In partibus infidelium
di lanfranco caminiti

"E' buono l'odore del napalm la mattina... sa di vittoria!".
[Il colonnello Kilgore in Apocalypse Now].

Quando poco più che un ragazzetto - frequentavo le classi di ginnasio in
Sicilia -  iniziai a interessarmi all'altro sesso, avevo preso
l'abitudine di dare gli appuntamenti sotto la statua di don Giovanni
d'Austria, il grand'uomo che bloccò l'avanzata degli ottomani nel 1571.
In quella zona, tra il porto e il duomo, dove si poteva poi passeggiare
tenendosi per mano tra chi pescava ope e monaceddi e tentare qualche
abbraccio sotto gli alberi, la scelta di riferimento era tra quella
statua di don Giovanni, una dell'Immacolata Concezione e un'altra di re
Ferdinando, il re Bomba che aveva rasa al suolo Messina per punirla
della sua ribellione. La mia  scelta era obbligata.
Don Giovanni era fiero, un gran cipiglio, il colletto largo e inamidato,
lo sguardo verso il mare, un rotolo di carte strette in un pugno, forse
quei portolani che lo avevano guidato, con la mano di Dio sul capo
s'intende, a sbaragliare i legni turchi a Lepanto salvando la cristiana
civiltà. Dal porto di Messina era salpata la sua ammiraglia della Lega
Santa, dando così lustro imperituro alla città. Mi sembrava geniale
quella sua decisione durante la battaglia decisiva di promettere agli
schiavi delle galere che remavano come bestie di avere la libertà se si
fossero comportati bene: e quelli furono leoni, stretti tra il restare
schiavi e cambiare padrone nelle mani dei miscredenti o perire come
topi: molti storici lo considerano l'episodio determinante. Mi sembrava
geniale quel suo essere riuscito a legare l'interesse privato, concreto
di ciascuno a un astratto "bene collettivo supremo": in nuce, la forza
dell'occidente. Pure sfregiato dall'incuria della storia e dei miei
concittadini nonché dagli escrementi dei piccioni, era fiero. Nelle
attese delle fidanzatine, lo scrutavo, gli giravo intorno, qualche volta
gli parlavo, chiedevo un consiglio, che so, se gli sembrava più carina
quella con tutte le lentiggini e il seno grosso o l'altra che era un
peperino, insomma ci entrai in confidenza, anche perché andava buca
spesso, spessissimo, le ragazze non sempre venivano e io avevo del tempo
per scambiare due chiacchere con la mia statua. Una volta, una ragazza,
con cui avevo già passeggiato e scambiato qualche effusione, mi si
presentò all'appuntamento tenendosi per mano con un altro ragazzetto,
uno dei  miei più cari amici. Mi si avvicinarono, io ero impalato peggio
dei turchi che impalava Vlad laggiù in Transilvania, e dovettero dirmi
qualcosa che non ricordo: non c'era bisogno di dire, era chiaro come
stessero le cose. Ne restai sconvolto. Giurai su don Giovanni d'Austria
vendicatore dell'occidente - verso lui, il suo volto fiero, quel rotolo
che teneva sotto il braccio, quel colletto largo e inamidato alzai il
mio pugno - che me l'avrebbero pagata. Infedeli.

Il regno di Dio è in voi

"La guerra deve essere trasferita nello spazio.
E' una concezione che non posso abbastanza lodare", diceva uno di loro.
"Oh, sì, poiché lo scopo è solo quello di indebolire il nemico,
non si può certamente tener conto della perdita degli individui
singoli", disse un'altra voce.
[due ufficiali prussiani a cavallo, in Guerra e pace, Tolstoj]

Al ginnasio non andavo granché bene senza peraltro mai avere problemi:
studiavo al mattino presto - un'abitudine che mi è rimasta - prima di
entrare in aula e mi bastava, poi in classe si lavorava duro e si
imparava tanto. Ero distratto dal mio romanzo di formazione, che era
fatalisticamente brancatiano: le ragazze. E da letture casuali - anche
questa un'abitudine che mi è rimasta - che mi divoravano i pomeriggi.
Tra queste mi colpì particolarmente I Mussulmani in Sicilia di Michele
Amari. Per il suo metodo, la stringatezza della lingua, la capacità di
accostare elementi storici ad aspetti di vita quotidiana, di costume, il
modo di evocare suggestioni. Ne ricavai una maggiore insofferenza verso
quell'odore di muffa che veniva dalle lezioni che subivamo, cronologie
prive di senso, date messe in sequenza come se la storia fosse una linea
retta tracciata dalla divina provvidenza. Squinternai quel libro - devo
avercelo ancora - con i miei segni e l'uso che ne facevo - mostrandolo e
rimostrandolo ai miei compagni di scuola come a spronarci verso il
rischio e l'avventura dell'intelligenza. Parecchi anni dopo scoprii che
a volere fortemente la riedizione di quel libro era stato Vittorini, che
però l'aveva tagliato, accorciato, ridotto dalla sua stesura originale
molto più lunga e ricca, arabescata. Vittorini spiegò in una lettera
privata i motivi del suo "intervento", sostanzialmente il tipo diverso
di lettore a cui lui si rivolgeva, quello del dopoguerra, meno erudito,
più utilitarista e diretto. Non ho mai ben capito se la traduzione di
Americana, la frequentazione di Faulkner e Steinbeck - intima come può
capitare solo a chi di un altro conosce esclusivamente la scrittura, e
Vittorini non spiccicava una parola di inglese - abbia avuto un peso su
questa decisione, questa idea di applicazione della modernità. Dovetti
aspettare ancora prima di poter finalmente guardare e leggere I
Mussulmani in Sicilia come l'aveva scritto e pensato Amari, con i suoi
disegni, le sue mappe, le sue geometrie, le sue lunghe divagazioni, gli
aneddoti, le straordinarie e inutili informazioni. Me ne è sempre
rimasto un affetto per le cose ridondanti, come cose perdute, e un
leggero risentimento per Vittorini, che adoravo. A lui dovevo se avevo
sempre amato il "suo" Amari, la "sua" lingua, un altro libro insomma.
Infedele.

Dio non è neutrale [George Bush]

"Dobbiamo liberare il mondo dal diavolo. Di questo siamo certi. Né la
morte né la vita né gli angeli né i prìncipi né le cose presenti né le
cose future, nemmeno le vette e gli abissi, ci separeranno da Dio.
Possa egli benedire e guidare questo paese."
[George Bush]
"Crediamo in Dio perchè con la grazia di Dio i missili americani
falliranno il bersaglio e noi saremo salvi. Islamici di tutto il mondo
uniamoci nel nome di Allah potente e misericordioso."
[Mullah Omar]

L'edizione online della Catholic Encyclopedia (è fedele, c'è tanto di
Nihil obstat) spiega che l'espressione "in partibus infidelium"
significa "nelle terre dei miscredenti" (unbelievers). Un tempo, quando
i vescovi erano costretti a fuggire davanti all'arrivo delle orde di
invasori infedeli (infidel) essi erano accolti da altre chiese,
conservando il titolo e le prerogative che avevano nelle proprie
diocesi: essi rimanevano vescovi di qualcosa, ma qualcosa che era ormai
perduto, "in partibus infidelium" appunto. Così, noi troviamo san
Gregorio che nomina alla sede di Squillace Giovanni, titolato "vescovo
di Alessio", da dove era stato cacciato dai suoi nemici.
Successivamente, si ritenne confacente, per preservare la memoria di
antiche chiese cristiane cadute nelle mani dei miscredenti, assegnare
questo titolo ai vescovi ausiliari o a quelli in paesi di missione. Nel
marzo 1882, la Sacra Congregazione della Propaganda decise di abolire
l'espressione che era puramente onorifica e non dava diritto ad alcuna
giurisdizione. Col tempo, infatti, per estensione, l'espressione veniva
usata per indicare un dignitario senza funzioni. Così si poteva trovare
alla corte di Luigi XIV un Giacomo II  definito nelle cronache del tempo
"roi in partibus".
Sciascia, parecchi anni fa, scrisse un libro titolato proprio Dalle
parti degli infedeli, dove raccontava la storia di un buon vescovo di
Patti che ostinatamente non voleva sentir ragioni alle sollecitazioni
della Democrazia cristiana del luogo e addirittura del cardinale Ruffini
di Palermo, grande potenza nazionale del tempo, e poi della Santa Sede,
ad acconciarsi a spingere i fedeli a votare scudo crociato. Non che
avesse altre propensioni politiche: lui era solo un uomo di studi e di
preghiere, di carità, e gli sembrava che quei maneggioni del posto non
agissero proprio per cristiana devozione. Gli è che nelle elezioni del
'48 e poi ancora dopo e ancora dopo a ogni amministrativa vinceva la
"spiga", sotto il cui simbolo si raccoglievano i terribili comunisti, i
socialisti e i laici. Il colmo fu quando accolse in chiesa e sposò con
rito cattolico il segretario della sezione comunista di un paese vicino,
che glielo aveva chiesto. Ci fu un vero scandalo, lettere anonime ai
giornali, interventi della Chiesa ai più alti livelli. Gli proposero di
dimettersi per malattia, una soluzione diplomatica, e lui rifiutò; gli
proposero di farsi aiutare da un vescovo ausiliario e lui accettò, ma
quello contava come il due di coppe. Gli proposero di mantenere
stipendio e titolo e andarsene a studiare e pregare da qualche parte.
Dovette obbedire, e così il  suo titolo divenne "vescovo di Leontopoli
di Augustamnica" (non provate neppure a capire dove sia), anche se più
d'uno considerava che il titolo "in partibus infidelium" gli toccasse
già per quel suo vivere come nulla fosse in terre ormai divorate dai
comunisti.

Fuori l'Italia da questa guerra

"Wo aher Gefahr ist, wächst
Das Rettende auch."
[Dove è il pericolo, là
cresce anche ciò che salva].
F. Hölderlin, Patmos.

Quando Blair con telegenica iattanza ha annunciato al mondo il primo
attacco contro l'Afghanistan elencando i paesi che avevano partecipato
all'azione, fui sorpreso da non sentir nominare l'Italia. Zappai su
altri canali per verificare che non fosse un mio difetto d'udito o un
errore di traduzione. Era proprio così: Usa, Gran Bretagna, Francia,
Germania, Canada e Australia, erano questi i paesi snocciolati in prima
linea. Non c'era neanche una motivazione militare di carattere
logistico: se aveva partecipato l'Australia che sta, come si suol dire,
"far away" (dall'altra parte del mondo), o il Canada, nulla ostava alla
partecipazione militare dell'Italia. Mi sentii un pochino sollevato.
Avevamo già dato, bombardando il Kosovo e la Serbia e infestando
l'Adriatico di missili inesplosi (stanno ancora lì); avevamo già dato
con l'Irak e la barbina figura dei Cocciolone; potevano esonerarci. Era
un problema di fedeltà forse. Magari non ci considerano alleati
affidabili e fedeli, con tutti quei cinquant'anni alle spalle a
traccheggiare con gli arabi (a cominciare da Enrico Mattei che voleva
mettersi in proprio e diventare autosufficiente per il petrolio e che
forse per quello scoppiò in cielo), quei colonnelli Giovannone, quelle
aperture di Moro e Andreotti, quel truscare sottobanco purché non ci
facessero stragi in casa, quei metanodotti con gli algerini, quella
eccessiva sensibilità verso la causa dei palestinesi sempre cara alla
Chiesa (ve lo ricordate quel prete che trafficava armi all'Olp in nome
di dio misericordioso?). Magari ci considerano infedeli, magari davvero
temono che un paese in cui scendono in piazza trecentomila persone e
fanno un po' cagare sotto gli otto grandi rinchiusi in un bunker, hai
visto mai gli pigliasse storto e ti pianta un gran casino contro questa
guerra, incendiando l'opinione pubblica mondiale.
In tutti questi giorni non sono ancora riucito a trovare una sola
persona che sia entusiasta di questa guerra, che abbia calzato in testa
l'elmetto. Ne capiscono le ragioni - ci sono seimila morti che gridano
vendetta - ma, ecco, nessuno ha proprio voglia di esserne travolto, come
italiano dico. Frequenterò le persone sbagliate, senza dubbio, ma non
sono solo i miei amici: se ne parla al mercato mentre scegli i pomodori,
allo SMA mentre stai in fila con il carrello, dal barbiere mentre sfogli
le riviste dell'ultimo scandaletto, allo sportello per pagare la
bolletta della Telecom che a tradimento è arrivata in ritardo e se non
mi sbrigo mi tagliano il telefono. Io davvero non so in quale sentina
vivano quelli che scrivono le lettere al "Corriere della sera" per
congratularsi con il bellicismo della Fallaci: a volte mi dico che sarà
il de Bortoli stesso a scriversi le lettere, come capita spesso fare nei
giornali. Le persone normali con cui parlo capiscono un po' meno gli
arabi, quel loro fanatismo religioso fa paura: la secolarizzazione -
benché la stessa chiesa se ne lamenti così spesso - deve esserci entrata
nel codice genetico, pur così recente per una mutazione. Pure, lo vede
chiunque che quelli sono gli straccioni del mondo, dal Pakistan
all'Indonesia, le guance troppo scavate, i vestiti troppo malmessi, gli
occhi troppo febbrili. E troppi bambini, ci sono sempre troppi bambini,
nelle navi che vomitano profughi, nelle immagini di carestie, nelle file
lunghe che come ferite tagliano valli e monti quando si passano i
confini, nei campi umanitari, nelle strade dove le fogne sono a cielo
aperto, troppi bambini che saltano sulle mine, che cadono sotto le
pallottole vaganti, che tirano pietre o danno fuoco ai copertoni. Troppi
bambini, come capita quando si è troppo poveri, questo lo sappiamo di
nostro. Dovranno avere anche loro le loro ragioni per strillare tutti in
quel modo come forsennati.
Con piglio marziale i nostri governanti offrono a ogni piè sospinto la
disponibilità totale a essere coinvolti in qualche modo in questa
guerra. La sua ineluttabilità è tale che non vi è margine di
ragionamento, non vi sono spazi "di nessuno". E' una constatazione che
può fare il più sottile e navigato commentatore o politicante come
l'ultimo dei fessi: è impossibile distogliere gli Stati uniti dalla
determinazione feroce di questa guerra: seimila morti gridano vendetta.
E' impossibile porre un freno a quella voglia di rivalsa, a quelle
ragioni economiche, militari, politiche. Si può far ricorso a ragioni
umanitarie e di buon senso (non bombardate i civili, risparmiate gli
innocenti) ma su questo peraltro concordano tutti, chi per pelosa
diplomazia chi per coscienza malmessa. Solo il pacifismo orante, la
non-violenza come scelta di vita hanno la stessa determinazione dei
guerrafondai contingenti a cui danno fiato i guerrafondai
costituzionali, traendo questa determinazione da princìpi, da una
militanza, da una storia, da un allenamento. Ma è sotto gli occhi di
tutti come  questo pacifismo abbia ancora il tono della testimonianza e
che quanto più assuma i caratteri della a-storicità tanto più avrà i
contorni della testimonianza, della petizione sovrumana (la guerra non
ha mai risolto i problemi dell'umanità, non vi sarà mai una guerra che
pone fine a tutte le guerre, il sangue ha sempre lo stesso colore
dappertutto, la vendetta non ripara l'offesa) a fronte di una guerra che
benché abbia radici economiche e politiche chiarissime si mostra come
umanissima, anche come una debolezza umanissima, in nome di seimila
morti innocenti.
Dalla grotta del campo di Agramante, Ferraù, Gradasso e Sacripante, il
feroce Saladino adduce altre ragioni umanissime, migliaia di bambini
morti per fame, i diritti palestinesi a una terra, la riconquista dei
propri territori sacri, il possesso delle proprie ricchezze, sperperate
da governanti corrotti e affamatori e dagli interessi americani.
Questa guerra non ha più mediazioni: il limite delle mediazioni, la
soluzione politica di questa guerra stava prima, nella situazione del
Medio oriente anzitutto e nei conflitti nazionali e religiosi esplosi
dappertutto, dall'Algeria all'Indonesia. Non vi è luogo alcuno, a
cominciare dall'Algeria, o dalla Palestina, dove una soluzione politica
sia stata trovata: l'emergenza dichiarata - spesso di guerra - ha
continuato a perpetrare il terrorismo, alimentandolo e riperpetuandolo.
Spesso quest'emergenza è stata solo l'emergenza degli interessi
economici, l'emergenza del mercato, l'emergenza del neo-liberismo (il
petrolio, le materie prime, la dislocazione di fabbriche pericolose, il
bassocosto della mano d'opera) che si è incistato così come fattore
criminogeno.
Nell'espropriazione di una pratica sociale, collettiva, di massa il
terrorismo e la guerra continuano a ritrovarsi e ad alimentarsi, spesso
in una commistione reciproca, in un riconoscere soltanto nell'altro le
proprie ragioni, senza più riferimento alcuno a una volontà collettiva,
ormai prosciugata, silente, avvilita, messa ai margini. Simbolica. Se
l'uno si richiama alla politica, come un Credo da stendardo di guerra,
perché la politica è intesa quindi solo come sospensione della guerra (e
sono queste le Tavole della legge dell'occidente, è Hobbes, è il
Leviathan), l'altro mette in campo l'aldilà della politica, l'oltre
della politica, che è solo contingenza umana: mette in campo il Testo,
il Testo sacro. Nella guerra, sacra o naturale, si ritrovano e
riconoscono i duellanti.
Io dico che questa guerra non ci appartiene, non appartiene in alcun
modo all'Italia. Io dico che il sentimento di paura, di timore, di umana
pietà, di codardia persino che ogni persona normale sta vivendo in
questi giorni sono una ragione forte, sono milioni di ragioni forti per
starsene fuori. Io dico che capisco le ragioni del popolo americano. Io
dico che capisco le ragioni del popolo musulmano. Non dico per nulla di
essere neutrale, di sentirmi estraneo, anzi. Io mi sento un
interventista. Io non credo per nulla che bin Laden possa essere il
campione delle ragioni musulmane e degli straccioni del mondo, tanto
quanto non credo che Bush possa essere il campione delle ragioni della
democrazia. Io dico che bin Laden è l'uovo del serpente.
Io credo che questo nostro paese potrebbe avere un ruolo straordinario
in questa guerra solo standone fuori. Un ruolo di intervento, un ruolo
attivo, un ruolo forte, che non sta nello sganciare bombe o inviare
commando nottetempo, un ruolo politico internazionale, un ruolo della
politica, della ricerca di soluzioni politiche. Disperatamente,
febrilmente, urgentemente, minuziosamente. In nome della compassione
che, come la libertà, è indivisibile. Io dico che solo da nazioni come
l'Italia e se l'Italia se ne fa promotrice nel mondo può essere svolto
questo ruolo che sarebbe competenza di quell'inutile baraccone che sono
ormai le Nazioni unite. Io dico che l'Europa, come entità politica, non
ha la forza per questo e probabilmente non può fare questo.
Io dico che la nostra controparte, la controparte reale di un movimento
che si batte per stare fuori da questa guerra per trovare soluzioni
politiche è questo governo. La pochezza di questo governo sta nel non
essere in grado di rappresentare in alcun modo i sentimenti nazionali,
che sono ostili e impauriti dalla guerra. La pochezza di questo governo
sta nel "voler sembrare" come la Gran Bretagna, come una fedele nazione
alleata su cui contare per mandare ragazzi allo sbaraglio o far partire
bombardieri. Nel gonfiare il petto come un galletto alzandosi sui tacchi
per sembrare più marziale. (E, per favore, si potrebbe evitare di
invitare in tv a parlare di vite umane come carta straccia i Luttvak, i
Silvestri: non c'è una qualche Commissione parlamentare, un qualche
prete che può intervenire contro questo disgusto? Ci sono i bambini
davanti le televisioni a quell'ora.) La pochezza dell'opposizione
parlamentare dell'Ulivo, almeno finora, sta in una resistenza
linguistica tra "polizia internazionale" e "guerra", nel "risparmiare le
vite dei civili", ripetendo pavlovianamente quanto appreso già per il
Kosovo, dove civili non furono risaparmiati e guerra fu. E comunque qui
non è il Kosovo, che sta proprio lì, affacciandosi certe sere da Otranto
e guardando bene la linea del mare.
Io dico che l'Italia potrebbe accogliere i profughi di questa guerra, i
profughi di tutte le guerre, sante o meno che siano. Io dico che sulle
nostre coste dovremmo piantare migliaia di bandiere tricolori su pennoni
alti come il cielo a indicare un puntino di luce nel buio, un suolo di
libertà momentanea dalla paura, dalle bombe, dal bisogno. Le laverei io
stesso quelle bandiere, di cui si lamenta Sergio Romano per il
trattamento sciatto nella vita d'ogni giorno, una per una, e le
stirerei, le piegherei, ne avrei cura. Io scriverei su quelle bandiere
le parole di Emma Lazarus, quelle che stanno sotto la Statua della
Libertà: "Datemi le vostre stanche, le vostre povere, le vostre masse
affollate bramose di vivere libere, i miserabili rifiuti della vostra
brulicante costa. Mandatemi questi, i senza casa, tempesta scagliata
contro di me." Io mi sento orgoglioso di avere aiutato in qualche modo
il lavoro di Gino Strada, il medico di Emergency, che da anni sta lì tra
mine, bombe e kalashnikov a curare i malati delle guerre e dei
terrorismi. Forse tenendo nel cuore queste parole. Mi sento orgoglioso
che sia italiano per caso. Vorrei venisse dato un Nobel a quell'uomo,
ora. Io vorrei che tutti noi italiani facessimo come Gino Strada, più di
Gino Strada, mettendoci in fila sulle nostre coste ad accogliere con
coperte e brodi caldi, un tetto e un lavoro, un salario e una scuola,
quelle masse affollate bramose di vivere libere. Io credo che noi
italiani siamo in grado di fare questo. Battendoci. Ora.
Qualsiasi discorso universalista mi sembra in questo momento riduttivo e
generico, la pace universale, la guerra universale. Io penso che bisogna
rispondere alla specificità di questa guerra, quanto più essa si
presenta da una parte e dall'altra come priva di tempi specifici,
confini specifici. Fuori l'Italia da questa guerra. Non vanno messe in
gioco le ragioni della nostra storia di "mondo comune" con gli Stati
uniti, non vanno messe in gioco le ragioni della nostra storia con il
mondo arabo. Fuori l'Italia da questa guerra. Questo movimento può
gridarlo e può farlo. Farlo. In fondo che Berlusconi sia il presidente
del Consiglio è solo un incidente insignificante della storia: che lo
sia, finché lo può, in un paese non più suo. In partibus infidelium,
appunto.

Roma, 10 ottobre 2001