Dopo la conclusione dell'incontro mondiale sull'ambiente in Sud Africa
Il vertice dei buoni principi
Nei documenti finali nessun accenno a obiettivi verificabili e scadenze. The Ecologist: «Johannesburg, un passo indietro per la sostenibilità ambientale. Un fallimento».
MARINA FORTI
INVIATA A JOHANNESBURG


La domanda è ovvia: è stato un fallimento, o c'è qualcosa da salvare nel Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile? Per dieci giorni nella metropoli sudafricana di Johannesburg - un'area urbana che con Pretoria e tutta la regione del Gauteng
fa metà della popolazione sudafricana - si sono riuniti i delegati di 190 paesi: circa 40mila persone in rappresentanza di governi, forze sociali, parlamentari, organizzazioni non governative, movimenti sociali, imprese (e agenzie pubblicitarie). Qualcuno qui commenta che un anno dopo l'11 settembre 2001 e la lunga guerra in Afghanistan, con la minaccia di una nuova guerra in Iraq, è sempre meglio un dibattito sullo sviluppo sostenibile targato Nazioni unite che il sibilo dei cacciabombardieri. E poi, mentre l'unica superpotenza mondiale si sente «la nuova Roma», non è secondario leggere in una Dichiarazione firmata da 190 paesi che «il multilateralismo è il futuro». E però, mentre gli addetti raccolgono carta da riciclare e smontano la show-room Bmw nella piazzetta di Sandton, bisognerà misurare in qualche modo il Vertice di Johannesburg, oltre che sui fischi al segretario di stato Usa Colin Powell. Lo stesso segretario generale dell'Onu Kofi Annan ha ricordato che «questa non è Rio»: dieci anni dopo il Vertice della Terra, questo doveva essere il vertice della messa in pratica. Non lanciare nuovi concetti e principi, ma realizzare l'Agenda 21 per lo sviluppo sostenibile.

Ebbene? Dopo dieci giorni di lavoro le delegazioni governative hanno approvato un «piano d'azione» e una «dichiarazione politica» (è la prassi di ogni conferenza e vertice dell'Onu). Due documenti deboli, che hanno raccolto le critiche delle organizzazioni non governative ambientaliste o di sviluppo, dei movimenti sociali, e di molti governi.

Critiche più o meno drastiche. Per
The Ecologist, voce autorevole dell'ambientalismo (e della critica allo sviluppo), è una bocciatura netta: «Il vertice di Johannesburg è fallito», dice Simon Retallack: «Il Piano d'azione contiene pochissimi obiettivi e scadenze per l'azione concreta, non è legalmente vincolante, non prevede meccanismi per chiamare i governi a praticare quanto avranno firmato - al contrario dei negoziati sul commercio nell'ambito del Wto, che sono legge». Le organizzazioni ambientaliste internazionali invece analizzano punto per punto, criticano e soppesano, ma non osano parlare di fallimento.

Dal punto di vista ambientalista, non c'è dubbio: «questo vertice rappresenta un passo indietro per la sostenibilità ambientale», come dice il commentatore di
The Ecologist: e come quasi tutti qui ne attribuisce la responsabilità maggiore all'«ostruzionismo degli Stati uniti», che hanno sistematicamente rifiutato ogni riferimento a obiettivi misurabili e a date, oltre che alla mancanza di volontà politica dell'Unione europea. Sulle grandi questioni ambientali il Piano d'azione approvato a Johannesburg è nel migliore dei casi innocuo - o addirittura una «Rio meno 10». Non pone obiettivi circa il passaggio alle energie rinnovabili (l'Unione europea in principio voleva scrivere un impegno a farne il 10% delle fonti primarie d'energia entro i prossimi quindici anni: ma poi ha ceduto alle pressioni di Usa e alcuni grandi paesi produttori di petrolio). Incoraggia vagamente l'uso di energie pulite, ma vi include anche le grandi centrali idroelettriche - le megadighe contro cui sono mobilitati un po' ovunque ambientalisti e popolazioni locali. Circa la biodiversità, il Piano d'azione fa semplicemente appello a «ridurre in modo significativo» la perdita di varietà biologica sul pianeta: è molto più precisa la Convenzione sulla biodiversità approvata a Rio dieci anni fa, che ha poi dato luogo a un trattato sulla biosicurezza approvato all'inizio del 2000. Sul traffico di sostanze tossiche il documento di Johannesburg è più vago di trattati (vincolanti) già in vigore, tra cui quello sulle sostanze «inquinanti organiche persistenti» (Pop). Parla di difendere l'ambiente marino, ma non detta obiettivi. E' stato molto sbandierato l'impegno a dimezzare entro il 2015 il numero di persone che non hanno accesso all'acqua potabile - ma le promesse non costano nulla, e il piano d'azione non dice molto sulla gestione dei bacini acquiferi...

Le grandi crisi ambientali non sono state al centro del Vertice di Johannesburg, se non come richiamo retorico. Del resto, molti paesi - tra cui quello ospite, il Sudafrica - volevano mettere al centro piuttosto lo «sviluppo» e la lotta alla povertà, e così è stato. Anche da questo punto di vista però il bilancio è magro. Le cause strutturali di povertà e diseguaglianze non sono analizzate. I sussidi agricoli non sono stati toccati: milioni di dollari in sussidi ai farmers del Nord, che mettono fuori mercato le produzioni del Sud - ha fatto il giro del mondo la frase pronunciata qui da un funzionario della Banca Mondiale, «in media una mucca del Nord è sovvenzionata tre volte il reddito di un cittadino africano». Giustificato il commento di Oxfam, una delle più grandi Ong internazionali per lo sviluppo: «Hanno dato un po' di briciole ai poveri». Nessun impegno alla cancellazione del debito - salvo promesse di questo o quel governo a fare piccoli condoni. Nessuno ha parlato di meccanismi per stabilizzare i mercati delle materia prime. Nessun nuovo impegno finanziario da parte dei paesi ricchi: salvo il rifinanziamento per 2,9 miliardi di dollari in 4 anni del Gef, il Fondo globale per l'ambiente (gestito dalla Banca mondiale) che doveva finanziare progetti di «sviluppo sostenibile». Certo, molti governi hanno annunciato «partnerships», progetti volontari in cui impegneranno manciate di milioni di dollari. Ma chi potrà controllare cosa e quanto sarà fatto, o se quei soldi non saranno semplicemente stornati da stanziamenti già approvati e ora rivenduti come novità.

L'orizzonte generale resta quello degli accordi dell'Organizzazione mondiale del commercio di Doha e del Vertice sulla «finanza per lo sviluppo» di Monterrey, o di partnership per lo sviluppo come la Nepad africana: così afferma la Dichiarazione politica. Quella dichiarazione però dice anche che «la globalizzazione ha aggiunto nuove sfide» alle crisi ecologiche del pianeta e alle diseguaglianze sociali, che i suoi «costi e benefici sono disegualmente distribuiti»: non era mai stato scritta nero su bianco una critica alla globalizzazione. I principi generali che avevano segnato il Vertice di Rio hanno resistito - sebbene a fatica. Il piano d'azione fa riferimento al principio di precauzione, anche a volte definito «approccio» invece che «principio». E' riaffermato il principio della «responsabilità comune e differenziata». Il Protocollo di Kyoto entrerà presto in vigore, nonostante gli Stati uniti che sono apparsi assai isolati a Johannesburg. L'orizzonte resta multilaterale, l'unilateralismo americano qui sembrava isolato. Non è molto, ma è sempre meglio che il sibilo di un cacciabombardiere.

Al vertice di Johannesburg continua invece lo scontro
sulle barriere doganali all'export dei Paesi poveri
Ambiente, accordo con gli Usa
sul bando ai pesticidi

Stop ai prodotti chimici entro il 2020
Le Ong: "Ma l'accordo è troppo vago"
dal nostro inviato ANTONIO CIANCIULLO

JOHANNESBURG - Il secondo giorno di negoziato ha sciolto un paio di nodi non secondari. Sull'inquinamento chimico e sulla pesca gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro accettando due date su cui fino a ieri non c'era accordo: entro il 2020 si dovranno eliminare i prodotti chimici che hanno un pesante effetto sulla salute degli uomini e degli ecosistemi ed entro il 2015 gli stock ittici depauperati dalla pesca selvaggia dovranno tornare a livelli accettabili.

L'intesa è stata raggiunta al Vienna setting, la ristretta sala di regia della conferenza sullo sviluppo sostenibile che altrimenti, con i suoi 15 mila delegati di 190 paesi, sarebbe ingovernabile. Nei prossimi giorni l'accordo dovrà essere ratificato dall'assemblea plenaria, ma essendoci già il sì di Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, Unione europea e Paesi in via di sviluppo non si prevedono sorprese. In realtà si tratta di un passo avanti più dal punto di vista politico che per le conseguenze immediate. La formula adottata appare priva di vincoli reali e non contiene un elenco delle sostanze da mettere fuori legge: è una cornice che serve a coordinare ed estendere misure già adattate per difendere lo strato di ozono (i prodotti a base di cloro) e per tutelare la salute dei consumatori (pesticidi, ddt, diossine). "La dizione è ambigua", sostiene Legambiente, "perché si limita ad affermare che le sostanze chimiche "vanno usate e prodotte in modo che non provochino danni significativi alla salute umana e all'ambiente". La vaghezza conferma il rischio che il summit si concluda con dichiarazioni di principio non vincolanti". Ma d'altra parte è pur sempre un paletto destinato ad influenzare il sistema legislativo dei singoli paesi. E ad incidere su uno dei nodi ancora non sciolti dal vertice di Johannesburg: il rapporto tra misure di tutela ambientale, libertà di commercio e lotta contro la povertà.

Ieri è cominciata a circolare una bozza in cui si fa riferimento alle partnership commerciali che gli Stati Uniti indicano come soluzione dei problemi ambientali ma si aggiunge il riferimento a un "intervento responsabile" da parte delle multinazionali, formula che secondo le associazioni ambientaliste dovrebbe essere trasformata nella richiesta di una "completa trasparenza da parte delle multinazionali".

Dietro queste schermaglie lessicali c'è il grande scontro sull'agricoltura tra il Nord e il Sud del mondo. Una battaglia carica di implicazioni ambientali visto che l'agricoltura è già oggi responsabile del 70 per cento dell'acqua consumata a livello globale e del 40 per cento della terra utilizzata. Ed è destinata ad aumentare ulteriormente la sua pressione sull'ambiente: secondo i documenti distribuiti dalla Fao, entro il 2030 la domanda mondiale di cibo crescerà del 60 per cento. Proprio in un settore così fondamentale l'economia dei paesi poveri resta intrappolata da una serie di barriere commerciali. La prima è costituita dai dazi sulle merci provenienti dai paesi non industrializzati: l'acquisto di una bottiglia di vino di paesi come il Sud Africa, che in questo campo si sono conquistati la qualità, è scoraggiato dalla forte tassazione d'ingresso. La seconda dai sussidi agli agricoltori dei paesi ricchi: una mucca statunitense riceve il doppio dei finanziamenti di un contadino africano.

Di fronte alla richiesta di un riequilibrio di questi scompensi il fronte industrializzato non è compatto. Nell'Unione europea, ad esempio, la Francia è intenzionata a difendere ad oltranza i suoi agricoltori, mentre altri paesi si pongono il problema di una modifica della politica agricola comunitaria anche in funzione dell'apertura ad Est. Una delle possibili soluzioni consiste nel trasformare i sussidi alla produzione in compensi riconosciuti agli agricoltori che, attraverso la riconversione al biologico o la difesa dell'assetto idrogeologico, svolgono un ruolo di difesa degli equilibri ambientali.

(28 agosto 2002)

Nel mondo oltre un milione di persone ridotte in miseria
Altri 815 milioni sono in condizioni di malnutrizione
In dieci anni la metà dei poveri
Johannesburg affronta il nodo fame

I poveri chiedono ai Paesi ricchi di tagliare i sussidi all'agricoltura
ma l'intesa con Europa e Stati Uniti è difficile

JOHANNESBURG - Un miliardo e 200 milioni di uomini e donne in miseria. Ottocentoquindici milioni di persone malnutrite. Sono i numeri, nudi e crudi, della fame e del sottosviluppo. Le cifre spietate dietro le quali si celano i volti di chi vive in Angola, Haiti, Afghanistan. Il vertice di Johannesburg entra nel vivo e affronta il nodo dell'agricoltura con l'obiettivo, tanto ambizioso quanto difficile da raggiungere, di dimezzare entro dieci anni il numero dei poveri sulla terra.

Ma per affrontare davvero il problema della fame e della povertà i partecipanti al summit sudafricano devono risolvere una difficile equazione: aumentare la produttività delle terre coltivate, è vero, ma senza compromettere l'ambiente. E' questa una delle sfida, forse la principale, del vertice di Johannesburg.

Sul tema non c'è il disaccordo che invece divide Europa e Stati Uniti in materia di ambiente ed energia. Anzi, su agricoltua, finanza e commercio Vecchio e Nuovo continente si ritrovano alleati in un difficoile confronto con i Paesi poveri. Una delle richieste che fanno le nazioni affamate a quelle più ricche è infatti il taglio dei propri sussidi all'agricoltura, che sono un oggettivo ostacolo alle esportazioni dei paesi in via di sviluppo. Oggi i sussidi al settore ammontano a circa 300 miliardi di dollari l'anno, circa sei volte i 54 miliardi di dollari attualmente sborsati in aiuti.

Per trovare un punto di mediazione si parte da un documento negoziato nella notte, che riprenderebbe alcuni dei principi contenuti negli accordi di Doha (Barhein) e a Monterrey (Messico). A Doha, dove è stato avviato il nuovo round per la liberalizzazione del commercio, i paesi del Wto (Organizzazione mondiale del commercio) hanno già concordato di pervenire a una sostanziale riduzione ai sussidi agricoli e di migliorare i criteri per quelli alla pesca.

Accordo comunque difficile, come dimostra la dura presa di posizione del 'Gruppo dei 77', organismo che raggruppa i paesi in via di sviluppo: "Non cederemo - ha detto Ana Elisa Osorio, ministro dell'ambiente del Venezuela - finché non avremo trovato un compromesso sui sussidi agricoli". E la stessa Osorio ha criticato Unione Europea e Stati Uniti, accusandoli di "non rispettare le regole del gioco".

Nella seconda giornata del vertice la Fao ha ricordato che "L'agricoltura sostenibile e lo sviluppo rurale sono la base per il successo alla lotta contro la fame e la povertà", anche perché la miseria, unita a una bassa produttività agricola e al degrado delle risorse, può formare un circolo vizioso difficile poi da aggredire. Se non si corre ai ripari, insomma, l'obiettivo del dimezzamento del numero dei poveri entro il 2012 resterà lettera morta.

Il tentativo è dunque quello di uscire dalla logica degli aiuti e della semplice cooperazione, ma di inaugurare invece una strategia globale in grado di modificare il modello di sviluppo, che non potrà "non essere sostenibile - come ricorda ancora la Fao - visto che l'agricoltura ha un impatto significativo sulle risorse naturali e l'ambiente, incidendo per il 70% sull'uso dell'acqua e per il 40% della terra".

Mentre la seconda giornata 'ufficiale' si dedica ad agricoltura, finanza e commercio, dietro le quinte si cerca anche di sciogliere il nodo del protocollo di Kyoto sull'emissione di gas serra, che da tempo divide Stati Uniti ed Europa. Secondo indiscrezioni si starebbe lavorando ad un accordo in base al quale gli europei sarebbero disposti a cancellare il paragrafo che fissa l'entrata in vigore del protocollo di Kyoto "preferibilmente" entro il 2002. In cambio gli Usa (che non hanno mai ratificato l'accordo), accetterebbero almeno un target fisso del 14% entro il 2010 per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili.

(27 agosto 2002)

Sull'acqua nuovo scontro tra Stati Uniti e Unione europea
A Johannesburg si discute anche di commercio e finanza
Ambiente, la sete del pianeta
al centro dei lavori del vertice

JOHANNESBURG - Dopo i passi avanti sulla messa al bando dei pesticidi e sulla pesca, il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile si concentra sulle risorse idriche. Uno dei temi più spinosi, considerando che secondo le stime dell'Onu oltre un miliardo di persone non hanno ancora accesso ad acqua potabile, che quasi due miliardi e mezzo di abitanti del pianeta vivono in condizioni
igienico-sanitarie insoddisfacenti e che le malattie connesse a queste carenze fanno ogni anno 2,2 milioni di morti. La scarsità d'acqua è aggravata dalla desertificazione, dalla deforestazione e dalla crescita degli insediamenti urbani. In questa situazione, l'ambizioso obiettivo del summit di Johannesburg è individuare strumenti che riducano della metà il numero degli "assetati" entro il 2015. Un'impresa che secondo la Banca mondiale costerebbe 25 miliardi di dollari l'anno. Come già è accaduto prima e dopo il vertice per varie questioni, un programma di questo tipo incontra l'opposizione di alcuni paesi industrializzati, primi fra tutti gli Stati Uniti e l'Australia.

Ai lavori sulle risorse idriche, che si tengono in assemblea plenaria, si aggiungono quelli sul commercio e la finanza che si svolgono parallelamente nelle stanze del 'Vienna setting' e del 'gruppo di contatto', dove sono riuniti diplomatici ed esperti delle delegazioni dei 190 paesi presenti a Johannesburg, per tentare di avvicinare le posizioni.
"L'atmosfera dei colloqui è abbastanza buona", ha riferito ai giornalisti John Ashe, ambasciatore di Antigua, che conduce i negoziati per conto dell'Onu su questo dossier molto 'caldo'.

Ashe ha aggiunto che restano da risolvere due importanti questioni: i sussidi considerati distorsivi per il commercio (come quelli, secondo i paesi in via di sviluppo, che i paesi ricchi destinano all'agricoltura) e la globalizzazione, sulla quale si confrontano filosofie diverse. I paesi del G-77 mettono l'accento sulle sfide di questo processo e i timori che possa ampliare anziché ridurre le disuguaglianze, i paesi ricchi puntano sul discorso delle opportunità offerte dalla globalizzazione. Ashe non ha escluso che le due questioni vengano rinviate ad "un altro livello", quello politico rappresentato dai ministri.

Sull'acqua, è scontro aperto tra Unione europea e Stati Uniti. "Per noi - ha detto il ministro danese all'ambiente Hans-Chrystian Schmidt, che guida la delegazione della Ue - è importante fissare obiettivi precisi su entrambe le questioni, che sono estremamente legate". Gli americani hanno invece ribadito la loro contrarietà a indicare obiettivi sulla sanità di base: "Non salvano i bambini", ha affermato John Turner, nel briefing quotidiano con la stampa. Gli Usa pongono piuttosto l'accento sugli investimenti per finanziare progetti concreti e sulle partnership da creare. "Non possiamo tollerare più a lungo - ha assicurato Turner - che milioni di bambini muoiano di malattie come la malaria".

La delegazione Usa ha presentato a Johannesburg progetti per l'Africa per un valore di 4,5 miliardi di dollari. Per l'acqua, Washington ha annunciato una disponibilità di investimento di 970 milioni di dollari nei prossimi tre anni in grado, secondo le sue stime, di mobilitare progetti per un valore totale di 1,6 miliardi di dollari, in partnership con il Giappone e altri paesi.

(28 agosto 2002)

Da Shareworld, il villaggio del controvertice,
oggi partirà un lungo corteo, tra la rabbia
La marcia dei senza terra
"Dateci cibo e lavoro"

E dall'Italia cala il pessimismo: "Accordi difficili"
di STEFANIA DI LELLIS

JOHANNESBURG - Shareworld, si chiama la città dei senza terra. Ma l'hanno già ribattezzata Sherwood, tanto per rendere chiaro il progetto: togliere ai ricchi e redistribuire ai poveri. Un villaggio stile western messicano, nato come parco di divertimenti alle porte di Johannesburg, poi trasformato in set cinematografico. Ora però qui va in scena la protesta: da una settimana in questo incongruo rudere da film sono accampati migliaia di braccianti disoccupati, donne, vecchi e ragazzini che hanno celebrato il loro controvertice sul sottosviluppo, al grido di "Terra, cibo e lavoro".

Stamattina marciano sul Sandton Convention Center, la cittadella di specchi e cemento dove i big del mondo litigano sulla ricetta del progresso. Una formula che appare ancora non chiara, lo ha riconosciuto anche Silvio Berlusconi. Confermando la sua partenza per il Sudafrica, il presidente del Consiglio italiano ha detto: "Speriamo che al summit si trovi un accordo sui principi, ma ci sembra difficile che ciò avvenga". I senza terra sfileranno per nove chilometri guardati a vista da poliziotti, elicotteri, cani anti-esplosivo e guardie a cavallo. Al loro fianco veterani di Seattle e di Genova e i movimenti più radicali del Sudafrica accomunati dal no a privatizzazioni e Occidente e riuniti sotto il cappello dell'Indaba (conferenza, in lingua zulu). Partono alle nove da Alexandria, una delle township più degradate. Stessa casella di via, ma appuntamento due ore più tardi, per il corteo dei "moderati", le organizzazioni non governative che in questi giorni hanno discusso al Nasrec, il centro messo a disposizione dall'Onu.

Le previsioni sulle presenze totali oscillano tra i 20 e i 40 mila partecipanti. Il governo ha avvertito che la linea sarà quella della "tolleranza zero" contro ogni violazione della legge e ha proibito ai ministri di unirsi alla piazza. "Vogliamo consegnare al presidente Mbeki il nostro messaggio e ci riusciremo", proclama Manghauso Khubheka, coordinatore nazionale dei Landless People. "Siamo stanchi di promesse. E' ora che le fattorie dei bianchi vengano ridistribuite. Sì, come in Zimbabwe se necessario" . Il verbo di Manghauso infiamma la platea. Migliaia di mani applaudono nella "Steve Biko Hall", l'arena che a Shareworld è stata intitolata al martire anti-apartheid. "Bayavuya bantu bakko", "la tua gente è felice", intona una voce e il popolo dei senza terra canta e balla. Sono arrivati qui da tutte le regioni del Sudafrica, hanno portato materassi e coperte. Al resto ha pensato "un network internazionale di donatori filo no global", spiega Samantha Hargreaves, una delle portavoci della National Land Committee.

Il "resto" sono i pullman parcheggiati qui fuori che accompagneranno i manifestanti al corteo di oggi e poi li riporteranno a casa. Sono le migliaia di scodelle con il riso e la carne che escono come per miracolo dalla stanzetta in cui quando qui si girano film si vestono gli "stuntmen". Sono le magliette rosse che tutti indossano. E sono anche i professori che danno lezioni di "lotta e consapevolezza". Nell'aula "Julius Nyerere", per esempio, si affrontano i temi in discussione al summit dell'Onu. L'insegnante numero uno snocciola dati a un uditorio attentissimo di contadini della valle del Limpopo. "Un occidentale consuma 500 litri d'acqua al giorno - dice - un abitante di un paese in via di sviluppo ha invece a disposizione meno di venti litri d'acqua, di solito sporca". L'insegnante numero due traduce in zulu.

In un angolo un gruppo di trozkhisti distribuisce volantini anti-Israele. Alle loro spalle la sala "Palestina libera". Tra gli eroi neri cui sono intitolate le stanze manca il nome di Mandela. Ai senza terra non va giù che Madiba non abbia reso realtà il sogno di una fattoria per tutti. "Appena il 2% dei campi è stato redistribuito dopo il '94", ricordano. Non è piaciuta poi neanche la partecipazione dell'ex presidente al Vertice. "Dicono di lavorare tutti per il futuro, ma il futuro a ogni conferenza rimane lontano. E invece noi abbiamo fame ora".

Il movimento dei senza terra e altre associazioni
hanno portato in strada le loro preoccupazioni
Johannesburg, contro il summit
il corteo colorato dei 20 mila

JOHANNESBURG - Un fiume umano colorato e agrodolce, con musica e slogan, ha unito oggi per poche ore Alexandra, la baraccopoli nera simbolo dell'apartheid, a Sandton, la parte ricca di Johannesburg, dove si svolge il Summit sulla Terra. Migliaia di persone hanno raccolto l'invito a protestare lanciato dal Movimento contro la privatizzazione (Afp) e dall'Indaba, il movimento africano dei senza terra, e da altre decine di associazioni. Anche le Organizzazioni non governative (Ong), presenti in massa al Summit, hanno promosso una loro marcia, confluita poi in quella principale. In tutto, secondo stime della polizia, hanno manifestato in 20 mila. Secondo gli organizzatori, invece, hanno marciato 40 mila persone.

Quale che sia la cifra esatta, l'effetto è stato un grande fiume rosso (questo il colore dominante) che ha attraversato la baraccopoli di Alexandra come un'allegra marcia nuziale. Nessuno scontro è stato segnalato, ma secondo gli organizzatori sei persone sono state arrestate. Le misure di sicurezza sono state imponenti. Decine di agenti schierati lungo il percorso, elicotteri volteggianti in cielo e, a poche centinaia di metri dal luogo del raduno, anche quattro carri armati, serviti però come punti di osservazione per reporter e fotografi.

In testa al corteo, anche un veterano della lotta anti apartheid, Dennis Brutus. "Questo Summit è un salone per le cause dei ricchi", ha denunciato. Centinaia di donne africane, con le magliette rosse dell'Indaba con su scritto 'Lavoro, cibo, terra', hanno cantato e ballato senza interruzione, sotto un sole cocente, rivendicando il diritto a vivere in case con acqua e luce elettrica. "Venite a vedere dove viviano", è stato l'invito di Elisabeth, 45 anni, tutti vissuti ad Alexandra. "Non abbiamo acqua ed energia. Siamo ammassati in tanti in una stanza".

Nella baraccopoli, che si trova a otto chilometri da Sandton, abitano 350 mila persone, molte delle quali costrette a vivere dentro capanne di lamiera. "Vogliono anche loro quello che vogliono tutti i poveri del mondo: lavoro, case decenti, sanità, educazione e acqua pulita", ha detto il presidente del Sud Africa Thabo Mbeki, che ha parlato ad una manifestazione organizzata dall'African national congress (Anc), che si è tenuta contemporaneamente all'altra. Circa 3 mila persone hanno raggiunto lo stadio di Alexandra per ascoltare Mbeki.

Il presidente del Sud Africa ha lanciato un nuovo appello ai leader presenti a Johannesburg perché il Summit rappresenti un miglioramento delle condizioni di vita dei poveri del mondo. Mbeki è stato chiamato in causa da molti manifestanti del corteo per la politica troppo blanda contro l'Aids.

Tra i tanti slogan scritti, urlati e cantati, molti quelli contro Israele e il premier Ariel Sharon, accusato di "fare meglio di Hitler". Inviti a boicottare i prodotti israeliani sono stati lanciati dalle Donne in nero: "Non aiutiamo chi ammazza i bambini". Un cartello si appellava a Osama Bin Laden: "Bombarda Sandton e ammazza Mbeki". L'immagine dell'uomo più ricercato della Terra era impressa sulla maglietta indossata da un bambino.

Ma la causa palestinese è stata perorata anche in altro modo: "Cristiani, ebrei e musulmani uniti per i diritti dei palestinesi", era scritto su adesivi del Comitato di solidarietà alla Palestina. "Siamo qui per dire a Sharon che la sua carriera politica deve finire: se ne deve andare", ha detto il vice sindaco di Nazareth, Ahmad Zoubi. Lo slogan più urlato dai manifestanti, sia in spagnolo sia in inglese, è stato "Il popolo unito marcerà vittorioso".

(31 agosto 2002)

07.09.2002
I movimenti prima di tutto


di Luigi Manconi, Gianni Mattioli, Massimo Scalia

Parteciperemo alla manifestazione di Roma del 14 settembre e vogliamo qui illustrarne le ragioni.
Partiamo da una considerazione: il primo anno del governo Berlusconi ha rappresentato il tentativo di forzare e distorcere l'ordinamento istituzionale e il tessuto sociale del nostro Paese in una direzione che sembra annunciare la formazione di una «democrazia autoritaria».
Se, soprattutto negli atti iniziali, il nuovo governo ha consentito lo stacco di robuste cedole da parte delle pochissime grandi famiglie del nostro Paese, il primo rilevante impegno cui è stato sottoposto il Parlamento è stato - guarda un po' - il diritto di successione. Tutti gli altri atti hanno avuto lo stesso timbro: la difesa accanita della «roba» del primo ministro e delle condizioni per cui la «roba», ma anche il potere acquisito, non venissero messi in discussione dalle azioni giudiziarie in corso.
Pertanto, ogni richiamo a precedenti storici, dal bonapartismo al peronismo, ci sembra, tutto sommato, fuorviante. Fiuto, improvvisazione, uso disinvolto di sondaggi inattendibili, un'accorta gestione della comunicazione di massa: sono gli ingredienti fondamentali di una linea politica che ha il suo cuore negli interessi primordiali prima accennati, insieme a una rilevante capacità del leader di governare la congiuntura. Insomma, una gestione del potere dettata, esplicitamente e senza falsi pudori, da interessi privati, con tutte le conseguenze che comporta. E, sia ben chiaro, con tutti i rischi che implica: anche maggiori di quelli di un'involuzione reazionaria guidata e controllata. Tra essi, ed è il punto centrale della manifestazione del 14 settembre, lo stravolgimento della giustizia a favore di ricchi, potenti e malavitosi. E - vorremmo aggiungere - la totale indifferenza per come la macchina della giustizia perseguiti e mortifichi, quotidianamente, i senza nome e i senza avvocato, i povericristi e gli stranieri, i tossicomani e i non garantiti.
Ma una compagine e un leader siffatti non dovrebbero sgretolarsi davanti alle indubbie difficoltà economiche e alla vistosa inadempienza rispetto alle promesse elettorali?
Piano, piano. Sarebbe un doloroso errore sottovalutare il cemento unitario costituito dalla «roba»: sostanzialmente in suo nome, infatti, sono stati eletti decine di migliaia di amministratori e centinaia di parlamentari, che devono molto, quando non tutto, al premier. Per non parlare dello
spoil system (rispetto al quale, va detto, i governi dell'Ulivo non avevano brillato), che sta ultimando le «sostituzioni» nei più riposti gangli delle amministrazioni centrale, regionale e locale.
D'altra parte - è questo il punto più rilevante, a nostro avviso - il berlusconismo è soltanto l'edizione aggiornata del «guicciardinismo»: dunque, una storica e «antropologica» predisposizione a curare il
particulare, proprio, dei propri familiari e delle proprie famiglie politiche. Del resto, in un Paese che non ha avuto una rivoluzione borghese, ma, in compenso, la Controriforma, con la conseguente frammentazione della morale in una precettistica da confessionale e da economato, è difficile trovare afflati morali e slanci di dignità di classe, di appartenenza, di condivisione. Ma nei prossimi mesi, anzi già dalle prossime settimane, diverrà sempre più evidente - per strati sempre più ampi di cittadini ed elettori - che i soldi non ci sono: e che la «roba» non è «roba di tutti».
E i soldi non ci sono proprio. Non ci sono per la sanità (le regioni del Polo sono alacremente impegnate a reintrodurre ticket, tagliare assistenza e privatizzare); non ci sono per rispettare il «patticchio» con Cisl e Uil; non ci sono per il pubblico impiego e, segnatamente, per maestri e professori (figuriamoci per la ricerca!); non ci sono neanche per tutte le grandi opere pubbliche, con sommo dispiacere di quel disinteressato galantuomo del ministro Lunardi. E il ministro dell'Economia continuerà a promettere tagli alle tasse, ma è fatale che il suo berretto a sonagli sia destinato a diventare visibile agli occhi di tutti.
Sono già in corso, ovviamente, grandi manovre per ritoccare i parametri di Maastricht e di Amsterdam (cosa che non dispiace neanche a Francia e Germania). Ma anche questa partita, ove mai andasse in porto, potrà rendere, al più, un po' meno pesante il deficit: non, certo, risolvere i problemi in campo. Pagheranno gli strati sociali più esposti e, forse, i medio-bassi più di tutti. Tanto più che le «riforme» di sanità e scuola - non adeguatamente considerate e contrastate dall'opposizione - sono destinate a modificare, in senso esplicitamente classista, la composizione sociale della nostra comunità nazionale.
Questo potrebbe far cambiare idea a una fascia di elettorato, finora attratta da Berlusconi: ma non va dimenticato che quegli orientamenti ideologico-proprietari, prima ricordati, tendono a far premio, nel nostro Paese, su realtà e condizioni di vita. In ogni caso, non ci sarà cambiamento se non ci sarà un risveglio della società nel suo complesso e se non si mobiliterà il protagonismo dei cittadini. Questo si sta verificando ormai da alcuni mesi. Con ritardo, ma forse ancora in tempo, i partiti del centrosinistra lo stanno capendo. Pur auspicando una netta ripresa dei "nostri" partiti e una rinnovata capacità di darsi finalmente un programma comune, di proporlo agli italiani e di smetterla con le liti isteriche e le patetiche tentazioni di egemonia («egemonia de che?», verrebbe da dire), crediamo che, ancora per una fase non breve, la parola spetti ai movimenti, in primo luogo.
Piero Fassino ha detto qualcosa di simile quando ha affermato che l'Ulivo non può essere «una somma di partiti» e ha auspicato «il pieno coinvolgimento (…) di tutte quelle forze civiche e sociali». Si può, si deve, andare oltre: è urgente che i movimenti (a partire da quello «dei girotondi», se lo riterrà opportuno e utile) abbiano un ruolo nelle decisioni che riguardano l'Ulivo. E, dunque, è necessario che siano rapidamente superate strutture obsolete quali il coordinamento dei segretari di partito. Queste stesse ragioni ci indussero, un anno fa, a proporre (insieme a Franco Corleone, Lino De Benetti e a molti altri), il Movimento Ecologista: a «doppia tessera» e aperto a tutto il centrosinistra. E continuiamo caparbiamente a ritenere che le idee e le proposte ecologiste non possano essere evocate solo in corrispondenza dei vertici, come quello di Johannesburg. Il primo punto di vista «globale» sui problemi delle società complesse e sulle risposte alle loro domande, è venuto proprio dall'ecologia: e farebbero bene a ricordarlo quelle forze politiche il cui pensiero è fondamentalmente ancora orientato dai vari riformismi - socialista, cattolico, liberale - figli dell'Ottocento e oggi, forse, desolatamente inadeguati.

Johannesburg, regole eque sul debito invece di briciole
di Salvatore Cherchi

Sisifo, personaggio di spicco della mitologia greca, fu condannato alla fatica eterna di scalare la montagna con un pesante masso che, raggiunta la cima, inesorabilmente rotola giù. La metafora della fatica di Sisifo rappresenta bene quella sofferta dai Paesi del Terzo mondo, con il debito estero.
Molti di questi Paesi hanno più che rimborsato il capitale prestato e tuttavia il loro debito aumenta: è il debito perpetuo che mortifica diritto allo sviluppo e diritti umani essenziali.
A Johannesburg il governo italiano, non diversamente da quello degli altri Paesi ricchi, si è presentato con la classica mancia di un modesto condono mettendo da parte i contenuti più innovativi della legge sul debito estero dei Paesi in via di sviluppo, approvata nel luglio del 2000 sull'onda dell'attenzione suscitata dall'anno giubilare dedicato a questo drammatico tema.
La legge n. 209 del 2000 prevede in particolare, all'articolo otto, che «il governo, nell'ambito delle istituzioni internazionali, propone l'avvio delle procedure necessarie per la richiesta di parere alla Corte internazionale di giustizia sulla coerenza tra le regole internazionali che disciplinano il debito estero dei Paesi in via di sviluppo e il quadro dei principi generali del diritto e dei diritti dell'uomo e dei popoli».
La legge italiana riconosce così che quello del debito dei Paesi in via di sviluppo non è solo una questione di condoni più o meno graziosamente concessi dai Paesi creditori ma è anche una questione da affrontare con regole eque verso i Paesi debitori. Il che è come dire che quelle vigenti non lo sono o che sulla loro equità vi sono fondati motivi di dubbio. Deputata a pronunciarsi è la Corte internazionale di giustizia de L'Aja sulla base di specifici quesiti posti dall'Onu. Il parere della Corte è consultivo e quindi non vincolante, salvo che per istituzioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Dovere del governo italiano è chiedere in tutte le sedi che l'Onu dia avvio alla procedura.
Come si giunti ad una legge cosi innovativa?
Un'estesa corrente di giuristi e di economisti democratici, niente affatto assimilabili a estremisti terzomondisti, ha prodotto, alla scala internazionale, un'enorme mole di analisi economiche e giuridiche sulle cause e sulle conseguenze dell'esplosione del debito estero dei Paesi in via di sviluppo.
Il debito perpetuo si è formato in buona misura per effetto della lievitazione dei tassi d'interesse sino a livelli d'usura e per effetto della «magia» composto. Più in generale, l'evoluzione del debito esterno dei Paesi in via di sviluppo è conseguenza in larga parte di decisioni dei Paesi creditori. È da decisioni di questi Paesi e delle istituzioni finanziarie internazionali da essi dominate, che dipendono andamento dei tassi d'interesse, rating, liquidità internazionali, ragioni di scambio, imposizione di disastrose politiche recessive etc. La corruzione o l'incapacità di determinati regimi di Paesi del Terzo mondo non può oscurare le responsabilità dei Paesi ricchi e la sostanziale ingiustizia delle regole imposte.
L'ingiustizia consiste nel far ricadere su una sola parte, quella dei Paesi debitori, le conseguenze di decisioni assunte dal sistema dei Paesi creditori. Conseguenze gravissime: molti Stati pagano un servizio del debito superiore a quanto dedicato all'istruzione e alla salute. C'è un conflitto enorme fra debito e salvaguardia dei diritti umani riconosciuti in campo internazionele.
Anche il Parlamento europeo nei documenti approvati in due distinte riunioni con il Parlamento latino-americano, a Bruxelles e a San Paolo del Brasile, hanno riconosciuto l'ingiustizia di questa situazione pronunciandosi perché l'Onu si rivolga alla Corte Internazionale.
Perché possa esserci una decisione conforme delle Nazioni Unite occorre un consenso diffuso. Ottenere questo consenso non è agevole poiché si tratta di mettere in discussione interessi enormi e forti. D'altra parte la via della giustizia non è mai semplice. Johannesburg era una buona occasione per dire che il Parlamento di uno dei Paesi del G7 si è messo su questa via e per chiedere ad altri di farlo. Ma a questo governo può andare bene un po' di mance compassionevoli. Altra cosa è la giustizia.

Sviluppo sostenibile, il buco nero della cooperazione
di Valerio Calzolaio*

A Bali, il negoziato delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile sta andando proprio come era previsto, maluccio. Mancano solo due giorni, dedicati soprattutto all'intervento dei ministri; molti sono i punti controversi su documenti comunque poco incisivi. La bozza del presidente (the Chairman's Text), principale testo del vertice, un interminabile generico aggiornamento dell'Agenda XXI, dopo mesi di riunioni preliminari, è un documento di nove capitoli, con un numero di paragrafi cresciuto da 100 a 158 e di pagine via via lievitato da 21 a 78 solo nelle due settimane indonesiane, alla presenza di circa diecimila delegati e osservatori. Ci si è divisi in tre gruppi ufficiali di lavoro, in una decina di gruppi di contatto, in innumerevoli comitati informali e, con continui coordinamenti continentali o diplomatici, fra eventi collaterali e incontri per materie, si è tentato di definire un piano comune d'azione (the Bali Commitment) da sanzionare a Johannesburg. Per farsi un'idea, due giorni fa il coordinamento comunitario ha riassunto i principalissimi punti in discussione:, solo dal punto di vista dell'Unione Europea e, solo sul primo documento del presidente: sarebbero 42 quelli condivisi ma contestati da altri e 18 quelli avversati ma presenti e difesi da altri. Occorre tener presente che ancora ieri non circolava la bozza di dichiarazione politica che capi di stato o di governo dovrebbero firmare a Johannesburg (ne sono attesi oltre 120 secondo le ottimistiche previsioni sudafricane). Fra i punti di dissenso vi sono tutti gli obiettivi «quantificati» (nella misura o nel tempo): il programma per l'accesso alla tutela sanitaria entro il 2015, la percentuale di energie rinnovabili, l'adozione del principio di precauzione per i prodotti chimici entro il 2020, il parziale obiettivo di riduzione dei gas serra concordato a Kyoto, l'inversione di tendenza nella perdita di diversità e di risorse entro il 2010 e 2015 anche a livello dei singoli paesi, indicatori per lo sviluppo sostenibile. È soprattutto la delegazione statunitense a contestarli, con un'obiezione generale di realismo: sarebbe inutile continuare a darsi obiettivi che poi non vengono raggiunti, che nessuno è in grado di sanzionare (in qualche caso ci vorrebbero le forze armate), che contengono decisivi aspetti privati o comunque volontari. La contro-obiezione realistica ricorda che la presa di coscienza e l'assunzione di responsabilità sono alle nostre spalle: cosa, perché, dove, come sono elementi formalmente acquisiti, quel che non è chiaro è quando... prima che sia troppo tardi. Canada e Australia sono spesso alleati degli Usa; e la voce unica della Ue (o anche del G7) copre opinioni diverse, manovre, complesse dinamiche bilaterali, influenze continentali, interessi sopranazionali. È una dinamica nota, per certi versi ovvia quando si confrontano «governi» che hanno storia, legittimazione, rappresentanza (ed anche cultura, religione, conoscenza, competenza) interne diverse e diversi confini, legami, scambi verso l'esterno. E quando si è in presenza di una redistribuzione dei poteri, delle influenze, delle gerarchie segnati dal nuovo protagonismo americano (aggiornato dalla «recente» lotta al terrorismo), dalla crisi degli organismi di regolazione finanziaria e di molti stati «regolati», dalla globalizzazione finanziaria di capitali proprietà di ricchi in paesi ricchi. In tal senso, il tema scelto dall'Onu per il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile (a Bali si svolge la quarta ed ultima conferenza preparatoria), cioè il nesso fra povertà e ambiente, era tardivo ma giusto. Quello che in Occidente coniughiamo come economia-ecologia si traduce in un globale circolo vizioso: se si potesse estendere lo stesso sviluppo aumenterebbero in modo insostenibile inquinamenti che già sono fatti pagare soprattutto a chi è estraneo a quello sviluppo. Le povertà (vecchie e nuove) di cui parliamo sono «relative», dipendono dalle ricchezze, dagli sfruttamenti, dalle oppressioni, non da condizioni «naturali»; dipendono da scelte non da circostanze, da atti non da «stati». Il deserto non è condizione di povertà; la desertificazione (10 milioni di ettari ogni anno, per un costo di almeno 42 milioni di dollari) è un processo provocato e accelerato da azioni umane, che a sua volta provoca degrado e impoverimento (certo, soprattutto fra le comunità delle aree secche e aride, ma erano già tante e ormai c'è di mezzo l'intero Mediterraneo). Tema giusto, svolgimento sbagliato? Non credo si tratti di coerenza o di applicazione.
Emerge un limite strutturale del sistema delle Nazioni Unite (l'unico che abbiamo, da tenersi comunque caro): solo eccezionalmente è stato capace di impedire guerre e massacri; solo eccezionalmente è capace di imporre tutele e diritti. A Rio, dieci anni fa, finalmente aveva «scritto» che l'ambiente è premessa e condizione di ogni attività economica. Non tutti, non molti, quasi mai se ne è tenuto conto. Quelle attività continuano a prescinderne, in prevalenza. È davvero utile continuare a scrivere convenzioni e accordi (solo sull'ambiente ne esistono oltre 500), a convocare esperti e convegni? Se lo sono domandato anche a New York, constatando il sostanziale fallimento degli impegni di Rio e il preoccupante aggravarsi dei dati ambientali. Così, a Bali e poi in Sudafrica, si discuterà giustamente nella stessa agenda di salute e alimentazione, di fame e di sete, di educazione e di cooperazione. Importanti dichiarazioni di principio avranno finalmente l'opportuno contesto globale. La diplomazia del segretario Onu Kofi Annan è già al lavoro per il salvataggio dell'Earth Summit 2: sta cercando «ambasciatori», sta ipotizzando altri appuntamenti intermedi (a giugno in Brasile, ma ovviamente gli indonesiani vogliono chiudere a Bali), ha sintetizzato i temi con la sigla Wehab (acqua, energia, salute, agricoltura, biodiversità), conta sulla spettacolarità dell'evento per imporre qualche risultato. A Johannesburg vi saranno più giornalisti che delegati, per almeno dieci giorni l'ambiente sarà ovunque la prima notizia. Per ora non si andrà molto oltre. Inutile farsi illusioni. E, allora, è bene che coloro che seguono con attenzione e rispetto le trattative dei governi (a Bali, ma anche a Roma per la Fao) ma ne sono «fuori», corrano paralleli e cerchino di condizionarle individuando poche priorità di svolta: il protocollo di Kyoto e nuovi impegni di riduzione dei gas serra da controllare e sanzionare (ieri ha ratificato il Giappone, manca la Russia, poi entra in vigore!), il trattato sulle risorse fitogenetiche e nuovi vincoli alle modificazioni di organismi e al monopolio delle sementi, l'accesso all'acqua potabile e il sostegno diretto alle comunità povere di aree aride («prima della pioggia»), lo snellimento di patti e apparati, verifiche nazionali dei comportamenti coerenti. Il caso dell'Italia è clamoroso: finora nulla è stato fatto per realizzare e diffondere un bilancio trasparente dell'attuazione degli impegni presi a Rio, sia in termini formali che in termini sostanziali; mancano completamente la carta della natura e il piano per la biodiversità; non si attuano il piano contro la siccità (anche su scala euromediterranea) e il sistema degli indicatori ambientali; le esperienze di Agenda XXI regionali e locali sono lasciate a se stesse (anche nella concertazione internazionale); la delegazione in Indonesia non ha finora indirizzo politico governativo e il ministro che verrà è fuori da ogni precedente esperienza o da ogni coordinamento sui temi in discussione; già circola la voce che, se non ci sarà Bush, nemmeno Berlusconi andrà a Johannesburg. Eppure in questi giorni molti italiani stanno lavorando bene a livello diplomatico, nei gruppi di settore, negli organismi internazionali, anche presentando studi ed esperienze di qualità. Nel bilancio del governo Berlusconi c'è il buco della politica di cooperazione allo sviluppo sostenibile. Forse c'era da aspettarselo.
Presidenza gruppo Ds Camera
componente del comitato
"povertà-ambiente" dell'ONU

Johannesburg, la siccità di Berlusconi


Il premier italiano arriva al vertice sullo sviluppo e annuncia la «de-tax» e l'iniziativa di «e-government». «Roba vecchia», per Romano Prodi e gran parte degli italiani presenti. Germania e Francia lanciano un appello per la ratifica del protocollo di Kyoto. Il Canada: «Firmeremo entro l'anno»
MARINA FORTI
INVIATA A JOHANNESBURG
Non c'era l'armonia con la natura, né il Protocollo di Kyoto, né alcuno dei temi che hanno animato il vertice fino a oggi nel breve discorso pronunciato a Johannesburg da Silvio Berlusconi. Il presidente del consiglio italiano è venuto «personalmente» «per illustrare alcune proposte»: per dire (in un francese incerto) che l'Italia propone un'iniziativa di «e-government», un modello di informatizzazione dei sistemi di aministrazione pubblica, contabilità fiscale, catasto, servizi pubblici, che permetta la trasparenza e leggibilità dei conti pubblici «ma lasci intatte culture e tradizioni». Il «governo elettronico dovrebbe garantire la trasparenza» e il «buon governo», ha detto Berlusconi, che poi ha ripreso la sua «de-tax»: una tassa volontaria dell'1 o 2 per cento sui consumi voluttuari che i consumatori dei paesi ricchi potranno versare per «costruire una scuola» o cose del genere. La prima reazione alle proposte del leader italiano arrivano da Romano Prodi ed è ovviamente una bocciatura. Le parole di berlusconi per il presidente della Commissione europea npon sono «niente di nuovo, non vedo nessuna novità». Critiche anche da alcuni dei deuputati italiani presenti in Sudafrica:per il deputato Ds Valerio Calzolaio è stato un discorso «ripetitivo e deludente» che conferma «lo scarso ruolo avuto qui dall'Italia». E i parlamentari Verdi liquidano come «finanza creativa» la de-tax (respinta del resto anche da Bruxelles: troppo aleatoria). Quella di ieri è stata la giornata delle grandi parole, e delle ultime trattative. Nella metropoli sudafricana è cominciata infatti l'ultima fase del Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile, quella dei capi di stato e di governo. Prima di Berlusconi aveva esordito l'ospite, il presidente sudafricano Thabo Mbeki ha ripreso una frase più volte usata in questi giorni: l'eredità del sistema inumano dell'apartheid «è ancora visibile in questo paese» - ora «siamo determinati a sconfiggere l'apartheid globale» insito nel sottosviluppo e la povertà.

Mbeki parla di lotta all'apartheid globale, ma è stato il presidente francese Jacques Chirac a dare un tono alla giornata. Almeno, ha dato un certo orizzonte alla retorica. Ha parlato di «responsabilità collettiva» verso le crisi ecologiche del pianeta e però della responsabilità primaria dei paesi industrializzati, «primi per storia, potere, livello di consumi»: il principio della «responsabilità comune e differenziata» di fronte alle crisi ambientali era stato affermato dieci anni fa al Vertice della terra di Rio, ma è ancora oggetto di conflitto qui: i negoziati sulla «dichiarazione di principi» sono ancora aperti. Chirac ha ancora parlato di cambiamento del clima, «dovuto alle attività umane»: «da Johannesburg deve levarsi un appello a ratificare e mettere in pratica il Protocollo di Kyoto», il trattato che impegna i paesi industrializzati a tagliare le emissioni di gas serra responsabili dell'aumento della temperatura terrestre. «Pesante sarà la responsabilità di chi rifiuta di combattere il cambiamento del clima», ha ammonito Chirac. Al clima ha dedicato tutto il suo intervento il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, dopo aver ricordato le alluvioni di quest'estate in Germania, Austria e Repubblica Ceca, e in Asia e America: e ha fatto appello a ratificare al più presto il protocollo di Kyoto così che possa entrare in vigore entro la fine del'anno. Una buona notizia in questo senso è quella data dal premier canadese Jean Chrétien, che ha annunciato la ratifica del parlamento canadese entro l'anno. Ormai basta l'adesione della Russia a rendere effettivo e vincolante il Protocollo di Kyoto: ed è ben per questo che il presidente della Comissione europea Romano Prodi, anche lui intervenuto ieri, ha esordito con un appello al presidente russo Vladimir Putin: ratificare il trattato è suo interesse, anche perché con la Russia «avrà l'occasione di scambiare i permessi di emissione».

Il francese Chirac ha elencato altre questioni urgenti: «sradicare la povertà», e qui gli europei si fanno grande vanto di dare il contributo più alto agli aiuti allo sviluppo - quanto al resto, come hanno detto sia il presidente francese, sia il premier britannico Tony Blair e anche Prodi, si attestano sulla difesa delle decisioni prese a Doha e a Monterrey. Ovvero la promessa di aprire un po' di più i mercati del Nord alle esportazioni del Sud, rivedere i sussidi «che distorcono il libero mercato» come i sussidi agricoli... ma qui Chirac non è entrato in dettaglio. Ancora: il «buon governo» per il presidente francese significa «riconoscere che ci sono dei beni comuni globali e richiedono una gestione comune nell'interesse dell'umanità».

Mugabe conquista il vertice


Il capo dello Zimbabwe attacca i colonizzatori. Platea in visibilio
Robert Mugabe E'stato tra i capi di stato più appaluditi dall'assemblea: «Blair, tieniti la tua Inghilterra e lasciami il mio Zimbabwe». Ma l'opposizione attacca: «E' un maquillage per nascondere la realtà»

MA.FO.
INVIATA A JOHANNESBURG
Ha esordito con un vecchio slogan delle lotte di liberazione africane, il presidente dello Zimbabwe: «La terra, e ciò che ci sta sopra, appartengono al popolo». A sentire Robert Mugabe, ieri pomeriggio al Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile, era facile scambiarlo per un autentico difensore dell'Africa rurale: «L'accesso alla terra è fondamentale in un'economia agraria. Dunque è giusto che gli interessi dei più prevalgano su quelli di una cricca elitaria che ha buone connessioni con l'Inghilterra». Mugabe parlava ovviamente dell'esproprio di tenute agricole dei
farmers bianchi dello Zimbabwe, campagna lanciata un paio d'anni fa e arrivata a un'accelerazione nelle ultime settimane: il governo di Harare ha dichiarato di voler sgomberare 2.900 dei restanti 4.500 proprietari di tenute agricole commerciali - nonostante la Corte suprema abbia dichiararti illegali gli ultimi espropri. «Non stiamo parlando di deprivare nessuno della propria fattoria: ma una ciascuno, non 15 o 20, e questa non è una cifra a caso ma reale». Mugabe è tra i pochi capi di stato che abbia ricevuto applausi, nella sala dell'assemblea plenaria al Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile: quando ha detto, ad esempio, «abbiamo lottato per la terra, per la sovranità, l'indipendenza, siamo pronti a dare il nostro sangue per difenderla». L'Unione europea ha imposto sanzioni economiche allo Zimbabwe, e il Commonwealth ha deciso di sospendere la ex-colonia. «Non ci importa nulla delle sanzioni», Mugabe è partito all'attacco: «Non permetteremo a nessuno di interferire nei nostri processi interni. Tony Blair, tieniti la tua Inghilterra e lasciami il mio Zimbabwe» (ancora applausi, perfino in sala stampa). Ciascuno parla per il suo pubblico, e le parole di Mugabe hanno un certo appeal in Africa: anche perché la redistribuzione della terra resta incompiuta - e l'eredità coloniale non è un'invenzione. Nel mattino anche il presidente della Namibia, Sam Nujoma, aveva lanciato un'accusa alla Gran Bretagna: «I bianchi possiedono il 78% della terra in Zimbabwe», ha detto: «Qui in Africa meridionale abbiamo un grave problema, creato dai britannici. Qui c'è Tony Blair, è lui che ha creato la situazione in Zimbabwe», e «l'Unione europea deve togliere le sue sanzioni». Il premier britannico, intervenuto poco dopo Nujoma, non ha reagito. «Mugabe gioca la carta panafricana e la retorica anti- neocoloniale, ma è un maquillage per nascondere la realtà», commenta Ten Jaibiti, dirigente del Movimento per il Cambiamento Democratico - il maggiore raggruppamento di opposizione democratica in Zimbabwe. Accusa: «La cosiddetta riforma agraria è arbitraria. La maggioranza della popolazione è ridotta alla fame. L'aggressione ai diritti umani è generalizzata, le bande di Mugabe seminano il terrore».

La campagna di espropri di terre lanciata dal presidente dello Zimbabwe divide l'Africa. Sabato scorso lungo la marcia dalla township di Alexandra si leggevano cartelli inneggianti a Mugabe: nel Movimento dei Senzaterra sudafricani, è ovvio, l'esproprio di terre è guardato con fascino. Ma altri movimenti sociali pure radicali parlano di scelte populiste e antipopolari: «Mugabe ha danzato per vent'anni al ritmo del Fondo monetario e della Banca mondiale, ora lancia gli espropri per suoi interessi», aveva detto il leader del Forum contro le privatizzazioni, Trevor Ngwane. Ten Jaibiti taglia corto: «La campagna di espropri non c'entra nulla con la democrazia, né lo sviluppo o la ridistribuzione».

I Verdi: luci e ombre di Johannesburg


Male Bush e Berlusconi, bene Prodi, Chirac e Schröder. Di ritorno dal vertice di Johannesburg i Verdi tracciano un bilancio dei giorni trascorsi in Sudafrica e dei risultati raggiunti su ambiente e povertà. «E' stata un'occasione mancata», taglia corto Grazia Francescato con il portavoce Alfonso Pecoraro Scanio e Laura Cima. I tre parlamentari hanno preparato una pagella dei buoni e dei cattivi, sulla base degli impegni assunti. Prodi, Chirac, Schröder promossi per il loro impegno su Kyoto, tobin tax, sviluppo sostenibile e difesa dei poveri del pianeta. Così così per Cina, Giappone, Gran Bretagna e Russia, visto che il loro impegno si è limitato al protocollo di Kyoto. Un discorso a parte merita il Vaticano: apprezzate le sue posizioni sull'ambiente, ma contestate quelle su diritti delle donne e contraccezione. Berlusconi, Bush, Saddam Hussein e l'Opec, per contro, «costituiscono un'alleanza contro l'ambiente». Quanto a Berlusconi, i Verdi lo accusano di aver parlato del superfluo, di non aver toccato i 12 punti della mozione approvata dalla camera per Johannesburg e di aver glissato sulle questioni più importanti. Come la promessa, fatta sin dal G8 di Genova, di destinare l'1% del pil italiano ai paesi poveri. Berlusconi sarebbe andato a Johannesburg solo a proporre pc e software a paesi che non hanno nemmeno la corrente elettrica. Sugli aiuti ai paesi poveri i Verdi annunciano battaglia: presenteranno un emendamento alla finanziaria che impegni il governo a destinarvi lo 0,39% del pil nel 2003, lo 0,70 nel 2004 e l'1% nel 2005. Pecoraro Scanio ha anche chiesto che il governo riferisca in parlamento su come intende mantenere i target di Kyoto.

Il bilancio finale non è positivo. Se, come dice Francescato, quello di Stoccolma (1972) era stato il vertice dell'allarme e della speranza e quello di Rio (1992) dell'azione, questo sudafricano è stato il vertice dell'«occasione mancata»: perché solo Kyoto non basta e perché è venuto meno l'obiettivo di definire azioni e target precisi e misurabili, come per le fonti di energia rinnovabili. (l.g.)

Guai nucleari? Tutta colpa degli operai


In Giappone nuovo scandalo al vertice del colosso elettrico Tepco per gli incidenti nelle centrali atomiche
PIO D'EMILIA
TOKYO
«La questione che si poneva era semplice. Ci mettiamo a riparare ogni piccola ammaccatura, ogni fessura dei reattori come impone la legge ma bloccando la produzione e facendo spendere miliardi di yen all'azienda, o lasciamo perdere, aumentando il fatturato e facendo contenti i dirigenti? Spesso i nostri dipendenti hanno optato per la prima opzione... quanto spesso? almeno in 29 casi, negli ultimi vent'anni... ma mai in caso di vera emergenza...». Dunque, tutta colpa degli operai, impiegati, ingegneri. Una vera e propria associazione a delinquere che, pur sapendo di violare la legge, ha omesso gli interventi e falsificato i rapporti in nome del dio profitto. E voi signori dirigenti, ne sapevate qualcosa? «Beh, certo, lo sapevamo. Ed è per questo che oggi dobbiamo assumercene le responsabilità, dimettendoci». Viene da ridere (e capita a molti giornalisti presenti alla conferenza stampa) se non ci fosse, ahimè, da piangere. Non stiamo parlando di falso in bilancio di una fabbrichetta di tondini di ferro, o di una banca che nasconde le sue sofferenze per tirare avanti ancora un po'. Stiamo parlando della Tepco, quarta società elettrica del mondo per fatturato, che in Giappone fornisce energia (un terzo della quale nucleare) a circa la metà della popolazione. E a raccontare l'allegra gestione della terza potenza nucleare (per uso pacifico) del mondo non è un sindacalista pentito, ma Nobuya Minami, ex manager di stato paracadutato al vertice dell'azienda dopo la privatizzazione e che ieri, finalmente, si è dimesso insieme a tutto il vertice della Tepco.

Un vertice eccellente, vale la pena di ricordare, perché nel gruppo c'era anche tale Hiraiwa, già presidente della Confindustria giapponese. Il quale , intrattendendosi con i giornalisti, da buon imprenditore spiega nei dettagli la faccenda, come si trattasse di ortaggi o componenti elettronici. «Sospendere per un giorno la produzione di un reattore da un milione di kilowatt può costare fino a 100 milioni di yen (750 mila euro,
ndr), inoltre occorre garantire comunque la fornitura di energia ai clienti, a costi aggiuntivi. Per riparare anche la più piccola scalfittura, occorrono due o tre settimane. Per non parlare di interventi più importanti, come la sostituzione delle sartie interne. Dieci miliardi di yen, chiusura per 10 mesi...». E allora? E allora operai, tecnici e dirigenti hanno sempre lasciato correre.

«Tutto sommato non è mai successo niente di grave, stiamo parlando di interventi minori, comunque programmati, che abbiamo semplicemente rimandato...» racconta Toshiaki Enomoto, uno degli ex vicepresidenti, che fa uno sforzo di memoria in diretta tv e ricorda: «Una volta mi riferirono di una piccola scalfittura nella sartia di un reattore, ma mi garantirono che avrebbe tenuto sino alla prossima ispezione. Insieme decidemmo di non menzionare il fatto nel nostro rapporto alla Commissione nazionale per la Sicurezza».

La Giappone spa funziona così. Gerarchie di ferro e un sindacato morto e sepolto producono questa micidiale omertà. «Per noi non cambia nulla - spiega al
manifesto Yayoi Matsui, storica leader del movimento antinucleare - abbiamo sempre denunciato l'inaffidabilità dei sistemi di controllo e di sicurezza. Ma non ci fa certo piacere che ciò che spesso semplicemente temevamo è stato confermato dai dirigenti della Tepco».

E adesso? Nulla, o quasi. Nonostante l'opinione pubblica - spinta dai giornali che improvvisamente sono diventati tutti antinucleari - sia ovviamente indignata e legittimamente preoccupata, il governo di Koizumi ha disposto un'immediata ispezione di tutte le centrali ed i reattori incriminati (8, almeno ufficialmente, su 52 attualmente in funzione). Ma lasciando incredibilmente alla discrezione delle aziende la decisione se sospendere o meno la produzione. Ier l'altro la Tepco ne ha chiuso uno, nella centrale di Fukushima. Improvvisamente, dalla crepa da tempo esistente e non denunciata, è fuoriscito del liquido radioattivo. «Nulla di preoccupante, nessun pericolo per la popolazione», si sono affrettati a scrivere in un comunicato. Ma la gente è uscita per strada e ha circondato la centrale.

Tra i «girotondisti», il governatore di Fukushima, uno che negli anni ha cambiato opinione più volte (da convinto antinuclearista si era fatto convincere dal governo centrale e dalla Tepco, in cambio di ingenti investimenti pubblici). «Come sapete, ho sempre avuto molti dubbi sull'energia nucleare. Ma ora penso che abbiamo passato il limite. Per quanto mi riguarda, dovremmo chiuderle tutte, e che non se ne parli più». A meno di improbabili piroette, tuttavia, non sembra che il governo centrale sia di questo avviso.

Il Giappone, dove l'energia nucleare copre già più di un terzo del fabbisogno di energia elettrica, ha anche un programma di ulteriore rafforzamento del settore. Entro il 2015, infatti, agli attuali 52 reattori (più o meno) in funzione, se ne dovrebbero aggiungere altri 16. E che fine faranno i dirigenti? Verrano denunciati, incriminati, condannati? Macché. Di alcuni non si sa ancora, ovviamente. Ma l'ex vicepresidente Enomoto verrà promosso. Diventerà presidente dell'Ente per lo Sviluppo del Programma Spaziale.

 

 

 

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