, chiuso la sua bambina di otto mesi nella lavatrice, e uccisa. Decisione anche qui «sconcertante», che è l’aggettivo al quale riparano la viltà e la paura, ma piuttosto penosamente ovvia: perché il gesto di una madre che butta coi panni sporchi la sua creatura nella centrifuga di cucina non ha bisogno d’essere certificato pazzesco da periti. Se non fosse pazzia quella, che cosa potrebbe più esserlo? Per quanto abbia frugato nei giornali, non ho trovato cenno del vero problema posto dalla sentenza di Aosta, per il caso che venisse confermata nei gradi successivi, anche attenuata nella durata della pena. Il vero problema è che, dilazionata per qualche tempo – qualche anno, magari, fra appello e Cassazione e chissà quali imprevisti – la galera per la signora Franzoni diventerebbe ineluttabile. Così questa vicenda, d’eccezione per il dolore che ha evocato e per la risonanza spettacolosa e impudica, solleva una questione notissima agli esperti e ignoratissima, fino alla rimozione, da tutti gli altri, cioè la questione della pena. La giustizia ha perfino dimenticato, per distrazione e per abitudine, di distinguere fra la condanna e la pena, e fra la pena e la galera. La giustizia ha scelto, non so più da quando, di chiamarsi «penale», testimoniando così, a chi volesse ancora interrogarsi, di mirare soprattutto alla pena: e le nostre culture non hanno saputo liberarsi dall’identificazione fra pena e reclusione dei corpi.

Ecco che un evento tragico come quello di Cogne mostra, quasi senza volere, la pigra assurdità di questa cultura. Perché se la signora Franzoni fosse innocente – mai bisogna escluderne la possibilità, e non certo per effetto di una sentenza giudiziaria – la sola idea di incarcerarla suona atroce e raccapricciante. Se fosse colpevole – piuttosto, se fosse l’autrice dell’uccisione del suo piccolo – la galera, per lunga e dura che fosse, non potrebbe rivaleggiare neanche da lontano con la pena che lei e i suoi provano e scontano dentro di sé, dal momento stesso di quella sventura. E allora, perché la si chiuderebbe in una galera? C’è qualcuno che pensa che la sua galera serva a far da deterrente all’emulazione del suo delitto? C’è una paura del carcere che valga a trattenere una madre dalla furia omicida rivolta contro la propria creatura?
Ho sentito qualche commento amaro alla galera scampata – provvisoriamente – della signora Franzoni, paragonata alla galera che ingoia senza scampo miriadi di poveri disgraziati da quattro soldi. Lo capisco, ma è un equivoco, uno sbaglio. Non contro la galera rinviata di una persona di cui si è tanto parlato bisogna indignarsi e protestare, ma contro la galera che si chiude ineluttabile sopra le miriadi di disgraziati. L’altro giorno un servizio di Marco Imarisio sul Corriere si concludeva con l’opinione di un magistrato del ministero di Giustizia, incaricato dei problemi penitenziari: «In Italia la funzione penale viene esercitata a tappeto. E i benefici di legge non funzionano per i poveracci, le nostre carceri sono piene di gente povera, che sconta reati banali». Lo dice lui. Io non ho più neanche voglia di dirlo.

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Al bivio fra Bush e Saddam

di  Adriano Sofri

La memoria degli orrori di Hussein non può essere un'attenuante alla tortura esercitata da soldati Usa. Solo se saremo più severi con noi stessi potremo guardare nelle vergogne altrui.
Ci sono due argomenti della polemica politica che il disastro delle torture ha rinfocolato. Sono fra loro legati. Uno è quello che rimprovera di usare due metri per gli stessi fatti: le torture perpetrate dagli americani vengono giudicate con uno sdegno e un clamore che stridono col silenzio e l'indifferenza verso altre torture, ben più sistematiche, comprese quelle della lunga tirannide di Saddam Hussein. Il secondo argomento è quello che rimprovera la pronta disponibilità allo sdegno e alle manifestazioni per errori o malefatte dell'America (o di Israele) e il silenzio su tutte le guerre micidiali e i genocidi che non coinvolgono la potenza occidentale. Ambedue gli argomenti hanno un fondamento. Ma non devono diventare a loro volta un alibi per le responsabilità dell'America (o di Israele) e nostre di europei e italiani.

Infatti l'adozione di un metro differente per il giudizio su paesi diversi ha una sua ragione, anzi ha una sua necessità morale. Noi avversiamo la pena di morte e la consideriamo un indice principalissimo di crudeltà delle leggi e di cattiveria degli animi. In Cina si compiono tante e più esecuzioni capitali di quante non se ne compiano in tutto il resto del mondo. Sarebbe imperdonabile che ce ne dimenticassimo. Ma è del tutto comprensibile che ci addolori e scandalizzi diversamente la fede e la pratica della pena di morte negli Stati Uniti, in cui riconosciamo una cultura e un modo di vita vicini e decisivi per la nostra cultura e il nostro modo di vita, e di cui ascoltiamo l'aspirazione a guidare e difendere libertà civile e leggi umane nel mondo.

Sono successi, nella orribile vicenda delle torture in Iraq, lapsus rivelatori di un abisso nel quale non si ha voglia altrimenti di guardare. In fondo, i lapsus hanno dominato l'intera vicenda: il piacere domestico di farsi le fotografie ricordo coi corpi nudi dei torturati, la candida recita della violenza e della mortificazione sessuale inflitta da ragazze acqua e sapone su maschi denudati, le spiegazioni affettuose: «goliardia»... Uno degli aguzzini, un richiamato che in patria faceva il secondino in una galera americana, ha dichiarato: «Non sapevo che qui non si potessero fare le cose che facciamo da noi».
Lapsus che inducono a riguardare dentro le nostre case (le nostre galere: per me è la stessa cosa) e a reinterrogarci sulla nostra «differenza», su quanto sia realtà e quanto illusione e vanteria. Tuttavia, a parte questa angosciosa raccomandazione (il nostro occhio, una pagliuzza? Una trave?), il paragone fra un regime come quello di Saddam Hussein e del suo clan e la democrazia americana è grottesco, e chi voglia compiacersi dell'assimilazione (Bush come Bin Laden, Bush come Saddam) è solo pazzo. Bisognerebbe solo accompagnarlo a un bivio, di là Manhattan, di qua la Baghdad di Saddam o la Kabul dei talebani, e guardare dove andrà.

Dunque la memoria lucida e intransigente dell'infamia del regime di Saddam e del modo in cui la tortura vi imperava sovrana, esercizio ordinario della cittadinanza e della vita pubblica, non deroga alle leggi e alla morale, non è affatto una attenuante né materiale né morale al ricorso dei militari, e dei civili a contratto, americani (o inglesi) in Iraq, alla infamia della tortura, che dovrebbe essere per noi oltre che un atto proibito una degradazione impensabile, un tabù. Tabù è, vorrei osservare, non ciò che non si può provare l'impulso a compiere, ma ciò che non si compirebbe mai, tanto è l'orrore e la vergogna e la paura che suscita (Giocasta che dice a Edipo: quale figlio non ha sognato di giacere con la propria madre? Ma Giocasta è disperata e fra un momento si impiccherà, ed Edipo sta per trafiggersi gli occhi).

L'impulso a tormentare i propri simili sta in agguato nel fondo di tanti animali umani e aspetta l'occasione per emergere: la guerra è la migliore delle occasioni. Le democrazie non cancellano questo impulso: devono tenerlo a bada, vergognarsene e temerlo, e castigarlo, più che ogni altro modo di convivenza. E un comportamento differente, un'obbligazione più stringente, non è affatto, nella democrazia, il frutto orgoglioso di una superiorità culturale, almeno non soltanto. È anche il costo moralmente obbligato di un privilegio, di un lusso solo in piccola parte meritato. Chi protesti contro il metro più severo usato per deplorare la tortura esercitata da americani o inglesi (o italiani, o francesi, o svedesi), accetti di accogliere un metro unico col resto del mondo anche quando si siede a tavola per il pranzo. Se fossimo capaci di adottare un metro unico, una legge uguale per tutti, la pazzia e l'anoressia e il rogo di noi stessi sarebbero il nostro destino. Se vogliamo tenerci la nostra normalità, cioè il colossale privilegio che ci è toccato, nel giorno delle elezioni e all'ora dei pasti, dobbiamo almeno accettare per noi comportamenti umani regolati e rispettosi, tanto più quando teniamo il coltello dalla parte del manico in casa d'altri, e altri, chiunque siano, si trovano in nostra balia. Dunque non si ceda per un momento di fronte alla tortura che danza come la regina della festa nelle corti dei tiranni della Terra, ma ci si vergogni soprattutto, e soprattutto si punisca, la propria tentazione.

Quanto alle guerre e ai genocidi, che coprono a decine il pianeta, la stessa considerazione vale non a giustificare, ma a illuminare una differenza di sensibilità e di giudizio. Dobbiamo aspettarci dall'America, da Israele, da noi, un comportamento migliore di quello che osserviamo spaventati, o ignoriamo per convenienza o demagogia, presso sudanesi e nordcoreani e congolesi. Dobbiamo usare il metro più severo per le nostre malefatte. È la condizione per guardare dentro gli orrori altrui, e per affrontare il più delicato dei nostri cimenti, l'obbligo al soccorso, il peccato mortale dell'omissione.

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Maurizio che tiene su la Torre di Pisa

di  Adriano Sofri

Ho sotto gli occhi la fotografia di un detenuto uscito per la prima volta in permesso dopo otto anni. È quello che prepara il miglior caffè del carcere, molto apprezzato da Marco Pannella.
Quando un detenuto va in permesso per qualche ora o per qualche giorno, e magari non vedeva la luce della libertà da anni, gli sembra che tutte le persone lo guardino come per dire: «Questo dev'essere un detenuto». C'è Maurizio. È un bravo ragazzo come ce ne sono pochi al mondo. Ha 32 anni, gli ultimi otto li ha passati qui dentro. Non lo meritava affatto, ma non vi racconterò perché: sarebbe lungo e poi voi avrete i vostri pregiudizi, e teneteveli pure. Il punto è che Maurizio è uscito nel mondo, dopo tutti questi anni, in permesso. Come la colomba spedita fuori dall'arca. È tornato dentro e ha raccontato tutto. È andato al mare. Siccome non sa nuotare, e ha una specie di fobia per l'acqua fonda (gliela faremo passare, prima o poi), è restato dove si toccava. Ragazze ce n'erano? Sì, molte, e anche famiglie, coi bambini... E le ragazze, com'erano? Certe belle, certe brutte, così. Maurizio è cauto, e fa bene. Quando uno dopo tanti anni esce, e poi rientra, la gente fa a gara a chiedergli quella cosa sola. Ha visto la piazza dei Miracoli, questo lo racconta più volentieri. Due volte, una volta di sera, un'altra di mattina presto: di mattina presto è più bella, con il cielo di madreperla rosa. Di sera ci è andato con la famiglia.

La sua famiglia è toscana, ma non avevano mai visto la Torre pendente e il Duomo e il Battistero e tutto. Eppure, vengono a visitare Maurizio ogni settimana da anni. Va bene, ma quando si va a visitare un figlio o un fratello in galera non si ha voglia di andare a vedere niente. Invece questa volta sono andati a vedere tutto e Pisa gli è sembrata bellissima, benché sia tutta un po' storta, e non solo la Torre. Sonosaliti su un trenino che fa il giro della piazza e si sono fatti la fotografia con la mano che tiene su la Torre che pende. Al cognato di Maurizio è piaciuto specialmente l'intonaco del Museo delle sinopie, e ha proposto a sua moglie di intonacare così anche la facciata della casa che si stanno costruendo, vicino a Vinci: Vinci, sapete, il paese di Leonardo. A cena sono andati da McDonald's, le nipotine erano contente. Maurizio era stato un promettente ciclista prima della dannata galera, e la nostra suora gli ha prestato la sua bicicletta per farsi un giro in città. Bicicletta da donna e troppo bassa per lui, ma si è divertito lo stesso a pedalare a tutta forza sul lungarno.

È andato a trovare una professoressa che lo aiuterà il prossimo autunno, quando Maurizio frequenterà l'ultimo anno dell'Istituto agrario fuori, insieme agli alunni normali. La signora abita al numero 24 di una via, dirimpetto alle belle mura medievali, e Maurizio non riusciva a raccapezzarsi. Aveva trovato il numero 23, poi il numero 25, e mancava proprio il numero 24. In questi anni si era dimenticato tante cose, compresa l'abitudine di mettere i numeri pari da un lato e i dispari dall'altro. Quando finalmente è riuscito ad acchiappare il 24, non aveva il coraggio di dire alla signora perché aveva fatto tardi. Per consolarlo, gli abbiamo spiegato come funziona la toponomastica a Tokyo.

La signora gli ha chiesto se gli piacesse leggere, e che libro avesse letto di recente. Maurizio aveva letto, posso testimoniarlo, Il segreto di Luca di Silone, Il Principe di Machiavelli, e una vita di San Francesco di Chiara Frugoni, ma lì per lì non gliene è venuto in mente neanche uno, così si è vergognato di nuovo. Quando è rientrato mi ha chiesto di dargli tre libri e ha dichiarato che li avrebbe letti entro la notte. Gli ho dato Le tigri di Mompracem, La storia di Elsa Morante e L'isola del tesoro. A quest'ora (scrivo di notte) deve aver finito Le tigri di Mompracem e starà menando sciabolate sulla branda. Sappiate però che Maurizio conosce la musica e sa suonare, e nella chiesa del carcere suona l'armonium e la fisarmonica e canta.

Quando uno va in permesso tutti gli danno qualche incarico: telefonare a casa, comprare una canottiera gialla, eccetera. Io gli avevo chiesto di mangiare un gelato enorme alla mia salute. Maurizio è stato sbalordito dalla quantità di sapori del gelato e, cercando di indovinare i miei gusti, ne ha mangiato di pompelmo rosa, ananas, noce, pistacchio e melone. È anche andato col nostro prete, il quale dirige il seminario pisano, a vedere la Biblioteca dell'arcivescovado, che a partire dall'autunno aiuterà a riordinare e ricatalogare. Era un po' in soggezione per tutti quei libri, per giunta così antichi e voluminosi, ma poi si è accorto che alcuni erano addirittura infilati con la costola in dentro e il taglio in fuori, sicché non si poteva neanche leggerne il titolo, e si è rinfrancato (i nomi tecnici glieli insegnerò io, che ho nostalgia di libri vecchi e di cataloghi).

Le regole del permesso gli prescrivevano di restare in casa dalle 10 di sera alle 6 di mattina: alle 6 e un minuto era già fuori, dopo aver rifatto il letto, fatto le pulizie, preparato il caffè ed essersi guardato cento volte allo specchio. Il caffè di Maurizio, con la crema, come si fa in carcere, sapete, si mette in un bicchiere un po' del primo caffè che viene fuori, si zucchera parecchio, si mescola con convinzione mentre esce il resto del caffè, e si versa. Ci sono file di parlamentari trasversali, a cominciare da Marco Pannella, che vengono in visita nella nostra galera per bere il caffè di Maurizio. A volte penso che dovrebbe aprire un bar fuori, «Che bello ‘o cafè».A Maurizio fuori è piaciuto andare a ordinarsi il caffè nei bar, e mangiare le brioche croccanti alle 6 e mezzo di mattina. Quando un detenuto in permesso entra in un bar e chiede: «Un caffè, per favore», gli sembra senz'altro che il barista lo guardi, e anche la cassiera e tutti gli avventori lo guardino, e anche i cani e i gatti, pensando: «Questo è un detenuto». In realtà il secondo pomeriggio Maurizio ha incontrato al bar un agente penitenziario napoletano, che è stato molto contento di vederlo fuori, e gli ha offerto un Campari Soda. Non è che l'inizio.

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Baldoni, uno che non si faceva i fatti suoi

di  Adriano Sofri

Il giornalista ucciso in Iraq si definiva un ficcanaso. E davanti alle tragedie del mondo andava a vedere. Aveva dei meravigliosi precedenti: per esempio, Francesco d'Assisi.
Ho conosciuto solo da spettatore e lettore, e solo nei giorni dell'allarme e della tragedia, Enzo Baldoni e la sua famiglia, provando per loro una fortissima simpatia. Ho pensato che il sarcasmo su Baldoni, la partita giocata fra un Fabrizio Quattrocchi «mercenario» e un Baldoni in cerca del brivido guerriero, l'insulto gratuito e compiaciuto verso una persona in balia di manigoldi sgozzatori, la sventata sottovalutazione della ferocia e poi il dolore tardivo, siano stati fra i sintomi più tristi della nostra pubblica faziosità. Ci sono pacifisti che confondono l'amore per la pace con la cecità di fronte all'esistenza di una guerra. Ci sono realisti che denigrano l'amore per la pace fino al punto di darne per scontata la compromissione con gli assassini e dimenticare solidarietà e compassione umana. Ce n'è abbastanza per ripensare a se stessi e alla propria comunità, se se ne abbia l'umiltà e il coraggio.

Voglio estrarre un dettaglio di questa amarissima vicenda, prologo prevedibile di tante altre, per mostrarne la faccia opposta. Una energia polemica è stata impiegata per denunciare la sventatezza presunta (o vera, a volte) di un turismo di guerra e in genere di rischi estremi, che mette a repentaglio i suoi cultori e tante altre persone, e chiama in causa, come nel caso dei sequestri e dei ricatti, i sentimenti e la responsabilità di intere comunità nazionali e dei loro governi. È un problema che esiste. Perfino nella pancia delle nostre pacifiche e sfibrate esistenze quotidiane pullulano impulsi alle sfide estreme, al culto della messa alla prova di sé di fronte a qualche strapiombo, alla diffusione, contagiosa come una peste, di quel feticcio retorico, «la scarica di adrenalina».

Questa programmazione del cimento estremo a riscatto della vita mediocre sta al bordo dell'ideologia del provare tutto: bella idea, tanto tempo fa, coraggiosa e generosa, prima di diventare un'aggressione cieca al mondo e una resa di sé. E tuttavia, bisogna pure che si prenda in conto l'opposto, la prudenza spinta fino all'opportunismo e all'omissione di soccorso, la paura che paralizza, la viltà. Non amo la retorica e non presumo molto delle forze mie, e dunque delle altrui. Non ho niente contro la paura: contro la viltà sì. Forse la viltà è solo la paura non confessata, la paura di cui ci si vergogni di nascosto, preferendo sacrificarle la verità e la giustizia.

Vile è la paura che induce a decidere di non vedere, a negare ciò che ci sta vistosamente di fronte, e chiede una scelta. I giornalisti sono una categoria troppo vasta e generica per essere sottoposti, da questo punto di vista, a qualche comune dovere. Le circostanze o la vocazione possono portarli, donne o uomini, a misurarsi con la questione della guerra, del rischio, della vita minacciata propria e altrui, della paura e della viltà. La (mirabile) crescita del volontariato internazionale ha ancora più stemperato i confini fra giornalismo di guerra, impegno umanitario, e con lo stesso volontariato militare.
Ebbene: ci sono situazioni (molte, sempre di più) sul mappamondo di oggi in cui la semplice decisione di andare implica una forte abdicazione ai criteri che guidano l'aspirazione alla sicurezza e al controllo di sé nella nostra vita quotidiana. Scendete da un aereo di fortuna, o da un'auto coi vetri verniciati da simboli speranzosi, e in un momento la vostra vita non vi appartiene più. Siete alla mercé di persone sconosciute di cui dovete fidarvi e che a loro volta arrischiano la propria vita per voi; di sparatorie incrociate e imprevedibili; di giochi torbidi e incomprensibili. La vostra vita è traslocata in un altro mondo, e sospesa, a tempo indeterminato, come una monetina lanciata in aria: forse ricadrà giù, forse una mano svelta la afferrerà e la farà sparire. Se ne verrete fuori, quando ne verrete fuori, non avrete neanche voglia di descrivere quell'avventura, così estranea e grottesca rispetto al mondo vostro e dei vostri, al mondo che vi pareva normale, ora non sapete più che cosa sia normale.

Si può morire, con una leggerezza volubile e improvvisa, e un momento dopo i sopravvissuti riconosceranno quella morte per ineluttabile. Può darsi che siate un ragazzo cattolico mandato ad attraversare un ponte di Sarajevo, un operatore e una giornalista a Mogadiscio, una giornalista del Corriere su una stradaccia afghana, un misconosciuto free-lance radicale in una valle georgiana. Ci sono inviati di guerra che non escono dalla hall del loro albergo, altri che si avventurano in deserti e città più infidi di una palude. Ce ne sono di grandi e di piccoli, di vecchi e gloriosi, che continuano a partire, e di giovani e ambiziosi, che inventano una loro truffa.

Ci sono state tragedie così feroci da scoraggiare qualunque turismo da brividi, ma anche il cauto, saggio e sobrio giornalismo professionale. Nel pieno della tempesta del terrore islamista algerino e della risposta militare, a pochi passi da noi, più di centomila persone vennero massacrate in un raccapricciante silenzio, o poco meno, dei nostri media e dei nostri politici. Non si è mai fatto un bilancio onesto di quella voragine. L'Algeria è qui di fronte, come la Bosnia. Erano in agguato bande di sgozzatori. Si poteva non andarci, era molto ragionevole. Sarebbe stato bene dirlo: è troppo pericoloso, tengo famiglia, ho paura. Sarebbe stato bene, soprattutto, non voltare la testa dall'altra parte. Non nascondere, con una superflua vergogna per la propria paura, lo spettacolo di una strage immonda e a lungo indisturbata. Non farsi i fatti propri. Enzo Baldoni si definiva scanzonatamente un ficcanaso. Ci sono meravigliosi precedenti. Uno che non si faceva i fatti suoi, per esempio, era Francesco d'Assisi.

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Pamuk, che mi ricorda Dostoevskij

di  Adriano Sofri

Credevo di conoscere la Turchia, ma dopo aver letto il romanzo di questo scrittore ho capito di non saperne nulla. E una specie di vento impetuoso ha travolto i miei giudizi.
Voi sapete che cosa sono gli eleagni? Sono alberi, dal nome composto fra ulivo e agnocasto, detti anche ulivagni. Io non lo sapevo, prima di leggere, l'altroieri e ieri, un romanzo ambientato a Kars, città vicina al confine della Turchia con l'Armenia, le cui strade sono appunto alberate di eleagni. Ho dovuto consultare lo Zingarelli. Non è l'unica cosa, né la principale, che ho imparato. Dunque, ho letto per intero un romanzo di 460 pagine, e questo è già un avvenimento. Poi, mi è piaciuto molto, e perciò ve ne faccio partecipi. L'autore è Orhan Pamuk, è nato nel 1952, è turco, è importante e tradotto in mezzo mondo, e anche in Italia, ma io non l'avevo mai letto. Il romanzo si intitola Neve, lo ha appena pubblicato Einaudi. Eleagni a parte (ma ci sono anche pioppi e castagni), l'altra cosa che ho dovuto ammettere è che sono spaventosamente ignorante della Turchia.

Ho provato a ricapitolare i precedenti: lessi una biografia di Ataturk, attraversai la Turchia all'andata in corriera, verso l'Iran, e passai al ritorno qualche giorno estasiato a Istanbul (tornavo da una guerra, a Istanbul infuriava la pace), abbastanza per vedere che alla morte di Ataturk, che aveva rimesso la Turchia al passo coi tempi, tutti gli orologi erano bizzarramente stati fermati.
E poi ho amici turchi, ho letto parecchio sul genocidio armeno, ho frequentato turchi di Germania, sono senz'altro favorevole all'ingresso della Turchia nell'Unione Europea.

Detto ciò, non ne so niente. Mi è bastato leggere questo romanzo per accorgermene. E ora ne so di più? Sì e no. Sì, perché il romanzo è così bello che se andassi a Kars ora mi sembrerebbe di esserci vissuto da piccolo. No, perché il guaio dei buoni romanzi è che, a differenza dei cattivi saggi, confondono le idee e prima ancora le vite delle persone, travolgendole in una specie di vento – anzi, qui, di una nevicata eccezionale – che offusca i confini cui i nostri giudizi pretendono di affidarsi: fra islamici e islamisti, fra teocratici e laici, fra democratici e militargolpisti, fra oppositori marxleninisti e islamisti, fra donne suicide per amore e donne suicide per fanatismo, e così via.


Non solo, ma i buoni romanzi si permettono anche di raccontare il trapasso dall'una all'altra di queste figure dentro la vita delle stesse persone, da un tempo all'altro, o addirittura, come nel caso del protagonista, il poeta Ka, nello stesso tempo, secondo gli incontri che il destino e la piccola città gli mettono di fronte nel breve spazio del suo ritorno dall'esilio tedesco. Io, lettore arrugginito e benedetto probabilmente da un'ingenuità di ritorno, resto a bocca aperta di fronte a quella che mi sembra una fantastica sapienza della fabbrica romanzesca di Pamuk e alla vivacità quasi virtuosistica dei suoi racconti, nella quale mi pare di riconoscere il colore locale della periferia dell'Anatolia, dunque il più interessante connotato per ripensare all'ingresso della Turchia in Europa, e dell'Europa in Turchia. (Questione quasi risolta, alla fine: perché l'una e l'altra cosa sono già avvenute, oppure non avverranno mai).


Insieme mi sembra di riconoscere nel romanzo di Pamuk la febbre e la precipitazione nell'estremo che tendevano fino all'esplosione certi grandi romanzi dei quali si ubriacava la nostra adolescenza. Leggete per esempio questo brano (la traduzione di Neve è di Marta Bertolini e di Semsa Gezgin): «Ma anche lei guardava il viso di Ka per poter capire come gli altri dove fosse il pericolo. Anni dopo, il signor Serdar, il giornalista, mi avrebbe detto che in quel momento il viso di Ka divenne bianco come la calce, tuttavia gli era apparsa in viso una profonda felicità, e non l'espressione di chi abbia paura o soffra di vertigini. La domestica, esagerando ancor di più, mi raccontò che nella stanza si diffuse una luce così viva da avvolgere tutto. Ka, ai suoi occhi, già da quel giorno era un santo. Una delle persone nella stanza in quel momento aveva detto: "È arrivata la poesia", e tutti l'avevano accolta con grande agitazione e paura, considerandola più pericolosa di un'arma».


Io ci sento senz'altro Dostoevskij, benché Pamuk faccia citare più volte Turgenev dal suo protagonista. E non tanto il Dostoevskij dei Karamazov, o dei Demoni, cui più strettamente la trama lo avvicina – Ka infatti è tornato a Kars per scrivere «sulle elezioni comunali e sulle donne che si suicidano» – quanto il Dostoevskij dell'Idiota. Ka è un idiota senza sublimità, la cui vita crede d'un tratto, nella città in capo al mondo, isolata dalla neve e squartata da suicidi e attentati omicidi e golpe teatrali e sanguinosi, di guadagnarsi la propria verità nell'amore e nella promessa di felicità che l'amore chiude in sé. Arriva quasi a toccarla, la felicità – hanno già fatto le valigie, lui e la bellissima donna che vuole portar via – quando tutto crolla. Peccato, naturalmente. Peccato, pensa il lettore. Potevano farcela. Qualcuno può farcela?


Nemmeno il criterio cui ci si illude di affidarsi a occhi chiusi, la libertà di mettere o smettere il velo per qualsiasi ragazza, esce illeso dal tumulto del romanzo. La Turchia modernizzatrice obbligò per prima le donne a togliere il velo (e inchiodò il fez a colpi di martello sulle teste musulmane tradizionaliste), sicché una ribellione di donna può di volta in volta coprire o scoprire il capo, secondo il comando arrogante cui vuole opporsi. La Turchia governata da un partito islamico, in cui la moglie del presidente non partecipa a una cerimonia pubblica con altri governanti perché le è interdetto il velo, mostra alla rovescia la contraddizione che ha travolto la Francia. L'Europa, uno spera, è quella grande comunità in cui ogni donna sia libera davvero di decidere della propria capigliatura. Poi si legge un romanzo turco, o uno di una scrittrice iraniana, e ci si trova a dubitare perfino di questo caposaldo. Ma solo per un momento.

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Torno a scrivere «con osservanza»

di  Adriano Sofri

Era una formula che mi insegnò mia madre e che abbandonai quando cessai di credere in Dio. Ora l'ho riadottata. Anche per merito di un grande antifascista: Leone Ginzburg.
Per l'età, e le circostanze deplorevoli, inclino a ripensare al passato remoto e agli antenati. Occasioni fortuite risuscitano ricordi e suscitano domande. Scrivo spesso istanze di vario genere per i miei vicini detenuti, o correggo le loro, moderando certe formulazioni di ossequio barocco o servile, in favore di parole più controllate e dignitose. Il passaggio più delicato è il saluto finale, che precede la firma. Opto per un «Rispettosamente», o un «Ringrazia e cordialmente saluta».

Tuttavia ho in mente un'espressione che impiegava mia madre, e che insegnò a noi bambini, iniziandoci alla compilazione per nostro conto di domande in fogli protocollo. Bisognava scrivere: «Con osservanza...». Mia madre era riservata e attenta alle forme. Aveva una bella scrittura corsiva, di quelle che si sono perdute, e ogni tanto ne riconosco l'eleganza sobria in qualche lettera di vecchie signore gentili. Sapevo imitare bene la sua scrittura, specialmente in quella conclusione: Con osservanza, e la firma.


Venne poi un momento in cui non fui più disposto a scrivere per mio conto Con osservanza. Dev'essere successo più o meno al tempo in cui non mi sembrò più possibile credere in Dio. Le autorità andavano destituite e le stesse formule del linguaggio comune, pronunciate da tempo immemorabile senza ricordarne un'origine umile o servile, finivano sotto osservazione. Perfino i saluti. «Servus!». Chi si farebbe una questione dell'origine dell'affabilissimo «ciao», che è la parola «schiavo»? Eppure, viene una stagione in cui ci si vergogna anche di dire «ciao». Avevo un cugino, coetaneo, che l'educazione più rigidamente triestina aveva addestrato a rispondere al richiamo paterno: «Comandi!». Quel «comandi!» aveva ormai poco di disciplinare o di militaresco ed equivaleva a un «sì», un «eccomi» (sarà quella l'origine del cordiale saluto friulano «Mandi»?). Insomma, in quella ribellione al linguaggio costituito per una adolescenziale correttezza politica, non c'era parola comune che la passasse liscia. Figuriamoci: «Con osservanza». Nell'osservanza risuonava un'obbedienza più ligia e conforme, una soggezione conventuale o una sudditanza asburgica.


Fra tutte le autorità quella anonima della burocrazia sembrava poi la più immeritata e offensiva: dunque le mie domande, a un'anagrafe o un ministero o una direzione didattica o qualunque altro ufficio competente, curavano di concludersi seccamente, con qualche formula brusca, o senz'altro con la firma nuda.
Mi accorgo ora che, sia pure a passioni spente, qualche coda di quell'iconoclastia è durata, sicché una delle prime imprese in cui mi impegnai al mio ingresso in galera, alcuni anni fa, fu di protestare contro le domandine carcerarie prestampate in cui figurava la formula: «Il sottoscritto... prega...». Mi sembrò che pregare fosse più appropriato a sudditi o devoti che a cittadini, sia pure a diritti sospesi, e che andasse meglio: «Chiede». Il ministero mi diede ragione, benché non del tutto. Sui nuovi prestampati è scritto: «Richiede». Così, per salvare la faccia. Bene. Di tanto in tanto, in calce alle istanze dei miei compagni detenuti, tornavo a scrivere: «Con osservanza». Alle mie no.
Ora è successo che da Einaudi siano uscite le lettere dal confino (1940-1943) di Leone Ginzburg, che ho letto con grande emozione.

Ginzburg fu infatti un uomo di ammirevole intelligenza, cultura, rettitudine e coraggio. E poi io ho conosciuto e amato le persone della sua famiglia, suo figlio Carlo mi è carissimo. Le lettere hanno un interesse soprattutto culturale e letterario, riguardando il lavoro editoriale della Einaudi negli anni di guerra. Io sono stato piuttosto colpito e commosso dai rari e discreti accenni alla vita di famiglia che Leone conduceva nel confino di Pizzoli, in Abruzzo, con la moglie Natalia e i bambini. Ne parlerò un'altra volta. Adesso mi premeva un dettaglio. Ricorderò che Leone Ginzburg sarebbe morto nel 1943 nel carcere romano di Regina Coeli. Claudio Pavone ha ricordato che quando Ginzburg venne consegnato dal braccio degli italiani a quello dei tedeschi che lo avrebbero torturato a morte, «da una cella qualcuno cominciò a fischiare l'inno del Piave. Fu un fischio limpido e sicuro. I Tedeschi probabilmente non compresero, gli Italiani si commossero».


Il dettaglio sta nelle istanze che dal confino di Pizzoli Leone Ginzburg indirizzava al ministero dell'Interno, per esempio per essere autorizzato a recarsi fino all'Aquila a farsi curare da un dentista. «Il sottoscritto sarebbe grato a codesto on. Ministero se l'autorizzazione di cui sopra potesse essergli rilasciata con cortese sollecitudine, dati i forti dolori da cui è affetto. Con osservanza» (4 febbraio 1942). Oppure per chiedere di essere autorizzato a soggiornare all'Aquila nella circostanza del parto della moglie Natalia, previsto per il marzo del 1943: «Il sottoscritto confida che codesto Ministero vorrà concedergli l'autorizzazione di temporaneo soggiorno all'Aquila. Con perfetta osservanza». Oppure per trasferire il confino in un comune della Valle d'Aosta, dove Natalia e i bambini avrebbero potuto trovare il sostegno dei genitori di lei: richiesta respinta. «Confidando in un sollecito accoglimento della presente domanda, il sottoscritto porge i sensi della sua perfetta osservanza» (10 febbraio 1943).
Dunque io ho ricominciato a chiudere le mie istanze di qualunque genere, comprese le autorizzazioni alle cure dentistiche, con la formula che mi insegnò mia madre: «Con osservanza». Ho fatto un lungo giro, prima di tornarci. Quando lo scrivo, provo una certa fierezza.

 

 

 

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