Dopo la conclusione
dell'incontro mondiale sull'ambiente in Sud Africa
Il
vertice dei buoni principi
Nei documenti finali nessun accenno a obiettivi
verificabili e scadenze. The Ecologist: «Johannesburg,
un passo indietro per la sostenibilità ambientale. Un
fallimento».
MARINA
FORTI
INVIATA A JOHANNESBURG
La domanda è ovvia: è stato un fallimento, o c'è
qualcosa da salvare nel Vertice mondiale sullo sviluppo
sostenibile? Per dieci giorni nella metropoli sudafricana
di Johannesburg - un'area urbana che con Pretoria e tutta
la regione del Gauteng fa metà della
popolazione sudafricana - si sono
riuniti i delegati di 190 paesi: circa 40mila persone in
rappresentanza di governi, forze sociali, parlamentari,
organizzazioni non governative, movimenti sociali,
imprese (e agenzie pubblicitarie). Qualcuno qui commenta
che un anno dopo l'11 settembre 2001 e la lunga guerra in
Afghanistan, con la minaccia di una nuova guerra in Iraq,
è sempre meglio un dibattito sullo sviluppo sostenibile
targato Nazioni unite che il sibilo dei
cacciabombardieri. E poi, mentre l'unica superpotenza
mondiale si sente «la nuova Roma», non è secondario
leggere in una Dichiarazione firmata da 190 paesi che
«il multilateralismo è il futuro». E però, mentre gli
addetti raccolgono carta da riciclare e smontano la
show-room Bmw nella piazzetta di Sandton, bisognerà
misurare in qualche modo il Vertice di Johannesburg,
oltre che sui fischi al segretario di stato Usa Colin
Powell. Lo stesso segretario generale dell'Onu Kofi Annan
ha ricordato che «questa non è Rio»: dieci anni dopo
il Vertice della Terra, questo doveva essere il vertice
della messa in pratica. Non lanciare nuovi concetti e
principi, ma realizzare l'Agenda 21 per lo sviluppo
sostenibile.
Ebbene? Dopo dieci giorni di lavoro le delegazioni
governative hanno approvato un «piano d'azione» e una
«dichiarazione politica» (è la prassi di ogni
conferenza e vertice dell'Onu). Due documenti deboli, che
hanno raccolto le critiche delle organizzazioni non
governative ambientaliste o di sviluppo, dei movimenti
sociali, e di molti governi.
Critiche più o meno drastiche. Per The
Ecologist, voce autorevole
dell'ambientalismo (e della critica allo sviluppo), è
una bocciatura netta: «Il vertice di Johannesburg è
fallito», dice Simon Retallack: «Il Piano d'azione
contiene pochissimi obiettivi e scadenze per l'azione
concreta, non è legalmente vincolante, non prevede
meccanismi per chiamare i governi a praticare quanto
avranno firmato - al contrario dei negoziati sul
commercio nell'ambito del Wto, che sono legge». Le
organizzazioni ambientaliste internazionali invece
analizzano punto per punto, criticano e soppesano, ma non
osano parlare di fallimento.
Dal punto di vista ambientalista, non c'è dubbio:
«questo vertice rappresenta un passo indietro per la
sostenibilità ambientale», come dice il commentatore di
The Ecologist: e
come quasi tutti qui ne attribuisce la responsabilità
maggiore all'«ostruzionismo degli Stati uniti», che
hanno sistematicamente rifiutato ogni riferimento a
obiettivi misurabili e a date, oltre che alla mancanza di
volontà politica dell'Unione europea. Sulle grandi
questioni ambientali il Piano d'azione approvato a
Johannesburg è nel migliore dei casi innocuo - o
addirittura una «Rio meno 10». Non pone obiettivi circa
il passaggio alle energie rinnovabili (l'Unione europea
in principio voleva scrivere un impegno a farne il 10%
delle fonti primarie d'energia entro i prossimi quindici
anni: ma poi ha ceduto alle pressioni di Usa e alcuni
grandi paesi produttori di petrolio). Incoraggia
vagamente l'uso di energie pulite, ma vi include anche le
grandi centrali idroelettriche - le megadighe contro cui
sono mobilitati un po' ovunque ambientalisti e
popolazioni locali. Circa la biodiversità, il Piano
d'azione fa semplicemente appello a «ridurre in modo
significativo» la perdita di varietà biologica sul
pianeta: è molto più precisa la Convenzione sulla
biodiversità approvata a Rio dieci anni fa, che ha poi
dato luogo a un trattato sulla biosicurezza approvato
all'inizio del 2000. Sul traffico di sostanze tossiche il
documento di Johannesburg è più vago di trattati
(vincolanti) già in vigore, tra cui quello sulle
sostanze «inquinanti organiche persistenti» (Pop).
Parla di difendere l'ambiente marino, ma non detta
obiettivi. E' stato molto sbandierato l'impegno a
dimezzare entro il 2015 il numero di persone che non
hanno accesso all'acqua potabile - ma le promesse non
costano nulla, e il piano d'azione non dice molto sulla
gestione dei bacini acquiferi...
Le grandi crisi ambientali non sono state al centro del
Vertice di Johannesburg, se non come richiamo retorico.
Del resto, molti paesi - tra cui quello ospite, il
Sudafrica - volevano mettere al centro piuttosto lo
«sviluppo» e la lotta alla povertà, e così è stato.
Anche da questo punto di vista però il bilancio è
magro. Le cause strutturali di povertà e diseguaglianze
non sono analizzate. I sussidi agricoli non sono stati
toccati: milioni di dollari in sussidi ai farmers del
Nord, che mettono fuori mercato le produzioni del Sud -
ha fatto il giro del mondo la frase pronunciata qui da un
funzionario della Banca Mondiale, «in media una mucca
del Nord è sovvenzionata tre volte il reddito di un
cittadino africano». Giustificato il commento di Oxfam,
una delle più grandi Ong internazionali per lo sviluppo:
«Hanno dato un po' di briciole ai poveri». Nessun
impegno alla cancellazione del debito - salvo promesse di
questo o quel governo a fare piccoli condoni. Nessuno ha
parlato di meccanismi per stabilizzare i mercati delle
materia prime. Nessun nuovo impegno finanziario da parte
dei paesi ricchi: salvo il rifinanziamento per 2,9
miliardi di dollari in 4 anni del Gef, il Fondo globale
per l'ambiente (gestito dalla Banca mondiale) che doveva
finanziare progetti di «sviluppo sostenibile». Certo,
molti governi hanno annunciato «partnerships», progetti
volontari in cui impegneranno manciate di milioni di
dollari. Ma chi potrà controllare cosa e quanto sarà
fatto, o se quei soldi non saranno semplicemente stornati
da stanziamenti già approvati e ora rivenduti come
novità.
L'orizzonte generale resta quello degli accordi
dell'Organizzazione mondiale del commercio di Doha e del
Vertice sulla «finanza per lo sviluppo» di Monterrey, o
di partnership per lo sviluppo come la Nepad africana:
così afferma la Dichiarazione politica. Quella
dichiarazione però dice anche che «la globalizzazione
ha aggiunto nuove sfide» alle crisi ecologiche del
pianeta e alle diseguaglianze sociali, che i suoi «costi
e benefici sono disegualmente distribuiti»: non era mai
stato scritta nero su bianco una critica alla
globalizzazione. I principi generali che avevano segnato
il Vertice di Rio hanno resistito - sebbene a fatica. Il
piano d'azione fa riferimento al principio di
precauzione, anche a volte definito «approccio» invece
che «principio». E' riaffermato il principio della
«responsabilità comune e differenziata». Il Protocollo
di Kyoto entrerà presto in vigore, nonostante gli Stati
uniti che sono apparsi assai isolati a Johannesburg.
L'orizzonte resta multilaterale, l'unilateralismo
americano qui sembrava isolato. Non è molto, ma è
sempre meglio che il sibilo di un cacciabombardiere.
Al vertice di Johannesburg
continua invece lo scontro
sulle barriere doganali all'export dei Paesi poveri
Ambiente,
accordo con gli Usa
sul bando ai pesticidi
Stop ai prodotti chimici entro il 2020
Le Ong: "Ma l'accordo è troppo vago"
dal nostro inviato ANTONIO CIANCIULLO
JOHANNESBURG - Il secondo
giorno di negoziato ha sciolto un paio di nodi non
secondari. Sull'inquinamento chimico e sulla pesca gli
Stati Uniti hanno fatto marcia indietro accettando due
date su cui fino a ieri non c'era accordo: entro il 2020
si dovranno eliminare i prodotti chimici che hanno un
pesante effetto sulla salute degli uomini e degli
ecosistemi ed entro il 2015 gli stock ittici depauperati
dalla pesca selvaggia dovranno tornare a livelli
accettabili.
L'intesa è stata raggiunta al Vienna setting, la
ristretta sala di regia della conferenza sullo sviluppo
sostenibile che altrimenti, con i suoi 15 mila delegati
di 190 paesi, sarebbe ingovernabile. Nei prossimi giorni
l'accordo dovrà essere ratificato dall'assemblea
plenaria, ma essendoci già il sì di Stati Uniti,
Canada, Giappone, Australia, Unione europea e Paesi in
via di sviluppo non si prevedono sorprese. In realtà si
tratta di un passo avanti più dal punto di vista
politico che per le conseguenze immediate. La formula
adottata appare priva di vincoli reali e non contiene un
elenco delle sostanze da mettere fuori legge: è una
cornice che serve a coordinare ed estendere misure già
adattate per difendere lo strato di ozono (i prodotti a
base di cloro) e per tutelare la salute dei consumatori
(pesticidi, ddt, diossine). "La dizione è
ambigua", sostiene Legambiente, "perché si
limita ad affermare che le sostanze chimiche "vanno
usate e prodotte in modo che non provochino danni
significativi alla salute umana e all'ambiente". La
vaghezza conferma il rischio che il summit si concluda
con dichiarazioni di principio non vincolanti". Ma
d'altra parte è pur sempre un paletto destinato ad
influenzare il sistema legislativo dei singoli paesi. E
ad incidere su uno dei nodi ancora non sciolti dal
vertice di Johannesburg: il rapporto tra misure di tutela
ambientale, libertà di commercio e lotta contro la
povertà.
Ieri è cominciata a circolare una
bozza in cui si fa riferimento alle partnership
commerciali che gli Stati Uniti indicano come soluzione
dei problemi ambientali ma si aggiunge il riferimento a
un "intervento responsabile" da parte delle
multinazionali, formula che secondo le associazioni
ambientaliste dovrebbe essere trasformata nella richiesta
di una "completa trasparenza da parte delle
multinazionali".
Dietro queste schermaglie lessicali c'è il grande
scontro sull'agricoltura tra il Nord e il Sud del mondo.
Una battaglia carica di implicazioni ambientali visto che
l'agricoltura è già oggi responsabile del 70 per cento
dell'acqua consumata a livello globale e del 40 per cento
della terra utilizzata. Ed è destinata ad aumentare
ulteriormente la sua pressione sull'ambiente: secondo i
documenti distribuiti dalla Fao, entro il 2030 la domanda
mondiale di cibo crescerà del 60 per cento. Proprio in
un settore così fondamentale l'economia dei paesi poveri
resta intrappolata da una serie di barriere commerciali.
La prima è costituita dai dazi sulle merci provenienti
dai paesi non industrializzati: l'acquisto di una
bottiglia di vino di paesi come il Sud Africa, che in
questo campo si sono conquistati la qualità, è
scoraggiato dalla forte tassazione d'ingresso. La seconda
dai sussidi agli agricoltori dei paesi ricchi: una mucca
statunitense riceve il doppio dei finanziamenti di un
contadino africano.
Di fronte alla richiesta di un riequilibrio di questi
scompensi il fronte industrializzato non è compatto.
Nell'Unione europea, ad esempio, la Francia è
intenzionata a difendere ad oltranza i suoi agricoltori,
mentre altri paesi si pongono il problema di una modifica
della politica agricola comunitaria anche in funzione
dell'apertura ad Est. Una delle possibili soluzioni
consiste nel trasformare i sussidi alla produzione in
compensi riconosciuti agli agricoltori che, attraverso la
riconversione al biologico o la difesa dell'assetto
idrogeologico, svolgono un ruolo di difesa degli
equilibri ambientali.
(28 agosto 2002)
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Nel mondo oltre un milione di
persone ridotte in miseria
Altri 815 milioni sono in condizioni di malnutrizione
In
dieci anni la metà dei poveri
Johannesburg affronta il nodo fame
I poveri chiedono ai Paesi ricchi di tagliare i sussidi
all'agricoltura
ma l'intesa con Europa e Stati Uniti è difficile
JOHANNESBURG -
Un miliardo e 200 milioni di uomini e donne in miseria.
Ottocentoquindici milioni di persone malnutrite. Sono i
numeri, nudi e crudi, della fame e del sottosviluppo. Le
cifre spietate dietro le quali si celano i volti di chi
vive in Angola, Haiti, Afghanistan. Il vertice di
Johannesburg entra nel vivo e affronta il nodo
dell'agricoltura con l'obiettivo, tanto ambizioso quanto
difficile da raggiungere, di dimezzare entro dieci anni
il numero dei poveri sulla terra.
Ma per affrontare davvero il problema della fame e della
povertà i partecipanti al summit sudafricano devono
risolvere una difficile equazione: aumentare la
produttività delle terre coltivate, è vero, ma senza
compromettere l'ambiente. E' questa una delle sfida,
forse la principale, del vertice di Johannesburg.
Sul tema non c'è il disaccordo che invece divide Europa
e Stati Uniti in materia di ambiente ed energia. Anzi, su
agricoltua, finanza e commercio Vecchio e Nuovo
continente si ritrovano alleati in un difficoile
confronto con i Paesi poveri. Una delle richieste che
fanno le nazioni affamate a quelle più ricche è infatti
il taglio dei propri sussidi all'agricoltura, che sono un
oggettivo ostacolo alle esportazioni dei paesi in via di
sviluppo. Oggi i sussidi al settore ammontano a circa 300
miliardi di dollari l'anno, circa sei volte i 54 miliardi
di dollari attualmente sborsati in aiuti.
Per trovare un punto di
mediazione si parte da un documento negoziato nella
notte, che riprenderebbe alcuni dei principi contenuti
negli accordi di Doha (Barhein) e a Monterrey (Messico).
A Doha, dove è stato avviato il nuovo round per la
liberalizzazione del commercio, i paesi del Wto
(Organizzazione mondiale del commercio) hanno già
concordato di pervenire a una sostanziale riduzione ai
sussidi agricoli e di migliorare i criteri per quelli
alla pesca.
Accordo comunque difficile, come dimostra la dura presa
di posizione del 'Gruppo dei 77', organismo che raggruppa
i paesi in via di sviluppo: "Non cederemo - ha detto
Ana Elisa Osorio, ministro dell'ambiente del Venezuela -
finché non avremo trovato un compromesso sui sussidi
agricoli". E la stessa Osorio ha criticato Unione
Europea e Stati Uniti, accusandoli di "non
rispettare le regole del gioco".
Nella seconda giornata del vertice la Fao ha ricordato
che "L'agricoltura sostenibile e lo sviluppo rurale
sono la base per il successo alla lotta contro la fame e
la povertà", anche perché la miseria, unita a una
bassa produttività agricola e al degrado delle risorse,
può formare un circolo vizioso difficile poi da
aggredire. Se non si corre ai ripari, insomma,
l'obiettivo del dimezzamento del numero dei poveri entro
il 2012 resterà lettera morta.
Il tentativo è dunque quello di uscire dalla logica
degli aiuti e della semplice cooperazione, ma di
inaugurare invece una strategia globale in grado di
modificare il modello di sviluppo, che non potrà
"non essere sostenibile - come ricorda ancora la Fao
- visto che l'agricoltura ha un impatto significativo
sulle risorse naturali e l'ambiente, incidendo per il 70%
sull'uso dell'acqua e per il 40% della terra".
Mentre la seconda giornata 'ufficiale' si dedica ad
agricoltura, finanza e commercio, dietro le quinte si
cerca anche di sciogliere il nodo del protocollo di Kyoto
sull'emissione di gas serra, che da tempo divide Stati
Uniti ed Europa. Secondo indiscrezioni si starebbe
lavorando ad un accordo in base al quale gli europei
sarebbero disposti a cancellare il paragrafo che fissa
l'entrata in vigore del protocollo di Kyoto
"preferibilmente" entro il 2002. In cambio gli
Usa (che non hanno mai ratificato l'accordo),
accetterebbero almeno un target fisso del 14% entro il
2010 per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili.
(27 agosto 2002)
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Sull'acqua nuovo scontro tra
Stati Uniti e Unione europea
A Johannesburg si discute anche di commercio e finanza
Ambiente,
la sete del pianeta
al centro dei lavori del vertice
JOHANNESBURG -
Dopo i passi avanti sulla messa al bando dei pesticidi e
sulla pesca, il vertice mondiale sullo sviluppo
sostenibile si concentra sulle risorse idriche. Uno dei
temi più spinosi, considerando che secondo le stime
dell'Onu oltre un miliardo di persone non hanno ancora
accesso ad acqua potabile, che quasi due miliardi e mezzo
di abitanti del pianeta vivono in condizioni
igienico-sanitarie insoddisfacenti e che le malattie
connesse a queste carenze fanno ogni anno 2,2 milioni di
morti. La scarsità d'acqua è aggravata dalla
desertificazione, dalla deforestazione e dalla crescita
degli insediamenti urbani. In questa situazione,
l'ambizioso obiettivo del summit di Johannesburg è
individuare strumenti che riducano della metà il numero
degli "assetati" entro il 2015. Un'impresa che
secondo la Banca mondiale costerebbe 25 miliardi di
dollari l'anno. Come già è accaduto prima e dopo il
vertice per varie questioni, un programma di questo tipo
incontra l'opposizione di alcuni paesi industrializzati,
primi fra tutti gli Stati Uniti e l'Australia.
Ai lavori sulle risorse
idriche, che si tengono in assemblea plenaria, si
aggiungono quelli sul commercio e la finanza che si
svolgono parallelamente nelle stanze del 'Vienna setting'
e del 'gruppo di contatto', dove sono riuniti diplomatici
ed esperti delle delegazioni dei 190 paesi presenti a
Johannesburg, per tentare di avvicinare le posizioni.
"L'atmosfera dei colloqui è abbastanza buona",
ha riferito ai giornalisti John Ashe, ambasciatore di
Antigua, che conduce i negoziati per conto dell'Onu su
questo dossier molto 'caldo'.
Ashe ha aggiunto che restano da risolvere due importanti
questioni: i sussidi considerati distorsivi per il
commercio (come quelli, secondo i paesi in via di
sviluppo, che i paesi ricchi destinano all'agricoltura) e
la globalizzazione, sulla quale si confrontano filosofie
diverse. I paesi del G-77 mettono l'accento sulle sfide
di questo processo e i timori che possa ampliare anziché
ridurre le disuguaglianze, i paesi ricchi puntano sul
discorso delle opportunità offerte dalla
globalizzazione. Ashe non ha escluso che le due questioni
vengano rinviate ad "un altro livello", quello
politico rappresentato dai ministri.
Sull'acqua, è scontro aperto tra Unione europea e Stati
Uniti. "Per noi - ha detto il ministro danese
all'ambiente Hans-Chrystian Schmidt, che guida la
delegazione della Ue - è importante fissare obiettivi
precisi su entrambe le questioni, che sono estremamente
legate". Gli americani hanno invece ribadito la loro
contrarietà a indicare obiettivi sulla sanità di base:
"Non salvano i bambini", ha affermato John
Turner, nel briefing quotidiano con la stampa. Gli Usa
pongono piuttosto l'accento sugli investimenti per
finanziare progetti concreti e sulle partnership da
creare. "Non possiamo tollerare più a lungo - ha
assicurato Turner - che milioni di bambini muoiano di
malattie come la malaria".
La delegazione Usa ha presentato a Johannesburg progetti
per l'Africa per un valore di 4,5 miliardi di dollari.
Per l'acqua, Washington ha annunciato una disponibilità
di investimento di 970 milioni di dollari nei prossimi
tre anni in grado, secondo le sue stime, di mobilitare
progetti per un valore totale di 1,6 miliardi di dollari,
in partnership con il Giappone e altri paesi.
(28 agosto 2002)
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Da Shareworld, il villaggio
del controvertice,
oggi partirà un lungo corteo, tra la rabbia
La
marcia dei senza terra
"Dateci cibo e lavoro"
E dall'Italia cala il pessimismo: "Accordi
difficili"
di STEFANIA DI LELLIS
JOHANNESBURG
- Shareworld, si chiama la città dei senza terra. Ma
l'hanno già ribattezzata Sherwood, tanto per rendere
chiaro il progetto: togliere ai ricchi e redistribuire ai
poveri. Un villaggio stile western messicano, nato come
parco di divertimenti alle porte di Johannesburg, poi
trasformato in set cinematografico. Ora però qui va in
scena la protesta: da una settimana in questo incongruo
rudere da film sono accampati migliaia di braccianti
disoccupati, donne, vecchi e ragazzini che hanno
celebrato il loro controvertice sul sottosviluppo, al
grido di "Terra, cibo e lavoro".
Stamattina marciano sul Sandton Convention Center, la
cittadella di specchi e cemento dove i big del mondo
litigano sulla ricetta del progresso. Una formula che
appare ancora non chiara, lo ha riconosciuto anche Silvio
Berlusconi. Confermando la sua partenza per il Sudafrica,
il presidente del Consiglio italiano ha detto:
"Speriamo che al summit si trovi un accordo sui
principi, ma ci sembra difficile che ciò avvenga".
I senza terra sfileranno per nove chilometri guardati a
vista da poliziotti, elicotteri, cani anti-esplosivo e
guardie a cavallo. Al loro fianco veterani di Seattle e
di Genova e i movimenti più radicali del Sudafrica
accomunati dal no a privatizzazioni e Occidente e riuniti
sotto il cappello dell'Indaba (conferenza, in lingua
zulu). Partono alle nove da Alexandria, una delle
township più degradate. Stessa casella di via, ma
appuntamento due ore più tardi, per il corteo dei
"moderati", le organizzazioni non governative
che in questi giorni hanno discusso al Nasrec, il centro
messo a disposizione dall'Onu.
Le previsioni sulle presenze
totali oscillano tra i 20 e i 40 mila partecipanti. Il
governo ha avvertito che la linea sarà quella della
"tolleranza zero" contro ogni violazione della
legge e ha proibito ai ministri di unirsi alla piazza.
"Vogliamo consegnare al presidente Mbeki il nostro
messaggio e ci riusciremo", proclama Manghauso
Khubheka, coordinatore nazionale dei Landless People.
"Siamo stanchi di promesse. E' ora che le fattorie
dei bianchi vengano ridistribuite. Sì, come in Zimbabwe
se necessario" . Il verbo di Manghauso infiamma la
platea. Migliaia di mani applaudono nella "Steve
Biko Hall", l'arena che a Shareworld è stata
intitolata al martire anti-apartheid. "Bayavuya
bantu bakko", "la tua gente è felice",
intona una voce e il popolo dei senza terra canta e
balla. Sono arrivati qui da tutte le regioni del
Sudafrica, hanno portato materassi e coperte. Al resto ha
pensato "un network internazionale di donatori filo
no global", spiega Samantha Hargreaves, una delle
portavoci della National Land Committee.
Il "resto" sono i pullman parcheggiati qui
fuori che accompagneranno i manifestanti al corteo di
oggi e poi li riporteranno a casa. Sono le migliaia di
scodelle con il riso e la carne che escono come per
miracolo dalla stanzetta in cui quando qui si girano film
si vestono gli "stuntmen". Sono le magliette
rosse che tutti indossano. E sono anche i professori che
danno lezioni di "lotta e consapevolezza".
Nell'aula "Julius Nyerere", per esempio, si
affrontano i temi in discussione al summit dell'Onu.
L'insegnante numero uno snocciola dati a un uditorio
attentissimo di contadini della valle del Limpopo.
"Un occidentale consuma 500 litri d'acqua al giorno
- dice - un abitante di un paese in via di sviluppo ha
invece a disposizione meno di venti litri d'acqua, di
solito sporca". L'insegnante numero due traduce in
zulu.
In un angolo un gruppo di trozkhisti distribuisce
volantini anti-Israele. Alle loro spalle la sala
"Palestina libera". Tra gli eroi neri cui sono
intitolate le stanze manca il nome di Mandela. Ai senza
terra non va giù che Madiba non abbia reso realtà il
sogno di una fattoria per tutti. "Appena il 2% dei
campi è stato redistribuito dopo il '94",
ricordano. Non è piaciuta poi neanche la partecipazione
dell'ex presidente al Vertice. "Dicono di lavorare
tutti per il futuro, ma il futuro a ogni conferenza
rimane lontano. E invece noi abbiamo fame ora".
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Il movimento dei senza terra e
altre associazioni
hanno portato in strada le loro preoccupazioni
Johannesburg,
contro il summit
il corteo colorato dei 20 mila
JOHANNESBURG -
Un fiume umano colorato e agrodolce, con musica e slogan,
ha unito oggi per poche ore Alexandra, la baraccopoli
nera simbolo dell'apartheid, a Sandton, la parte ricca di
Johannesburg, dove si svolge il Summit sulla Terra.
Migliaia di persone hanno raccolto l'invito a protestare
lanciato dal Movimento contro la privatizzazione (Afp) e
dall'Indaba, il movimento africano dei senza terra, e da
altre decine di associazioni. Anche le Organizzazioni non
governative (Ong), presenti in massa al Summit, hanno
promosso una loro marcia, confluita poi in quella
principale. In tutto, secondo stime della polizia, hanno
manifestato in 20 mila. Secondo gli organizzatori,
invece, hanno marciato 40 mila persone.
Quale che sia la cifra esatta, l'effetto è stato un
grande fiume rosso (questo il colore dominante) che ha
attraversato la baraccopoli di Alexandra come un'allegra
marcia nuziale. Nessuno scontro è stato segnalato, ma
secondo gli organizzatori sei persone sono state
arrestate. Le misure di sicurezza sono state imponenti.
Decine di agenti schierati lungo il percorso, elicotteri
volteggianti in cielo e, a poche centinaia di metri dal
luogo del raduno, anche quattro carri armati, serviti
però come punti di osservazione per reporter e
fotografi.
In testa al corteo, anche un
veterano della lotta anti apartheid, Dennis Brutus.
"Questo Summit è un salone per le cause dei
ricchi", ha denunciato. Centinaia di donne africane,
con le magliette rosse dell'Indaba con su scritto
'Lavoro, cibo, terra', hanno cantato e ballato senza
interruzione, sotto un sole cocente, rivendicando il
diritto a vivere in case con acqua e luce elettrica.
"Venite a vedere dove viviano", è stato
l'invito di Elisabeth, 45 anni, tutti vissuti ad
Alexandra. "Non abbiamo acqua ed energia. Siamo
ammassati in tanti in una stanza".
Nella baraccopoli, che si trova a otto chilometri da
Sandton, abitano 350 mila persone, molte delle quali
costrette a vivere dentro capanne di lamiera.
"Vogliono anche loro quello che vogliono tutti i
poveri del mondo: lavoro, case decenti, sanità,
educazione e acqua pulita", ha detto il presidente
del Sud Africa Thabo Mbeki, che ha parlato ad una
manifestazione organizzata dall'African national congress
(Anc), che si è tenuta contemporaneamente all'altra.
Circa 3 mila persone hanno raggiunto lo stadio di
Alexandra per ascoltare Mbeki.
Il presidente del Sud Africa ha lanciato un nuovo appello
ai leader presenti a Johannesburg perché il Summit
rappresenti un miglioramento delle condizioni di vita dei
poveri del mondo. Mbeki è stato chiamato in causa da
molti manifestanti del corteo per la politica troppo
blanda contro l'Aids.
Tra i tanti slogan scritti, urlati e cantati, molti
quelli contro Israele e il premier Ariel Sharon, accusato
di "fare meglio di Hitler". Inviti a boicottare
i prodotti israeliani sono stati lanciati dalle Donne in
nero: "Non aiutiamo chi ammazza i bambini". Un
cartello si appellava a Osama Bin Laden: "Bombarda
Sandton e ammazza Mbeki". L'immagine dell'uomo più
ricercato della Terra era impressa sulla maglietta
indossata da un bambino.
Ma la causa palestinese è stata perorata anche in altro
modo: "Cristiani, ebrei e musulmani uniti per i
diritti dei palestinesi", era scritto su adesivi del
Comitato di solidarietà alla Palestina. "Siamo qui
per dire a Sharon che la sua carriera politica deve
finire: se ne deve andare", ha detto il vice sindaco
di Nazareth, Ahmad Zoubi. Lo slogan più urlato dai
manifestanti, sia in spagnolo sia in inglese, è stato
"Il popolo unito marcerà vittorioso".
(31 agosto 2002)
|
07.09.2002
I movimenti prima di tutto
di Luigi Manconi, Gianni Mattioli, Massimo Scalia
Parteciperemo alla manifestazione di Roma del 14
settembre e vogliamo qui illustrarne le ragioni.
Partiamo da una considerazione: il primo anno del governo
Berlusconi ha rappresentato il tentativo di forzare e
distorcere l'ordinamento istituzionale e il tessuto
sociale del nostro Paese in una direzione che sembra
annunciare la formazione di una «democrazia
autoritaria».
Se, soprattutto negli atti iniziali, il nuovo governo ha
consentito lo stacco di robuste cedole da parte delle
pochissime grandi famiglie del nostro Paese, il primo
rilevante impegno cui è stato sottoposto il Parlamento
è stato - guarda un po' - il diritto di successione.
Tutti gli altri atti hanno avuto lo stesso timbro: la
difesa accanita della «roba» del primo ministro e delle
condizioni per cui la «roba», ma anche il potere
acquisito, non venissero messi in discussione dalle
azioni giudiziarie in corso.
Pertanto, ogni richiamo a precedenti storici, dal
bonapartismo al peronismo, ci sembra, tutto sommato,
fuorviante. Fiuto, improvvisazione, uso disinvolto di
sondaggi inattendibili, un'accorta gestione della
comunicazione di massa: sono gli ingredienti fondamentali
di una linea politica che ha il suo cuore negli interessi
primordiali prima accennati, insieme a una rilevante
capacità del leader di governare la congiuntura.
Insomma, una gestione del potere dettata, esplicitamente
e senza falsi pudori, da interessi privati, con tutte le
conseguenze che comporta. E, sia ben chiaro, con tutti i
rischi che implica: anche maggiori di quelli di
un'involuzione reazionaria guidata e controllata. Tra
essi, ed è il punto centrale della manifestazione del 14
settembre, lo stravolgimento della giustizia a favore di
ricchi, potenti e malavitosi. E - vorremmo aggiungere -
la totale indifferenza per come la macchina della
giustizia perseguiti e mortifichi, quotidianamente, i
senza nome e i senza avvocato, i povericristi e gli
stranieri, i tossicomani e i non garantiti.
Ma una compagine e un leader siffatti non dovrebbero
sgretolarsi davanti alle indubbie difficoltà economiche
e alla vistosa inadempienza rispetto alle promesse
elettorali?
Piano, piano. Sarebbe un doloroso errore sottovalutare il
cemento unitario costituito dalla «roba»:
sostanzialmente in suo nome, infatti, sono stati eletti
decine di migliaia di amministratori e centinaia di
parlamentari, che devono molto, quando non tutto, al
premier. Per non parlare dello spoil
system (rispetto al quale, va detto,
i governi dell'Ulivo non avevano brillato), che sta
ultimando le «sostituzioni» nei più riposti gangli
delle amministrazioni centrale, regionale e locale.
D'altra parte - è questo il punto più rilevante, a
nostro avviso - il berlusconismo è soltanto l'edizione
aggiornata del «guicciardinismo»: dunque, una storica e
«antropologica» predisposizione a curare il particulare,
proprio, dei propri familiari e delle proprie famiglie
politiche. Del resto, in un Paese che non ha avuto una
rivoluzione borghese, ma, in compenso, la Controriforma,
con la conseguente frammentazione della morale in una
precettistica da confessionale e da economato, è
difficile trovare afflati morali e slanci di dignità di
classe, di appartenenza, di condivisione. Ma nei prossimi
mesi, anzi già dalle prossime settimane, diverrà sempre
più evidente - per strati sempre più ampi di cittadini
ed elettori - che i soldi non ci sono: e che la «roba»
non è «roba di tutti».
E i soldi non ci sono proprio. Non ci sono per la sanità
(le regioni del Polo sono alacremente impegnate a
reintrodurre ticket, tagliare assistenza e privatizzare);
non ci sono per rispettare il «patticchio» con Cisl e
Uil; non ci sono per il pubblico impiego e, segnatamente,
per maestri e professori (figuriamoci per la ricerca!);
non ci sono neanche per tutte le grandi opere pubbliche,
con sommo dispiacere di quel disinteressato galantuomo
del ministro Lunardi. E il ministro dell'Economia
continuerà a promettere tagli alle tasse, ma è fatale
che il suo berretto a sonagli sia destinato a diventare
visibile agli occhi di tutti.
Sono già in corso, ovviamente, grandi manovre per
ritoccare i parametri di Maastricht e di Amsterdam (cosa
che non dispiace neanche a Francia e Germania). Ma anche
questa partita, ove mai andasse in porto, potrà rendere,
al più, un po' meno pesante il deficit: non, certo,
risolvere i problemi in campo. Pagheranno gli strati
sociali più esposti e, forse, i medio-bassi più di
tutti. Tanto più che le «riforme» di sanità e scuola
- non adeguatamente considerate e contrastate
dall'opposizione - sono destinate a modificare, in senso
esplicitamente classista, la composizione sociale della
nostra comunità nazionale.
Questo potrebbe far cambiare idea a una fascia di
elettorato, finora attratta da Berlusconi: ma non va
dimenticato che quegli orientamenti
ideologico-proprietari, prima ricordati, tendono a far
premio, nel nostro Paese, su realtà e condizioni di
vita. In ogni caso, non ci sarà cambiamento se non ci
sarà un risveglio della società nel suo complesso e se
non si mobiliterà il protagonismo dei cittadini. Questo
si sta verificando ormai da alcuni mesi. Con ritardo, ma
forse ancora in tempo, i partiti del centrosinistra lo
stanno capendo. Pur auspicando una netta ripresa dei
"nostri" partiti e una rinnovata capacità di
darsi finalmente un programma comune, di proporlo agli
italiani e di smetterla con le liti isteriche e le
patetiche tentazioni di egemonia («egemonia de che?»,
verrebbe da dire), crediamo che, ancora per una fase non
breve, la parola spetti ai movimenti, in primo luogo.
Piero Fassino ha detto qualcosa di simile quando ha
affermato che l'Ulivo non può essere «una somma di
partiti» e ha auspicato «il pieno coinvolgimento
(
) di tutte quelle forze civiche e sociali». Si
può, si deve, andare oltre: è urgente che i movimenti
(a partire da quello «dei girotondi», se lo riterrà
opportuno e utile) abbiano un ruolo nelle decisioni che
riguardano l'Ulivo. E, dunque, è necessario che siano
rapidamente superate strutture obsolete quali il
coordinamento dei segretari di partito. Queste stesse
ragioni ci indussero, un anno fa, a proporre (insieme a
Franco Corleone, Lino De Benetti e a molti altri), il
Movimento Ecologista: a «doppia tessera» e aperto a
tutto il centrosinistra. E continuiamo caparbiamente a
ritenere che le idee e le proposte ecologiste non possano
essere evocate solo in corrispondenza dei vertici, come
quello di Johannesburg. Il primo punto di vista
«globale» sui problemi delle società complesse e sulle
risposte alle loro domande, è venuto proprio
dall'ecologia: e farebbero bene a ricordarlo quelle forze
politiche il cui pensiero è fondamentalmente ancora
orientato dai vari riformismi - socialista, cattolico,
liberale - figli dell'Ottocento e oggi, forse,
desolatamente inadeguati.
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Johannesburg,
regole eque sul debito invece di briciole
di Salvatore Cherchi
Sisifo, personaggio di spicco
della mitologia greca, fu condannato alla fatica eterna
di scalare la montagna con un pesante masso che,
raggiunta la cima, inesorabilmente rotola giù. La
metafora della fatica di Sisifo rappresenta bene quella
sofferta dai Paesi del Terzo mondo, con il debito estero.
Molti di questi Paesi hanno più che rimborsato il
capitale prestato e tuttavia il loro debito aumenta: è
il debito perpetuo che mortifica diritto allo sviluppo e
diritti umani essenziali.
A Johannesburg il governo italiano, non diversamente da
quello degli altri Paesi ricchi, si è presentato con la
classica mancia di un modesto condono mettendo da parte i
contenuti più innovativi della legge sul debito estero
dei Paesi in via di sviluppo, approvata nel luglio del
2000 sull'onda dell'attenzione suscitata dall'anno
giubilare dedicato a questo drammatico tema.
La legge n. 209 del 2000 prevede in particolare,
all'articolo otto, che «il governo, nell'ambito delle
istituzioni internazionali, propone l'avvio delle
procedure necessarie per la richiesta di parere alla
Corte internazionale di giustizia sulla coerenza tra le
regole internazionali che disciplinano il debito estero
dei Paesi in via di sviluppo e il quadro dei principi
generali del diritto e dei diritti dell'uomo e dei
popoli».
La legge italiana riconosce così che quello del debito
dei Paesi in via di sviluppo non è solo una questione di
condoni più o meno graziosamente concessi dai Paesi
creditori ma è anche una questione da affrontare con
regole eque verso i Paesi debitori. Il che è come dire
che quelle vigenti non lo sono o che sulla loro equità
vi sono fondati motivi di dubbio. Deputata a pronunciarsi
è la Corte internazionale di giustizia de L'Aja sulla
base di specifici quesiti posti dall'Onu. Il parere della
Corte è consultivo e quindi non vincolante, salvo che
per istituzioni come il Fondo monetario internazionale e
la Banca mondiale. Dovere del governo italiano è
chiedere in tutte le sedi che l'Onu dia avvio alla
procedura.
Come si giunti ad una legge cosi innovativa?
Un'estesa corrente di giuristi e di economisti
democratici, niente affatto assimilabili a estremisti
terzomondisti, ha prodotto, alla scala internazionale,
un'enorme mole di analisi economiche e giuridiche sulle
cause e sulle conseguenze dell'esplosione del debito
estero dei Paesi in via di sviluppo.
Il debito perpetuo si è formato in buona misura per
effetto della lievitazione dei tassi d'interesse sino a
livelli d'usura e per effetto della «magia» composto.
Più in generale, l'evoluzione del debito esterno dei
Paesi in via di sviluppo è conseguenza in larga parte di
decisioni dei Paesi creditori. È da decisioni di questi
Paesi e delle istituzioni finanziarie internazionali da
essi dominate, che dipendono andamento dei tassi
d'interesse, rating, liquidità internazionali, ragioni
di scambio, imposizione di disastrose politiche recessive
etc. La corruzione o l'incapacità di determinati regimi
di Paesi del Terzo mondo non può oscurare le
responsabilità dei Paesi ricchi e la sostanziale
ingiustizia delle regole imposte.
L'ingiustizia consiste nel far ricadere su una sola
parte, quella dei Paesi debitori, le conseguenze di
decisioni assunte dal sistema dei Paesi creditori.
Conseguenze gravissime: molti Stati pagano un servizio
del debito superiore a quanto dedicato all'istruzione e
alla salute. C'è un conflitto enorme fra debito e
salvaguardia dei diritti umani riconosciuti in campo
internazionele.
Anche il Parlamento europeo nei documenti approvati in
due distinte riunioni con il Parlamento latino-americano,
a Bruxelles e a San Paolo del Brasile, hanno riconosciuto
l'ingiustizia di questa situazione pronunciandosi perché
l'Onu si rivolga alla Corte Internazionale.
Perché possa esserci una decisione conforme delle
Nazioni Unite occorre un consenso diffuso. Ottenere
questo consenso non è agevole poiché si tratta di
mettere in discussione interessi enormi e forti. D'altra
parte la via della giustizia non è mai semplice.
Johannesburg era una buona occasione per dire che il
Parlamento di uno dei Paesi del G7 si è messo su questa
via e per chiedere ad altri di farlo. Ma a questo governo
può andare bene un po' di mance compassionevoli. Altra
cosa è la giustizia.
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Sviluppo
sostenibile, il buco nero della cooperazione
di Valerio Calzolaio*
A Bali, il negoziato delle Nazioni
Unite sullo sviluppo sostenibile sta andando proprio come
era previsto, maluccio. Mancano solo due giorni, dedicati
soprattutto all'intervento dei ministri; molti sono i
punti controversi su documenti comunque poco incisivi. La
bozza del presidente (the Chairman's
Text), principale testo del vertice,
un interminabile generico aggiornamento dell'Agenda XXI,
dopo mesi di riunioni preliminari, è un documento di
nove capitoli, con un numero di paragrafi cresciuto da
100 a 158 e di pagine via via lievitato da 21 a 78 solo
nelle due settimane indonesiane, alla presenza di circa
diecimila delegati e osservatori. Ci si è divisi in tre
gruppi ufficiali di lavoro, in una decina di gruppi di
contatto, in innumerevoli comitati informali e, con
continui coordinamenti continentali o diplomatici, fra
eventi collaterali e incontri per materie, si è tentato
di definire un piano comune d'azione (the
Bali Commitment) da sanzionare a
Johannesburg. Per farsi un'idea, due giorni fa il
coordinamento comunitario ha riassunto i principalissimi
punti in discussione:, solo dal punto di vista
dell'Unione Europea e, solo sul primo documento del
presidente: sarebbero 42 quelli condivisi ma contestati
da altri e 18 quelli avversati ma presenti e difesi da
altri. Occorre tener presente che ancora ieri non
circolava la bozza di dichiarazione politica che capi di
stato o di governo dovrebbero firmare a Johannesburg (ne
sono attesi oltre 120 secondo le ottimistiche previsioni
sudafricane). Fra i punti di dissenso vi sono tutti gli
obiettivi «quantificati» (nella misura o nel tempo): il
programma per l'accesso alla tutela sanitaria entro il
2015, la percentuale di energie rinnovabili, l'adozione
del principio di precauzione per i prodotti chimici entro
il 2020, il parziale obiettivo di riduzione dei gas serra
concordato a Kyoto, l'inversione di tendenza nella
perdita di diversità e di risorse entro il 2010 e 2015
anche a livello dei singoli paesi, indicatori per lo
sviluppo sostenibile. È soprattutto la delegazione
statunitense a contestarli, con un'obiezione generale di
realismo: sarebbe inutile continuare a darsi obiettivi
che poi non vengono raggiunti, che nessuno è in grado di
sanzionare (in qualche caso ci vorrebbero le forze
armate), che contengono decisivi aspetti privati o
comunque volontari. La contro-obiezione realistica
ricorda che la presa di coscienza e l'assunzione di
responsabilità sono alle nostre spalle: cosa, perché,
dove, come sono elementi formalmente acquisiti, quel che
non è chiaro è quando... prima che sia troppo tardi.
Canada e Australia sono spesso alleati degli Usa; e la
voce unica della Ue (o anche del G7) copre opinioni
diverse, manovre, complesse dinamiche bilaterali,
influenze continentali, interessi sopranazionali. È una
dinamica nota, per certi versi ovvia quando si
confrontano «governi» che hanno storia, legittimazione,
rappresentanza (ed anche cultura, religione, conoscenza,
competenza) interne diverse e diversi confini, legami,
scambi verso l'esterno. E quando si è in presenza di una
redistribuzione dei poteri, delle influenze, delle
gerarchie segnati dal nuovo protagonismo americano
(aggiornato dalla «recente» lotta al terrorismo), dalla
crisi degli organismi di regolazione finanziaria e di
molti stati «regolati», dalla globalizzazione
finanziaria di capitali proprietà di ricchi in paesi
ricchi. In tal senso, il tema scelto dall'Onu per il
vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile (a Bali si
svolge la quarta ed ultima conferenza preparatoria),
cioè il nesso fra povertà e ambiente, era tardivo ma
giusto. Quello che in Occidente coniughiamo come
economia-ecologia si traduce in un globale circolo
vizioso: se si potesse estendere lo stesso sviluppo
aumenterebbero in modo insostenibile inquinamenti che
già sono fatti pagare soprattutto a chi è estraneo a
quello sviluppo. Le povertà (vecchie e nuove) di cui
parliamo sono «relative», dipendono dalle ricchezze,
dagli sfruttamenti, dalle oppressioni, non da condizioni
«naturali»; dipendono da scelte non da circostanze, da
atti non da «stati». Il deserto non è condizione di
povertà; la desertificazione (10 milioni di ettari ogni
anno, per un costo di almeno 42 milioni di dollari) è un
processo provocato e accelerato da azioni umane, che a
sua volta provoca degrado e impoverimento (certo,
soprattutto fra le comunità delle aree secche e aride,
ma erano già tante e ormai c'è di mezzo l'intero
Mediterraneo). Tema giusto, svolgimento sbagliato? Non
credo si tratti di coerenza o di applicazione.
Emerge un limite strutturale del sistema delle Nazioni
Unite (l'unico che abbiamo, da tenersi comunque caro):
solo eccezionalmente è stato capace di impedire guerre e
massacri; solo eccezionalmente è capace di imporre
tutele e diritti. A Rio, dieci anni fa, finalmente aveva
«scritto» che l'ambiente è premessa e condizione di
ogni attività economica. Non tutti, non molti, quasi mai
se ne è tenuto conto. Quelle attività continuano a
prescinderne, in prevalenza. È davvero utile continuare
a scrivere convenzioni e accordi (solo sull'ambiente ne
esistono oltre 500), a convocare esperti e convegni? Se
lo sono domandato anche a New York, constatando il
sostanziale fallimento degli impegni di Rio e il
preoccupante aggravarsi dei dati ambientali. Così, a
Bali e poi in Sudafrica, si discuterà giustamente nella
stessa agenda di salute e alimentazione, di fame e di
sete, di educazione e di cooperazione. Importanti
dichiarazioni di principio avranno finalmente l'opportuno
contesto globale. La diplomazia del segretario Onu Kofi
Annan è già al lavoro per il salvataggio dell'Earth
Summit 2: sta cercando «ambasciatori», sta ipotizzando
altri appuntamenti intermedi (a giugno in Brasile, ma
ovviamente gli indonesiani vogliono chiudere a Bali), ha
sintetizzato i temi con la sigla Wehab (acqua, energia,
salute, agricoltura, biodiversità), conta sulla
spettacolarità dell'evento per imporre qualche
risultato. A Johannesburg vi saranno più giornalisti che
delegati, per almeno dieci giorni l'ambiente sarà
ovunque la prima notizia. Per ora non si andrà molto
oltre. Inutile farsi illusioni. E, allora, è bene che
coloro che seguono con attenzione e rispetto le
trattative dei governi (a Bali, ma anche a Roma per la
Fao) ma ne sono «fuori», corrano paralleli e cerchino
di condizionarle individuando poche priorità di svolta:
il protocollo di Kyoto e nuovi impegni di riduzione dei
gas serra da controllare e sanzionare (ieri ha ratificato
il Giappone, manca la Russia, poi entra in vigore!), il
trattato sulle risorse fitogenetiche e nuovi vincoli alle
modificazioni di organismi e al monopolio delle sementi,
l'accesso all'acqua potabile e il sostegno diretto alle
comunità povere di aree aride («prima della pioggia»),
lo snellimento di patti e apparati, verifiche nazionali
dei comportamenti coerenti. Il caso dell'Italia è
clamoroso: finora nulla è stato fatto per realizzare e
diffondere un bilancio trasparente dell'attuazione degli
impegni presi a Rio, sia in termini formali che in
termini sostanziali; mancano completamente la carta della
natura e il piano per la biodiversità; non si attuano il
piano contro la siccità (anche su scala
euromediterranea) e il sistema degli indicatori
ambientali; le esperienze di Agenda XXI regionali e
locali sono lasciate a se stesse (anche nella
concertazione internazionale); la delegazione in
Indonesia non ha finora indirizzo politico governativo e
il ministro che verrà è fuori da ogni precedente
esperienza o da ogni coordinamento sui temi in
discussione; già circola la voce che, se non ci sarà
Bush, nemmeno Berlusconi andrà a Johannesburg. Eppure in
questi giorni molti italiani stanno lavorando bene a
livello diplomatico, nei gruppi di settore, negli
organismi internazionali, anche presentando studi ed
esperienze di qualità. Nel bilancio del governo
Berlusconi c'è il buco della politica di cooperazione
allo sviluppo sostenibile. Forse c'era da aspettarselo.
Presidenza gruppo Ds Camera
componente del comitato
"povertà-ambiente" dell'ONU
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Johannesburg,
la siccità di Berlusconi
Il premier italiano arriva al vertice
sullo sviluppo e annuncia la «de-tax» e l'iniziativa di
«e-government». «Roba vecchia», per Romano Prodi e
gran parte degli italiani presenti. Germania e Francia
lanciano un appello per la ratifica del protocollo di
Kyoto. Il Canada: «Firmeremo entro l'anno»
MARINA FORTI
INVIATA A JOHANNESBURG
Non c'era l'armonia con la natura, né il Protocollo di
Kyoto, né alcuno dei temi che hanno animato il vertice
fino a oggi nel breve discorso pronunciato a Johannesburg
da Silvio Berlusconi. Il presidente del consiglio
italiano è venuto «personalmente» «per illustrare
alcune proposte»: per dire (in un francese incerto) che
l'Italia propone un'iniziativa di «e-government», un
modello di informatizzazione dei sistemi di
aministrazione pubblica, contabilità fiscale, catasto,
servizi pubblici, che permetta la trasparenza e
leggibilità dei conti pubblici «ma lasci intatte
culture e tradizioni». Il «governo elettronico dovrebbe
garantire la trasparenza» e il «buon governo», ha
detto Berlusconi, che poi ha ripreso la sua «de-tax»:
una tassa volontaria dell'1 o 2 per cento sui consumi
voluttuari che i consumatori dei paesi ricchi potranno
versare per «costruire una scuola» o cose del genere.
La prima reazione alle proposte del leader italiano
arrivano da Romano Prodi ed è ovviamente una bocciatura.
Le parole di berlusconi per il presidente della
Commissione europea npon sono «niente di nuovo, non vedo
nessuna novità». Critiche anche da alcuni dei deuputati
italiani presenti in Sudafrica:per il deputato Ds Valerio
Calzolaio è stato un discorso «ripetitivo e deludente»
che conferma «lo scarso ruolo avuto qui dall'Italia». E
i parlamentari Verdi liquidano come «finanza creativa»
la de-tax (respinta del resto anche da Bruxelles: troppo
aleatoria). Quella di ieri è stata la giornata delle
grandi parole, e delle ultime trattative. Nella metropoli
sudafricana è cominciata infatti l'ultima fase del
Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile, quella dei
capi di stato e di governo. Prima di Berlusconi aveva
esordito l'ospite, il presidente sudafricano Thabo Mbeki
ha ripreso una frase più volte usata in questi giorni:
l'eredità del sistema inumano dell'apartheid «è ancora
visibile in questo paese» - ora «siamo determinati a
sconfiggere l'apartheid globale» insito nel
sottosviluppo e la povertà.
Mbeki parla di lotta all'apartheid globale, ma è stato
il presidente francese Jacques Chirac a dare un tono alla
giornata. Almeno, ha dato un certo orizzonte alla
retorica. Ha parlato di «responsabilità collettiva»
verso le crisi ecologiche del pianeta e però della
responsabilità primaria dei paesi industrializzati,
«primi per storia, potere, livello di consumi»: il
principio della «responsabilità comune e
differenziata» di fronte alle crisi ambientali era stato
affermato dieci anni fa al Vertice della terra di Rio, ma
è ancora oggetto di conflitto qui: i negoziati sulla
«dichiarazione di principi» sono ancora aperti. Chirac
ha ancora parlato di cambiamento del clima, «dovuto alle
attività umane»: «da Johannesburg deve levarsi un
appello a ratificare e mettere in pratica il Protocollo
di Kyoto», il trattato che impegna i paesi
industrializzati a tagliare le emissioni di gas serra
responsabili dell'aumento della temperatura terrestre.
«Pesante sarà la responsabilità di chi rifiuta di
combattere il cambiamento del clima», ha ammonito
Chirac. Al clima ha dedicato tutto il suo intervento il
cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, dopo aver
ricordato le alluvioni di quest'estate in Germania,
Austria e Repubblica Ceca, e in Asia e America: e ha
fatto appello a ratificare al più presto il protocollo
di Kyoto così che possa entrare in vigore entro la fine
del'anno. Una buona notizia in questo senso è quella
data dal premier canadese Jean Chrétien, che ha
annunciato la ratifica del parlamento canadese entro
l'anno. Ormai basta l'adesione della Russia a rendere
effettivo e vincolante il Protocollo di Kyoto: ed è ben
per questo che il presidente della Comissione europea
Romano Prodi, anche lui intervenuto ieri, ha esordito con
un appello al presidente russo Vladimir Putin: ratificare
il trattato è suo interesse, anche perché con la Russia
«avrà l'occasione di scambiare i permessi di
emissione».
Il francese Chirac ha elencato altre questioni urgenti:
«sradicare la povertà», e qui gli europei si fanno
grande vanto di dare il contributo più alto agli aiuti
allo sviluppo - quanto al resto, come hanno detto sia il
presidente francese, sia il premier britannico Tony Blair
e anche Prodi, si attestano sulla difesa delle decisioni
prese a Doha e a Monterrey. Ovvero la promessa di aprire
un po' di più i mercati del Nord alle esportazioni del
Sud, rivedere i sussidi «che distorcono il libero
mercato» come i sussidi agricoli... ma qui Chirac non è
entrato in dettaglio. Ancora: il «buon governo» per il
presidente francese significa «riconoscere che ci sono
dei beni comuni globali e richiedono una gestione comune
nell'interesse dell'umanità».
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Mugabe
conquista il vertice
Il capo dello Zimbabwe attacca i colonizzatori. Platea in
visibilio
Robert Mugabe E'stato tra i capi di stato più appaluditi
dall'assemblea: «Blair, tieniti la tua Inghilterra e
lasciami il mio Zimbabwe». Ma l'opposizione attacca:
«E' un maquillage per nascondere la realtà»
MA.FO.
INVIATA A JOHANNESBURG
Ha esordito con un vecchio slogan delle lotte di
liberazione africane, il presidente dello Zimbabwe: «La
terra, e ciò che ci sta sopra, appartengono al popolo».
A sentire Robert Mugabe, ieri pomeriggio al Vertice
mondiale sullo sviluppo sostenibile, era facile
scambiarlo per un autentico difensore dell'Africa rurale:
«L'accesso alla terra è fondamentale in un'economia
agraria. Dunque è giusto che gli interessi dei più
prevalgano su quelli di una cricca elitaria che ha buone
connessioni con l'Inghilterra». Mugabe parlava
ovviamente dell'esproprio di tenute agricole dei farmers
bianchi dello Zimbabwe, campagna lanciata un paio d'anni
fa e arrivata a un'accelerazione nelle ultime settimane:
il governo di Harare ha dichiarato di voler sgomberare
2.900 dei restanti 4.500 proprietari di tenute agricole
commerciali - nonostante la Corte suprema abbia
dichiararti illegali gli ultimi espropri. «Non stiamo
parlando di deprivare nessuno della propria fattoria: ma
una ciascuno, non 15 o 20, e questa non è una cifra a
caso ma reale». Mugabe è tra i pochi capi di stato che
abbia ricevuto applausi, nella sala dell'assemblea
plenaria al Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile:
quando ha detto, ad esempio, «abbiamo lottato per la
terra, per la sovranità, l'indipendenza, siamo pronti a
dare il nostro sangue per difenderla». L'Unione europea
ha imposto sanzioni economiche allo Zimbabwe, e il
Commonwealth ha deciso di sospendere la ex-colonia. «Non
ci importa nulla delle sanzioni», Mugabe è partito
all'attacco: «Non permetteremo a nessuno di interferire
nei nostri processi interni. Tony Blair, tieniti la tua
Inghilterra e lasciami il mio Zimbabwe» (ancora
applausi, perfino in sala stampa). Ciascuno parla per il
suo pubblico, e le parole di Mugabe hanno un certo appeal
in Africa: anche perché la redistribuzione della terra
resta incompiuta - e l'eredità coloniale non è
un'invenzione. Nel mattino anche il presidente della
Namibia, Sam Nujoma, aveva lanciato un'accusa alla Gran
Bretagna: «I bianchi possiedono il 78% della terra in
Zimbabwe», ha detto: «Qui in Africa meridionale abbiamo
un grave problema, creato dai britannici. Qui c'è Tony
Blair, è lui che ha creato la situazione in Zimbabwe»,
e «l'Unione europea deve togliere le sue sanzioni». Il
premier britannico, intervenuto poco dopo Nujoma, non ha
reagito. «Mugabe gioca la carta panafricana e la
retorica anti- neocoloniale, ma è un maquillage
per nascondere la realtà», commenta Ten Jaibiti,
dirigente del Movimento per il Cambiamento Democratico -
il maggiore raggruppamento di opposizione democratica in
Zimbabwe. Accusa: «La cosiddetta riforma agraria è
arbitraria. La maggioranza della popolazione è ridotta
alla fame. L'aggressione ai diritti umani è
generalizzata, le bande di Mugabe seminano il terrore».
La campagna di espropri di terre lanciata dal presidente
dello Zimbabwe divide l'Africa. Sabato scorso lungo la
marcia dalla township di Alexandra si leggevano cartelli
inneggianti a Mugabe: nel Movimento dei Senzaterra
sudafricani, è ovvio, l'esproprio di terre è guardato
con fascino. Ma altri movimenti sociali pure radicali
parlano di scelte populiste e antipopolari: «Mugabe ha
danzato per vent'anni al ritmo del Fondo monetario e
della Banca mondiale, ora lancia gli espropri per suoi
interessi», aveva detto il leader del Forum contro le
privatizzazioni, Trevor Ngwane. Ten Jaibiti taglia corto:
«La campagna di espropri non c'entra nulla con la
democrazia, né lo sviluppo o la ridistribuzione».
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I Verdi:
luci e ombre di Johannesburg
Male Bush e Berlusconi, bene
Prodi, Chirac e Schröder. Di ritorno dal vertice di
Johannesburg i Verdi tracciano un bilancio dei giorni
trascorsi in Sudafrica e dei risultati raggiunti su
ambiente e povertà. «E' stata un'occasione mancata»,
taglia corto Grazia Francescato con il portavoce Alfonso
Pecoraro Scanio e Laura Cima. I tre parlamentari hanno
preparato una pagella dei buoni e dei cattivi, sulla base
degli impegni assunti. Prodi, Chirac, Schröder promossi
per il loro impegno su Kyoto, tobin tax, sviluppo
sostenibile e difesa dei poveri del pianeta. Così così
per Cina, Giappone, Gran Bretagna e Russia, visto che il
loro impegno si è limitato al protocollo di Kyoto. Un
discorso a parte merita il Vaticano: apprezzate le sue
posizioni sull'ambiente, ma contestate quelle su diritti
delle donne e contraccezione. Berlusconi, Bush, Saddam
Hussein e l'Opec, per contro, «costituiscono un'alleanza
contro l'ambiente». Quanto a Berlusconi, i Verdi lo
accusano di aver parlato del superfluo, di non aver
toccato i 12 punti della mozione approvata dalla camera
per Johannesburg e di aver glissato sulle questioni più
importanti. Come la promessa, fatta sin dal G8 di Genova,
di destinare l'1% del pil italiano ai paesi poveri.
Berlusconi sarebbe andato a Johannesburg solo a proporre
pc e software a paesi che non hanno nemmeno la corrente
elettrica. Sugli aiuti ai paesi poveri i Verdi annunciano
battaglia: presenteranno un emendamento alla finanziaria
che impegni il governo a destinarvi lo 0,39% del pil nel
2003, lo 0,70 nel 2004 e l'1% nel 2005. Pecoraro Scanio
ha anche chiesto che il governo riferisca in parlamento
su come intende mantenere i target di Kyoto.
Il bilancio finale non è positivo. Se, come dice
Francescato, quello di Stoccolma (1972) era stato il
vertice dell'allarme e della speranza e quello di Rio
(1992) dell'azione, questo sudafricano è stato il
vertice dell'«occasione mancata»: perché solo Kyoto
non basta e perché è venuto meno l'obiettivo di
definire azioni e target precisi e misurabili, come per
le fonti di energia rinnovabili. (l.g.)
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Guai nucleari?
Tutta colpa degli operai
In Giappone nuovo
scandalo al vertice del colosso elettrico Tepco per gli
incidenti nelle centrali atomiche
PIO D'EMILIA
TOKYO
«La questione che si poneva era semplice. Ci mettiamo a
riparare ogni piccola ammaccatura, ogni fessura dei
reattori come impone la legge ma bloccando la produzione
e facendo spendere miliardi di yen all'azienda, o
lasciamo perdere, aumentando il fatturato e facendo
contenti i dirigenti? Spesso i nostri dipendenti hanno
optato per la prima opzione... quanto spesso? almeno in
29 casi, negli ultimi vent'anni... ma mai in caso di vera
emergenza...». Dunque, tutta colpa degli operai,
impiegati, ingegneri. Una vera e propria associazione a
delinquere che, pur sapendo di violare la legge, ha
omesso gli interventi e falsificato i rapporti in nome
del dio profitto. E voi signori dirigenti, ne sapevate
qualcosa? «Beh, certo, lo sapevamo. Ed è per questo che
oggi dobbiamo assumercene le responsabilità,
dimettendoci». Viene da ridere (e capita a molti
giornalisti presenti alla conferenza stampa) se non ci
fosse, ahimè, da piangere. Non stiamo parlando di falso
in bilancio di una fabbrichetta di tondini di ferro, o di
una banca che nasconde le sue sofferenze per tirare
avanti ancora un po'. Stiamo parlando della Tepco, quarta
società elettrica del mondo per fatturato, che in
Giappone fornisce energia (un terzo della quale nucleare)
a circa la metà della popolazione. E a raccontare
l'allegra gestione della terza potenza nucleare (per uso
pacifico) del mondo non è un sindacalista pentito, ma
Nobuya Minami, ex manager di stato paracadutato al
vertice dell'azienda dopo la privatizzazione e che ieri,
finalmente, si è dimesso insieme a tutto il vertice
della Tepco.
Un vertice eccellente, vale la pena di ricordare, perché
nel gruppo c'era anche tale Hiraiwa, già presidente
della Confindustria giapponese. Il quale ,
intrattendendosi con i giornalisti, da buon imprenditore
spiega nei dettagli la faccenda, come si trattasse di
ortaggi o componenti elettronici. «Sospendere per un
giorno la produzione di un reattore da un milione di
kilowatt può costare fino a 100 milioni di yen (750 mila
euro, ndr),
inoltre occorre garantire comunque la fornitura di
energia ai clienti, a costi aggiuntivi. Per riparare
anche la più piccola scalfittura, occorrono due o tre
settimane. Per non parlare di interventi più importanti,
come la sostituzione delle sartie interne. Dieci miliardi
di yen, chiusura per 10 mesi...». E allora? E allora
operai, tecnici e dirigenti hanno sempre lasciato
correre.
«Tutto sommato non è mai successo niente di grave,
stiamo parlando di interventi minori, comunque
programmati, che abbiamo semplicemente rimandato...»
racconta Toshiaki Enomoto, uno degli ex vicepresidenti,
che fa uno sforzo di memoria in diretta tv e ricorda:
«Una volta mi riferirono di una piccola scalfittura
nella sartia di un reattore, ma mi garantirono che
avrebbe tenuto sino alla prossima ispezione. Insieme
decidemmo di non menzionare il fatto nel nostro rapporto
alla Commissione nazionale per la Sicurezza».
La Giappone spa funziona così. Gerarchie di ferro e un
sindacato morto e sepolto producono questa micidiale
omertà. «Per noi non cambia nulla - spiega al manifesto
Yayoi Matsui, storica leader del movimento antinucleare -
abbiamo sempre denunciato l'inaffidabilità dei sistemi
di controllo e di sicurezza. Ma non ci fa certo piacere
che ciò che spesso semplicemente temevamo è stato
confermato dai dirigenti della Tepco».
E adesso? Nulla, o quasi. Nonostante l'opinione pubblica
- spinta dai giornali che improvvisamente sono diventati
tutti antinucleari - sia ovviamente indignata e
legittimamente preoccupata, il governo di Koizumi ha
disposto un'immediata ispezione di tutte le centrali ed i
reattori incriminati (8, almeno ufficialmente, su 52
attualmente in funzione). Ma lasciando incredibilmente
alla discrezione delle aziende la decisione se sospendere
o meno la produzione. Ier l'altro la Tepco ne ha chiuso
uno, nella centrale di Fukushima. Improvvisamente, dalla
crepa da tempo esistente e non denunciata, è fuoriscito
del liquido radioattivo. «Nulla di preoccupante, nessun
pericolo per la popolazione», si sono affrettati a
scrivere in un comunicato. Ma la gente è uscita per
strada e ha circondato la centrale.
Tra i «girotondisti», il governatore di Fukushima, uno
che negli anni ha cambiato opinione più volte (da
convinto antinuclearista si era fatto convincere dal
governo centrale e dalla Tepco, in cambio di ingenti
investimenti pubblici). «Come sapete, ho sempre avuto
molti dubbi sull'energia nucleare. Ma ora penso che
abbiamo passato il limite. Per quanto mi riguarda,
dovremmo chiuderle tutte, e che non se ne parli più». A
meno di improbabili piroette, tuttavia, non sembra che il
governo centrale sia di questo avviso.
Il Giappone, dove l'energia nucleare copre già più di
un terzo del fabbisogno di energia elettrica, ha anche un
programma di ulteriore rafforzamento del settore. Entro
il 2015, infatti, agli attuali 52 reattori (più o meno)
in funzione, se ne dovrebbero aggiungere altri 16. E che
fine faranno i dirigenti? Verrano denunciati,
incriminati, condannati? Macché. Di alcuni non si sa
ancora, ovviamente. Ma l'ex vicepresidente Enomoto verrà
promosso. Diventerà presidente dell'Ente per lo Sviluppo
del Programma Spaziale.
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