Gli scenari del Sisde: la mafia non ha avuto le leggi
che aspettava per evitare gli ergastoli dei boss. E si vendicherà
Cosa Nostra, rapporti segreti
"Previti e Dell'Utri nel mirino"

Nella lotta tra le cosche prevalgono ancora i corleonesi di Riina
Un progetto di aggressione: colpire i politici considerati "vicini"
di GIUSEPPE D'AVANZO

"IDDU, pensa sulu a iddu", vanno dicendo i mafiosi. La legge sul legittimo sospetto carezzerà contro pelo gli "uomini d'onore" di Cosa Nostra siciliana. Quel cavillo di legge, programmato per liberare il Re e gli amici del Re dai legacci milanesi, li attossicherà come un veleno. Peggio della revisione del falso in bilancio. I mammasantissima sono sprofondati nelle galere "umiliati e vessati", come dice Leoluca Bagarella, con l'assoluto isolamento imposto dal 41bis. Non riescono a controllare come vorrebbero, come dovrebbero, gli "affari di famiglia". Non possono garantire ai picciotti e alle loro famiglie una vita decente e onorata. Mentre sulla "loro" Sicilia piovono miliardi di euro, là fuori, in libertà, ci sono solo le donne.

Tutti i maschi Riina e Bagarella di Corleone sono in galera, così i Madonia di Resuttana, così i Gravano di Brancaccio... Sono stati buoni e zitti per quasi dieci anni. Dopo le bombe del 1993, nessun attentato, nessun morto ammazzato, nemmeno una minaccia che è una, nemmeno un botto al tritolo. Quasi dieci anni di tregua e di "invisibilità". I tempi, alla fine, sarebbero cambiati e bisognava aver pazienza. Hanno avuto pazienza. Hanno fatto quel che dovevano, alle elezioni del 2001 come si è capito dalle loro conversazioni intercettate. Ne hanno ottenuto rassicurazioni e "promesse". Hanno cercato di fare "politica" a loro volta, di trovare anche vie di compromesso. Passato l'inverno del 2002, Pietro Aglieri, per conto delle famiglie di Palermo e di Bernardo Provenzano, ha offerto la "dissociazione" in cambio un "trattato di pace" con lo Stato italiano. Un buco nell'acqua. Ci ha provato Leoluca Bagarella con i toni minacciosi dello stile dei Corleonesi. Ancora niente. Ora Cosa Nostra si prepara a mettere da parte pazienza e diplomazia per afferrare di nuovo le armi e spargere ancora terrore e morte e veleni.

Non è uno "scenario", non è cabala di "analista". Sono notizie "soffiate" agli agenti sul campo del Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (Sisde) da "attendibili fonti d'ambiente": la mafia siciliana è pronta a lanciare "un'operazione di forte impatto con ricadute destabilizzanti sul piano politico e idonea, comunque, a far capire allo Stato (come non sono stati in grado di fare Pietro Aglieri e Leoluca Bagarella) che i capi di Cosa Nostra non intendono accettare lo status-quo". Le informazioni dell'intelligence incrociano e si sovrappongono alle indicazioni raccolte dal Servizio centrale operativo (Sco) della Polizia criminale. "Attendibili fonti fiduciarie" degli investigatori della Polizia criminale annunciano "un progetto di aggressione che avrà inizio con azioni in toto non percettibili all'opinione pubblica fino a raggiungere toni manifesti, con la commissione, in un secondo momento, di azioni eclatanti".

Secondo le "voci di dentro" di Cosa Nostra, due uomini sono in gravissimo pericolo. Si chiamano Marcello Dell'Utri e Cesare Previti. Ma le manovre "non percettibili all'opinione pubblica", più cupe di una minaccia di morte, sono già cominciate stringendo d'assedio Gianfranco Micciché, ministro junior e coordinatore di Forza Italia in Sicilia.

Repubblica è in grado di ricostruire gli annunci cattivi di una nuova stagione di violenze attraverso i documenti del Sisde e della Polizia criminale e le conferme di qualificate fonti investigative.

* * *

Il mafioso si "deve fare la galera". La galera, per un mafioso, è la regola e prova di "mafiosità". L'ergastolo, no. L'ergastolo è più atroce della morte perché è la lenta fine del potere, l'annichilimento del comando. Salvatore Riina dice che "sei o sette anni di branda" non sono un problema e sono il meno. Fino a quando là fuori sanno che, prima o poi, il boss ne verrà fuori, la famiglia e gli affari della cosca saranno al sicuro. Se là fuori sanno che il capo mafioso è in carcere per la vita, prima o poi, il tradimento lo travolgerà e, con lui, la famiglia di sangue e di mafia.

Zu' Totò Riina ricorda con orrore in quale stato di avvilimento si ridusse Luciano Liggio. Entrò in carcere come Capo dei Capi. Ergastolano, finì che faceva il buffone nei tribunali, con un havana appeso al labbro fingendo d'essere "il Boss". I picciotti ridevano di lui. Si ode tanto clamore sul 41bis (il carcere duro), ma il problema non è primario: appare più lo schermo al vero "dibattito" tra Mafia e Istituzioni. "La galera si deve fare e, se è dura, pazienza".

Il nodo da sciogliere per Cosa Nostra è l'ergastolo dei mammasantissima. Per attenuarne gli effetti o per cancellarlo occorrono leggi, norme, cavilli. In Parlamento, quelle proposte di legge sono già state presentate da parlamentari del Polo. Perché non "camminano"? Perché non "volano" come il "falso il bilancio" o il "legittimo sospetto"? Perché non diventano "priorità"? In fondo, sono soltanto due leggi, ragionano i mafiosi. Due articoli per legge.

La prima è la Pepe-Saponara (n.1447, presentata il 20 novembre 2001). Modifica il codice di procedura penale. Si richiama alla "Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali". Allarga le ipotesi di revisione del processo, nel caso in cui un imputato non ha potuto controinterrogare il testimone d'accusa, le cui dichiarazioni rese in istruttoria sono state ammesse. La Pepe-Saponara apre il varco, propone un principio, il "diritto a un processo equo" (art. 6 della Convenzione).

A quel principio, si appella la seconda legge utile alla cancellazione "tombale" dei processi di mafia. La si rintraccia nel gran corpaccione dei 45 articoli della "proposta Pittelli". Quel che interessa i mafiosi è all'articolo 15. Così innova il 3 comma dell'art. 192 ("Valutazione della prova"): "Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata di procedimento connesso sono valutate unitamente a ulteriori elementi di prova di diversa natura, documentale ovvero testimoniale, che ne confermano l'attendibilità". Bisogna tradurlo. Le dichiarazioni di un pentito di mafia, per avere valore, non possono essere confermate soltanto da un altro pentito, devono essere confermate da "elementi di prova di diversa natura". Se queste due proposte (Pepe-Saponara/Pittelli) dovessero diventare legge, non ci sarebbe processo di mafia degli ultimi dieci anni che si salverebbe dal colpo di spugna.

E allora perché la maggioranza non si dà da fare?, si indignano i mafiosi. Che cosa fanno quegli avvocati che, ieri, erano nei collegi di difesa e oggi sono allo scranno parlamentare? I boss, in carcere, non comprendono i ritardi. Stramaledicono: "Sono soltanto due fottute leggi. Se Iddu, non pensasse sulu a iddu...". Scrive l'intelligence: "Tra marzo e luglio, e cioè tra la lettera di Pietro Aglieri e quella di Leoluca Bagarella, la risposta del ceto politico alle istanze di Cosa Nostra è stata totalmente negativa: il progetto Pepe-Saponara, che prevede effetti retroattivi della riforma del giusto processo (con evidenti ricadute positive anche sulla posizione di mafiosi condannati), non procede mentre sul 41bis tutte le forze politiche, pressoché all'unanimità, si sono espresse contro l'abolizione e a favore di ulteriori inasprimenti. La situazione vede, dunque, i capi di Cosa Nostra di fronte a una vanificazione delle speranze, alla quale è verosimile intendano reagire". Reagire? Come?

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"In questo momento, secondo attendibili fonti d'ambiente - si legge nell'"appunto riservato" inviato dal direttore del Sisde a Palazzo Chigi - Cosa Nostra, superata la crisi degli anni '90, è tornata a essere decisamente forte in termini economici, di controllo del territorio e di infiltrazione nei settori più sensibili della società siciliana... Questo stato di cose rende ancora più impellente l'esigenza, per la mafia, di mantenere aperti quei collegamenti tra latitanti e capi detenuti, che il 41bis rende molto precari... Per questo, come dimostrano le iniziative di Aglieri e di Bagarella e le informazioni d'ambiente, i boss hanno deciso di "non accettare" comunque il protrarsi di questo status".

Ecco allora la strategia e gli obiettivi della risposta mafiosa. "Le fonti indicano che, vista l'inefficacia delle proposte di "pacificazione", i capi di Cosa Nostra in carcere potrebbero aver deciso di reagire con gli strumenti criminali tradizionali colpendo obiettivi ritenuti paganti. Secondo le stesse fonti, avrebbero però affermato l'intenzione "stavolta... di non fare gli eroi"".

Si comprende la preoccupazione dei boss. L'ultima volta (1992/1993) che si misero in testa di fare la guerra allo Stato, invece di "conviverci", ottennero solo allarme dell'opinione pubblica e leggi severe, repressione spietata, ergastoli. Questa volta Cosa Nostra vuole scegliere una via di mezzo. Colpire e uccidere, come sempre. Non però icone della lotta alla mafia (come Falcone e Borsellino), ma uomini politici (a torto o a ragione) ritenuti dall'opinione pubblica vicini alla mafia.

"Queste informazioni - scrivono gli agenti del Sisde - inducono a ritenere altamente probabile che, a breve e a medio termine, Cosa Nostra torni a colpire selettivamente e simbolicamente evitando però ricadute negative di una eventuale eliminazione di personalità assimilabili a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e agli altri esponenti delle istituzioni assassinati in passato (...non faremo gli eroi...). L'obiettivo potrebbe quindi essere una personalità della politica che, indipendentemente dal suo effettivo coinvolgimento in affari di mafia, venga comunque percepito come mascariato, come compromesso con la mafia e quindi non difendibile a livello di opinione pubblica. Questa linea di ragionamento induce a ritenere che l'onorevole Marcello Dell'Utri possa essere percepito da Cosa Nostra come un bersaglio ideale (insieme ad altri esponenti siciliani della Casa delle Libertà). La sua esposizione mediatica dai contorni negativi e la sua vicinanza al Presidente del Consiglio potrebbero essere ritenute dalla mafia utili per mandare un messaggio di forte impatto criminale e destabilizzante. Analogamente destabilizzante, in questa ottica, potrebbe ritenersi un attentato ai danni dell'onorevole Previti, il cui profilo pubblico è molto simile a quello dell'onorevole Dell'Utri anche in relazione ai rapporti con il Presidente del Consiglio".

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Tutta Cosa Nostra sceglierà questa strada? O ci saranno resistenze a imbracciare ancora le armi contro lo Stato, agli ordini di quei Corleonesi che hanno già guidato l'organizzazione alla sua sconfitta più grave? È a questi due quesiti che dà risposta il rapporto del Servizio centrale operativo della Criminalpol.

Non tutto fila liscio tra gli "uomini d'onore", a quanto pare. Due partiti, i Corleonesi e i Palermitani. Due capipartito, Riina e Provenzano. Due opzioni, lo scontro frontale proposto dal primo; la "trattativa" scelta dal secondo. Un solo vincente, il "partito della guerra", il partito di Riina e Bagarella. "La "petizione" di Leoluca Bagarella, a nome di tutti i detenuti del carcere de L'Aquila, è rivolta sostanzialmente al mondo politico, al ministero della Giustizia e ai magistrati di sorveglianza - scrivono gli investigatori - La successiva entrata in scena di altri 31 mafiosi, ristretti nel carcere di Novara - che hanno fatto pervenire al segretario dei Radicali una lettera aperta di protesta contro il comportamento degli avvocati penalisti, già loro difensori e ora parlamentari - ha il duplice scopo di formalizzare ufficialmente l'adesione totale al "messaggio" di Bagarella; di appesantirne il contenuto, attraverso un messaggio mafioso".

Per sgombrare il campo da ogni perplessità, Riina ha lavorato come sempre. Nel 1972 si liberò di Luciano Liggio, latitante a Milano, con una telefonata anonima alla polizia. Trent'anni dopo, con la stessa tecnica: una telefonata anonima, ha lanciato "un preciso richiamo", come lo definisce lo Sco, a Bernardo Provenzano. Antonino Giuffrè è il braccio destro di Provenzano. È latitante. Con Salvatore Lo Piccolo e Matteo Messina Denaro, forma il triumvirato che, per conto di zu Binnu, vuole rimettere in piedi Cosa Nostra nel solco della tradizione: vivere nello Stato non contro lo Stato, pensando soltanto agli affari e dimenticando il tritolo.

La telefonata di un anonimo "consiglia" ai carabinieri di Lercara Friddi di fare una capatina in contrada Masseriazza nella campagna di Vicari. Giuffrè esce in manette dal cascinale. Provenzano è servito, il "partito della trattativa" è servito. L'arresto, "pilotato e gestito dal gruppo corleonese riconducibile a Riina e Bagarella" - scrive lo Sco - svela che "la questione nei suoi molteplici aspetti va assumendo toni allarmanti e pericolosi che potrebbero anche concretizzarsi in azioni di ritorsione contro avvocati palermitani che attualmente rivestono ruoli istituzionali, in passato loro difensori, e più in generale contro obiettivi organici ad apparati politici, nell'ottica mafiosa di scuotere l'attenzione sul problema del regime carcerario duro e sul problema dei processi. Il progetto di aggressione potrebbe iniziare con azioni non in toto percettibili all'opinione pubblica fino a raggiungere toni manifesti con la commissione, in un secondo momento, di azioni eclatanti".

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L'assalto di Cosa Nostra non sembra di là da venire, lontano nel tempo. Investigatori e 007 parlano di "breve periodo" e, tra loro, c'è chi quel "progetto di aggressione" lo vede già concreto, ritiene che abbia preso già il via e la fretta con cui il Parlamento affronterà la "Cirami" non potrà che accelerarne le tappe. Secondo una qualificata fonte investigativa, la manovra stringe già d'assedio Gianfranco Micciché, uomo-cardine della vicenda politica siciliana. Nel racconto dell'investigatore, i guai del ministro junior hanno la stessa origine dei guai di Nino Giuffrè. Una telefonata anonima. Una voce consiglia ai carabinieri di tener d'occhio quel Martello e la cocaina che porta in tasca. "A chi la consegna?", dice la Voce. "Seguitelo e lo saprete".

Il resto della storia è nota. Martello entra al ministero delle Finanze e Miccichè finisce apparentemente nella cronaca nera, in realtà in un gioco pericolosissimo dove in palio ci può essere la morte.

Chi ce lo ha messo e perché? L'anonimo, questa volta, era in squadra con Provenzano con l'obiettivo di sbloccare "la trattativa" prima dell'inizio della "guerra"? O, nella telefonata, c'è ancora lo "zampino" di Totò Riina che ha avviato, con "un'azione non percettibile dall'opinione pubblica", l'"operazione di forte impatto destabilizzante" che mira a indebolire pubblicamente l'immagine di Miccichè per colpirlo poi senza pagarne il prezzo, come per Salvo Lima, e incassando l'attenzione e la sensibilità del potere politico? Quale che sia la risposta, Cosa Nostra dopo dieci anni è pronta a sfidare ancora lo Stato. Lo Stato sarà in grado di sfidare Cosa Nostra?

(7 settembre 2002)

Girotondini in piazza, gelo con D’Alema

«Saremo in centomila. Lui non viene? Altri hanno impegni e partecipano lo stesso»

ROMA - Girotondini in conferenza stampa. Tarda mattinata, sede della Fnsi, terzo piano. La manifestazione del prossimo 14 settembre annunciata in un’atmosfera euforica, moderatamente scaramantica, buonista con tutti tranne che con Massimo D’Alema. L’intervista che il presidente dei Ds ha rilasciato al Corriere della Sera , infatti, non è piaciuta. «Ah, già - dice Paolo Flores D’Arcais - D’Alema non verrà a piazza del Popolo perché ha un impegno...». Deve partecipare ad alcune Feste dell’Unità in Emilia... «Beh, certo, anche quelle sono feste importanti. Però...». Cosa? «Pure Sergio Cofferati dovrebbe andare a una Festa dell’Unità, e invece ci sarà, ha trovato il modo di essere con noi». Davvero? «Certamente. Ma non c’è da stupirsi troppo. Evidentemente, D’Alema ha detto al suo autista di essere più prudente...».
Sghignazza Francesco Pardi detto «Pancho», «l’uomo che io, nello scorso febbraio, sul palco di piazza Navona, indicai per scherzo, quasi per fare un esempio, come il nuovo, possibile leader della sinistra italiana. E il bello è che non solo ci avete creduto voi giornalisti, ma pure lui...». Nanni Moretti prende la scena. Con disinvoltura, sicuro, simpatico. Molto morettiano . Come quando, per richiamare due giornalisti, urla: «Bambiniiii... silenzio!».
Per uno che è abituato a gestire conferenze stampa ai festival del cinema di tutto il mondo, da Cannes a Venezia, questa qui organizzata nella sede della Federazione nazionale della stampa italiana, deve sembrargli proprio molto più semplice e però anche molto più emozionante. Ad un certo punto, gli va via la voce. Corde vocali strette. «Io credo che il nostro lavoro degli ultimi mesi sia stato molto, molto utile e... uff! uff!...».
Interviene subito in soccorso Marina Astrologo, una delle animatrici storiche dei girotondi romani. Perché poi, ecco, ciò che maggiormente colpisce, in questa conferenza stampa, è il ritmo, l’intesa, la gestione dei temi e delle polemiche. Prendiamo il caso montato da Antonio Di Pietro. Che si sente rammaricato «per non poter dire, io proprio io che sono il padre di Mani pulite, mezza parola dal palco». E loro, i girotondini, in coro affettuoso: «Ma noi a Di Pietro vogliamo bene, scherziamo?». Non potrà parlare, spiegano, «solo perché la nostra è una manifestazione così, di movimento, di associazioni, di gente, e speriamo ci siano anche quelli che han votato per il centrodestra, indignata per come il governo sta gestendo questioni importanti come l’informazione, la giustizia, l’economia...».
Dice Moretti: «Dev’essere chiara una cosa: noi non ci sovrapponiamo ai politici e ai partiti. Noi vogliamo soltanto sostenerli. Come accadde davanti al Senato, alla fine di luglio, quando la maggioranza tentava di imporre la legge Cirami». Nega contrapposizioni: «C’è un tempo per piazza Navona e uno per piazza del Popolo. Ora è il tempo di piazza del Popolo. Sono d’accordo con quanto dice Massimo D’Alema: vanno bene i movimenti ma non bastano. Nonostante i successi manteniamo il senso della realtà e del ridicolo. E non abbiamo mai detto che da una parte sta Berlusconi, dall’altra stanno i girotondi».
Sarà una manifestazione pacifica. «Ma ci avete visti?», dice Marina Astrologo. C’è ottimismo sui numeri. «Saremo almeno centomila». Almeno. «C’è pure un sacco di gente che arriverà in autostop...». Manifestazione autofinanziata, con inizio alle ore 15 e Moretti gran cerimoniere. Gira voce che, sul palco, possa esserci anche Michele Santoro. Qualcuno dice Roberto Benigni. Sicure le esibizioni di Roberto Vecchioni, Avion Travel e Luca Barbarossa. Chiuderanno Francesco De Gregori e Fiorella Mannoia. Insieme. In concerto. Nella gran piazza dove applaudiranno anche quasi tutti i leader del centrosinistra.
Se si escludono infatti Massimo D’Alema e Enrico Boselli dello Sdi, gli altri dovrebbero presentarsi tutti. Da Francesco Rutelli e Piero Fassino, freddini, a Sergio Cofferati, «molto convinto». Fausto Bertinotti e Antonio Di Pietro presenti ciascuno con «piattaforme autonome». Verdi e Comunisti italiani «meno problematici». Come Vittorio Agnoletto, leader no global: «Sarà una grande manifestazione, lo sento».

LA SCHEDA/L'intervento di Moretti apre il "fiume carsico degli scontenti"
giustizia, informazione, scuola: la società civile adesso si mobilita
Da piazza Navona parte
l'avventura dei girotondi

NESSUNO ha voglia di stabilire una primogenitura. Del resto il movimento dei girotondi ci tiene a restare senza padri, senza nome, senza partiti. Ma sulla scintilla iniziale il dibattito è aperto. C'è chi dice che senza il "Resistere, resistere, resistere" di Francesco Saverio Borrelli la macchina non si sarebbe messa in moto. Altri sostengono che senza il j'accuse di Nanni Moretti ai leader dell'Ulivo in piazza Navona (era il 2 febbraio), il primo girotondo, quello del 26 gennaio intorno al tribunale di Milano, sarebbe rimasto un episodio.

Fatto sta che nel giro di un mese, il "fiume carsico degli scontenti" è ormai venuto alla luce, e la 'piazza dei girotondi' è ufficialmente nata. "E' un magma civico che erompe da una domanda di rappresentanza debole e inespressa - scriverà il politologo Ilvo Diamanti -, un movimento nato da una promessa di cambiamento non mantenuta". Società civile, semplici cittadini, intellettuali, artisti: ecco chi sono quelli che puntano il dito contro il governo Berlusconi, ma anche verso una sinistra ritenuta troppo lontana dalla società. Per questo i partiti dell'opposizione, e in particolare i diesse, all'inizio restano spiazzati. E' il 3 febbraio quando il segretario della Quercia Fassino telefona a Moretti, che ha appena detto che "i leader dell'Ulivo se ne devono andare". E che per guidare il centrosinistra sarebbe meglio uno sconosciuto professore di Firenze, 'Pancho' Pardi.

Inizia così un dialogo difficile, che in tutta la prima fase è segnato dalla reciproca diffidenza, e che solo prima dell'estate troverà un punto di equilibrio. Intanto - siamo appena a metà febbraio - la macchina 'girotondina' è in pieno movimento. Prende i volti delle 'ragazze qualsiasi' che da Milano a Roma inviano e-mail e fanno firmare appelli. Sono traduttrici, giornaliste, professioniste. Si chiamano Marina Astrologo a Roma o Daria Colombo a Milano, e si portano dietro professori universitari, giuristi, editori e un pattuglione di uomini di cultura e spettacolo. Tra questi, naturalmente, Nanni Moretti.

Il 17 febbraio arriva la conferma che non si tratta di un fuoco di paglia. Chiamate a raccolta in poco tempo, migliaia di persone circondano pacificamente, tenendosi per mano, il palazzo di giustizia di Roma. E solo una settimana dopo, al Palavobis di Milano, la giornata della legalità organizzata dalla rivista Micromega raccoglie oltre quarantamila persone. Gli organizzatori se ne aspettavano diecimila.

Di quella giornata il ministro Castelli dirà: "Mi ricordano gli anni di piombo". E allora tutta l'opposizione, anche quella più perplessa sui 'girotondi', scenderà in campo contro il Guardasigilli. E' l'inizio di un lento disgelo tra la sinistra 'istituzionale' e il movimento della 'società civile'. Ma perché arrivi a compimento bisognerà attendere ancora.

Intanto le 'altre' piazze si fanno sentire, con le manifestazioni dell'Ulivo (500.000 persone a Roma il 2 marzo) e gli imponenti cortei di Cgil, Cisl e Uil sull'articolo 18. Il movimento dei 'girotondi', nato sui temi della giustizia, allarga il suo orizzonte, e tra marzo e aprile 'circonda' le sedi Rai (e stavolta c'è anche Fassino) e i provveditorati contro la riforma Moratti. Poi, per un paio di mesi, tutto tace. Si dice che i 'girotondi' abbiano esaurito la spinta iniziale. Non è vero.

Basta la legge sul legittimo sospetto votata dal Senato a fine luglio per riportare in piazza, di nuovo, migliaia di persone. Nanni Moretti è di nuovo lì, sotto Palazzo Madama. Le foto lo ritraggono mentre grida "Vergogna!" e si fa il megafono con le mani. Parlamentari dell'Ulivo scendono tra i manifestanti, e gridano anche loro. A settembre la legge sarà alla Camera. I girotondini si preparano a invadere pacificamente Piazza del Popolo. Il clima è cambiato. Ci saranno anche i partiti del centrosinistra, mentre Fassino dice che ci vuole "un nuovo Ulivo aperto ai movimenti". Nanni Moretti, che volente o nolente è diventato un leader, lancia l'appello: "Il 14 settembre in centomila". Con la speranza che, come accadde al Palavobis, ne arrivino anche di più.

(4 settembre 2002)

Presentata la manifestazione di sabato dei girotondini
Moretti: "Nessuna contrapposizione con i partiti"
"In piazza per la legalità
anche chi vota a destra"
di MATTEO TONELLI

ROMA - Scansa amabilmente ogni polemica. Chiama a raccolta anche gli elettori del centrodestra perché, giura, "i temi della manifestazione di sabato devono essere patrimonio di tutti". Lancia un ponte verso i partiti, "per i quali noi siamo stati e siamo uno stimolo, ma non vogliamo certo sostituirli". E'un Nanni Moretti dai toni morbidi quello che presenta la manifestazione per la legalità di sabato a Roma. Una manifestazione che, "non è un assedio alle istituzioni", che costerà "molti soldi" e che si preannuncia "straordinaria".

Giornate febbrili queste per lo stato maggire dei girotondini. Ieri una prima riunione, oggi la presentazione alla stampa. Moretti si porta dietro i girotondisti della prima ora: le romane Marina Astrologo e Silvia Bonucci, il professore fiorentino Pancho Pardi, il direttore di Micromega Paolo Flores d'Arcais. Dopo quel "vergogna" urlato a pieni polmoni davanti al Senato, oggi è il giorno dei toni morbidi, rassicuranti. Nessuna polemica con nessuno. Non con i partiti "andiamo avanti senza contrapposizioni con la consapevolezza che c'è un tempo per piazza Navona e un tempo per piazza del Popolo". Non con Massimo D'Alema che alla manifestazione non ci sarà e che auspica che non si crei una rigida contrapposizione tra i movimenti da una parte e Berlusconi dall'altra ("una cosa a cui non abbiamo pensato, manteniamo il senso del ridicolo" replica Moretti).

Non con Francesco Rutelli "che ha ragione quando dice che i movimenti da soli non bastano". E a chi ha cercato di "avvelenare" il clima della manifestazione "vogliamo dire che non abbiamo mai pensato ad un assedio selvaggio a Montecitorio. Che questa manifestazione si sarebbe tenuta il 14 settembre a piazza del Popolo lo abbiamo deciso il 31 luglio durante il sit-in davanti a palazzo Madama".

Ma quanti saranno in piazza sabato? Molti, moltissimi, girano i promotori. "C'è un grande fermento in giro" dice Flores d'Arcais. Tantissimi, soprattutto se si considera la natura della manifestazione: autorganizzata e autofinanziata. Appuntamento alle 15 a piazza del Popolo: parleranno Moretti, Flores, Pardi, Astrologo "e altri che decideremo". Suoneranno Luca Barbarossa, Roberto Vecchioni, gli Avion Travel. Chiuderanno Fiorella Mannoia e Francesco De Gregori. Tutti gratuitamente. Ma il palco, quello, bisogna pagarlo. E allora si batte cassa: "Dateci una mano o Moretti non potrà più fare film" scherza Flores (conto corrente sul sito www.centomovimenti.it, con Lamberto Sechi direttore responsabile della newsletter).

Resta il tempo per un Moretti che racconta quanto stia significando per lui questa esperienza. "Che mi ha coinvolto molto, d'altronde se non avessi fatto qualcosa, in futuro mi sarei vergognato".

(4 settembre 2002)

Le delegazioni dei 189 paesi trovano l'intesa sullo sviluppo sostenibile
ma nel Piano d'azione ci sono pochi vincoli e scadenze troppo vaghe
Accordo a Johannesburg
Powell contestato

Il discorso del segretario di Stato Usa fischiato dalla platea

JOHANNESBURG - Accordo nella notte a Johannesburg sul Piano d'Azione per uno sviluppo sostenibile. Un piano debole che provoca molte delusioni che verrà formalmente sottoscritto nel pomeriggio in seduta plenaria. Il primo a fare le spese del senso diffuso di frustrazione, è il segretario di Stato Usa, Colin Powell duramente contestato durante il suo discorso di questa mattina. Powell è stato costretto a interrompersi ogni volta che citava Bush (almeno quattro) e i suoi impegni per la lotta contro la fame nel mondo e lo sviluppo sostenibile. Fuori, la contestazione ha dato origine a qualche tafferuglio mentre i rappresentanti delle Organizzazioni non governative hanno abbandonato la seduta.

Prima, nella notte, l'accordo: il via libera è arrivato sul capitolo dei diritti delle donne nella politica sanitaria. In questo modo il piano del vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile è stato adottato dalle delegazioni dei 189 paesi presenti e consegnato alla storia. Senza eccessivi trionfalismi però.
Nelle 70 pagine sono molte enunciazioni e buoni propositi, pochissime scadenze e vincoli precisi. Oggi pomeriggio, in seduta plenaria, il documento verrà formalmente approvato.

Dopo la grande attesa, bordate di fischi. E' stato ripetutamente interrotto da contestazioni sonore degli ambientalisti l'intervento di Colin Powell, segretario di stato e capo-delegazione americana. "Traditi dai governi", si leggeva su un cartello, uno dei tanti branditi dai dimostranti, che intedevano protestare per l'esiguità dei risultati a loro parere conseguiti attraverso il summit. "Vi ho sentiti", ha prontamente replicato a un certo punto Powell, rivolto ai manifestanti, abbandonando la lettura del testo del discorso preparato in anticipo. Powell è stato costretto a interrompersi lungamente per ben quattro volte, specie quando il segretario di Stato Usa ricordava gli impegni assunti dal presidente Bush per la lotta contro la fame nel mondo e lo sviluppo sostenibile. Alla fine gli applausi sono stato completamente sopraffatti dai fischi e alcuni ecologisti sono stati trascinati via dagli agenti del massiccio servizio di sicurezza.

In precedenza numerose organizzazioni umanitarie non governative rappresentate al vertice, su iniziativa soprattutto degli 'Amici della Terra', avevano già lasciato i lavori per esprimere la loro avversione nei confronti di quanto è stato da essi stessi definito "il tradimento di cento milioni di persone, povere e vulnerabili".

Nel pomeriggio, comunque, arriverà la firma sull'accordo raggiunto. Due gli ostacoli che per giorni hanno impegnato le delegazioni: gli aiuti finanziari dei governi del Nord ai Paesi del Sud del mondo e lo smantellamento dei sussidi all'agricoltura europei e americani, che ostacolano l'accesso dei prodotti dei paesi poveri ai mercati delle nazioni più ricche e industrializzate.

Nonostante ore di trattative però, il bilancio è tutt'altro che esaltante. I 143 paesi in via di sviluppo riuniti nel G77 hanno ottenuto solo una riaffermazione dell'impegno, preso di recente da Ue e Stati Uniti, di frenare il progressivo calo, in atto da diversi anni, dei loro aiuti pubblici allo sviluppo e di discutere la riduzione delle loro sovvenzioni agricole nel corso di tre anni, "senza pregiudicare il risultato dei negoziati". Già da ieri, inoltre, era stato conquistato il "via lbera" di Russia, Cina e Canada al protocollo di Kyoto sui tagli ai gas serra. Un passo avanti nell'isolamento americano sulla delicata questione.

Per quanto riguarda le risorse idriche il piano impegna la comunità internazionale a dimezzare, entro il 2015, la proporzione di esseri umani senza acqua potabile e servizi igienici adeguati e ad "accrescere sostanzialmente" la parte delle energie rinnovabili nel consumo energetico mondiale. Principi che però non sono accompagnati da alcuna cifra, nè scadenze temporali precise, nonostante le pressanti richieste dei paesi europei.

La questione di quanto vincolante sarà l'accordo finale raggiunto nei dieci giorni di maratona negoziale al summit di Johannesburg dipenderà da una dichiarazione politica che verrà perfezionata nelle prossime ore.

(4 settembre 2002)

COMMENTO
L'assalto alla Corte

RAFFAELE K. SALINARI*


La vittima: la Corte penale internazionale. Il mandante: l'amministrazione Bush. Il killer: Silvio Berlusconi. Non ci sarebbe altro da dire per commentare le affermazioni del premier italiano in merito alla concreta possibilità che l'Italia, la nazione ove la Corte penale internazionale è nata, possa firmare un accordo separato con gli Usa per garantire ai soldati americani l'impunità in caso di crimini di guerra. Il direttore esecutivo della Convenzione internazionale per la Cpi, William R. Pace, aveva lanciato l'allarme già in luglio dopo la firma di Israele e Romania, avvertendo che gli Stati uniti si stavano preparando ad utilizzare in modo massiccio l'articolo 98, quello che consente appunto accordi bilaterali d'esenzione tra nazioni aderenti alla Corte. A seguito della posizione europea, apparentemente ferma ma fragile, e della deroga ottenuta dal Consiglio di sicurezza sulle operazioni di peacekeeping, il Direttore ora domanda a tutte le organizzazioni aderenti di investigare se il testo presentato dagli Usa alla firma di Israele, Romania, Tagikistan e Timor est, è lo stesso che viene proposto anche per altri paesi. Questo significa, spiega William R.Pace nella nota diffusa, che gli Usa intendono adattare il testo alle circostanze, introducendo probabilmente anche paragrafi aggiuntivi ad hoc, per invogliare alla firma. Non sappiamo cosa Bush abbia promesso a Berlusconi ma sicuramente la contropartita c'è ed è consistente, visto il pressing degli Usa per smantellare la Corte. La firma di un articolo 98 da parte dell'Italia aprirebbe un effetto domino le cui conseguenze sono facili da immaginare, in particolare su scala europea. Basti pensare che se l'Olanda, che attualmente ospita la Corte, dovesse prendere la stessa decisione, sarebbe a rischio la sede stessa del Tribunale internazionale. Di fronte alla gravità di questa prospettiva, che mette a repentaglio l'esistenza della Corte, rinnoviamo con forza la richiesta alle forze politiche democratiche di aprire un fronte di salvaguardia parlamentare in favore della universalità di cui deve godere questa istituzione. Lo facemmo già durante l'estate ma evidentemente il tema non rientrava tra le priorità dell'Ulivo, cosa che ha permesso a Berlusconi di presentarsi ad Elsinore per il prossimo incontro tra i ministri degli esteri europei, con questa devastante posizione ( e poi dicono che la riforma della Farnesina è ancora da fare!). Alle associazioni che scenderanno in piazza il 14 settembre per difendere la giustizia ed il rispetto delle regole democratiche, chiediamo di inserire tra i punti programmatici anche la difesa della Corte penale internazionale. Noi ci saremo. Terre Des Hommes, Convenzione per la Corte penale internazionale

«Sono un ufficiale della riserva»
Cofferati rientra al festival dell'Unità di Modena. Grande successo tra il popolo diessino, lui insiste sull'Ulivo. «La politica - dice - non si fa solo nei partiti. Torno alla Pirelli, aspetto l'ordine di servizio aziendale. Ma se succede qualcosa di straordinario, io sono pronto»
SARA MENAFRA
MODENA
Applausi cadenzati che manco la marcia di Radetsky al concerto di capodanno. Poi l'ovazione. Tutti in piedi. «Sergio, Sergio, Sergio». E' lui. Sergio Cofferati che arriva alla festa nazionale dell'Unità a Modena «per dirci come dobbiamo fare a mandare via questo governo» sintetizza Milena, impiegata modenese. «Ma no, è venuto per dirci che è il futuro capo della coalizione», rimbrotta subito Elvio che nell'attesa dell'annuncio è arrivato apposta da Alessandria. Alla fine Cofferati accontenterà tutti, attaccando naturalmente il governo Berlusconi, ma dedicandosi soprattutto al futuro della sinistra e dell'Ulivo. Ma in attesa del primo intervento pubblico autunnale del segretario della Cgil, l'opinione di Elvio è diffusissima. Tanto che davanti alle poltroncine su cui si siedono l'intervistatore, Giampaolo Pansa e il segretario della Cgil qualcuno ha messo anche un cartello: «Caro Cofferati, la Pirelli potrà fare a meno di te: l'Italia: no!». Qui a Modena dove i cartelli della strada statale indicano nell'ordine «Verona - Reggio Emilia - Festa nazionale dell'Unità» l' arrivo del segretario nazionale della Cgil è l' evento della serata. La sala Conad, quella dei dibattiti più grandi che in tutto contiene 1.200 persone alle otto di sera è già piena all'estremo: 2000 persone secondo la questura (la polizia di stato è presente in sala) di più secondo quelli dell' organizzazione, che a guardarsi intorno sulla matematica di piazza sembrano più ferrati.

Calmate le ovazioni l'intervista inizia. Una parentesi sulla visita che ieri mattina Cofferati ha fatto ad Adriano Sofri - «non voglio mandare nessun messaggio, è una persona che volevo conoscere da tempo». Poi però si arriva al sodo. E alla domanda per un attimo la sala si ammutolisce: «Allora - chiede Pansa, e in salse diverse ribadisce la questione praticamente per tutta la serata - a settembre che cosa ci sarà: un'altra proroga per farti rimanere segretario della Cgil oppure è proprio vero che andrai alla Pirelli?». La risposta di Cofferati mette d'accordo in un sol colpo tutta la sala: «Il primo obbligo che ho è uscire da una organizzazione che rispetto molto, come la Cgil. Per questo in questi mesi mi sono occupato della formazione del nuovo gruppo di dirigenti. Perché non sono il tipo di persona che dice: io me ne vado e chi resta si arrangi». Insomma Cofferati non farà politica il 1 ottobre, non perché non voglia ma perché crede che «il passaggio diretto dal sindacato alla politica sia una cosa sbagliata». Eppoi c'è anche un punto di principio, tutto rivolto alle battutine aspre di Berlusconi: «Se io passassi direttamente alla politica la destra direbbe subito che allora è vero che la Cgil in tutto questo tempo ha fatto politica. Io questa soddisfazione non gliela voglio dare». Ultra ovazione. Il sessantaquattrenne Vittorino di Mirandola, provincia di Modena, si alza in piedi dalle prime file urlando «Sergio sei forte» e poi spiega «Ha ragione lui meglio aspettare». Detto questo forte e chiaro anche all'insistente (e per la verità un po' contestato) Giampaolo Pansa, l'autodefinitosi «ufficiale di riserva» Cofferati Sergiodi fare politica sembra avere molta voglia. «Non ho mai chiesto di essere collocato, ma se c'è da rimboccarsi le maniche sono una delle tante persone di sinistra disposte a farlo». La proposta del collegio pisano è stato rifiutata, «ma ringrazio chi me l'ha fatta».

Cofferati non risparmia neppure qualche frecciatina ai suoi compagni di partito o di coalizione. «Forse c'è tanta fretta di ricollocarmi perché nella politica istituzionale qualcuno ha paura che io rimanga disoccupato», e poi più in generale «non credo che i partiti siano l'unico modo per fare politica, anzi se rischiano di soffocare se non si aprono alla società». Dunque nei prossimi mesi Cofferati rimarrà alla guida della fondazione Di Vittorio, la fondazione di ricerca storica del sindacato, a cui promette di dedicare una parte consistente del suo tempo libero. Poi, «fra qualche anno», se «qualcuno me lo chiede», se accadessero «fatti diversi concreti, nuovi, non presunti, che richiedono una mia disponibilità effettiva», Cofferati ci sarà.

Va bene, fra qualche anno. Ma una volta arrivati al voto, e «anche prima - rincalza il segretario - dato che le scadenze elettorali sono molte», che fare? La risposta è sempre la stessa: puntare sul grande ulivo «l'Ulivo è stata un'esperienza di cui hanno fatto parte quasi tutte le forze della sinistra, da Di Pietro ai Comunisti italiani». Passato un mese, la posizione di Cofferati non è cambiata di un millimetro dalla famosa intervista rilasciata all'inizio di agosto al Corriere della sera: «La coalizione non può essere fatta con un bilancino che misuri gli interessi delle varie componenti ma deve riunirsi attorno a un programma. Questo è quello che penso, per questo sono stato anche molto criticato, ma che devo fare? Insisterò su questo punto da libero cittadino, da dipendente della Pirelli e da presidente della Fondazione Di Vittorio».


«Un fallimento annunciato»
Intervista al senatore verde Francesco Martone. «Solo partnership con i privati»
MA.FO.
INVIATA A JOHANNESBURG
Nessuno lo dice in modo esplicito. I delegati al Vertice delle Nazioni unite dibattono di acqua, clima, «sviluppo sostenibile». Si dividono su obiettivi e scadenze, sul peso da dare alla parola «globalizzazione», sui sussidi agricoli. Ma c'è uno spettro che incombe e nessuno nomina: è l'11 settembre del 2001, l'attacco alle torri gemelle di New York, e tutto ciò che è seguito. «Inutile nascondersi che l'ordine del giorno di questo vertice, e il tono dei negoziati di questi giorni, sono influenzati dal grande assente: la trasformazione della geopolitica globale seguita all'11 settembre, e la crisi dell'approccio multilaterale», ci dice Francesco Martone, senatore eletto come indipendente nelle liste verdi - lui proviene da un lavoro di attivismo e critica delle politiche di «sviluppo» delle istituzioni finanziarie internazionali. «L'11 settembre ha segnato l'inizio di una nuova era della politica imperiale statunitense. Incurante del blowback, l'effetto boomerang di cui parla Chalmers Johnson, Washington ha rafforzato la propria posizione unilaterale».

E questo come ha influito su un vertice sullo «sviluppo sostenibile»?

In primo luogo, a differenza di quanto era successo dieci anni fa al Vertice della Terra di Rio qui sia i paesi ricchi che quelli del Sud - il gruppo dei G77 - ruotano attorno allo stesso asse di discorso, il commercio. Del resto la prima conferenza internazionale che si è tenuta dopo l'11 settembre è stata quella di Doha, dell'Organizzazione mondiale del commercio. Dal presidente della Banca mondiale James Wolfenson al capo del Wto Mike Moore in quei giorni dichiaravano che il terrorismo e le minacce alla sicurezza nascono dalla povertà, cioè dall'esclusione di alcune regioni dai mercati mondiali, e dunque per lottare contro il terrorismo bisognava accelerare la liberalizzazione dei mercati, ergo migliorare le condisioni di vita dei paesi poveri - con un'equazione assai discutibile. Quella era anche la prima occasione in cui la comunità internazionale serrava le file attorno agli Stati uniti e alla loro «guerra globale» al terrorismo. Sia negli accordi di Doha, sia poi nel vertice di Monterrey sulla «finanza per lo sviluppo», l'influenza statunitense è stata evidente - basti pensare che i G77 hanno mandato giù la questione della good governance, il buon governo, cioè trasparenza e lotta alla corruzione e apertura dei mercati, che gli Usa ponevano come condizione ai loro aiuti e investimenti. Washington accompagna il suo attacco al multilateralismo con iniziative unilaterali di spesa: come i 5 miliardi di dollari in aiuti promessi a Monterrey, su basi bilaterali: uno strumento della propria politica estera. Qui riprenderanno la proposta di 4,5 miliardi di dollari per l'Africa, che il segretario al tesoro Paul O'Neil aveva lanciato durante il suo tour qui con Bono. Tutto questo indebolisce il multilateralismo. Anche la campagna mediatica sul «fallimento annunciato» di questo vertice di Johannesburg serviva a dire che queste istituzioni internazionali non funzionano, sono baracconi burocratici, meglio puntare su risultati concreti: per Washington sono accordi bilaterali e volontari, le «partnership pubblico-privato» di cui si parla tanto qui, i cosiddetti accordi di «tipo 2».

E' quella che molti chiamano «privatizzazione delle politiche ambientali»...

Sì, e va assieme alla manovra di trasformare questa conferenza da una sull'ambiente a una che afferma la centralità dei mercati nella lotta alla povertà. Del resto, l'equazione tra sicurezza e lotta alla povertà è parziale. L'Undp usa un concetto di «sicurezza umana» più articolato, che comprende la pace e la stabilità geopolitica. Trovo singolare che questa conferenza non discuta dei conflitti sulle risorse naturali. Si parla di necessità di garantire l'accesso alle risorse, senza però considerare che questo modello di sviluppo con grande dispendio di energia e risorse, oltre ad avere un impatto ambientale e sociale insostenibile, è anche generatore di guerre: attinge a risorse strategiche scarse, e spesso situate in aree ad alta instabilità geopolitica. Pensate al petrolio e all'acqua. Qui in Africa ne abbiamo esempi impressionanti: la premura del Sudafrica di invedere militarmente il Lesotho tre anni fa - e per prima cosa controllare la diga di Katze che rifornisce d'acqua il Guateng, la regione di Johannesburg. O i conflitti etnici in Nigeria, la guerra civile nell'enclave petrolifero di Cabinda in Angola, al problema che pongono le concessioni petrolifere in Sahara occidentale. Insomma: poteva essere l'occasione per affrontare il nesso tra guerre, conflitti ed estrazione di risorse. Ma questo comportava anche riconoscere il debito ecologico che noi abbiamo nei confronti di questi paesi considerati soprattutto produttori di materie prime.

L'anchorman di 'Sciuscià' ormai fuori dal palinsesto autunnale
"Sì, lavoro anche gratis, per difendere la mia libertà"
Santoro: "Mi censurano
è un atto da fascisti"

di ANTONELLO CAPORALE

ROMA - Michele Santoro, ma quanto guadagni?
"Perché lo chiedi a me e solo a me?"
Perché hai detto che lavori gratis pur di andare in onda.
"Questo è il mio sacrificio per pagarmi la libertà di espressione. Non è poco, ma è quello che posso fare".
Io chiedevo per curiosità.
"Se lo chiedi a Ferrara, Lerner o Vespa. Se lo chiedi anche al tuo direttore, io sono pronto a dare le mie cifre. Così si capirà finalmente a che livello sono".
Non ti incavolare perché io non c'entro.
"Noto una punta di supponenza che non mi piace. L'atto che stiamo subendo è squisitamente di matrice fascista. Il mio programma credo porti alla Rai qualcosa come 200 milioni a puntata, se ne disfano, perché?".
In Bulgaria fece capire qualcosa.
"Appunto, Berlusconi non vuole che andiamo in onda perché sa che il mio programma è come un giornale, è un appuntamento fisso e imprescindibile per centinaia di migliaia di cittadini. La tv è un prolungamento della mente di chi sta a casa".
E' un po' come un partito. Tu vai alle feste dell'Unità, la gente canta Bella Ciao.
"Grazie a Bella ciao io mi sono salvato il culo per qualche tempo. Era un editoriale a difesa della mia libertà. L'audience subì un picco altissimo in quei minuti".
Eri così stonato che da casa pensarono: ma questo che si è messo in testa!
"Stonato, ma era un editoriale. Era una canzone della Resistenza".
Però poi la storia finisce con Maurizio Costanzo che si mette a cantare Contessa, e non è mica bello.
"Lui ha perso la scommessa e paga. Lo ringrazio. Trovi qualcosa di strano?".
Penso che poi non si capisca dove termina il programma di Santoro e dove inizia il partito di Santoro.
"Ma cosa devo fare? Stare zitto? Ma non è mai successa una cosa simile, qui non ne va di mezzo la mia faccia o il mio portafoglio. Qui stanno sbaraccando un'azienda in attivo".
Per il 14 settembre hai promesso fuochi d'artificio.
"Ho detto che sarà una sorpresa, devo meditare bene".
A casa lo sanno e condividono?
"La mia compagna dice che tendo ad esagerare".
Ma il 14 settembre cosa succederà?
"Forse non ricordi, ma su di me pende un procedimento disciplinare. Quindi dovrò considerare le cose che dico e che faccio e non compromettere la mia esistenza in Rai".
Finirà con un girotondo intorno a Santoro.
"La telenovela, come piace chiamarla, continuerà ancora. Mi spiace ma ne vedrete delle belle. Sarà un fiume in piena. Perché l'atto...".
Intrinsecamente fascista.
"Esattamente, è fascista".
Fassino che dice?
"Non frequento Fassino, non frequento i politici".
Nemmeno a cena?
"Mi sembra di ricordare che Rutelli abbia atteso i risultati elettorali mordendo un toast insieme a Vespa".
La sinistra non ha capito per chi giochi: per tutti o per la tua ditta.
"Io non ho chiesto nulla alla sinistra, e la sinistra niente mi ha dato. Mi aspetto che combattano Berlusconi. Punto".
Secondo me gli stai proprio sullo stomaco a Berlusconi, perché l'ha detto da Sofia, infischiandosene che è la capitale della Bulgaria e che non faceva una bella figura a emanare un diktat bulgaro.
"Berlusconi conosce la televisione e sa che di questi tempi, in una stagione di grandi conflitti sociali insieme al moto ondoso creato dalle leggi sulla giustizia, un programma come il mio...".
L'avrebbe potuto comunicare privatamente a Baldassarre. Invece il presidente della Rai giura che non l'ha mai sentito.
"Baldassarre tende a dare una versione non puntuale della realtà. Dice che avrei violato leggi, regolamenti e questo non mi risulta".
Saccà?
"Mah, Saccà"
Bugiardo?
"Dice che Sciuscià è finito come format televisivo. Come fa a dirlo è un mistero. Credo che abbia bisogno di un bravo consulente all'immagine".
Ha ingaggiato un giovane promettente, Klaus Davi.
"L'immagine alta, non questa".
Oltre al girotondo resta come estrema possibilità un blocco stradale.
"Ma se domani chiudono un giornale, non perché perde copie ma perché non piace a qualcuno, sarebbe giusto e prudente stare zitti? Qui si mette in discussione il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Chiedo: è un diritto che merita di essere difeso?".
Un girotondo intorno a Santoro dunque?
"Si scende in piazza, Santoro fa quello che pensa giusto e in tv dice quello che crede senza badare al ricavo e senza dover accontentare un padrone. La sinistra, ripeto, a me non ha dato mai niente, semmai ha tolto".
La sinistra non ti è amica, ma perché allora Berlusconi va sempre da Vespa?
"E perché?".
Rutelli chi l'ha fatto parlare?
"Avrei fatto ponti d'oro, salti di gioia se Berlusconi fosse venuto da me nell'ultima giornata di campagna elettorale".
Non ci viene e non ti vuole vedere.
"Questo l'ho capito".

(3 settembre 2002)

Medio Oriente, Russia nella Nato e paesi poveri
Tutte le ragioni per cui il premier dovrebbe entrare nella storia
Il Nobel a Berlusconi?
Ecco le motivazioni

Il comitato promotore guidato dal senatore di Fi Gentile
invia la documentazione per la candidatura

COSENZA - Come Gandhi, anzi, meglio. Dopo la Fininvest, la Standa, il Milan, Forza Italia, Palazzo Chigi, adesso lo attende il Nobel. Non quello per l'economia, visto l'andazzo dei conti pubblici italiani, né quello per la medicina, visto che ancora non ha inventato cure miracolose per il Parkinson o l'Alzheimer. Quello che ci vuole per il capo del governo italiano è il premio Nobel per la pace.

Almeno di questo è convinto il senatore di Forza Italia Antonio Gentile, eletto a Cosenza, che mesi fa ha organizzato un comitato a sostegno, e poi ha inviato regolare richiesta. Ora vengono rese note anche le motivazioni che farebbero meritare al premier il prestigioso riconoscimento, ragioni che Gentile definisce "oggettive", dunque talmente ovvie da non meritare neanche una discussione. Fosse per Gentile, dunque, gli accademici svedesi non dovrebbero neanche discuterne, e chi ha osato farci qualche ironia sopra è solo "vittima di un pregiudizio lombrosiano".

Allora, le motivazioni. Berlusconi merita il Nobel per "Il forte ruolo svolto a favore dell'ingresso della Russia nella Nato; per la cancellazione dei crediti che l'Italia vantava verso alcuni Paesi poveri; per aver interpretato la sua funzione istituzionale come un percorso limpido e coerente di mediazione dei conflitti internazionali; perché ha restituito all'Italia una vocazione diplomatica dispersa".

Chissà che ne pensa, di quest'ultimo punto il senatore Andreotti. O Renato Ruggiero, il ministro degli Esteri dimissionato perché non piaceva a Umberto Bossi. "Fatto sta - è sempre il senatore Gentile che parla - che il premier italiano ha assunto una posizione di coraggioso interventismo nella risoluzione del drammatico sequestro dei palestinesi a Betlemme", e ha perfino organizzato a Roma, subito dopo l'attentato dell'11 settembre, il vertice della Fao (che tra l'altro è rimasto in Italia solo dopo un lungo braccio di ferro tra il governo e l'organizzazione dell'ONU).

E non è finita, perché il documento è talmente puntiglioso da essere stato scritto perfino in corsa, anzi in volo. Mentre Berlusconi è ancora in aereo per Johannesburg, il senatore Gentile segnala che il premier "ha proposto al vertice una misura di aiuto ai Paesi poveri parallela all'aumento del prodotto interno lordo dei Paesi ricchi". Se Nobel sarà, sarà a tempo di record.

(2 settembre 2002)

E' finita
l'illusione

di MASSIMO RIVA

LA NOTIZIA non è cattiva, ma pessima. Innanzitutto in termini contabili: con il buco di tre miliardi di euro in agosto, il fabbisogno pubblico dei primi otto mesi dell'anno diventa una voragine di 34 miliardi, addirittura il 60 per cento in più rispetto all'analogo periodo dell'anno precedente. Ciò significa che l'impegno assunto dal governo di contenere il disavanzo 2002 attorno all'1 per cento del Pil non è più una penosa bugia, ma un impudente inganno della pubblica opinione.

Di questo passo, volendo essere ottimisti, si può sperare di chiudere l'anno in corso un poco sopra il due per cento: ovvero su livelli analoghi a quelli del 2001. Come dire, insomma, che i quindici mesi della cura Tremonti sono trascorsi del tutto invano; anzi il malato sta peggiorando. Tant'è che, a questo punto, per raddrizzare le prospettive del bilancio 2003 diventa reale e fondata l'ipotesi di una manovra pesantissima da non meno di 30 miliardi di euro.

A rendere più fosco questo orizzonte c'è poi l'atteggiamento del governo, che non è più esagerato definire irresponsabile. Per spiegare il buco di agosto, infatti, il ministero dell'Economia si è trincerato dietro l'ovvia giustificazione della bassa crescita in atto nell'economia italiana. Peccato che un simile argomento, sulle bocche di Berlusconi e Tremonti, risulti essere per loro un "boomerang" micidiale. Che il divario fra entrate e uscite dell'Erario aumenti a causa della frenata congiunturale è un fatto, ma altrettanto è un fatto che esso ha assunto le proporzioni di una voragine proprio perché l'attuale governo ha voluto insistere nel fare previsioni di crescita che non stavano letteralmente né in cielo né in terra, dietro le quali ha mascherato la sua inerzia assoluta.

Per rispettare le promesse di Bengodi che aveva sparso a piene mani durante la campagna elettorale, l'accoppiata Berlusconi-Tremonti ha continuato a mentire agli italiani presentando un bilancio di previsione 2002 scritto con l'inchiostro della fantasia. Per il riequilibrio dei conti si è puntato tutto su una speranza di crescita dell'economia superiore al due per cento, che è stata mantenuta ferma per mesi e mesi: non solo a dispetto delle ben più basse stime delle maggiori autorità internazionale, ma perfino contro le indicazioni che la realtà delle rilevazioni statistiche fornivano implacabili trimestre dopo trimestre. Dunque, se i conti oggi non tornano, la colpa non è del rallentamento dell'economia, ma di chi quella frenata non poteva non vedere ma ha fatto finta di non vedere.

E, quel che è peggio, lo ha fatto deliberatamente. Tant'è che ancora in questi giorni, a meno di un mese dalla presentazione della manovra finanziaria per il 2003, l'intero governo insiste nel giurare sulle cifre di un Documento di programmazione (Dpef) che era già superato in primavera, quando è stato presentato, e oggi appare come una caricatura della realtà contabile della finanza pubblica. Qualcosa del genere accadde anche lo scorso anno, quando a fine settembre venne presentata una Finanziaria 2002 che ripeteva le stime calcolate prima della tragedia americana dell'11 settembre senza minimamente adeguarsi al radicale cambiamento di prospettive che il crollo delle Twin Towers avrebbe inesorabilmente provocato.

Sordi al monito secondo cui soltanto i cretini non cambiano mai idea, fermi agli slogan di una campagna elettorale miracolistica, il presidente Berlusconi e il fido ministro Tremonti hanno così creato le premesse del disastro finanziario del quale ora si cominciano a intuire le proporzioni. E adesso, non paghi di una catena di insuccessi sempre più evidenti, mostrano di non sapere fare altro che continuare su questa loro strada. È soltanto di ieri la notizia sull'aggravamento del buco dei conti pubblici in agosto, ma è appena di pochi giorni fa l'ilare annuncio del presidente del Consiglio al meeting ciellino di Rimini che "l'economia va".

Ma dove va, on. Presidente? Avevate previsto una crescita del Pil al 2,3 per cento per quest'anno. Poi, a primavera, il ministro Tremonti ha tentato di cambiare le carte in tavola parlando di un aumento dell'1,3 pur senza nulla fare per tamponare gli effetti di questo taglio sui saldi della finanza pubblica. Ora perfino un soggetto non privo di simpatie per il governo, come la Confindustria, prevede che sarà un lusso se la crescita 2002 sfiorerà l'uno per cento. Dove va, dunque, l'economia italiana? E, d'altro canto, dove potrebbe andare nel mezzo di una congiuntura internazionale debole tanto in Europa che negli Stati Uniti? È ovvio che si tratta di domande retoriche. Il punto vero è che qualcuno a Roma ha coltivato la delirante illusione che l'Italia potesse trasformarsi nella locomotiva di se stessa in un orizzonte congiunturale che diventava sempre più oscuro per tutti. Ora siano alla resa dei conti con questa follia che va ricordato aveva sedotto milioni di italiani. E il conto s'annuncia, ogni mese, sempre più salato, mentre chi dovrebbe porvi riparo continua a non voler prendere le misure con la realtà e a sfuggire all'assunzione delle proprie responsabilità.

Le uscite ordinarie dello Stato stanno sempre più sopravanzando le entrate ordinarie del medesimo. Di conseguenza il debito pubblico, che la saggia politica inaugurata da Carlo Azeglio Ciampi stava riconducendo nel sentiero degli impegni assunti con l'unione monetaria, minaccia di invertire il cammino del risanamento e di riportare il paese alla condizione di sorvegliato speciale in Europa. Il divario fra l'inflazione domestica e quella degli altri soci dell'Unione si sta di nuovo allargando e mette in serio pericolo la competitività di prezzo del "made in Italy". Ebbene, in questa inquietante congiuntura, il meglio che le menti della maggioranza berlusconiana sanno partorire per raddrizzare i saldi del bilancio è il ricorso a qualche condono (fiscale, forse previdenziale, magari anche edilizio). Tutto insomma, anche la replica delle peggiori imprese dell'era democristiana della decadenza, pur di non dover ammettere di aver perso il controllo dei conti pubblici e di non avere il coraggio politico (e forse neppure l'attrezzatura culturale) per affrontare i guasti provocati dal proprio incosciente ottimismo propagandistico.

Ma gli italiani, a cui più prima che poi toccherà pagare con lacrime e sangue il costo di queste follie, per il momento forse potranno consolarsi con il tragicomico spettacolo offerto in questi giorni da Palazzo Chigi. Dove il presidente del Consiglio nei panni di un novello Fregoli è impegnatissimo nella triplice veste che occupa nella crisi del calcio che lo vede recitare dalla parte della Rai come capo del governo, dalla parte di Mediaset come suo proprietario, dalla parte della Lega come principale del suo presidente Galliani e come patron del Milan. Questa sì è la grande politica, altro che quelle noiose bazzecole dei conti pubblici.

(3 settembre 2002)

Brutte notizie dai dati resi noti dal ministero dell'Economia
Ad agosto registrato un disavanzo di tremila milioni di euro
Conti pubblici, il fabbisogno
sopra i 34 miliardi di euro

ROMA - Ancora brutte notizie per i conti pubblici e questa volta è il fronte del fabbisogno statale a rendere ancora più nero il settembre di Giulio Tremonti. I tecnici del ministero dell'Economia hanno infatti certificato che nel mese di agosto si è registrato un disavanzo di circa 3 miliardi di euro a fronte di un avanzo di 2.828 milioni registrato nello stesso mese dello scorso anno. E così, nei primi otto mesi del 2002 il disavanzo cumulato arriva a quota 34.100 milioni di euro, con una crescita del 60,6 per cento rispetto al "rosso" di 21.232 milioni registrato tra gennaio e agosto del 2001.

Le ragioni del peggioramento dei conti pubblici sono legate in parte all'anticipo dei versamenti delle imposte per le dichiarazioni Irpeg (l'autoliquidazione delle società) a giugno-luglio mentre nel 2001 questo appuntamento cadeva in agosto. Ma pesa anche l'andamento negativo della congiuntura che pesa non solo in Italia ma anche negli altri paesi europei.

"L'andamento del saldo del mese di agosto 2002 - afferma il ministero dell'Economia - è da attribuirsi principalmente al mancato gettito dell'autoliquidazione dell'Irpeg, il cui termine di versamento è stato anticipato al mese di luglio. Ad incidere sul fabbisogno dei primi otto mesi dell'anno contribuisce, inoltre, per 1.000 milioni, la diversa modalità di versamento delle accise sugli oli minerali".

Sul fronte delle spese, il ministero dell'Economia segnala che "il saldo delle operazioni con la Ue continua ad incidere negativamente rispetto ai primi otto mesi dello scorso anno per circa 2000 milioni di euro". Ma è la congiuntura economica a pesare più di tutti: "Più in generale - afferma il Tesoro - il maggior fabbisogno dell'anno riflette in buona misura, oltre l'ampio utilizzo della compensazione dei crediti di imposta, l'andamento non soddisfacente dell'economia e conseguentemente delle entrate tributarie, come del resto sta accadendo negli altri Paesi Europei".

(2 settembre 2002)

 

 

 

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