Isae, consumatori italiani
un po' meno fiduciosi

Il clima di fiducia dei consumatori italiani ha registrato ad agosto una lieve flessione. Il deterioramento della fiducia, sottolinea l'Isae, continua ad essere particolarmente mercato per quanto riguarda il quadro economico del paese.

Milano. Il clima di fiducia dei consumatori italiani ha registrato ad agosto una lieve flessione, al netto dei fattori stagionali, scendendo a quota 113,3 dal 113,4 di luglio. La caduta, secondo i dati Isae, è più netta guardando all'indice destagionalizzato e corretto per i fattori erratici, che si porta a 113,4 dal 114,3 del mese scorso, sui minimi dal luglio 1997. L'indice grezzo si attesta a 114,7 dal 115,2 di luglio.

Il deterioramento della fiducia, sottolinea l'Isae, continua ad essere particolarmente mercato per quanto riguarda il quadro economico del paese. I giudizi formulati in questo ambito risultano infatti in forte peggioramento (da -45 a -54) mentre le attese a breve termine rimangono sostanzialmente stazionarie (-6 il saldo in agosto, come anche a luglio). Anche le previsioni sull'andamento del mercato del lavoro subiscono un deterioramento: la percentuale di quanti si attendono un incremento forte o moderato della disoccupazione aumenta dal 34% dal 30% di luglio. I consumatori percepiscono, inoltre, un'ulteriore accelerazione della dinamica dei prezzi degli ultimi 12 mesi: la percentuale di coloro che ritengono i prezzi 'molto aumentati' sale al 34% dal 24% di luglio. Meno pessimismo, invece, sulle previsioni sull'inflazione nei prossimi 12 mesi. La quota di quanti prevedono un incremento dei prezzi maggiore o di pari entità anche nel corso dell'anno prossimo si riduce, infatti, dal 51% di luglio al 49% di agosto.

Per quanto riguarda, infine, la situazione personale degli intervistati, la rilevazione dell'Isae segnala un miglioramento dell'indice relativo ai soli giudizi e alle previsioni. Tendono a migliorare, in particolare, le valutazioni sulla situazione economica della famiglia ed è ritenuta in aumento anche la convenienza a compiere nell'immediato acquisti di beni durevoli.

(3 settembre 2002)
Il centrodestra: "Siamo scontenti, ma rispettiamo la decisione"
L'opposizione: "Bene le due commissioni, non i tempi per l'aula"
Legittimo sospetto
Niente urgenza alla Camera

Il presidente Casini ha assegnato il provvedimento all'esame
congiunto delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali

ROMA - "Sulla legge Cirami scontenterò tutti", aveva detto pochi giorni fa il Presidente Casini. E così, in parte, è stato. Anche se il centrosinistra può vantare un paio di importanti punti a favore.

Primo punto per l'Ulivo: il disegno di legge non sarà esaminato con procedura d'urgenza. E sono stati gli stessi capigruppo della Casa delle Libertà, forse per non prestare il fianco alle accuse di voler favorire il premier Berlusconi nelle sue vicende processuali, a non chiedere la corsia preferenziale.

E' stato il presidente della Camera, invece, a decidere l'assegnazione del disegno di legge Cirami alle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali in sede congiunta. Anche questa era una richiesta dell'Ulivo, così come quella del voto segreto una volta che la legge sul legittimo sospetto arriverà in aula.

Uan decisione, quella del Presidente della Camera, presa anche per ragioni di opportunità politica. "L'assegnazione alle commisioni congiunte - ha detto Casini aprendo la seduta a Montecitorio - è un'innovazione rispetto alla prassi consolidata". Una novità che - è sempre Casini a dirlo - è stata decisa "per la specialità della situazione e per la condizione politica, da cui non è esente la decisione del presidente della Camera". Dunque, dice la terza carica dello Stato, vale stavolta, in queste condizioni. In futuro, non è detto.

In sostanza il ragionamento di Casini è il seguente: la modifica del codice di procedura penale, prevista dalla legge Cirami, compete alla commissione Giustizia, ma siccome la questione è oggetto di un giudizio pendente davanti alla Corte Costituzionale, allora va coinvolta anche la specifica commissione di Montecitorio. Vale a dire quella Affari Costituzionali.

I tempi, dunque, saranno meno frenetici che al Senato. L'esame in aula è stato previsto per il 25 settembre, ma se le commisioni interessate non avranno terminato la discussione (come è prevedibile), la legge sul legittimo sospetto sarà votata il 10 ottobre.

La maggioranza, che nei primi giorni di agosto, in Senato, aveva forzato per una rapida approvazione, dice di 'rispettare' le decisioni di Casini, ma non nasconde lo scontento. "Il presidente non è stato di parte - dice il capogruppo di Alleanza Nazionale Ignazio La Russa -, non ha fatto sconti a nessuno, meno che mai alla maggioranza". La Russa, secondo il quale Casini ha fatto qualche 'forzatura', dice di non condividere la scelta del voto segreto, e prevede che, con ogni probabilità, si arriverà in aula il 10 ottobre. "Comunque - conclude l'uomo di An - non c'è da drammatizzare".

Più secca la reazione del presidente dei deputati di Forza Italia Elio Vito. "Non condividiamo tutte le decisioni prese dal Presidente Casini - dice Vito - ma le rispettiamo". Spero che ci sia un confronto serrato, ma sereno". E comunque, a suo parere, l'esame del disegno di legge fino al 23 settembre offre "un tempo ampio e sufficiente".

Il primo a parlare dell'Ulivo è Marco Rizzo, capogruppo a Montecitorio dei Comunisti italiani, soddisfatto della decisione sul voto segreto e sulle commisioni congiunte. Ma l'opposizione è scontenta del calendario, e considera troppo risicati i tempi di discussione. Per Violante "non essendo stata stabilita l'urgenza, le commissioni hanno 60 giorni di tempo per esaminare il ddl e l'opposizione ha intenzione di utilizzarli tutti. Ecco perché - dice il capogruppo di Ds alla Camera - la data del 25 settembre non è realistica".

(3 settembre 2002)

Dalla festa dell'Unità a Modena
il giornalista replica a Baldassarre
Santoro pronto a lavorare gratis:
"Ci batteremo per Sciuscià"
Presentato un appello
in difesa del programma

MODENA - Michele Santoro promette battaglia
su "Sciuscià" e per confutare la tesi degli alti costi del suo programma si dice anche pronto a lavorare un anno senza stipendio. "Cosa faremo? combatteremo. Faremo tutto quello che è possibile fare - ha detto in una conferenza stampa alla festa nazionale dell'Unità, parlando a fianco del parlamentare Ds Giuseppe Giulietti - se loro sperano di liberarsi di un marchio come 'Sciuscià', facendolo dimenticare all'opinione pubblica, fanno un errore". E ha promesso: "Lavoreremo di creatività per non farci dimenticare. Già il 14 settembre una sorpresina la presenteremo". E ancora: "Rimaniamo in Rai finchè non ci mandano via. Poi accendiamo le telecamere dove possiamo, anche in strada".

Alle ultime dichiarazioni del presidente della Rai Antonio Baldassarre, Santoro ha replicato dicendo: "Costiamo troppo? Ma quanto ricaviamo? Perchè non si dice che 'Sciuscià' porta 600 milioni di pubblicità a puntata a fronte di un costo di 360 milioni". Quindi, sottolineando che i motivi dell'esclusione sono "politici", ha provocatoriamente ripetuto: "Costiamo troppo? Bene, lavorerò un anno senza stipendio. Sarebbe un bel risparmio, visto che il mio compenso non è basso".

Come premessa, Santoro ha detto che Baldassarre "dopo diversi mesi non ha ancora acquisito la capacità di leggere i numeri dell' Auditel. Ha parlato di un programma attestato al 15 per cento, quando anche i sassi sanno che siamo attorno al 18". Ma se anche fosse - ha aggiunto il giornalista - un programma che fa il 15 su Raidue, che ha un 14 di media, è un ottimo programma".

Santoro ha ricordato di essersi detto disponibile ad attenersi per la conduzione alle regole che sarebbero state date "per tutti". "Ma questo - ha detto - non è bastato. L'unica vera preoccupazione è che in una stagione come quella che si apre non ci sia un programma come 'Sciuscià', dove hanno avuto voce i movimenti, i girotondi, le fabbriche, il problema dell' articolo 18". L'effetto di "un'ingerenza esterna del presidente del Consiglio" che "limitando la libertà di espressione, contrasta con la Carta dei diritti dell'uomo".

Alla conferenza stampa è stato distribuito un appello di poche righe: "La decisione della Rai di chiudere 'Il fatto' e 'Sciuscià' è la realizzazione delle dichiarazioni bulgare del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Noi cittadini, in nome della libertà di espressione e di scelta e contro le ingerenze esterne che la limitano, chiediamo che la Rai rimetta in onda 'Il fatto' e 'Sciuscia'".

L'appello è stato scritto da Federico Orlando, primo firmatario di un elenco in cui seguono tra gli altri i nomi di Dario Fo, Carla Fracci, Carlo Freccero, Gad Lerner, Mario Monicelli, Francesco Pardi, Stefania Sandrelli, Paolo Serventi Longhi, Franca Rame, Nino Rizzo Nervo, Gino Strada, Saverio Vertone, Roberto Zaccaria, Gabriele Muccino.

(1 settembre 2002)

Dalla Margherita ai Verdi reazioni positive
alla lettera del segretario Ds a Repubblica
Nuovo Ulivo, coro di sì
alla proposta di Fassino

ROMA - Un coro quasi unanime di approvazione, con qualche distinguo da parte di ognuna delle forze dell'Ulivo, ha salutato l'intervento di Piero Fassino su Repubblica. Un articolo in cui il segretario dei Ds sostiene la necessità di "un cambio di passo" per il Nuovo Ulivo che non deve essere una somma di partiti "ma un soggetto con una sua più netta visibilità politica". Un soggetto con un "programma comune" costruito istituendo un "laboratorio progettuale"; e una direzione collegiale, una cabina di regia con le personalità più significative del centrosinistra che affianchi Rutelli e i segretari per condurre l'Ulivo alla convention che dovrà approvare programma e statuto della coalizione.

La Margherita approva, anzi il coordinatore dell'esecutivo Dario Franceschini, tiene a sottolineare che "le proposte di Fassino per il nuovo Ulivo sono quelle su cui da qualche tempo stiamo lavorando, in particolare Chiti dei Ds e il sottoscritto, con gli altri partiti della coalizione per trovare un'intesa che consenta di rilanciare sin dalla ripresa dei lavori parlamentari l'azione dell'Ulivo". La soddisfazione della Margherita per le parole di Fassino emerge dal commento del prodiano Enrico Letta che interpreta l'intervento di Fassino come "un modo per rinviare le polemiche sulla leadership e dire che se ne parlerà nel 2004".

D'accordo con il leader dei Ds anche Clemente Mastella secondo il quale "le indicazioni di Fassino sono giuste e corrette". Ma il leader dell'Udeur avverte: "l'idea della sinistra riformista di Fassino è corretta, ma senza l'alleanza con un Centro forte, che sia in grado di prosciugare il consenso che fino ad oggi ha alimentato le iniziative berlusconiane, non sarà possibile alcun successo". Diversi i commenti di Verdi e Pdci. "Mi sembra che l'ordine delle priorità fissato da Fassino è giusto - dice Alfonso Pecoraro Scanio - quindi subito i tavoli programmatici aperti anche ai movimenti; e possibilmente iniziamo da subito a praticare una collegialità reale e quindi prima ci si consulta e dopo si fanno le conferenze stampa a nome dell'Ulivo".

Dopo questa stoccata a Rutelli (che ieri ha convocato una conferenza stampa nella sede dell'Ulivo), il presidente dei Verdi aggiunge: "di quanto detto da Fassino nel suo intervento è positivo l'ordine: prima il programma, poi un allargamento della partecipazione alla coalizione dell'Ulivo. Ma noi vogliamo - chiarisce Pecoraro - che ci sia un rapporto stabile anche con chi resta fuori dall'Ulivo, come Rifondazione Comunista".

Per il capogruppo del Pdci Marco Rizzo, "non si deve tergiversare" su questioni come l'Iraq o l'adesione dell'Ulivo alla manifestazione del 14 settembre sulla giustizia: "nell'intervento del segretario dei Ds, c'è molta attenzione alla parte organizzativa, il che è positivo, c'è meno attenzione sulle questioni programmatiche".

Ugo Intini dello Sdi si dice "d'accordo sulla necessità di avere un rapporto stretto con la società civile, purché sia ben chiaro che per società civile non si intende girotondismo e dipietrismo". Da parte sua, Antonio Di Pietro aderisce per primo alle tesi di Fassino, ma precisa: "quello che non condividiamo è il volere indicare prima della costituzione del condomino il nome dell'amministratore. Riteniamo indispensabile partire subito con l'elaborazione di un programma comune e siamo assolutamente d'accordo con lui quando dichiara che c'è bisogno di tutti senza inutili rivendicazioni di primogeniture. Tutti infatti dobbiamo partecipare a questo progetto e dobbiamo sostenere convinti che i partiti devono convivere insieme ai movimenti. Il 14 settembre a piazza del Popolo ci devono essere tutti, anche e soprattutto i segretari di partito".

Il segretario della Quercia incassa anche il 'placet' della minoranza interna del suo partito. Vincenzo Vita, coordinatore del Correntone, commenta così il suo intervento: "mi pare pieno di spunti condivisibili e mi sembra che si sia finalmente aperto un clima nuovo nel rapporto tra partito, sinistra e movimenti". L' esponente della minoranza diessina sottolinea che occorre un chiarimento sui contenuti e, pur non bocciando la proposta della "cabina di regia" dell'Ulivo, mette in guardia dalla "tentazione di aggirare con qualche scorciatoia organizzativa i nodi aperti".

17.08.2002 Panorama all'attacco dei siti indipendenti:

«I terroristi si organizzano lì» di c.b. Un po' più che una diffamazione, veri e propri insulti, insomma. L'obiettivo, neanche troppo nascosto? Far fuori chi, nella "libera repubblica del web", resta fuori dal coro. Questa volta è toccato a diversi siti di informazione indipendente, da indymedia ad informationguerrilla. L'attacco parte dalle pagine di Panorama. Il settimanale - molto, molto vicino al governo - definisce quei siti, luoghi «dell’eversione sul web» con tanto di «allarmi dei servizi segreti: "I nuovi terroristi affollano la rete. Si prepara l’autunno caldo online"». «"C’è posta per le BR" l'inchiesta di Panorama sul presunto cyberterrorismo ci inserisce - recita oggi allarmato il sito di Information Guerrilla - insieme ad Indymedia e ad altri, tra i siti "dell’eversione sul web, da tempo monitorati dalle forze dell’ordine". Un articolo infamante che getta fango e pesanti insinuazioni sul nostro impegno quotidiano per la libertà d’espressione, la pace, i diritti umani e civili, l’ambiente - continuano dal sito indipendente. Un’attività d'informazione libera limpida e corretta, che nulla ha a che spartire con nessuna forma di violenza né tantomeno di "terrorismo". Un anno di storia di Information Guerrilla - un sito che si è guadagnato grandi consensi e apprezzamenti nel settore dell’informazione online ed è frequentato da oltre 12 mila visitatori al mese - lo dimostra in modo inequivocabile» «Solo un errore di "giornalisti" che non conoscono ciò di cui scrivono?», si chiedono preoccupati i redattori di Information Guerrilla, o «piuttosto un'azione d'intimidazione e terrorismo giornalistico contro una voce libera e scomoda? Di certo, un grave episodio di disinformazione che ci colpisce con violenza». Adesso si attende una rettifica del settimanale: «Come liberi cittadini - continuano dal sito indipendente - che esercitano un libero diritto, quello di espressione, respingiamo con forza e sdegno gli accostamenti avventati di Panorama e denunciamo ai lettori e all’opinione pubblica il comportamento della rivista, invitando a una forte mobilitazione di protesta. Al direttore di Panorama chiediamo un'immediata e pubblica rettifica riservandoci qualsiasi azione legale a tutela dell'immagine e della reputazione del sito, dei nostri collaboratori e dei lettori».

Autunni caldi, scontri di piazza, molotov: le parole d'ordine che viaggiano su Internet stanno scaldando i cuori dei cyber rivoluzionari. Anche se, per ora, ai sampietrini preferiscono email e arringhe dai siti dell'antagonismo duro. Sono stati chiari i servizi segreti nella loro 49/ma relazione semestrale sulla politica informativa e della sicurezza appena inviata al Parlamento: «Le potenzialità informatiche hanno impresso un'accelerazione all'attività dei settori estremisti, che utilizzano il web sia per la pianificazione e il coordinamento delle proteste, sia per l'attuazione di azioni di mobilitazione telematica». Poi aggiungono che sulla scia della rivendicazione online dell'omicidio Biagi «si è registrato il proliferare di siti ed email inneggianti alle Br e a teorie rivoluzionarie». Siti che testimoniano «la capacità del circuito Internet di convogliare consensi, inducendo pericolose spinte emulative negli ambienti più motivati». Un allarme inquietante che non sorprende chi ricorda che lo scorso 16 maggio, dopo una lunga sorveglianza, sono stati chiusi due dei siti più famosi dell'estremismo di sinistra: brigaterosse.it e A morte lo Stato. All'interno di quest'ultimo veniva spiegato come confezionare molotov, bombe carta e anche piccoli ordigni a orologeria. Indirizzi eversivi come quello di matrice anarchica della sezione italiana di ainfos.ca, capace di ospitare forum e mailing list in cui non mancano sorprese come la pubblicazione del numero di telefono del carabiniere che a Genova ha ucciso Carlo Giuliani. L'intervento più commentato è quello dell'irlandese Roy Cunningham, un ex esponente del blocco nero che ha abbracciato la causa rivoluzionaria. Su uno degli ultimi numeri dell'Irish anarchist journal, da lui fondato, un anonimo lettore italiano avverte: «Il primo round, a Genova, lo abbiamo vinto noi. Ora basta, però, con le vetrine, le auto e le fermate del bus. Passiamo a colpire direttamente cose e persone collegate al Sim». Dove Sim sta per Sistema imperialista delle multinazionali, uno degli acronimi cari alle vecchie Br. Che sulla Rete si muovono con disinvoltura. Lanciando le loro campagne d'arruolamento. «Le rivendicazioni via email degli omicidi D'Antona e Biagi» dice Marco Strano, criminologo della Polizia delle comunicazioni, autore del libro Cyberterrorismo (edizioni Jackson, 13 euro), «confermano la dimensione informatica delle nuove Brigate rosse». Internet, secondo gli investigatori, ha persino modificato la struttura dell'organizzazione, rendendola più leggera: la leadership non deve più preoccuparsi di filtrare i rapporti con i «soldati», il computer è la barriera che separa i diversi livelli. «Uno strumento che facilita i rapporti tra gruppi armati di nazioni diverse, che internazionalizza la lotta» aggiunge Strano.

I brigatisti, per comunicare, usano spesso siti insospettabili, come quelli pornografici, assai trafficati, in cui è facile confondersi. Pagine fioriscono spesso in spazi gratuiti e vivono anche solo per pochi giorni, il tempo necessario per organizzare una campagna. «Drop-zone» stile 007, dove far cadere un bigliettino digitale che qualcun altro è pronto a raccogliere. O magari annunci vocali in Mp3 programmati solo per orecchie selezionate.
A volte creano pagine non raggiungibili da altri siti o motori di ricerca, magari con indirizzi solo numerici. Luoghi virtuali visitabili solo su appuntamento. «Utilizzano anche la tecnica steganografica, dove il testo viene nascosto in file d'immagine» conclude Strano. Magari sotto il corpo di qualche pin-up.

L'eterogeneità del cyberspazio, sempre più simile al bar di Guerre stellari, attraversato da milioni di navigatori non politicizzati, ha modificato persino le tecniche per fare proselitismo dei neobrigatisti: sono stati banditi gli slogan più truculenti, tipici degli anni di piombo, con l'obiettivo di realizzare l'auspicata saldatura con le frange estreme dei no global e degli anarco-insurrezionalisti, come i Black bloc. Una congiunzione che non sembra lontana, a voler credere a Charles W. Johnson, ascoltato ideologo del blocco nero: «L'ultimo anno, dopo i fatti di Genova, è stato un momento di pausa, di riflessione» spiega dal suo sito. «Ma adesso è il momento di riprenderci le strade, a partire dall'Italia».
Così, in vista di quello che si preannuncia come un autunno caldo, il passaparola non conosce soste. «Chat, forum e newsgroup hanno preso il posto dei classici volantini» assicurano alla Polizia postale, che con la Guardia di finanza è impegnata da tempo nel monitoraggio di queste realtà.

Le comunicazioni più innocue viaggiano su indirizzi noti e già da tempo monitorati dalle forze dell'ordine, come italy.indymedia.org, informationguerrilla.org e infoshop.org (la bibbia online dei Black bloc), mentre convocazioni e inviti all'azione transitano su siti come controappunto.org. L'home page è sormontata da una bandiera statunitense in fiamme e tra i link presenti meritano attenzione quelli delle associazioni antimperialiste Glry (predica «il sabotaggio, la diserzione e la rivoluzione») e Vis-à-vis, che invita esplicitamente la «classe salariata a prendere le armi per radicalizzare lo scontro nei confronti del capitale». Stessi toni su guerrasociale.org. Visitato soprattutto dagli investigatori che indagano sugli ultimi omicidi brigatisti il sito dei Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo (carc.it) del fuggitivo Luigi Maj, collegato ad altri indirizzi border line, come quelli dei Comitati proletari per il comunismo e dell'Associazione di solidarietà proletaria. Ci sono persino risoluzioni strategiche nel sito dell'Associazione per la liberazione degli operai (asloperaicontro.org): ha appena pubblicato la numero 76 che «condanna l'operato antiproletario di Cisl e Uil in merito alla firma del Patto per il lavoro». Le campagne di adesione tra i più giovani sono portate avanti da bollettini telematici come voceoperaia.it, erede dei ciclostilati dell'Autonomia anni 70. Il gruppo Direzione 17, che cura la testata, spiega nella home page: il movimento no global «porta con sé la possibilità che la nuova generazione di anticapitalisti non solo si radicalizzi, ma compia un salto politico di tipo rivoluzionario». Sul sito anarco-comunista spunk.org spiegano dove porti questo slancio: «Colpire un simbolo del capitale, che può essere una banca, l'edificio di una corporation o persino (...) un individuo».

Usa contro il terrorismo, 007 con licenzia di uccidere
di Siegmund Ginzberg

C’è uno Stato che rivendica immunità assoluta per qualsiasi cosa facciano i suoi soldati. E, al tempo stesso, progetta di dare ai propri soldati licenza di uccidere non solo in guerra, o in zone dove si conducono operazioni militari, ma in qualsiasi tipo di azioni segrete, senza frontiere e senza limiti, ovunque nel mondo. Altri lo fanno e lo hanno fatto. Di nascosto, nell’ombra, negando di farlo. Gli Stati Uniti sono però i primi a teorizzarlo ora esplicitamente.
L’ufficio del capo del Pentagono di George W. Bush, Donald Rumsfeld, fa sapere che intendono autorizzare operazioni clandestine di commandos di truppe speciali anche «in paesi i cui gli Stati Uniti non sono apertamente in guerra, e, in qualche caso, nemmeno i governi locali sono informati della loro presenza». In passato, missioni «sporche» di questo tipo venivano affidate alla Cia.
Facendo possibilmente attenzione a che il governo Usa non fosse direttamente implicabile, a fornire un minimo di «deniability», la possibilità di dire, se qualcosa andava storto o veniva fuori: «Noi non c’entriamo». Spesso capitò che le cose andassero storte. E anche queste operazioni speciali della Cia finirono con l’essere assoggettate a vincoli giuridici e norme rigorose. Ad autorizzarle e fissarne i limiti erano gli stessi presidenti, con direttive segrete, «findings», sottoposte a stretto monitoraggio riservato da parte del Congresso. Erano giustificate dalla Guerra fredda, da uno scontro senza esclusione di colpi proibiti, da cui dipendeva la sopravvivenza stessa degli Stati Uniti. Ma anche in quel quadro la Casa Bianca aveva sentito il bisogno di emanare ad un certo punto un ordine esecutivo che proibiva l’assassinio di leader, dirigenti o esponenti politici di altri paesi. Le nuove direttive cui stanno lavorando aggirano invece ogni precedente limite e linea di demarcazione. Azzerano ogni sforzo, che pure c’era stato da parte delle precedenti amministrazioni, di distinguere tra le attività di guerra delle forze speciali e quelle dei servizi segreti. Faranno sì, spiega uno stretto collaboratore di Rumsfeld al
New York Times, che non ci sia più bisogno di una specifica direttiva presidenziale, come tale soggetta al vaglio del Congresso, perché sia autorizzato il ricorso alla «forza letale» perché un commando «dia la caccia, catturi o uccida un leader di Al Qaeda (a titolo di esempio, ma la cosa potrebbe facilmente essere estesa a qualunque «nemico») in qualsiasi paese». «Siamo in guerra con Al Qaeda. Se individuiamo un combattente nemico dobbiamo essere in grado di usare le nostre forze armate contro di loro», spiegano.
Ma non è quello che stavano già facendo? E non dovrebbe essere il compito della Divisione attività speciali della Cia? Si dice che Rumsfeld abbia voluto «forzare» i compiti della truppe speciali proprio perché frustrato dagli scarsi risultati ottenuti a oltre 10 mesi dall’inizio della guerra in Afghanistan, conclusasi senza che abbiano trovato traccia di Osama Bin Laden e della maggior parte dei suoi più stretti collaboratori. Accusano la Cia di aver pasticciato tutto sin da quando erano loro ad usare Osama per la jihad contro i sovietici, e di aver fallito totalmente puntando a comprare la collaborazione dei signori della guerra e dei capi tribù afghani perché gli consegnassero Bin Laden e il Mullah Omar. L’arrier pensée potrebbe essere però che l’agenzia fosse condizionata da troppe regole. Forse vogliono provare a vedere se gli riesce meglio cancellandole tutte.
L’idea pare sia nata da una riunione a porte chiuse tenutasi il mese scorso al Pentagono, in cui il capo dell’Us Special Operations Command (Socom), il generale dell’Air Force Charles R. Holland aveva proposto quella che uno dei partecipanti ha definito come una nuova linea di operazioni «aggressive, unilaterali e dietro le quinte», volte ad estendere a tutto campo l’azione delle truppe speciali, sinora usate soprattutto come supporto alle forze combattenti regolari, o in azioni congiunte anti-terrorismo con forze di altri paesi in missioni ben definite. Il generale Holland è, come sogliono dire gli americani, un uomo con grandi «visioni» riguardo le guerre del futuro. Un rapporto dal titolo «Aree di sfondamento tecnologico» pubblicato dal Socom sotto il suo comando, prospetta per «la guerra del XXI secolo» un fantascientifico esercito di «super-soldati». Che si muovono con elicotteri silenziosi, indossano tute a controllo termico, capaci di resistere ad attacchi chimici e batteriologici, persino di renderli «invisibili», eliminando la riflessività ai raggi infrarossi e ogni tipo di emanazione che possa tradirne la presenza, compresi «gli odori corporei». Armati di fucili ultra-leggeri e silenziosi, esplosivi ultra-potenti, futuristiche armi laser, a micro-onde e acustiche, da far invidia a quelle dei fumetti di Flash Gordon. Aiutati da robot in miniatura, grandi come un accendisigari, capaci di volare, navigare sotto il mare, i fiumi e nelle fogne, arrampicarsi sui muri e gli strapiombi, infilarsi nei più piccoli pertugi, infilarsi in caverne e bunker sotterranei, trasmettere immagini e mappe, persino di scassinare o far saltare porte blindate. Appoggiati da maghi del pirataggio computeristico e specialisti in «operazioni di influenza», tipo «guerra psicologica, contro-propaganda, tecniche delle decezione e della contro-decezione». Per questi straordinari giocattoli si è recentemente presentato alla Commissione Forze armate del Senato Usa a chiedere ingenti fondi aggiuntivi (il suo comando ha un bilancio per la ricerca, lo sviluppo e l’intendenza separato da quello della altre arme). Gli ha spiegato la sua filosofia («Noi scegliamo il meglio e si addestriamo all’innovazione. Noi equipaggiamo il guerriero, non ci limitiamo a fornire manovalanza all’equipaggiamento»), e le «missioni a più alta priorità». Aveva evidentemente bisogno di aggiungerne alcune.
Attualmente il generale Holland comanda 47 mila uomini, tra cui i Rangers e i Berretti verdi dell’esercito, le unità tattiche speciali dell’Air Force (quelli che si infiltrano e guidano sul bersaglio i bombardieri), gli incursori Seals della marina e la famigerata Delta force, chiamata anche Combat Application Group. È a queste ultime formazioni, rinomate, protagoniste di innumerevoli film e sceneggiati, quanto tanto segrete che il Pentagono rifiuta persino di riconoscerne ufficialmente l’esistenza o fornire dettagli sulle loro operazioni, che verrebbe estesa la nuova «licenza di uccidere senza frontiere». Si ritiene che, oltre all’antiterrorismo, tra le loro missioni specializzate ci sia quella di impedire la proliferazione di armi di distruzione di massa. Questo fa rientrare nel loro campo di attività non solo la caccia ai capi di Al Qaeda ma anche l’eliminazione fisica di Saddam Hussein.
Alla luce di questi progetti di «guerra senza più regole», non è così sorprendente che l’America di Bush faccia così ferocemente quadrato, correndo il rischio di un pressoché totale isolamento, contro la Corte internazionale per i crimini di guerra. Su questo argomento non ci sentono proprio. In stallo la discussione nelle sedi internazionali e all’Onu, hanno cominciato a lavorare ai fianchi gli Stati interessati uno per uno, minacciando la cessazione di ogni assistenza militare se aderiscono al tribunale internazionale senza fare eccezione per i militari americani. L’idea stessa che militari Usa possano essere processati da un tribunale sovra-nazionale per aver violato regole comunemente accettate dalla comunità internazionale fa a pugni con la volontà dichiarata di non essere più ostacolati da regole ingombranti. E non solo le regole «altrui», ma le proprie stesse regole, come mostra il formidabile conflitto in corso tra il governo e giudici americani (e tra gli stessi giudici) sul trattamento dei circa 1200 arrestati in segreto dopo l’11 settembre. Una decina di questi sono sospetti di legami con Al Qaeda, gli altri pare siano tassisti e manovali arabi, colpevoli soprattutto di non avere i documenti in regola. Un giudice federale del circuito di Washington, la signora Gladys Keller, ha sentenziato che ne facessero almeno i nomi. Il ministro della Giustizia John Ashcroft ha presentato, a nome del governo, appello. Se e quando la cosa arriverà alla Corte suprema, il governo sarà rappresentato dal solictor general Theodore Olson, che non ha mai perso una causa (è quello che fece decidere dalla Corte suprema l’assegnazione dei voti contestati della Florida a Bush anziché a Gore nelle presidenziali del 2000). E che sul tema ha un motivo in più per buttarsi con tutta l’anima: sua moglie Barbara l’11 settembre restò uccisa sull’aereo dirottato sul Pentagono.
Mali estremi, rimedi estremi, "a la guerre comme a la guerre", viene obiettato ai perplessi. La guerra al terrorismo non si può fare coi guanti. Tutte le guerre sono atroci. Si è però ripetutamente tentato di dargli delle regole, dalle Leggi sulla guerra e la pace di Ugo Grozio nel Seicento alle norme collettive elaborate a Ginevra e all’Aja nell’ultimo secolo e mezzo. Non sempre sono state rispettate, e non da tutti. Ma dove si rischia di parare se la maggiore, c’è chi dice ormai l’unica superpotenza planetaria, e per giunta quella che si è sempre presentata come faro di giustizia e libertà per il resto del mondo, comincia a far serpeggiare l’idea che le regole valgono solo per gli altri?

Sinistra l'autunno che verrà di Nicola Tranfaglia

In questa estate bizzara (e che sta finendo prima di incominciare) non so quanti si siano accorti che due interviste, quella di Sergio Cofferati al Corriere della Sera del 6 agosto e quella di Luciano Violante il giorno dopo a l’Unità, hanno affrontato alcuni nodi importanti della crisi politica della sinistra, indicando tappe e vie di uscita che dovranno in qualche modo essere percorse alla ripresa parlamentare. Naturalmente il segretario della Cgil e il presidente dei deputati Ds non sono d’accordo su due aspetti che a me non sembrano marginali: siamo in ritardo per la lotta politica e parlamentare dei prossimi anni (dal 2004 al 2006, come è noto, ci sono elezioni europee, regionali e politiche) o è il caso di aspettare ancora? È arrivato il momento di por mano a un programma coinvolgendo le tante energie della sinistra o bisogna ancora aspettare cadenze rituali di partito come la conferenza programmatica di autunno dei Democratici di sinistra o altre del genere? A questi due interrogativi Cofferati e Violante rispondono in maniera assai diversa. Cofferati è preoccupato, come chi scrive e come tanti che fanno parte di associazioni e movimenti impegnati nell’opposizione con e senza i partiti, per una crisi di idee a sinistra che si è sentita in maniera evidente nell’ultimo anno di governo del centrosinistra e che ha penalizzato (come è noto) proprio le forze politiche del centrosinistra che nel voto maggioritario ha ottenuto risultati non lontani dalla Casa delle Libertà ma che ha registrato un deficit assai grave proprio nel voto proporzionale dati ai singoli partiti della coalizione (chi non ne sia convinto può andarsi a leggere gli studi contenuti nel volume curato da G. Paquino per il Mulino con il titolo "Dall’Ulivo a Berlusconi"). Ebbene non si può dire che in questo primo anno di governo si siano fatti grandi progressi su questo piano: certo oggi c’è a sinistra un maggiore accordo sulla valutazione delle politiche del centrodestra e sul progetto complessivo che è necessario contrastare. Giustizia, sanità, lavoro, formazione e informazione si sono imposti in questi mesi sia a livello parlamentare che di manifestazioni come problemi urgenti rispetto ai quali i piani di governo sono, per la massima parte, inaccettabili e che dunque bisogna fermare o modificare in maniera radicale. Ma non c’è dubbio che finora non sia emersa in maniera chiara ed esauriente una proposta programmatica del centrosinistra capace di contrapporsi in maniera persuasiva a un progetto che possiamo definire liberista, clericale, corporativo e sottilmente autoritario da parte della maggioranza di Berlusconi. Di questo forse non si sente tanto la mancanza a livello parlamentare dove lo scontro delle idee è a livello più generale quanto nella politica di base dove si incontrano sempre più italiani che hanno votato per Berlusconi e sono delusi da quello che è accaduto finora ma conservano la loro vecchia diffidenza per le soluzioni alternative, soprattutto se queste non sono ancora limpide e coerenti. Ma costruire una piattaforma programmatica che non ripercorra semplicemente la strada del 1996 ma tenga conto di quel che è successo in questi anni, della maggior conoscenza del Paese che è nata dall’azione di governo e dalle difficoltà che si sono incontrate proprio tentando di cambiare alcuni caratteri originali della nostra storia (penso tra l’altro al Mezzogiorno e alla lotta contro la criminalità mafiosa che ha segnato il passo negli anni Novanta ma potrei fare molti altri esempi) non è impresa che possono portare a termine da soli i partiti e le loro «strutture democratiche», di cui parla nella sua intervista Violante. Dobbiamo prendere atto, e citavo prima in questo senso i risultati elettorali del 13 maggio 2001, che i partiti anche a sinistra rappresentano una parte assai minoritaria dell’elettorato che, a livello maggioritario, si schiera con il centrosinistra e che spesso rivela purtroppo la sua natura di struttura cristallizzata e separata dal resto della società: è un dato di fatto che devono constatare anche quelli che ritengono allo stato difficilmente sostituibili i partiti politici con altre forme organizzative stabili. Ma, in questa situazione, affrontare i problemi del programma come se si trattasse di una faccenda di esclusiva competenza dei seicentomila iscritti di quello che resta il maggior partito della sinistra mi parrebbe, dico la verità, un grande spreco e un’occasione davvero perduta per utilizzare il grande patrimonio di idee e di energie che si è coagulato intorno all’opposizione netta ai piani della destra. L’altro aspetto è quello della ricerca del leader unico per il centrosinistra. Su questo aspetto, che pure è cruciale politicamente, a me pare che l’esperienza recente abbia dimostrato che è un errore da parte dei partiti e dei loro gruppi dirigenti decidere chi sarà il leader sulla base di esigenze tattiche (o personali) dei gruppi dirigenti medesimi. È necessario, come per il programma, procedere secondo modalità chiare e trasparenti perché soltanto chiarezza e trasparenza sono in grado di motivare una lotta che si annuncia lunga e difficile e che richiede la convinzione non solo dei generali ma di tutte le truppe. Detto questo, si potrà discutere sulle procedure più idonee a conseguire questo risultato ma l’importante, ripeto, è non ripetere quello che abbiamo già visto nell’ultima, assai difficile stagione dell’Ulivo.

12.08.2002 "Balletto indecente sulla pelle dell'Italia"

ROMA «Sono capaci proprio di tutto!». Lamberto Dini, ex presidente del Consiglio e ora vice presidente del Senato, inorridisce di fronte alla ridda di voci: dall'ennesimo condono, questa volta onnicomprensivo, fiscale ed edilizio, «tombale» come è definito, fino alla pretesa di rivedere il patto di stabilità europea. «Un governo serio - dice l’esponente della Margherita, arrivato alla politica al culmine di una vita dedicata all’economia e alla finanza - troncherebbe di netto questo indecente balletto. Invece, leggo smentite che non smentiscono, sento precisazioni che non precisano...». Non l’hanno convinta né le smentite del ministero del Tesoro né le precisazioni di palazzo Chigi? «Non convincono affatto. È acclarato che i conti non tornano. Dovrebbero avere l’onestà e la responsabilità politica di riconoscere i propri errori. A cominciare da quello compiuto in campagna elettorale, quando promisero miracoli ben sapendo che sarebbero stati solo miraggi». A sentir loro, la colpa è dell’eredità dei governi di centrosinistra. Lei, che di quei governi è stato protagonista, non ha da fare autocritiche? «Forse, di non aver alzato adeguatamente la voce, per avvertire che la mistificazione del centrodestra avrebbe messo in pericolo i risultati dell’intensa azione di risanamento della finanza pubblica, di stabilità monetaria con l’ingresso della lira nel sistema dell’euro, di ripresa dell’economia. Il centrodestra sapeva benissimo di non poter aumentare la spesa e ridurre le entrate fiscali senza intaccare il disavanzo pubblico. E, in effetti, per la prima volta da 6 anni a questa parte, il debito pubblico rispetto al Pil aumenta anziché diminuire». Non concede l’attenuante della crisi internazionale? «E sia: la congiuntura internazionale è più pesante del prevedibile e del previsto. Ma, a parte che avrebbero potuto essere più prudenti, debbono pur spiegare perché hanno alimentato aspettative di crescita per il 2002 che niente e nessuno autorizzava ad accreditare. Ricorda? Si è partiti dal 2,3%, dopo 6 mesi si è corretto all’1,5% e ora si scopre che si è sotto l’1%. Non solo: si immagina una finanziaria inferiore di 10 mila miliardi di vecchie lire rispetto agli almeno 36 mila miliardi che gli analisti più responsabili ritengono necessari per mantenere l’equilibrio economico e finanziario. Questi non sono errori di valutazione». Cosa sono? «Manifeste prove di incapacità: la Tremonti bis è stata un fallimento; la legge per l’emersione del sommerso ha fatto un buco nell’acqua; lo scudo fiscale ha protetto le operazioni finanziarie...». Insomma, Tremonti dovrebbe fare le valige? «Sbaglio o proprio Tremonti aveva giurato che se non fosse stato raggiunto l’equilibrio previsto dal Patto di stabilità europeo entro il giugno 2003 si sarebbe dimesso? Ebbene, nel momento in cui il ministero dell’Economia ipotizza di modificare quel Patto, coerenza vorrebbe che Tremonti accompagnasse la richiesta con le proprie dimissioni. Invece, chissà cos’altro sarà capace di inventare per sostituire le entrate una tantum di quest’anno e coprire i nuovi buchi». Per ora, Tremonti esclude il condono tombale. Capisco che lei non si fidi, ma perché è così contrario? «Perché il solo parlare di condoni dà luogo ai peggiori istinti. Ecco, qual è il maggior danno: si istiga la gente ad evadere il fisco, a violare la legge. Dopo i tanti sacrifici sofferti dal paese per superare l’emergenza finanziaria, nessun governo che abbia a cuore la stabilità, la credibilità e la legalità dovrebbe mai arrivare a tanto». E cosa non la convince della richiesta di allentare i vincoli al disavanzo del patto di stabilità europeo? «Si darebbe un segnale sbagliato ai mercati internazionali, proprio nel momento in cui l’Europa è chiamata alla prova di una crescita autonoma rispetto a quella americana. Non solo perché la sua economia è grande quanto quella degli Usa, ma soprattutto perché la capacità di attrazione di capitali ha cominciato a stabilizzare e persino rafforzare la nuova moneta unica». Ma anche altri paesi, tra cui quelli economicamente più forti come la Francia e la Germania, hanno bisogno di maggiori margini. Come dire: mal comune mezzo gaudio? «Purtroppo, così non è. Una cosa è che l’insieme dell’Europa si doti di strumenti e di politiche capaci di governare la difficile congiuntura internazionale, altra è che i paesi che stentano a controllare i propri disavanzi chiedano margini di movimento che penalizzerebbero i 7-8 paesi che sono già in regola. L’allentamento del patto di stabilità, e i conseguenti rischi di ripresa dell’inflazione, avrebbero come primo effetto l’innalzamento dei tassi di interessi. Quindi, con costi più alti per i paesi virtuosi. Ma, nel tempo, tutti finirebbero per mangiarsi i vantaggi della maggiore flessibilità finanziaria». Anche l’Italia? «Si pensi all’onere di solo mezzo punto in più sugli oneri dei titoli a medio termine e si rifletta su quanto nel recente passato sono costati gli interessi sul debito pubblico e come quella spirale ha condizionato la nostra economia. Ricominciamo?». Che fare, allora? «Ricorda l’ossessionate ritornello con cui il centrodestra, allora all’opposizione, accoglieva le misure di politica economica? Noi riuscivamo a fare la riforma delle pensioni, e loro in coro: "misure strutturali, misure strutturali...". Così per il fisco, dove pure alla lotta all’evasione e all’elusione si accompagnava la diminuzione della pressione tributaria: "Misure strutturali, misure strutturali...". Non per ritorsione, ma proprio perché quel poco o tanto di strutturazione del nostro sistema economico e finanziario compiuto è oggi messo a repentaglio, bisognerebbe chiedere a questo governo dove sono e quali sono le sue riforme strutturali». E dell’ipotesi del leader dell’Udc, Follini, di rimettere mano alla sua riforma delle pensioni, che pensa? «Ogni riforma è perfettibile. Se ne potrebbe anche parlare in un negoziato sociale che tenga sempre ben presente l’interesse generale. Non so se questo fosse lo spirito che ha mosso l’on. Follini, so però che questo governo ha raggiunto un accordo separato con le parti sociali che esclude ogni misuri che riguarda la previdenza. Come dire che si sono legati le mani da soli». Tagli alla spesa, allora? «E quali? Non ci vengano ancora a raccontare che tagliano gli sprechi sull'approvvigionamento delle matite: ormai, l’80% della spesa di bilancio è fissa. Voglio proprio vedere cosa succede quando Tremonti si presenterà in Consiglio dei ministri a chiedere ai suoi colleghi di ridurre la spesa del 10%. Berlusconi dovrà stare attento alla rivolta». Dovrebbe rinunciare alla tanto promessa riduzione fiscale? «Non sarò io a dire che non serve. Anzi, dico: benissimo. Ma mantenere quell’impegno comporta o maggiori entrate da qualche altra parte o riduzione delle spese. Sono stretti nella loro stessa morsa. È come il cane che si morde la coda. Posso sono auspicare che stiano attenti a non avventurarsi in promesse irrazionali e irrealizzabili che provocherebbero ulteriori danni. Perché, così rischiano di riportare l’Italia al tracollo».

12.08.2002 Modena: trovata bomba all'istituto sperimentale zootecnia. Era contro gli xenotrapianti di red.

Un ordigno esplosivo è stato ritrovato oggi nei pressi della nuova sede in costruzione dell'istituto sperimentale della zootecnia di Modena, ente di ricerca del Ministero delle Politiche Agricole. Lo rende noto lo stesso ministero. Si tratta di una grossa bombola di gas con un innesco rudimentale che i carabinieri stanno provvedendo a disinnescare. Sulla facciata dello stabile è stato inoltre scritto con vernice spray «Fermate gli xenotrapianti». Lo xenotrapianto è il trapianto di organi, tessuti o cellule da animale a uomo. Si tratta di una soluzione alternativa, attualmente al vaglio della comunità scientifica internazionale, al problema della carenza di organi umani, che esclude purtroppo dal trapianto molti pazienti che ne avrebbero necessità. L'Istituto sperimentale per la Zootecnia di Modena, in collaborazione con la facoltà di Medicina dell'Università «La Sapienza» di Roma, svolge proprio ricerche su maiali transgenici per verificare se, tramite le biotecnologie Ogm, sia possibile ottenere da questi animali degli organi compatibili con il trapianto nell'uomo. Forte la condanna per il fallito attentato da parte del ministro per le Politiche Agricole Gianni Alemanno. «Il Ministero - ha spiegato Alemanno - è impegnato a finanziare programmi di ricerca biotecnologica in campo sanitario, che possono aprire nuove frontiere allo sviluppo della medicina. Si tratta di esprimenti in ambiente confinato, che non possono indurre nessuna contaminazione». Secondo il Ministro il mancato attentato di oggi risponde a una ottusa logica di lotta contro il transgenico, che non tiene conto della diversità dei suoi campi di applicazione: «Il Ministero - conclude Alemanno - continua a seguire una linea di estrema prudenza sul versante dell'utilizzo degli Ogm in agricoltura e nell'alimentazione, mentre ritiene invece essenziale dare il massimo impulso alla ricerca biotecnologica soprattutto nell'aplicazione sanitaria, dove possono essere risolti gravi problemi dell'esistenza umana».

Il 18 per tutti, basta un voto
Presentate le firme per i 6 referendum su ambiente, scuola e giusta causa sotto i 15 dipendenti
ANTONIO SCIOTTO
ROMA


Duecentoventotto scatoloni pieni di firme, tre furgoni carichi di registri e bandiere. I promotori del referendum per l'estensione dell'articolo 18 alle imprese sotto i 15 dipendenti sono passati al contrattacco e hanno presentato alla Cassazione le 705 mila firme raccolte. Rifondazione comunista, i Verdi, la Fiom, Socialismo 2000 (sinistra Ds), Cgil Lavoro Società (sinistra Cgil), i Cobas, il presidente del comitato per i referendum sul lavoro, Paolo Cagna Ninchi, e diverse associazioni hanno presentato ieri il risultato di tre mesi di lavoro. Sei referendum su lavoro, ambiente e scuola, che - se passeranno l'esame di Cassazione e Consulta - potranno essere votati nella prossima primavera. Il referendum «fratello» dell'art. 18, quello sull'art. 35, per l'estensione dei diritti sindacali a tutte le imprese, ha raccolto 700 mila firme; analogamente, hanno superato la soglia delle 500 mila firme, i tre sull'ambiente (contro l'elettrosmog, 590 mila; contro gli inceneritori, 580 mila; per la sicurezza alimentare, 585 mila) e quello contro la parificazione tra scuola pubblica e privata, che punta a evitare l'«americanizzazione» degli istituti (600 mila). L'idea dei promotori - che non hanno posto la loro sigla sotto ciascun referendum, ma che hanno scelto di presentarli assieme per rendere più forte l'impatto - è quella di suonare la sveglia del centrosinistra, che spesso limita l'opposizione entro lo spazio angusto delle aule parlamentari, e di «integrare» le iniziative già intraprese dalla Cgil sul fronte dei diritti. Insomma, hanno detto un po' tutti, da Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi) ad Alfonso Gianni (Prc), «ridiamo la parola alla gente».

Al centro dell'attenzione politica, ovviamente, il referendum sull'articolo 18, che rischia di ampliare il solco all'interno non solo della sinistra, ma anche della Cgil, con la maggioranza del sindacato impegnata a difendere l'articolo 18 per chi già ce l'ha e ad estendere i diritti ai co.co.co, mentre la minoranza Lavoro Società e la Fiom puntano l'attenzione soprattutto sull'estensione della giusta causa a tutti i lavoratori dipendenti. «Non c'è contrapposizione - spiega Gian Paolo Patta, segretario confederale Cgil e leader di Lavoro Società - Anzi, noi crediamo che il referendum sull'estensione si possa integrare con la raccolta di cinque milioni di firme che sta facendo la Cgil, con l'estensione dei diritti ai co.co.co: tutte battaglie che, se vinte, non possono che avvantaggiare il complesso dei lavoratori. Tutto il centrosinistra e gli altri sindacati dovrebbero riflettere sulla portata del referendum: è l'unico strumento valido che abbiamo in mano da qui a un anno nel caso che il governo modifichi l'articolo 18».

Anche Gianni Rinaldini, segretario generale della Fiom, ritiene che sia importante «puntare sull'integrazione delle battaglie portate avanti in questo periodo dalla Cgil, volte a coprire i dipendenti delle aziende più piccole come pure i co.co.co. Non c'è contrapposizione tra due idee che vogliono estendere i diritti dove prima non c'erano». E se così la pensa il sindacato, anche dal fronte politico vengono lanciati segnali di «distensione», anche se con i dovuti distinguo. Fausto Bertinotti, segretario del Prc, rispondendo a Cofferati, che aveva criticato il referendum sull'estensione dell'art. 18 affermando che «il soggetto di cui occuparsi prioritariamente sono i co.co.co.», dice che «la proposta della Cgil per la tutela degli atipici integra il nostro referendum, non lo sostituisce, è un obiettivo ulteriore». Subito dopo, però, ribadisce la centralità del referendum, affermando che «una vittoria, oltre a perseguire il suo obiettivo, automaticamente porterebbe all'abrogazione dell'accordo fatto da governo, Cisl e Uil».

Anche i referendum sull'ambiente vengono interpretati in chiave di attualità politica: Alfonso Pecoraro Scanio, leader dei Verdi, dice che le firme sono «sbattute in faccia a Gasparri, che con un recente decreto ha dato il via libera ad "antenna ed elettrodotto selvaggio", e a Sirchia, che punta ad eliminare qualsiasi principio di precauzione sugli ogm. Inoltre i referendum - e qui è polemico con la propria coalizione - dovrebbero spingere l'opposizione a darsi una mossa contro tutte le altre leggi che Berlusconi sta facendo su propria misura, dal falso al bilancio alle rogatorie, dal conflitto d'interessi al legittimo sospetto. Anche su questi temi dovrebbe essere usato lo strumento del referendum».

 

 

 

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