Siamo pronti ad una azione armata, ma solo se serve".
Per il premier Bagdad deve accettare le ispezioni
Berlusconi: attacco all'Iraq
solo nell'ambito dell'Onu

"Se Saddam Hussein cambierà si potrebbero rivedere le sanzioni"

PORTO ROTONDO (SASSARI) - Attacco all'Iraq? Solo nell'ambito delle decisioni dell'Onu. Al termine del vertice dei premier del partito Popolare Europeo il presidente del consiglio Silvio Berlusconi chiarisce la sua posizione a riguardo di una possibile guerra contro Saddam Hussein.

"Dobbiamo essere molto attenti a quella che è la situazione reale dell'Iraq - ha detto Berlusconi - ma la nostra amicizia nei confronti degli Usa non può essere messa in discussione". Per il premier l'Europa non può lasciare isolati gli Stati Uniti, anche se, ha aggiunto, "Siamo assolutamente convinti che qualsiasi decisione verrà presa nel quadro dell'Onu".

A proposito delle affermazioni fatte ieri dal Presidente della Repubblica Ciampi ("L'Europa è contro la guerra"), Berlusconi ha replicato: "Tutti siamo per il no alla guerra, siamo per la pace e la giustizia, ma a volte per arrivare alla pace occorre un intervento armato".

"Speriamo che questo non sia il caso", dice il presidente del Consiglio, ma comunque "Siamo pronti, se serve, ad una azione armata". Saddam Hussein deve dunque accettare gli ispettori dell'Onu senza condizioni, e per far questo bisogna insistere con le "pressioni politiche e diplomatiche" sull'Iraq. E nel caso in cui Bagdad "ritornasse nella comunità internazionale", consentendo a tutti di verificare che non ci sono pericoli, "ci sarebbe anche un cambiamento per quanto riguarda le sanzioni nei suoi confronti".

Silvio Berlusconi sta per partire per gli Stati Uniti, dove parteciperà alle celebrazioni per il primo anniversario dell'undici settembre e si recherà al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. In agenda anche un incontro alla Casa Bianca con il presidente americano Bush, appunto per discutere di un eventuale attacco all'Iraq.

A questo proposito
il vertice dell'Ulivo, con un documento congiunto, ha ribadito la sua contrarietà alla guerra e ha chiesto al premier di riferire in Parlamento prima della sua partenza per gli Usa. E dal premier arriva una risposta secca: "Riferirò al mio ritorno"

(9 settembre 2002)

Telefonate, incontri e viaggi in tutto il mondo:
continua l'opera di persuasione del presidente Usa

Iraq, pressing di Bush:
"Irrigidire le sanzioni Onu"

Chirac: "Ispettori o intervento militare"

WASHINGTON - Prima un giro di telefonate per cercare di convincere alcuni capi di Stato della necessità di un intervento militare contro l'Iraq. Poi un faccia al faccia con il premier canadese Jean Chretien. Mentre il presidente francese Jacques Chirac dice ancora una volta no ad un intervento unilaterale in Iraq e lancia una proposta: l'Onu dia a Saddam Hussein tre settimane di tempo per il ritorno degli ispettori internazionali e a ultimatum scaduto decida senza indugi sull'uso della forza se Baghdad fa ostruzionismo.

Continua il lavorio diplomatico del presidente Usa, George W. Bush. Una fitta rete di contatti per creare alleanze e consensi in vista di un attacco militare all'Iraq di saddam Hussein. Oggi è toccato al segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, al premier turco Bulent Ecevit e al premier danese Poul Nyrup Rasmussen, presidente di turno del Consiglio europeo, ricevere la telefonata di Bush. Conversazioni durante le quali il presidente Usa ha indicato che la forza da usare per convincere l'Iraq al disarmo può anche non essere militare. O almeno non solo militare. Magari dando il via ad un irrigidimento delle risoluzioni dell'Onu che chiedono all'Iraq di disarmarsi. E, a detta del portavoce della casa Bianca, dal giro di telefonate odierno, questo orientamento si sarebbe palesato in modo netto.

Non è facile comunque il compito di Bush. All'intervento militare in Iraq sono contro la Lega Araba, l'Unione europea, la Russia, la Cina. Al fianco del presidente Usa, per ora, c'è solo l'Inghilterra di Tony Blair. Per questo l'amministrazione americana, per bocca del vice-presidente americano Dick Cheney, assicura che gli Usa cercheranno un sostegno internazionale per un confronto con l'Iraq. Ma Cheney aggiunge che, se ci sarà un nuovo round di ispezioni internazionali, deve essere chiaro che sarà l'ultimo e che, se gli ispettori saranno cacciati o torneranno indietro senza avere potuto svolgere il loro compito, scatteranno misure punitive, che gli Stati Uniti sono pronti a portare avanti da soli, se gli alleati non dovessero seguirli.

(9 settembre 2002)

Il segretario di Stato Usa difende la linea di Bush
sull'attacco preventivo all'Iraq di Saddam Hussein
Powell: "Minacce gravissime
bisogna colpire per primi"
"I terroristi sono un pericolo per ogni Stato democratico"
"Non mi sono mai sentito isolato nell'amministrazione"di JAMES DAO

WASHINGTON - Segretario di Stato Colin Powell, lei sta difendendo la politica del presidente Bush incentrata sull'"azione preventiva" contro i paesi che costituiscano una minaccia per gli Stati Uniti. Ritiene verosimile di dover ricorrere a questo tipo di azione contro l'Iraq?


"In politica estera e nella prassi militare, la prevenzione è sempre stata uno degli strumenti disponibili. E ciò è anche più vero oggi, a causa della gravità delle minacce che i terroristi rappresentano. Un presidente o un leader hanno sempre la possibilità di optare per la prevenzione. E' ovvio che dobbiamo ricorrervi prestando la massima attenzione e pienamente consapevoli dei doveri che abbiamo in qualità di membri responsabili della comunità internazionale".

C'è chi sostiene che lei sia stato oggetto di critiche da parte dei suoi colleghi "falchi" quando ha incoraggiato il presidente a raccogliere il sostegno internazionale per la campagna contro il terrorismo?


"Non mi sono mai sentito isolato dall'amministrazione: i miei colleghi mi appoggiano e ovviamente mi appoggia anche il presidente. Le divergenze in alcuni casi erano reali, in altri appena percepibili, in altre ancora del tutto ingigantite".

In che cosa l'11 settembre ha profondamente cambiato la natura della diplomazia americana?
"Le mie esperienze di governo sono state all'apice di due avvenimenti fondamentali: la fine della Guerra Fredda e l'inizio della guerra al terrorismo. Oggi c'è la necessità di rompere i vecchi schemi di conflitto tra superpotenze, in cui ogni cosa si misurava come su una scacchiera, con i rossi, il Comunismo, da una parte, contro i blu, la democrazia, dall'altra. Gli attacchi terroristici hanno fatto a pezzi i preconcetti della Guerra Fredda sulle relazioni americane con la Cina e la Russia, aprendo la porta alla cooperazione tra nemici con capacità nucleari contro un comune nemico: i terroristi senza stato, che stanno facendo di tutto per entrare in possesso di armi biologiche e nucleari. Siamo di fronte a qualcosa di totalmente nuovo rispetto agli schemi della Guerra Fredda: qui c'è un nemico che ci ha colpiti tutti. C'era il modo concreto di allearsi tutti insieme per poterlo affrontare".

Lei ritiene che l'esistenza di un nemico comune abbia reso più facilmente accettabile per il presidente russo Vladimir Putin il ritiro degli Stati Uniti dal Trattato ABM del 1972, e abbia inoltre consentito a Washington di ricucire le relazioni con Pechino, diventate difficili dopo che lo scorso anno un caccia cinese si era scontrato con un aereo americano al largo della Cina?


"All'epoca tutti pensarono che l'incidente avrebbe guastato per sempre le relazioni con Pechino, ma nell'arco di 10 giorni avevamo già trovato una soluzione al problema. La ragione è che per quanto l'incidente sia stato molto grave, entrambe le parti, Pechino e Washington, si sono rese conto che l'incidente non doveva allontanarli dall'importante rapporto che si era instaurato tra loro".

Il mondo diplomatico ritiene che i rapporti in seno all'alleanza transatlantica si stiano deteriorando nel peggiore dei modi perché l'amministrazione Bush si oppone alla Corte Penale Internazionale e ad altri trattati che stanno molto a cuore all'Europa.


"Simili tensioni non sono nuove e non mettono a repentaglio l'alleanza degli Stati Uniti con l'Europa. Non riesco a ricordare un periodo, persino nei quindici anni di mia attività al governo o precedentemente, in cui non ci siano state tensioni tra Stati Uniti e Europa. Del resto basta guardare anche nel contesto europeo: si trovano significative divergenze anche tra le varie nazioni europee. Ma non per questo si accusa la Francia, per esempio, qualora non fosse d'accordo con gli altri paesi su una determinata questione. Le critiche mosse all'amministrazione Bush per la sua politica estera si basano sull'erronea supposizione che Washington non abbia piacere ad agire in seno ad una coalizione. Spesso si salta alle conclusioni, e si ritiene che non ci interessiamo ai nostri amici e agli alleati, solo perché c'è un disaccordo. Ma ovviamente non è così".

A Johannesburg, molti ministri degli Esteri si sono lamentati della brevità della sua visita. Perché così poco tempo?


"Le preoccupazioni per il terrorismo non hanno indotto il Dipartimento di Stato a perdere di vista altre scottanti questioni, come i diritti umani, la lotta all'Aids e il commercio internazionale".

Che cosa risponde alle accuse rivolte all'America di comportarsi con prepotenza in tutto il mondo?


"Non è nostra usanza o tradizione andare in cerca di conflitti, passare ad azioni preventive al solo scopo di conquistare il territorio di altri popoli, o di imporre la nostra volontà a qualcuno. Ma fa parte della nostra storia e della nostra tradizione difendere i nostri interessi".



(9 settembre 2002)

L'asse Bush-Blair fa scattare la reazione dei leader Ue
Javier Solana: "Si deve seguire la strada dell'Onu"
Iraq, l'appello di Prodi
"L'Europa resti unita"

Blair spiega alla regina il suo "sì" all'intervento
dal nostro inviato MARCO MAROZZI

BRUXELLES - La guerra alle porte, l'accordo Bush-Blair fanno scattare molti, tesissimi allarmi. Da Bruxelles a Mosca, da Atene alla stessa Londra. "L'Europa si deve unire in questo momento in cui in tutti cresce la preoccupazione". Il suo invito Romano Prodi lo lancia verso le capitali, i capi di governo, la gente comune.

La voce del presidente della Commissione europea si unisce a quelle di Schroeder e Chirac che già si sono schierati per una "posizione europea" con un "no" all'asse Washington-Londra. E una dura critica a Blair arriva ora dal ministro degli Esteri belga. "Se è impossibile per l'Unione europea avere una voce unica, unita per dire no a Bush - attacca il liberale Louis Michel - è perché Tony Blair dà un indiscusso, unilaterale appoggio all'azione militare Usa". "Un intervento armato impedirebbe il dialogo fra palestinesi ed israeliani e farebbe crescere il terrorismo" denuncia Kostas Simitis, premier socialista greco. Le prove per giustificare la guerra, commenta, sono "labili". "La Grecia - fa sapere - è contraria ad ogni intervento se esso non avrà l'approvazione dell'Onu".

"Aprire ora un fronte iracheno renderebbe più difficile la soluzione di altri problemi" rilancia Javier Solana, rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue, ex segretario Nato. Un attacco contro Bagdad - prevede - potrebbe implicare "la necessità di una presenza militare per decenni e uno scenario molto complesso". Solana ricorda che Saddam "non ha tenuto fede a nove risoluzioni e 24 raccomandazioni del Consiglio di sicurezza", ma insiste anche lui: "Noi europei crediamo che si debba seguire la strada delle Nazioni Unite. Kofi Annan dispone di un certo margine di negoziazione, anche se non infinito. Bisogna approfittarne".

Prodi avvisa: "Attenzione che non si frantumi quell'unione di volontà diverse che ha costituito la grande alleanza contro il terrorismo dopo l'11 settembre". "L'Europa - ripete - è sempre più preoccupata che proprio a un anno dalla tragedia si rompa quella coalizione che non ha precedenti e nata superando grandi difficoltà". Questo il presidente andrà a dire l'11 settembre agli studenti europei, americani, arabi che incontrerà nelle scuole di Bruxelles e poi all'Europarlamento.

L'allarme diventa un pesante avvertimento nelle parole di Igor Ivanov, ministro degli Esteri russo. Dopo i "seri dubbi" espressi da Putin, ora Mosca avvisa: "Se con il pretesto di combattere il terrore si cerca di interferire con gli affari interni di uno stato sovrano, non solo si aggrava la situazione nelle regioni coinvolte, ma si infligge un danno irreparabile alla coalizione internazionale antiterroristica". "Dall'11 settembre - ricorda senza mezzi termini Ivanov - è chiaro a tutti che il terrorismo e altre sfide del XXI secolo come il crimine organizzato, il traffico di droga e la proliferazione di armi di sterminio hanno carattere transnazionale. Per questo nessuna nazione, per quanto potente, può risolverli da sola".

Intanto il ritorno a Londra di Blair non è stato roseo. Secondo un sondaggio metà degli elettori laburisti non ha più fiducia in lui, mentre due importanti sindacati dei trasporti si sono dichiarati contrari ad un eventuale attacco a Bgdad senza l'appoggio dell'Onu. E perfino la regina - secondo indiscrezioni di stampa - sarebbe "chiaramente preoccupata" per questa possibilità. Il premier si è presentato a rapporto da Elisabetta subito dopo l'arrivo da Washington.

(9 settembre 2002)

«Un prezzo di sangue»
Tony Blair schiera la Gran Bretagna in guerra e oggi incontra Bush. Prove di guerra: massicci raid aerei sull'Iraq
ORSOLA CASAGRANDE
LONDRA
Prove di guerra. Giuramenti di fedeltà. Dubbi. Rivolte. Mentre Tony Blair si apprestava a fare la sua dichiarazione di lealtà a George W Bush, in una affollatissima sala del centro di Londra, Tony Benn (storico leader della sinistra Labour) e il deputato «ribelle» per eccellenza, Jeremy Corbyn, annunciavano l'esito di un sondaggio trai
backbencher laburisti (i deputati senza incarichi di governo): l'88% degli intervistati (un centinaio) ha detto di essere contrario ad un attacco contro l'Iraq, mentre l'86% ha chiesto che venga convocato il parlamento. Agli 88 deputati contrari alla guerra è arrivato, nel pomeriggio, un consenso imprevisto: il premier russo Vladimir Putin al telefono, prima con Blair e poi con Bush, ha detto di non ritenere che ci siano le condizioni, il terreno, per un intervento militare in Iraq. Un duro colpo per i due autoproclamatisi poliziotti del mondo che oggi si incontrano a Camp David. Per Tony Blair una sorta di smacco, proprio quando aveva annunciato un incontro con Putin all'inizio di ottobre. L'incontro di oggi a Camp David parte in salita. George W. Bush ha ieri telefonato ai premier francese, cinese e russo. Fino a questo momento però l'unico alleato rimane Tony Blair: ieri da Ottawa il premier canadese Jean Chretien ha fatto sapere che per lui «nulla giustifica un attacco militare». E Blair, nonostante la sempre più consistente opposizione (interna al Labour e tra l'opinione pubblica) ha scelto la Bbc2 per la sua dichiarazione di fedeltà più spinta verso gli Stati uniti. «La Gran Bretagna - ha detto in un'intervista in onda oggi - deve essere pronta a pagare un prezzo di sangue per mantenere la sua relazione speciale con gli Usa». E ha aggiunto che «gli Stati uniti devono sapere che alla loro domanda, 'siete disposti a impegnarvi, ci sarete quando cominceranno i combattimenti?' la nostra risposta è sì». Quanto poi alle accuse di essere un burattino degli Usa, ha risposto stizzito che «la nostra è una nazione sovrana che decide le sue politiche senza subire influenze. Se pensassi che l'azione militare proposta dagli Usa è errata, non darei il mio appoggio: ma questo non è mai successo e non credo accadrà in futuro».

Parole amplificate dalle dichiarazioni del ministro degli esteri Jack Straw che ha fatto sapere che «la pazienza del mondo verso Saddam Hussein ha un limite». Alla luce anche del massiccio raid sull'Iraq, appare sempre più evidente che la giornata di ieri ha segnato un'accelerazione da parte di Bush e di Blair che preparano l'incontro con l'Onu (porteranno le «prove» della colpevolezza di Saddam) forse già martedì prossimo.

ANALISI
Un passo verso la guerra
MANLIO DINUCCI
Il raid effettuato giovedì da circa cento aerei statunitensi e britannici contro una base irachena, 385 km a ovest di Baghdad, è stato definito dal Pentagono, come al solito, «una risposta a recenti atti ostili iracheni contro gli aerei della coalizione che pattugliano la no-fly zone». Non si è trattato però del solito attacco, ormai di routine (quest'anno ce ne sono stati oltre 130), contro una installazione anti-aerea. Anche se a bombardare sembra siano stati 12 aerei, che hanno usato munizioni a guida di precisione, la massiccia consistenza della forza che ha condotto l'attacco (comprendente anche aerei radar e cisterna) non può essere giustificata, come hanno hanno fatto le fonti militari, dalla necessità di proteggersi da una eventuale reazione irachena. Anche se il bombardamento è servito a sperimentare, nelle condizioni reali, la possibilità di distruggere i centri di comando e controllo della difesa anti-aerea con improvvisi massicci attacchi, non era questo il suo scopo principale. Si è trattato in realtà di un primo concreto passo verso la guerra. Di fronte alla crescente opposizione alla guerra, non solo sul piano internazionale ma anche su quello interno, l'amministrazione Bush ha scelto la via più diretta: far finta di ascoltare i pareri contrari ma, intanto, avviare la macchina bellica per mettere tutti di fronte al fatto compiuto. Il casus belli non è difficile a trovarsi. Non a caso, proprio mentre veniva diffusa la notizia del bombardamento, un funzionario delle Nazioni unite dichiarava che foto satellitari mostrano sospette attività in siti controllati dagli ispettori quattro anni fa. Si insinua così il sospetto, o la certezza, che l'Iraq sia ormai vicino a fabbricare armi nucleari e che occorre, quindi, muoversi subito per disarmarlo.

Tra le varie proposte costruttive che l'amministrazione Bush sta esaminando per dare una veste di legalità alla guerra, c'è quella, sfornata da un think tank washingtoniano, di procedere a «ispezioni coercitive» con una forza multinazionale di 50mila uomini che penetrerebbe in Iraq per controllare i siti sospetti. Non si capisce però a cosa servirebbe, dato che la Casa Bianca ha già concluso che le ispezioni sono inutili. Non c'è ormai che un modo per risolvere il problema, quello dell'«attacco preventivo». Un metodo efficace e perfettamente legale: secondo la legge del West che, di fronte a una sospetta minaccia, autorizzava a sparare per primi.

Principi di guerra
MARCO D'ERAMO
Il patriottismo è l'ultimo rifugio dei mascalzoni. Mai questa massima anglosassone risuonerà più vera di mercoledì, quando Bush parlerà nell'anniversario dell'11 settembre. La Casa bianca promette che allora il presidente darà all'America e al mondo convincenti ragioni per invadere l'Iraq. Perché finora non sono affatto convinti né Vladimir Putin né Jang Zemin né Gerhard Schröder né Jaques Chirac: il che rende per lo meno problematico un avallo della guerra da parte del Consiglio di sicurezza dell'Onu.

Ma Bush non ha convinto neanche i suoi
protégés arabi, tutti contrari. Obiettano perfino Turchia, Qatar e financo Kuwait, paesi da cui dovrebbe partire l'assalto. Accanto a Bush restano incrollabili solo Ariel Sharon (chi potrebbe dubitarne? tra militaristi si capiscono) e Tony Blair. Ma anche il premier inglese insiste perché gli Stati uniti provino a tutti i costi a rattoppare un'alleanza malconcia. Per l'appoggio a Bush, Blair sta però pagando un salato prezzo politico sul fronte interno: 100 deputati laburisti hanno firmato una lettera contro la guerra in Iraq. La chiesa anglicana è contraria. Nello suo governo alcuni ministri minacciano le dimissioni in caso di guerra.

La stessa opinione pubblica americana sembra indifferente, demotivata, non convinta del proprio buon diritto a intervenire, come invece era stata per le operazioni in Bosnia e in Kosovo e anche nella prima Guerra del Golfo. Qui non c'è provocazione da parte di Saddam. Nessuno ha provato collegamenti tra l'Iraq e al Qaeda. Non si capisce perché proprio ora, e non cinque anni fa o fra tre anni. Se anche Baghdad possedesse armi chimiche e batteriologiche, non si capisce come minaccerebbe gli Stati uniti: gliele manda per posta? le fa consegnare dall'Ups? L'opinione pubblica americana è giunta a pensare che la guerra in Iraq riguardi i rapporti tra padre e figlio, come una faccenda edipica, con il figlio debole ed ex alcolizzato che dimostra al padre di riuscire là dove lui ha fallito: cacciare Saddam. Certo è che i più stretti collaboratori di Bush senior, da Brent Scowcroft a James Baker, a Larry Eagleburger, hanno tutti espresso pubbliche obiezioni all'attacco contro l'Iraq.

Quel che è peggio, gli stessi generali americani hanno più volte lasciato filtrare indiscrezioni sulle loro perplessità, non per la guerra, ma per la pace e il dopoguerra: quale è l'obiettivo politico degli Usa, una volta rovesciato (e ucciso) Saddam Hussein? Come evitare una jugoslavizzazione dell'Iraq, uno smembramento tra maggioranza sciita (oggi dominata), minoranza sunnita (oggi al potere) e autonomisti kurdi? Chi mettere al potere al posto suo? Un altro generale, un nuovo Saddam che però non sia Saddam? E come evitare ripercussioni a catena in tutta la regione? E come evitare che l'invasione scateni una nuova ondata terroristica negli Usa? E' restio persino il segretario di stato Colin Powell, che però alla fine ubbidirà e piegherà il capo.

Ma i falchi, dal vicepresidente Dick Cheney al ministro della difesa Donald Rumsfeld, se ne fregano. Tirano dritti perché la guerra in Iraq è l'unico modo per evitare che lo scandalo finanziario colpisca la Casa bianca e che lo stesso Cheney sia incriminato. Guerrafondano perché è l'unica via per contenere i danni nelle prossime elezioni di mezzo termine a novembre.

Ma la guerra in Iraq è qualcosa di più, è un'affermazione di principio. Del nuovo principio imperiale emerso dalle macerie del World trade center, del diritto cioè americano all'invasione unilaterale, arbitraria, anche se non provocata. Come ha detto la consigliera alla sicurezza nazionale Condoleezza Rice: «L'11 settembre costituisce una straordinaria opportunità per gli Stati uniti» per ridisegnare il mondo. Sono i dividendi della paura, baby.

 
 
 

 

 

 

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